Nel presente lavoro guardiamo ai cambiamenti organizzativi interni alle imprese sociali, necessari per orientare le strategie di partecipazione verso tutti i portatori di interesse, domandandoci se le imprese sociali possano essere considerate luoghi privilegiati di inclusione e ascolto dei bisogni di lavoratori e lavoratrici in condizioni di particolare vulnerabilità. In che senso le opportunità di genere vengono valorizzate e che ruolo gioca questo cambiamento nel mettere il benessere lavorativo al centro delle strategie di promozione del know how? Alla luce delle teorie intersezionali, concepite dall’Unione Europea nel quadro di una governance inclusiva, si porterà un caso di studio sulla Sardegna, per evidenziare come le imprese sociali orientate al Diversity Management rappresentino un valore aggiunto del tipo gender inclusive e un punto di riferimento per le culture aziendali in generale.
Keywords: diversity management, impresa sociale, intersezionalità, genere, Sardegna
DOI: 10.7425/IS.2021.04.02
Il paper è frutto di un lavoro comune, tuttavia il primo, secondo e sesto paragrafo si devono a Maria Lucia Piga, gli altri a Daniela Pisu.
Lo sguardo di genere sulle politiche del lavoro, in Italia (e non solo), fa emergere con forza il permanere del divario di accesso femminile al lavoro extra-domestico e, più in generale, il mancato rispetto della differenza (Esping-Andersen 2011), richiamando l’appiattimento dei ruoli produttivi rispetto alle politiche rivendicate dalle donne (Naldini, Santero 2019; Naldini, Saraceno 2011). A ciò si aggiunge che, nonostante gli impegni assunti dalle istituzioni in materia di pari opportunità, l’Italia risulta ancora molto lontana dal raggiungimento dell’equità di genere in ambito aziendale, considerando la scarsa presenza femminile ai vertici delle società quotate. Se da una parte è vero che queste società rispettano la Legge 120/2011, riservando una quota predefinita alle donne nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali, dall’altra non recepiscono l’implementazione della presenza di quote rosa nel top management. Non di secondaria importanza è poi il pessimo posizionamento del nostro Paese rispetto al gender pay gap index a livello mondiale[1], a cui vanno ad aggiungersi le conseguenze della crisi pandemica che colpiscono in maniera sproporzionata le donne e le ragazze. Un’emorragia sociale ed economica che, secondo i dati Istat (2020), neppure il blocco dei licenziamenti – disposto durante la pandemia da Covid-19 – è riuscito a contenere: su 101 mila lavoratori che hanno perso il lavoro a dicembre 2020 (-0,4% rispetto a novembre dello stesso anno) ben 99 mila sono donne e “solo” 2 mila uomini. Non sarà un caso poi se, nel dibattito che si è sviluppato intorno al PNRR[2], si è parlato di “tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro”, pari in media al 22,7% per le donne e al 16% per gli uomini nel 2020; al Sud poi riguarda il 41% delle donne, esprimendo pertanto un divario di genere ancora più ampio. Parafrasando Hirschman (1970) ci chiediamo se, rimuovendo gli ostacoli di cittadinanza delle donne, questo exit si potrà almeno in futuro evitare (Kraft, 1986).
Nella visione degli economisti, le imprese sociali si contraddistinguono per quella che negli ultimi anni è emersa come la loro funzione anticiclica (Fontanari, Borzaga 2014), ma entrando nel dettaglio, oltre ai motivi che determinano la resistenza economica del settore, vanno sottolineati anche i fattori sociali che ne caratterizzano lo stile, rappresentando quella marcia in più, in termini di solidità organizzativa, valori di riferimento, capacità connettiva con il territorio e investimento in competenze (Borzaga, Musella, 2020). La cifra che caratterizza le imprese sociali si direbbe dunque la solidità/solidarietà, che si traduce in attenzione alla gestione delle risorse umane e che da costo e rischio può diventare un fattore premiante, per almeno due motivi.
Innanzitutto, la qualità dei servizi “non standardizzati” può accompagnare la costruzione di bisogni emergenti e di nuova cittadinanza: in questo senso le imprese sociali tendono a superare la monocultura erogativa e si impegnano ad innovare, sul piano dell’offerta di beni e servizi.
Secondariamente, possiamo soffermarci sul come si offrono beni e servizi: la poliedricità di professioni e storie, che si traduce in presenza di lavoratori motivati, è una caratteristica che rende compatta la compagine e significative le relazioni al suo interno, diminuendo i rischi di turnover, con conseguente riduzione dei comportamenti opportunistici tra i lavoratori (Borzaga, Fazzi 2008; Depedri 2008).
Questi due motivi, fondativi delle imprese sociali, fungono da traino per migliorare il sistema aziendale come performance. In altri termini, ponendo l’accento sullo sguardo etico delle imprese sociali, si può dire che la rete delle relazioni interne fa da volano per consolidare quel complesso valoriale intriso di fiducia e reciprocità, attraverso cui l’impresa restituisce alle persone la necessaria centralità.
A partire da queste premesse, ci si domanda se l’impresa sociale presenti specificità rilevanti nella cultura organizzativa di genere e se la gestione delle risorse umane sia da intendersi come opportunità di dare voce alle diversità culturali, come per esempio quelle emergenti dai vissuti di esclusione dei lavoratori. E semmai, ci si chiede a quali condizioni e con quali strumenti di processo sia possibile strutturare, nelle imprese sociali, un ambiente di lavoro inclusivo e aperto, che possa salvaguardare le opportunità di genere per le lavoratrici, facendo in modo che sia in primis la struttura organizzativa del management (e non le singole persone) a sostenere l’impresa di assumere il carico del riequilibrio di genere.
In questo senso, il framework che orienta la riflessione sull’impresa sociale è l’intersezionalità, definita dall’European Institute for Gender Equality come «Analytical tool for studying, understanding and responding to the ways in which sex and gender intersect with other personal characteristics/identities, and how these intersections contribute to unique experiences of discrimination»[3]. L’applicazione di tale prospettiva va presa in considerazione non solo nel caso delle imprese sociali e nella gestione delle risorse umane, ma anche nelle politiche regionali che fanno da sfondo al caso in esame.
Prima di presentare un esempio virtuoso, dove la gestione delle risorse umane dà voce alle diversità culturali, i capisaldi della letteratura in argomento verranno illustrati nel prossimo, insieme alla normativa europea. Successivamente, verrà descritta una prima fase della ricerca qualitativa in termini di desk work sugli atti amministrativi relativi alla sperimentazione del Diversity Management (d’ora in poi DM) della Regione Autonoma Sardegna che si completa con il case study relativo alla cooperativa sociale La Lanterna. In ambito regionale, questo caso risulta essere l’espressione di una rinnovata filosofia di gestione del servizio, orientata al superamento del gap di genere, grazie alla condivisione dell’approccio intersezionale, come evidenziato anche nelle conclusioni.
Negli ultimi anni, il concetto di intersezionalità si è diffuso tanto nel dibattito accademico quanto in quello politico. Sono chiamate in molti modi le prospettive che tengono conto delle possibili interconnessioni tra i divari sociali e i fenomeni sociali complessi da cui derivano: intersezioni, interrelazioni delle oppressioni, divari sociali multipli, determinazione reciproca, ibridazioni, oppressioni multiple, molteplicità (Hearn, 2015). Gli approcci intersezionali variano da quelli che danno priorità ai criteri dominanti per l’analisi della stratificazione sociale, ad esempio la classe e il ceto, “aggiungendone” ulteriori, mentre altri utilizzano doppie o triple categorie di potere, per esempio classe, genere e razza; oppure, alcuni di questi approcci si rifanno a modelli multifattoriali basati sull’età[4], le disabilità, le forme di sessualità; altri approcci ancora si cimentano con costruzioni che analizzano le relazioni tra categorie condivise e piuttosto fisse o, in alternativa, provvisorie; mentre alcuni infine privilegiano una decostruzione delle categorie (McCall, 2005). La studiosa più citata a proposito di intersezionalità è la statunitense Crenshaw, docente di legge, nera e femminista, secondo cui non si può comprendere l’oppressione e la discriminazione delle donne nere solo considerando il genere o la razza in sé (1989): l’esperienza di discriminazione diventa prodotto della combinazione tra diversi assi di identità e non frutto della mera somma, di due o più ambiti di diversità. Su questo fronte, la filosofa Patricia Hill (2019) interroga diverse tradizioni teoriche – dalla scuola di Francoforte al pensiero femminista – per evidenziare il potenziale di questo approccio, che presuppone il bisogno di incidere sulle radici culturali delle disuguaglianze e di combattere le gerarchie, anche quelle che si sviluppano all’interno di minoranze oppresse.
Una società che aspira alla parità di genere, considerata questa come una variabile decisiva per l’interesse generale, chiede al panorama normativo europeo l’applicazione di strumenti giuridici in grado di assicurare alle donne una reale indipendenza economica (Carletti, Pagliuca, 2020), al fine di superare il consolidato problema del gender pay gap e affermare la presenza femminile nei contesti politici e decisionali. La Strategia dell’UE per la parità di genere 2020-2025 persegue l’integrazione della dimensione di genere con azioni mirate, la cui attuazione si basa sul principio trasversale dell’intersezionalità.
Noi ci domandiamo quale sia la portata di detta Strategia nelle culture aziendali degli Stati membri: serve ad allargare la comprensione delle disuguaglianze fino a tener conto del loro effetto moltiplicativo, come messo in evidenza dalle studiose statunitensi, oppure si riduce a considerare la sommatoria di ostacoli? La differenza consiste nel fatto che il primo frame implica responsabilizzazione sul governo del problema all’origine e sull’urgenza di adeguate risposte di policy; mentre il secondo limita lo sguardo ad una social administration che, semmai, fornisce soluzioni assistenziali ad personam, necessariamente parziali e standardizzate. Sappiamo che in Italia, in via di diritto, le pari opportunità di trattamento nell’accesso al lavoro sono sancite dalla Costituzione; tuttavia, la normativa esistente non contempla altresì quale sia il ruolo giocato da fattori come l’età, l’etnia, l’identità di genere, l’orientamento sessuale, la disabilità, né con quali strumenti si preveda di superare lo svantaggio dovuto acondizioni personali e gli ostacoli di cittadinanza connessi a tali fattori, problema su cui si è concentrata, nelle settimane scorse, la discussione politica in occasione del dibattito parlamentare sul DdL Zan.
Seppure negli ultimi decenni l’UE abbia compiuto notevoli progressi in materia di parità di genere, mettendo in moto una evidente e significativa produzione di atti, permangono tuttora serie criticità per quanto riguarda le disuguaglianze e le discriminazioni. Nell’intento di far fronte a questa lacuna normativa e procedurale, il nuovo Piano d’azione dell’UE sulla parità di genere e l’emancipazione femminile nell’azione esterna per il periodo 2021-2025 implementa la Strategia mediante il Gender Action Plan III (d’ora in poi GAP III), mirando ad accelerare l’emancipazione delle donne e a salvaguardare i risultati conseguiti nell’ambito della parità di genere durante i 25 anni successivi all’adozione della Dichiarazione di Pechino e della relativa piattaforma d’azione[5]. Il GAP III sostiene con forza la partecipazione e la leadership delle donne e delle ragazze, promuovendola grazie a programmi di governance e a riforme della pubblica amministrazione.
Sostenere l’imprenditorialità femminile, incluse l’imprenditoria sociale e l’accesso ai finanziamenti, fornendo programmi di investimento innovativo, è una delle azioni prioritarie che l’UE prevede, per creare un contesto favorevole alle attività economiche delle donne, compreso l’accesso alle attività produttive. Con l’Agenda 2030 per la prima volta i temi uguaglianza di genere ed empowerment femminili rientrano tra le priorità dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Per guardare al cambiamento è necessario, tuttavia, un progetto culturale di ampio respiro e di lunga durata, che possa tener conto dell’evoluzione del ruolo femminile dentro istituzioni quali la famiglia o il mercato del lavoro. È pur vero che le donne manager hanno un più alto livello d’istruzione rispetto ai colleghi uomini: a livello globale, il 44,3% delle donne manager ha completato un corso di studi post-universitario rispetto al 38,3% dei colleghi uomini (ILO, 2019). Tuttavia, nel mercato del lavoro le donne continuano a essere sovra rappresentate nei settori peggio retribuiti e sotto rappresentate nelle posizioni apicali[6]. Tra le argomentazioni ancora silenti dell’Agenda si può scorgere la prospettiva di un ponte, in gran parte ancora da costruire sul piano culturale, tra conciliazione e condivisione dei carichi di cura, sia in ambito familiare, sia nel sistema organizzativo, per riattribuire alle donne il “giusto spazio” tanto nella gestione del ménage familiare quanto nel management aziendale.
Partendo dal modello delle innovazioni di governance nell’impresa sociale di Fiorentini e Calò (2013), la strada da seguire per innovare, al tempo stesso garantendo pari opportunità, comporta l’attivazione di processi finalizzati alla creazione di un ambiente di lavoro sano e predisposto a valorizzare le differenze, i cui benefici effetti si possono riscontrare nel contesto in cui l’azienda è inserita. L’organizzazione di servizio può così diventare uno spazio privilegiato di inclusione a partire dallo stesso sistema di governo aziendale, inteso come Responsabilità Sociale d’impresa (d’ora in poi RSI) o Corporate Social Responsability – secondo il modello anglosassone – con cui è possibile coltivare un agire responsabile dell’imprenditore (Sena, 2009), una prassi che si identifica con «gli obblighi degli uomini d’affari a seguire politiche, a prendere quelle decisioni o a portare avanti quelle linee di azioni che sono desiderabili in termini di obiettivi e valori della nostra società» (Bowen, 1953, p. 6).
Un’impresa può dirsi socialmente responsabile quando attiva misure che rispecchiano diverse aspettative, tra cui il benessere dei lavoratori (Cerana, 2004). Per esempio, quella “azione non profit nell’agire di mercato” (Barbetta, Maggio, 2002) che è la RSI si può realizzare in un’ampia gamma di intensità, che va dal minimo al massimo di liberalità (Carroll, 1979). È qui che il comportamento socialmente responsabile delle aziende e le misure di inclusione possono diventare strategiche per costruire un mondo imprenditoriale idoneo ad accogliere positivamente le diversità. In questo comportamento socialmente responsabile trova spazio il DM, da ritenersi come dispositivo di contrasto alle discriminazioni in generale, a cui si deve il merito di avere dato una svolta nel trattare le diversità nelle organizzazioni di servizio (Corbisiero, Monaco, 2020). Il DM è dunque strumento decisivo per una governance aziendale gender sensitive che, come vedremo nel caso di studio, possa gestire e valorizzare le diversità dei lavoratori, non solo “non escludendoli” dagli ambienti di lavoro, ma promuovendone l’inclusione (Buemi et al., 2015).
Nel contesto sardo, come nel resto dell’Italia, la crisi economica si sta facendo particolarmente acuta e spesso le imprese, travolte dalla gestione degli adempimenti ordinari, sono talora restie a investire risorse per rinnovare le pratiche manageriali, anche nella prospettiva di garantire un benessere gender balance, inteso come un surplus aziendale (Woodward, 2002). Davanti alle discriminazioni di genere, non è quindi così scontato che un’economia definita sociale sia già naturalmente predisposta a combattere grandi ingiustizie come queste. Inquadrando la riflessione sulle diversità nel più ampio orizzonte delle politics of difference, la critica che Young (1990) muove al cosiddetto paradigma distributivo getta le basi per un focus sulle strategie di sistema volte all’inclusione. La femminista americana riconduce l’oppressione, cui la giustizia ha il compito di porre rimedio, non tanto ad una distribuzione ineguale, quanto ad omissioni sociali responsabili degli ostacoli di cittadinanza che rendono per alcune persone più difficile lo sviluppo e l’espressione di sé. Detto questo, occorre prevedere un cambiamento di rotta nella cultura delle organizzazioni di servizio che, se concepita alla stregua di una start up rigenerativa, può forse inserire il genere come dimensione performante (Connell, 2006) nel quadro di una più ampia prospettiva di valorizzazione delle differenze (Porcelli et al., 2002; Padoan, 2020).
Quale tipo di social investment sulle dimensioni materiali e immateriali dello spazio lavorativo nelle cooperative e, in particolare nelle imprese sociali, può contribuire a ridurre le diseguaglianze di genere con uno “sguardo” intersezionale sui bisogni delle risorse umane? Questo è il quesito alla base del case study.
Nell’intento di rispondervi, abbiamo approfondito le azioni di DM in Sardegna e sviluppato due livelli di indagine qualitativa: a) l’analisi critica degli atti amministrativi regionali relativi al periodo 2018/2020, per l’attuazione del programma sulla concessione di aiuti alle imprese a favore del DM (nel presente paragrafo); b) il desk work sulle attività di informazione sul DM, realizzate da un campione non probabilistico di dieci cooperative sociali, integrato da un case study con interviste semi-strutturate a testimoni privilegiati di una realtà aziendale, esempio virtuoso di inclusione delle diversità, anche per le possibilità di inserimento lavorativo offerte alle donne con background migratorio (nel paragrafo successivo).
Gli interventi promossi dal 2018 dalla Regione Autonoma Sardegna (d’ora in poi RAS) nell’ambito della prima sperimentazione del DM, in linea con le strategie di policy dell’UE in materia di pari opportunità, promuovono la valorizzazione delle diversità nelle aziende sarde, secondo quanto previsto dalla programmazione del POR FSE 2014-2020, con un duplice obiettivo: 1) contrastare il fenomeno della povertà e della marginalità attraverso un insieme di azioni integrate di reinserimento sociale oltre che lavorativo, rivolte a persone e famiglie in condizioni di disagio economico, sociale e professionale; 2) favorire la sperimentazione di nuovi modelli di governance e di innovazione sociale, per promuovere l’inclusione, anche attraverso la valorizzazione delle capacità imprenditoriali presenti sul territorio regionale.
L’antefatto: data la portata innovativa dell’intervento, la RAS, con il supporto dell’Ufficio della Consigliera Regionale di parità, ha preceduto la pubblicazione del relativo bando con una serie di azioni volte a favorire il coinvolgimento diretto delle imprese del territorio, al fine di conoscere le problematiche connesse alle diversità presenti nelle aziende sarde. Nella prima fase di consultazione, tra marzo e aprile 2017, è stato somministrato un questionario di indagine sulla valorizzazione delle diversità nei luoghi di lavoro a circa 170 imprese, che hanno manifestato un significativo interesse per la tematica del DM, dichiarandosi disponibili ad attivare azioni specifiche in relazione a tipologie variegate di diversità riscontrabili nei contesti produttivi e professionali della Sardegna. Nella seconda fase, avviata il 10 maggio 2017, l’Amministrazione regionale ha realizzato a Cagliari un laboratorio partecipativo con imprese profit e non profit, parti sociali e intermediari del mercato del lavoro al fine di raccogliere i fabbisogni di diversi contesti lavorativi e progettare interventi quanto più rispondenti alle esigenze in precedenza espresse dal territorio.
Questi lavori propedeutici sono il frutto di un’azione di ascolto dei bisogni dei territori, un modus operandi che rappresenta “uno scatto” di buona amministrazione in termini di governance locale partecipata, dove al centro dei processi produttivi si collocano le relazioni tra gli stakeholder del mondo istituzionale e dell’imprenditoria (De Luigi et al., 2010).
A beneficiare del programma sono state le piccole e medie imprese, profit e non profit, in forma singola o associata, con sede operativa in Sardegna, in possesso dei requisiti di cui all’art. 3 del bando, lett. b), relativo all’insussistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, accertati da parte della direzione provinciale del lavoro[7]: un presupposto di natura garantista, che riconosce il valore delle aziende virtuose sotto il profilo etico.
Il programma ha finanziato finora 30 aziende, per progetti finalizzati all’adozione di misure di DM della durata di 12 mesi, a decorrere dal mese di febbraio 2019[8]. I progetti hanno previsto diverse azioni, tra cui l’inserimento nelle aziende della figura del Diversity Manager, gli interventi di informazione/sensibilizzazione sul tema della diversità nei luoghi di lavoro, la redazione di carte e codici di condotta con la relativa applicazione, nonché l’attivazione degli sportelli di assistenza e ascolto per le risorse umane[9]. Un complesso di misure con cui l’impresa sociale gioca a tutto campo la sua cittadinanza (Caselli, 2020), scongiurando l’autoreferenzialità e privilegiando l’interazione con attori istituzionali e comunitari ai quali si rivolge, promuovendo una cultura delle pari opportunità che guarda alla selezione inclusiva del personale.
Per dare voce ai bisogni dei lavoratori, risulta centrale lo “sportello di assistenza e ascolto”, azione prevista dal bando RAS e rivolta agli stessi destinatari dei servizi oltre che, si intende, ai lavoratori/lavoratrici che si trovino in condizioni di svantaggio. La strategia regionale prevede che un’azienda individui, tra i propri dipendenti, un referente del progetto con funzioni prevalentemente amministrative e di raccordo tra impresa, RAS e risorse umane, a cui affidare anche la responsabilità del caricamento della documentazione nel Sistema Informativo Regionale. Un modus operandi atto a promuovere nelle imprese sociali la logica della governance multistakeholder, con l’obiettivo di incrementare i benefici correlati ad una gestione partecipata, frutto dei contributi di una pluralità di portatori di interesse: soci, lavoratori ma anche volontari e società civile (Fazzi, 2007; Borzaga, Mittone, 1997).
Questo passaggio evidenzia l’importanza di attivare microprocessi di governance inclusiva per integrare al meglio tali professionalità nell’organizzazione aziendale e determinare nuove capacità di crescita delle imprese, in termini produttivi e di efficienza gestionale. L’azione risulta accompagnata da strumenti di valutazione per comprenderne l’efficacia e misurarne la effettiva implementazione, quali questionari e interviste, come vedremo tra l’altro nel paragrafo successivo.
Nell’ambito delle azioni obbligatorie di sensibilizzazione sul DM (da promuovere con la diffusione cartacea e digitale di materiale informativo anche attraverso sezioni dedicate nei siti internet aziendali), abbiamo in una prima fase proceduto con l’analisi desk delle homepage di dieci cooperative sociali, di cui cinque di tipo B[10] e cinque di tipo A[11], selezionate sulla base dell’ubicazione della sede legale, in modo da ottenere una rappresentatività in tutto il territorio regionale.
Il desk work evidenzia come non tutte le aziende dispongano di un sito internet, alcune di esse utilizzano i social media (pagine Facebook) e solo tre di queste presentano una sezione dedicata alle azioni di DM nel proprio sito aziendale. Tra queste, la Cooperativa Sociale La Lanterna (Cagliari), che costituisce un esempio virtuoso delle attività di informazione sull’inclusione, mostrando una specifica attenzione al genere.
Il case study di seguito illustrato è stato integrato dalle interviste semi-strutturate a tre testimoni privilegiati: la presidente, la psicologa/psicoterapeuta responsabile del progetto di DM, un socio-lavoratore della cooperativa[12]. L’accesso al campo (Bichi, 2002) ha richiesto preliminari contatti formali dell’intervistatrice con la direzione aziendale, per illustrare le finalità della ricerca e definire il “patto biografico” con gli intervistati.
L’istantanea aziendale emersa dalle interviste presenta un ambiente ricco di opportunità, dove il clima familiare, unito all’ascolto dei bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, offre possibilità interne di carriera e di crescita personale. L’impresa nasce nel 1983 come cooperativa di produzione e lavoro per iniziativa dell’Assessorato ai Servizi Sociali della Provincia di Cagliari, nel quadro delle azioni di promozione, sostegno, crescita individuale e professionale di categorie socialmente deboli quali donne nubili, separate, vedove con minori a carico, “ragazze madri” o persone con situazioni personali e culturali nella maggior parte dei casi gravemente compromesse. Nel 1999 La Lanterna diventa cooperativa sociale di tipo B, ampliando la gamma di servizi offerti: dalla semplice pulizia dei locali della Provincia, oggi è passata a gestire mense, servizi di manutenzione edifici e giardini, lavori di archivio, assistenza e accompagnamento per eventi. È inoltre in possesso delle certificazioni di qualità per la progettazione ed erogazione di servizi di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, di pulizia civile, di facchinaggio e di ristorazione collettiva[13]. Nel 22% dei casi, l’inserimento lavorativo riguarda le persone svantaggiate di cui all’art. 4 della Legge n.381/1991 e s.m.i.
La decisione di aderire alla sperimentazione, potendo contare sul finanziamento regionale, nasce pertanto in una prospettiva di consolidamento delle linee di governance partecipata sulla quale La Lanterna già vanta un’esperienza notevole, fin dalla sua istituzione. Nelle trame di questa transizione organizzativa, la direzione aziendale osserva come l’apertura strategica ai bisogni personali e familiari rassicuri il personale, favorendo la diminuzione dello stress e migliorando contestualmente le relazioni interne e la produttività.
L’ipotesi progettuale concepita da La Lanterna in risposta al bando RAS ha richiesto una preliminare mappatura delle risorse umane, resa possibile grazie ad un’indagine svolta per capire i problemi della diversità, a seguito di un protocollo d’intesa con un’associazione, Donne al Traguardo, che gestisce uno dei Centri antiviolenza regionali. Grazie ad una lettura intersezionale, è stato possibile decodificare i bisogni di inclusione che il contesto aziendale in esame presentava. Questa azione di filtro del framing ha messo in risalto non solo le specificità dei bisogni delle lavoratrici con un background migratorio, ma anche le discriminazioni multiple a cui le stesse possono essere esposte, sulla base a due o più fattori: in quanto donne, donne migranti, donne migranti appartenenti a un determinato un gruppo etnico (Lewis, 2010). Prendendo in esame la sistematizzazione in senso ampio delle discriminazioni multiple di Makkonen (2002), rispetto al caso di studio presentato possiamo dire che il riferimento specifico guarda alla intersectional discrimination che ha luogo quando la discriminazione è basata su più fattori che interagiscono tra loro in modo da non poter più essere distinti e separati.
Nella realtà aziendale qui presentata la dotazione di personale è costituita, a partire dai ruoli apicali della direzione aziendale e a finire con gli inserimenti lavorativi, per il 98% da donne. In linea con questa tendenza organizzativa, si è pertanto sentita l’esigenza di controbilanciare il fatto che ancora numerose sono le donne assunte di età superiore ai 50 anni. Rispetto ai processi di reclutamento del personale, l’azienda mira quindi a fare del DM uno strumento utile per il “rovesciamento di genere”, puntando a inserimenti lavorativi orientati alle “quote azzurre”: scelta che presuppone il superamento di pregiudizi e stereotipi circa la possibilità di impiego maschile nel settore delle pulizie, domestiche e industriali. Gli inserimenti lavorativi riguardano inoltre persone con patologie psichiatriche o disabilità intellettive segnalate dal Centro di salute mentale (d’ora in poi CSM). I percorsi in argomento riguardano prevalentemente donne immigrate, inviate non solo dal CSM ma anche dal Servizio Dipendenze, qualora sussista una doppia diagnosi. Arrivano cioè all’attenzione della cooperativa poiché presentano una pluralità stratificata di fragilità, sulle quali si interviene a più livelli nell’ambito del sistema di servizi sociosanitari, sulla base di un progetto personalizzato di inserimento, monitorato dai case manager con il supporto dei tutor aziendali, puntando sul recovery (Skakic, Boreggiani, 2017) e quindi sul recupero del ruolo sociale attivo nella comunità a partire dalle capacità individuali (Giangrandi, Serventi, 2008).
Partendo dalle linee guida del bando, nella progettazione degli interventi si è andati quindi alla ricerca della personalizzazione delle misure di inclusione, tenendo insieme la peculiarità delle istanze di queste donne e la necessità di promuovere la loro self advocacy (Goodley, 2000) per integrarsi appieno nel tessuto aziendale. Il DM non è quindi solo un’attenzione ai diversi bisogni che gruppi di lavoratori e lavoratrici possono esprimere, ma è soprattutto espressione di un’organizzazione capace di riconoscere legittimità e presenza alle diverse culture intese in senso ampio, comprese quelle di provenienza degli/delle immigrati/e. Il riconoscimento del valore delle culture ha offerto la possibilità di relativizzare, nei vissuti personali, la propria prospettiva quale “una delle possibili”, mettendo in evidenza la capacità dell’impresa di utilizzare l’organizzazione aziendale come leva strategica di cambiamento (Fazzi, 2014).
Ad una valutazione dell’esperienza, il “Diversity” in definitiva si rivela non come una “semplice” attenzione ai diversi bisogni che gruppi di lavoratori possono esprimere, ma come valorizzazione del fatto che sono tenuti presenti (e rispettati) anche i loro diversi punti di vista. In questo senso, il DM investe sui cambiamenti organizzativi necessari a superare pregiudizi e preconcetti che minano la qualità del lavoro, a tutto vantaggio del buon clima quotidiano. Vediamo come le azioni previste hanno inciso su tre dimensioni principali: comunicazione interna ed esterna, gruppi di formazione, sportello d’ascolto.
La comunicazione interna ed esterna all’azienda è stata promossa con diverse azioni, prima fra tutte la condivisione di un opuscolo formativo tra il personale, costruito sulla base della partecipazione del personale stesso. Sul fronte specifico della comunicazione esterna, rilevante è stata la sezione dedicata al DM nei due siti aziendali, sezione in cui si affrontano diversi aspetti, dal contrasto degli stereotipi, fino alla conciliazione dei tempi e degli spazi. Sul versante della comunicazione interna sono state introdotte buone prassi di comunicazione inclusiva con la differenziazione e semplificazione dei messaggi comunicativi, evitando il ricorso a termini burocratici o in disuso nel linguaggio corrente, così da raggiungere tutti i dipendenti.
I gruppi di formazione hanno portato ad una maggiore coesione tra il personale. In linea con gli obiettivi di questi gruppi, la direzione ha promosso e riconosciuto la creazione di gruppi multiculturali in ambito lavorativo, partendo dalla premessa che il fatto di dare spazio a gruppi diversi da quello autoctono potesse favorire la condivisione dei risultati e dei processi aziendali. Se in precedenza le risorse umane e, in particolare le lavoratrici con un background migratorio, lavoravano come se fossero delle piccole isole, le azioni di DM hanno costruito ponti di fiducia, preparando il terreno per l’accoglienza delle diversità. La legittimazione di questi network di dipendenti che nell’azienda si occupano delle diversità tra i lavoratori (noti come Employee Resource Group) ha offerto occasione di sviluppare l’espressione e la diffusione di una cultura che contempla le molteplici dimensioni della diversità nell’ambiente di lavoro, oltre l’etnìa e il genere (Brown, 2016). Qui la chiave di lettura intersezionale si è rivelata molto utile. Le criticità maggiori erano per gli uomini (immigrati) che sono stati inclusi, mentre mancava un’interazione con gli altri lavoratori. Come ben sottolineato da Young (1990), i membri di un gruppo condividono esperienze o modi di vita simili, ovvero affinità elettive che, seppure non formalizzate ma riconosciute nel caso citato, possono essere intese come espressione di un’economia collaborativa con cui promuovere le opportunità di partecipazione ai processi gestionali e valutativi (Bovone, Lunghi, 2020).
Lo sportello d’ascolto è stato garantito nella misura di 24 giornate, nel periodo previsto dal progetto (1 giugno 2019 – 24 gennaio 2020), in modo itinerante e autosostenibile. È itinerante, perché il punto di forza sta nell’aver concepito il servizio come una misura capillare, cioè fruibile anche per i dipendenti impiegati nelle commesse di lavoro nelle diverse aree della Sardegna, attraverso un servizio telefonico e di posta elettronica. Inoltre, è stata data la possibilità di prendere appuntamenti in orari e giorni diversi da quelli previsti nel calendario, in modo da poter garantire il servizio a tutto il personale che lo ha richiesto: un’opportunità flessibile di accessibilità per tutte le risorse umane e non solo per coloro che sono in grado di raggiungere la sede principale dell’azienda, nel capoluogo cagliaritano. È autosostenibile, perché il servizio è stato tenuto attivo nonostante la conclusione della sperimentazione, data l’efficacia dell’intervento rilevata con il questionario di valutazione fornito dalla RAS e con le interviste semi-strutturate effettuate a campione sul personale. Il servizio è stato utilizzato complessivamente da 23 persone presso la sede aziendale, comprese le lavoratrici con background migratorio, mettendo in evidenza il valore della narrazione e dell’ascolto nella gestione delle risorse umane. Il 30% dei colloqui sono stati svolti in modalità “contatto telefonico programmato” e le persone che vi hanno fatto ricorso sono in prevalenza soci-lavoratori non residenti in prossimità della sede legale della cooperativa. Il 4% degli accessi allo sportello ha riguardato potenziali nuovi assunti, mentre il 44% ha riguardato altri dipendenti della Cooperativa La Lanterna, portatori di esigenze non contemplate dall’articolo 4 dell’avviso RAS. Complessivamente, lo sportello di ascolto si è rivelato essere una misura utile per meglio comprendere le problematiche interne, rilevanti per il DM, e per integrare il senso delle altre azioni, dai seminari formativi alla stesura degli opuscoli informativi. Si è rivelato non tanto e solo uno spazio fisico, ma un metodo per gestire i problemi, aperto ad implementazioni future, per far fronte a quelle esigenze, difficoltà e peculiarità che le risorse umane incontrano sul lavoro, riconducibili ad esempio all’ambito della mediazione dei conflitti.
Nella fase finale del progetto, le risorse umane dell’azienda sono state coinvolte nella valutazione dell’efficacia delle azioni di DM. Da questa valutazione emerge che, presentandosi con una solida veste organizzativa sotto il profilo della condivisione, La Lanterna si distingue per il fatto di aver contribuito a creare un contesto di fiducia e cooperazione, con evidenti conseguenze positive su interventi e servizi (Zandonai, Taraschi 2006; Ripamonti, 2018). Dall’analisi dei questionari e dalle interviste emerge, in via generale, un alto gradimento delle azioni realizzate, per via delle risposte “pienamente soddisfacente” (nel 33% delle risposte, su un campione di 23 casi) e “soddisfacente” (67%). Tra le azioni realizzate come più efficaci emergono la partecipazione ai seminari (40%), la partecipazione a piani di riorganizzazione del lavoro (20%), la presa visione di opuscoli informativi (17%), la partecipazione a sportelli di assistenza/ascolto (13%), infine la visualizzazione di pagine web (10%). Le diversità presenti nel tessuto organizzativo sono state affrontate in modo “soddisfacente” per il 67% degli intervistati e “pienamente soddisfacente” per la restante parte. La totalità degli intervistati ritiene che possa essere “utile” proseguire l’esperienza vissuta con il progetto, mentre il 56% lo ritiene “molto utile”.
Rispetto a un’azienda tradizionalmente monoculturale e standardizzata, La Lanterna mostra che gestire e valorizzare la diversità è una sfida per la quale prepararsi a competere, con prospettive di successo. Almeno sul piano simbolico, è un esempio importante, per il fatto che ha introdotto nuove pratiche intese nel senso di Bourdieu (1956), offrendo quindi alle risorse umane un contesto organizzativo capace di (con)vivere con la cultura delle differenze.
Se osservati alla luce del genere, una serie di problemi non secondari possono essere messi a tema: la segregazione orizzontale e verticale, il lavoro part-time, le discriminazioni multiple che subiscono le/gli immigrate/i, le donne con figli o le persone su cui comunque grava il carico di cura familiare e tutti gli altri contenuti emersi dai colloqui ai quali lo sportello ha potuto dare voce.
In questa prospettiva, riteniamo che il caso illustrato possa rappresentare una buona pratica di governance, inclusiva perché preceduta dalla lettura intersezionale, partendo dalle opportunità che un approccio di questo tipo può offrire in termini di capovolgimento degli svantaggi; ma anche innovativa, se riferita non solo all’impresa sociale ma, più in generale, ai contesti aziendali, per andare oltre il perimetro dettato dal binomio diversità/disuguaglianza (De Vita, 2014). Quindi, non solo costi, ma benefici: ma cosa significa? Se è riuscita a creare ponti tra l’intersezionalità e la mission aziendale, questa è un’impresa sociale che prima di tutto ha avuto il coraggio di investire sugli strumenti di ascolto e partecipazione, assumendo i rischi ancorati al tessuto organizzativo, investendo risorse economiche e umane per favorire dinamiche di innovazione (Fazzi, 2019) in un’ottica di management. Non di meno, gli investimenti sono stati fatti sulla rete comunitaria (Picciotti, 2013): oltre gli orizzonti dell’economia sociale, la stessa società civile ha trovato modo di esprimere e concretizzare quelle dinamiche di informalità, reciprocità e fiducia (Borzaga, 2016; Pelligra, 2008) per dare “un’anima” alle imprese sociali. I benefici di una maggiore competenza interculturale si possono individuare non solo in una migliore comunicazione tra diversità presenti nell’azienda, ma anche nel complesso dell’intera forza lavoro. L’attenzione alle diversità, unita ai processi di valutazione partecipata, rende fluida la conoscenza delle informazioni tra tutti gli attori del contesto organizzativo. L’aspetto più significativo di questa fluidità può essere evidenziata nel fatto che, per dirla con le parole di Polanyi (1966), l’essenza tacita della conoscenza, trasferita nella partecipazione al “fare”, ha determinato un mutamento qualitativo della comunicazione, mettendo in moto un processo intersoggettivo di circolazione delle decisioni, che promuove la responsabilità come valore e, al tempo stesso, crea nuovi saperi, innescando tra i partecipanti aspettative di reciprocità e fiducia (Sacchetti, 2018).
Il case study, centrato sull’osservazione delle modalità di applicazione dell’approccio intersezionale da parte dell’azienda, consente di mettere in luce, tra le rilevanze, il fatto che La Lanterna abbia raggiunto gli obiettivi dichiarati:
Tra le rilevanze si evidenzia poi che la partecipazione, se convogliata entro giusti canali, permette a tutti i soggetti interessati di tentare di risolvere a monte, anziché a valle, le divergenze, favorendo di conseguenza un benessere diffuso. Sul versante della partecipazione torna quindi alla ribalta la questione della ridefinizione dei contorni dello spazio pubblico, fluttuante tra democrazia sostanziale e principio di sussidiarietà (Smeriglio, 2019) dove l’impresa sociale merita di ritrovare il senso della propria autonomia da Stato e Mercato.
Il coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici nel disegno strategico di governance è servito a creare competenze specifiche e conoscenze di metodo, applicabili in diverse situazioni (Borzaga, 2018), tanto più che – come previsto dalla norma codicistica sugli appalti pubblici – si chiede anche alle imprese sociali di fare i conti, in osservanza della cosiddetta “clausola sociale”, con l’assorbimento di quella dotazione di personale in forza all’azienda uscente. Questo comporta la ricerca di un modus operandi strategico sul fronte della comunicazione e della formazione, del quale La Lanterna è un esempio, per la costruzione di uno spazio organizzativo più inclusivo e sempre meno prigioniero del turnover.
La sperimentazione della Regione Autonoma Sardegna costituisce solo un primo passo verso una governance partecipata, rispetto alla quale occorre investire, sia in termini di formazione che di sviluppo di reti locali, per innescare un cambiamento volto al riconoscimento di una “diversità diffusa” (De Micheli, 2015). La sua valorizzazione potrebbe portare ad un generale miglioramento della capacità di innovazione imprenditoriale e sociale.
Le aziende sarde, con la partecipazione al programma regionale sul DM, hanno maturato una crescente attenzione rispetto agli ambienti di lavoro inclusivi: un cambiamento che si impone come “direzione ostinata e contraria” rispetto alla logica della flessibilità piegata unicamente al profitto. Un cambiamento che è anche un’alternativa: il management improntato sul controllo ha infatti dei costi enormi anche se non evidenti, perché crea demotivazione e distrugge il legame fiduciario con le risorse umane. Per sostenere la logica inclusiva abbiamo bisogno di organizzazioni di servizio che si espongano al “rischio della fiducia”, per mettere in primo piano l’aspetto relazionale delle dinamiche del lavoro (Pelligra, 2020). In questo senso, le imprese sociali si presentano come una forma innovativa mediante la quale la società civile assume consapevolezza rispetto alla “responsabilità della cura” (Pelligra, 2007).
L’analisi critica degli atti amministrativi regionali è stata utile per decodificare in chiave intersezionale i processi di governance aziendale, nell’intento di inquadrare le imprese sociali come contesti privilegiati ove implementare strategie di inclusion di tipo gender balance delle donne lavoratrici che, per la cultura di appartenenza, sono maggiormente esposte a discriminazioni multiple.
Infine, una domanda: per rispondere alle sfide imposte dalla diversità sono sufficienti le micro-azioni fin qui illustrate o dobbiamo forse puntare a strategie di sistema? Il problema è come rispondere alle esigenze che investono tanto la questione delle politiche, quanto le realtà aziendali, le persone e la società civile. In base ad una visione ampia, capace di abbracciare le problematiche di genere e generatività, possiamo dire sia necessario intraprendere azioni di policy che vadano oltre il piano della buona volontà regionale.
Si evidenzia infine l’opportunità di intraprendere azioni di policy per promuovere una leadership femminile capace di orientare le imprese sociali verso l’ascolto di tutte le istanze del contesto organizzativo, comprese quelle delle lavoratrici maggiormente esposte alle oppressioni di genere perché migranti. Più che quelle rivolte all’esterno, sono state utili soprattutto le azioni rivolte all’interno della compagine: gli investimenti sulla formazione dei dipendenti sono servite a valorizzarli, ma anche a formare le persone “a stare dentro una cooperativa sociale”.
Il case study, in generale, mostra come la formazione, progettata con gruppi di lavoratori/lavoratrici a cui viene attribuita la responsabilità di costruire “canali di fiducia”, possa gettare le basi per un’oasi di processi deliberativi condivisi, contribuendo così a rendere produttive quelle risorse umane e relazionali che altrimenti resterebbero sottoutilizzate. Si ritiene in questo modo di aver scongiurato quel processo di analfabetismo deliberativo frutto dell’esclusione che, limitando la capacità di analizzare i bisogni, impedisce di costruire argomentazioni valide e di discuterle con altri (Sacchetti, Sugden 2010), andando di fatto a moltiplicare le posizioni divisive e gli ostacoli di cittadinanza.
L’auspicio è quello di abbandonare un approccio neutrale alle politiche sociali e in particolare alle politiche di integrazione della popolazione straniera e di contrasto alle discriminazioni; approccio purtroppo ancora molto diffuso nel dibattito pubblico (Capesciotti, 2019). Un obiettivo auspicabile se ci si spoglia dell’habitus, per dirla con Bourdieu (2002), della standardizzazione degli interventi, a favore dell’introduzione dell’obbligo di valutazione di genere e generatività sia per le iniziative di policy (legislative, strategiche, programmatiche) sia per i processi aziendali (governance, ristrutturazione, risanamento), sia per tutte le strutture organizzative (misurazione e certificazione della parità di genere).
L’impresa sociale può rispondere a questa sfida, in quanto crea valore non solo per i soci, ma per tutti gli stakeholder con cui entra in relazione. Quella da noi presa in considerazione è un tipo di impresa a leadership femminile, che esprime un’etica basata sulla coerenza, definibile come l’applicazione di principi e valori volti a guidare, per dirla con le parole di Caselli (2020), non solo le performance ma anche i vissuti dei manager, considerati nel contesto dei beni relazionali che le loro azioni producono. Un approccio etico e responsabile non si pone quindi solo l’obiettivo di rispondere “a gettone” alle istanze che provengono dai diversi interlocutori sociali, ma parte già dalla percezione e identificazione di tali bisogni, aspetto che richiede una sensibilità nell’approccio ai processi decisori (Sciarelli, Sciarelli 2018; Monaci, Zanfrini, 2014).
Il caso mostra come l’impresa sociale possa assumere diritti e doveri verso la collettività, da cui trae risorse e competenze, verso cui assume la funzione di catalizzatore di sviluppo economico e sociale, a difesa degli interessi delle generazioni presenti e future. Sono questi i concetti che dovrebbero conquistare sempre più spazio, queste le soggettività a cui dare voce, in documenti politico-istituzionali e nelle pratiche di imprenditori sociali, affinché intervengano non solo sul difficile accesso di donne e uomini in condizioni di fragilità, ma anche sulle loro “situazionate” esigenze multiple, per rispondere agli ostacoli di cittadinanza nel mercato del lavoro secondo investimenti che rispondano a modalità innovative o, almeno, non standardizzate.
Il bisogno di valorizzare le competenze dei lavoratori e delle lavoratrici, con particolare riferimento alla conoscenza profonda delle loro condizioni di vulnerabilità, può in definitiva rappresentare quella capacità delle imprese sociali di dare voce alle istanze della società, anche in una prospettiva di genere, come auspicato dalla Strategia dell’UE per la parità di genere 2020-2025.
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