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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2021

Echi

Una e tante Riace. Sotto assedio l’accoglienza che funziona

Giulia Galera, Leila Giannetto, Giacomo Pisani

Di qui sorge spontanea una domanda: come e in che misura è possibile innovare nel complesso campo dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti senza esporsi al rischio di essere accusati di peculato, turbativa d’asta o favoreggiamento dell’immigrazione clandestina? Se è di inclusione autentica che vogliamo parlare, non andrebbe forse detto fuori dai denti che sono queste stesse regole, pensate per garantire un’accoglienza tampone, frutto di un approccio per lo più securitario ed emergenziale, ad aver fatto il loro tempo?

 

Gli autori ringraziano per i preziosi consigli e suggerimenti: Carlo Borzaga, presidente di Euricse; Gianfranco Marocchi, cooperatore sociale, ricercatore e direttore della rivista Impresa Sociale; Maria Molinari, antropologa.

 

Introduzione

La recente condanna in primo grado dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e dei suoi collaboratori ha lasciato senza parole sia chi il tema dell’accoglienza lo ha nel cuore, sia chi il fenomeno migratorio e l’impatto sociale ed economico dell’accoglienza e dell’integrazione li ha studiati attraverso ricerche sul campo.

Chi ha avuto modo di conoscere Riace prima che il suo esperimento di accoglienza iniziasse ad essere messo sotto accusa, non può che sentirsi ferito nel profondo[1]. Quello di Riace è stato un esperimento che ha funzionato per quasi 20 anni, assurgendo a simbolo dell’accoglienza che funziona[2], non in un territorio qualunque, ma in un’area martoriata dalla criminalità organizzata e da speculazioni di ogni genere a danno del bene comune.

Visitando la cittadella di Riace Superiore si aveva la vivida percezione di toccare con mano “un’utopia concreta”. Ci si sentiva al centro di un mondo ideale, dove la solidarietà, che affonda le radici nella storia magnogreca e nelle tradizioni di accoglienza simboleggiate dal culto dei santi d’origine araba Cosma e Damiano, era vissuta dalla comunità come bene comune. Un sogno per chi si batte e crede nella possibilità di includere chi è ai margini della società ed è privato della possibilità di partecipare alla vita pubblica, e di incidere sui processi decisionali.

Al netto delle percezioni soggettive, che hanno alimentato reazioni contrastanti, a difesa o di condanna dell’ex sindaco e dei suoi collaboratori, partendo dall’esperienza di Riace l’articolo si sviluppa lungo tre direttrici. La prima riguarda la portata innovatrice di Riace, che ha cambiato profondamente il modo di fare e interpretare l’accoglienza in Italia, un Paese con una storia migratoria recente ed un sistema di accoglienza per le persone in cerca di rifugio notoriamente variegato ed a macchia di leopardo. La seconda riflessione si concentra su alcuni aspetti di contesto, comuni a molte iniziative di accoglienza “dal basso”, promosse entro una visione di sviluppo locale grazie alla mobilitazione della comunità. Tra questi, gli ostacoli di natura endogena ed esogena che le organizzazioni, in particolar modo di piccole dimensioni, si trovano perennemente ad affrontare. Quindi, l’articolo si sofferma sull’ostilità che negli ultimi anni – insieme all’innalzamento di muri sempre più elevati alle frontiere per contenere i flussi migratori – è cresciuta nei confronti di tutte le azioni volte a promuovere i diritti dei migranti e, in generale, delle persone più fragili. Infine, si esaminano alcuni elementi che hanno portato al ridimensionamento, quando non alla chiusura, di molte esperienze di accoglienza che avevano dimostrato avere un comprovato impatto positivo a livello economico e sociale.

L’articolo approfondisce in particolar modo alcune caratteristiche intrinseche al sistema di accoglienza italiano, che si articola in due circuiti distinti: il Sistema Accoglienza Integrazione (SAI, prima SPRAR)[3] e i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), nati per sopperire alla mancanza di posti nel SAI. Si sottolinea, da un lato, come la logica burocratica esecutiva sottesa ad entrambi i sistemi ostacoli i processi trasformativi orientati ai bisogni delle persone. Dall’altro, si richiama l’attenzione sulla logica assistenziale connaturata nei servizi SAI e CAS, che non consente alle attività innescate dall’accoglienza di diventare sostenibili nel tempo. L’assunto da cui l’articolo prende le mosse è che entrambi gli approcci, a cui le linee guida dei due sistemi si ispirano, riducano fortemente il margine di manovra delle organizzazioni di Terzo settore. Di qui la tensione a cui gli enti gestori sono sottoposti, alimentata dalla necessità di osservare regolamenti amministrativi la cui logica è antitetica a quella su cui si fondando i processi virtuosi di sviluppo locale.

Riace: da esempio d’innovazione alla chiusura dei progetti di accoglienza

Riace non ha semplicemente sviluppato un modello di ospitalità ad elevato valore relazionale, attento ai bisogni individuali delle persone accolte, il cui volto umano saltava all’occhio di qualsiasi attento visitatore. Oltre a riabitare, come in altre aree interne, alloggi e interi edifici disabitati, dislocati nella città vecchia, a invertire il trend demografico negativo e a dare un impulso alla debole economia locale attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore dell’ospitalità (Driel, 2020; Iiritano, 2021), a Riace l’accoglienza è diventata la leva attraverso cui ridefinire le modalità di gestione di una pluralità di servizi di interesse generale. Sono, infatti, molte le attività, in settori economici diversi, che hanno iniziato a essere gestite localmente attraverso il coinvolgimento di enti del Terzo settore secondo una logica inclusiva, che ha visto la partecipazione di riacesi e di migranti, normalmente esclusi dai processi decisionali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020). Tra le nuove attività sviluppate grazie alla mobilitazione innescata dal progetto di accoglienza, vi è la gestione dei rifiuti con la raccolta porta a porta – servendosi di alcuni asini e carretti in legno e con il coordinamento delle cooperative sociali Eco-Riace e L’Arcobaleno – il recupero di alcune arti a rischio di estinzione (come la tessitura della ginestra a telaio, il tombolo, il ricamo e la lavorazione e decorazione del vetro), il rilancio dell’agricoltura (attraverso la produzione dell’Olio di Riace) e l’avvio di un ambulatorio medico in collaborazione con l’associazione Jimuel con servizi ambulatoriali e di telemedicina. Attività che, come è stato riconosciuto dalla recente sentenza di condanna del Tribunale di Locri all’ex sindaco Lucano e a 17 collaboratori, non sono state promosse con finalità lucrative. L’intento era chiaramente di migliorare il benessere di tutti gli e le abitanti di Riace, di garantire una gestione locale di attività strategiche per il territorio – che, come è il caso dei rifiuti, spesso ricadono sotto il controllo della malavita – e di creare nuova occupazione. Aspetti questi che hanno una rilevanza enorme in un territorio come la Locride, depresso e con una forte presenza della criminalità organizzata.

Un’importante conseguenza da non sottovalutare è inoltre la costruzione di una nuova comunità, nata dall’incontro tra vecchi e nuovi abitanti che hanno deciso di fare di questo piccolo paese della Locride la loro casa. Al momento della stesura dell’articolo sono circa 60 le persone straniere, appartenenti a circa 20 gruppi familiari, che vivono e lavorano sul territorio. Un gruppo, quindi, tutt’altro che trascurabile di persone – corrispondente a circa il 3% della popolazione – che a Riace ha deciso di mettere radici, indipendentemente dalla sopravvivenza del sistema di accoglienza istituzionale (sia SPRAR che CAS), che ha comunque generato importanti benefici per le persone e il territorio. Benefici che nessuna sentenza di condanna potrà cancellare.

Alla stessa stregua è essenziale richiamare l’importante contributo che il sistema di accoglienza riacese ha offerto al sistema centrale, che da questa sperimentazione ha preso ispirazione, e che a Riace si è rivolto in molte occasioni per alloggiare migranti che non avrebbe saputo dove destinare altrimenti.

È tuttavia importante riconoscere che il sistema Riace ha potuto spiccare il volo perché alcune regole, che disciplinano la gestione dei fondi pubblici, così come la gestione di servizi economici di interesse generale, non sono state pienamente osservate o sono state interpretate in maniera estensiva, anteponendo il benessere delle persone, la creazione di occupazione e, in generale, la vita umana al rispetto di leggi e regolamenti di difficile applicazione[4]. Regole la cui non osservanza alla lettera è stata peraltro per lungo tempo tollerata dal sistema centrale (SPRAR) e dalla Prefettura di Reggio Calabria (Procacci, 2021).

L’impatto di Riace sul sistema di accoglienza

A prescindere dai risultati, l’esperienza di Riace non si è limitata ad avere un impatto positivo sul territorio in cui ha operato e sulle migliaia di beneficiari dell’accoglienza che, nei quasi 20 in cui è rimasta attiva, ha accolto.

Al pari di altre esperienze pioneristiche – come ad esempio quella di Trieste (Bolzoni et al., 2020) – Riace ha contribuito a modellizzare un nuovo modus operandi dell’accoglienza, incentrato sulla micro-accoglienza diffusa e ha influenzato le scelte di molte organizzazioni di Terzo settore ed enti locali che hanno fatto proprio l’approccio olistico all’accoglienza sperimentato a Riace, attento all’integrazione e allo sviluppo, a loro volta adattandolo e sviluppandolo, in alcuni casi, in senso maggiormente imprenditoriale.

È sull’onda del progetto di accoglienza a forte connotazione comunitaria dal basso sperimentato a Riace, che è stato disegnato il Piano Nazionale Asilo, il primo sistema nazionale per l’asilo e l’accoglienza in Italia, poi evoluto in Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), oggi Sistema Accoglienza e Integrazione (SAI). Un sistema di accoglienza – nel suo disegno originario – estremamente innovativo, basato sulla collaborazione tra enti locali ed enti di Terzo settore che però negli anni si è progressivamente burocratizzato e irrigidito.

Inoltre l’esperienza di Riace ha ispirato anche altri territori, grazie ad un effetto contagio, alimentato dall’attenzione mediatica raggiunta da questa sperimentazione soprattutto a livello internazionale[5]. Oltre ai borghi confinanti e vicini (tra cui si ricordano: Camini, Gioiosa Ionica, Sant’Alessio in Aspromonte, San Roberto, Calanna, Caulonia, Sant’Ilario dello Ionio, Ferruzzano, Cinquefrondi), Riace ha influenzato molti altri territori lungo tutto lo stivale, dalla Lombardia alla Sicilia passando per l’Appenino, contribuendo alla nascita di una molteplicità di iniziative che meriterebbero un’analisi a parte. Al di là delle specificità territoriali, ciò che queste pratiche hanno in comune con l’esperienza di Riace è il forte radicamento territoriale, grazie alle molteplici connessioni con le diverse espressioni della società civile, che si traducono in alcuni casi nel coinvolgimento di volontari, operatori sociali e diversi rappresentanti della comunità locale negli organi di governo delle stesse organizzazioni. Un’altra caratteristica distintiva è l’ampia prospettiva adottata dalle organizzazioni gestrici dell’accoglienza, incline a rispondere sia ai bisogni delle persone accolte, sia a quelli del territorio, in particolare delle persone più fragili che lo abitano. Ciò che queste esperienze sono riuscite a realizzare sono micro-modelli di welfare plurale, diversi dai sistemi di welfare paralleli destinati ai soli migranti che connotano la maggior parte dei progetti di accoglienza all’interno dei circuiti sia SAI che CAS. Tuttavia ciò che contraddistingue queste sperimentazioni è soprattutto l’offerta di una più ampia gamma di servizi rispetto a quanto previsto dalle convenzioni prefettizie e dagli accordi SAI, al fine di facilitare il raggiungimento della piena autonomia delle persone accolte. Autonomia che non ricomprende solo una dimensione prettamente materiale – la quale si sostanzia nell’acquisizione di un lavoro, di una stabilità abitativa e di un’autonomia finanziaria – ma anche nella possibilità di scegliere e progettare il proprio percorso di vita futuro (De Luca, 2021). La maggiore attenzione posta alle aspirazioni e ai vissuti delle persone accolte è resa possibile dall’attrazione di risorse aggiuntive sotto forma di volontariato, donazioni e asset comunitari messi a disposizione della collettività per creare soluzioni alloggiative, spazi aggregativi, opportunità di interazione e nuove progettualità in vari ambiti, coerentemente con le aspirazioni e le risorse delle persone accolte e della comunità ospitante. È importante sottolineare che alcune delle risorse mobilitate dagli enti gestori di Terzo settore, che si aggiungono ai contributi e alle entrate di mercato pubbliche e private, sarebbero rimaste inutilizzate e nella maggioranza dei casi non sarebbero state destinate ad attività di interesse collettivo.

Grazie ai forti legami intessuti a livello comunitario, molte di queste iniziative sono riuscite a sperimentare nuove forme dell’abitare e innovative metodologie di inclusione sociale e lavorativa con un impatto talvolta molto significativo sull’economia locale, sull’occupazione e sul welfare. Questi laboratori sociali si sono a volte sviluppati in maniera spontanea; altre volte sono stati disegnati in risposta ad esplicite richieste delle prefetture di avviare nuovi servizi di accoglienza.

A differenza di una componente significativa di enti gestori incardinati nel sistema di accoglienza istituzionale, che si è limitata ad attivare nuovi servizi in economia, in conformità con quanto predisposto dalle clausole contrattuali, alcune iniziative, partendo dall’obiettivo di realizzare efficaci percorsi di inclusione delle persone accolte, hanno avviato spontaneamente riflessioni ed analisi sul campo nell’ottica di disegnare inediti modelli di servizio e di inclusione, coerenti con le risorse e specificità del territorio di accoglienza. Facendo leva sulla trentennale esperienza maturata dal Terzo settore nel campo della produzione di servizi di welfare e di percorsi di inclusione sociale e lavorativa, alcuni enti hanno contribuito così a disegnare nuove politiche di welfare a livello locale e in alcuni casi anche a finanziare nuove misure di supporto a favore di altre categorie fragili, grazie alle attività economiche innescate dall’accoglienza. È questo il caso della Cooperativa sociale K-Pax che, grazie ad un’oculata gestione del centro CAS della cooperativa, nel 2013 ha rilevato la gestione dell’Hotel Giardino, l’unico albergo in funzione a Breno in Val Camonica e ha attivato la raccolta di vestiti e scarpe usate. Queste due attività generano un reddito che, oltre a consentire l’inserimento di quattro richiedenti asilo e rifugiati, smonta drasticamente l’impianto accusatorio dei fautori della propaganda anti-immigrati, ovvero che l’accoglienza comporterebbe un aumento della spesa pubblica nei territori ospitanti[6]. L’utile generato dalle attività innescate dall’accoglienza è, infatti, distribuito a favore della comunità per il tramite dell’Azienda Territoriale per i Servizi alla Persona ed è utilizzato per finanziare borse lavoro e affittare tre appartamenti per donne vittime di violenza del territorio camuno. Attraverso il suo intervento, la Cooperativa sociale K-Pax è assurta quindi ad attore di welfare strategico, non solo perché partecipa attivamente al disegno delle politiche a favore delle donne vittime di violenza, ma anche perché contribuisce a finanziare il welfare locale.

In altri casi, l’incontro tra diverse organizzazioni di Terzo settore, tra volontari e professionisti, o la collaborazione tra parrocchie e altre espressioni della società civile, organizzata e non, hanno portato alla nascita di nuovi enti gestori dell’accoglienza.

E grazie all’inclinazione imprenditoriale di molte iniziative di accoglienza è stato possibile innescare processi di sviluppo innovativi, che hanno permesso di garantire la sostenibilità economica e sociale dei progetti di inclusione promossi, in alcuni casi al di là dell’orizzonte temporale dei progetti di accoglienza ministeriale.

I processi di innovazione sociale attivati hanno frequentemente messo in discussione regole e prassi precostituite che, diversamente da altri ambiti di welfare, nel settore dell’accoglienza tendono ad avere una forte connotazione assistenziale, essendo finalizzate in primis a normare l’offerta di servizi di assistenza e ospitalità in ottemperanza agli obblighi internazionali e nazionali dell’Italia in materia di accoglienza dei richiedenti protezione. Obblighi che sono stati tuttavia tradotti in misure di policy a carattere fortemente securitario ed emergenziale, che – se applicate alla lettera – non lasciano molto spazio né a efficaci percorsi di inclusione sociale e lavorativa, né tantomeno a percorsi trasformativi sul territorio.

Oltre alle iniziative di accoglienza diffuse sul territorio che, andando al di là degli obblighi contrattuali, rappresentano una rottura nel modo di fare accoglienza, è importante ricordare le numerose iniziative di inserimento lavorativo che, prendendo talvolta le mosse da progetti di ospitalità, hanno avviato inediti percorsi di integrazione attraverso lo sviluppo di nuove organizzazioni a carattere imprenditoriale.

Uno tra tutti è l’esempio di Bee My Job, un progetto di apicoltura e agricoltura sociale promosso dall’Associazione di promozione sociale Cambalache di Alessandria. Bee My Job nasce dai percorsi di inclusione promossi dalla medesima associazione per formare rifugiati e richiedenti asilo in seno ai progetti di accoglienza promossi. A questo scopo è stata fondata la Bee My Job Academy che si propone di facilitare l’inserimento dei beneficiari nel mercato del lavoro come apicoltori, sia presso le aziende che aderiscono al progetto, sia stimolando l’imprenditorialità dei neo-apicoltori che decidono di mettersi in proprio. Il modello Bee My Job è stato replicato in varie parti d’Italia ed è patrocinato dall’UNHCR come pratica-modello per l’integrazione in Italia.

Tra le iniziative di maggior successo vi è anche la Cooperativa sociale Barikamà, nata nel 2014 per volontà di un gruppo di migranti di origine africana che, ribellatisi allo sfruttamento nelle campagne di Rosarno, hanno dato vita a una nuova cooperativa sociale alle porte di Roma. Barikamà si occupa di inserimento sociale e lavorativo di migranti e di persone con disabilità attraverso la coltivazione, produzione e vendita di ortaggi biologici e yogurt.

Un’altra esperienza interessante è World in Progress, una cooperativa sociale gestita da persone precedentemente ospitate da alcuni enti di accoglienza, tra cui CIAC di Parma. La cooperativa offre servizi di mediazione culturale, uno sportello di segretariato sociale, un laboratorio di informatica e servizi di pulizia e sanificazione. Il suo obiettivo è valorizzare le competenze dei rifugiati e orientarli verso i settori con maggiore richiesta di manodopera.

Il successo di queste iniziative è riconducibile al fatto di essere riuscite a valorizzare e accrescere le competenze formali e informali delle persone accolte, orientandole nella ricerca del lavoro più adatto in una molteplicità di settori, oppure avviando nuove filiere produttive in ambiti ad alto valore aggiunto come il settore agroalimentare, il riuso e il riciclo, la ristorazione così come la produzione di servizi di accoglienza turistica con una forte componente comunitaria, talvolta grazie a collaborazioni con altre imprese.

Elementi che ostacolano la diffusione di pratiche virtuose

A livello nazionale, le pratiche di accoglienza ed inclusione virtuose non sono solo scarsamente diffuse ma anche poco visibili. L’invisibilità è dovuta in gran parte ad uno spazio limitato sulla stampa dominante, poco interessata a storie di accoglienza territoriale non allineate con la retorica prevalente, spaccata tra “pro migranti” e “anti migranti”. A essere poco interessati non sono solo i fautori della propaganda dichiaratamente anti-immigrati, che non perdono occasione per reclamizzare le storie negative che vedono protagonisti i migranti, mentre si guardano bene dal mettere in buona luce le esperienze di natura comunitaria, che spesso fioriscono proprio nei territori con una forte presenza degli elettorati che li sostengono. Anche la maggior parte della stampa progressista, in prima linea nel denunciare situazioni di discriminazione e grave lesione dei diritti dei migranti, non sembra essere molto interessata alle storie di inclusione, quando non sono spendibili dal punto di vista comunicativo. E mettendo in ombra un arcipelago di esperienze innovative, questo approccio fortemente polarizzato ha ostacolato l’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio.

Ad osteggiare la diffusione di un sistema di accoglienza radicato sui territori, che funga da ponte tra chi accoglie e chi è accolto, vi sono poi alcuni fattori oggettivi, sia endogeni che esogeni[7].

Ostacoli di natura endogena

Tra gli ostacoli endogeni vi è la scarsa maturità di molte organizzazioni che si occupano di accoglienza, ancora inconsapevoli di aver sperimentato sul campo modelli di servizio innovativi, strumenti di lavoro e strategie che potrebbero essere esportati in altri territori. Ma anche quando vi è questa consapevolezza, la mancanza di tempo, risorse e, talvolta, competenze, impedisce a molte organizzazioni di Terzo settore di investire nella promozione e diffusione delle loro pratiche.

Di conseguenza, rimanendo invisibili, gli strumenti, le metodologie e i modelli sperimentati finiscono spesso per essere archiviati non appena il servizio cessa di essere offerto, senza che gli elementi di innovazione esportabili abbiano avuto il tempo di essere replicati.

L’insufficiente investimento in ricerca e sviluppo delle pratiche di accoglienza e inclusione impedisce così il passaggio dalla sperimentazione alla modellizzazione di strumenti e strategie che si sono dimostrati efficaci nel promuovere un’accoglienza virtuosa.

A ciò si aggiunge la condizione d’isolamento di molte organizzazioni, non sufficientemente in grado – per mancanza di tempo in primo luogo – di fare rete con altre esperienze di accoglienza e inclusione, anche a livello locale, ostacolando quindi l’apprendimento tra pari attraverso lo scambio di storie di fallimenti e successi.

Vi sono poi alcuni pregiudizi di natura culturale e ideologica che impediscono a molte esperienze di accoglienza di consolidarsi entro una visione di sviluppo del territorio, che potrebbe accrescere la loro autonomia dai condizionamenti della politica. Tra questi si rileva la scarsa propensione ad affrancarsi da una logica assistenziale/prestazionale e ad evolvere verso modelli organizzativi inclini a gestire le risorse a disposizione secondo una logica imprenditoriale, aperta alla sperimentazione. Sono molti gli enti di Terzo settore attivi nell’accoglienza che, sebbene impegnati nell’offerta stabile e continuativa di servizi, non si riconoscono, ad esempio, nel modello dell’impresa sociale, che tendono a ricondurre erroneamente ad un modello di impresa di stampo neo-liberista. Questo a causa della confusione concettuale che ancora aleggia sullo concetto stesso di “impresa sociale”, non sempre ricondotto a forme organizzative nate per perseguire espliciti obiettivi sociali grazie allo svolgimento di attività produttive che si sostanziano nella sperimentazione di innovativi servizi sociali e di percorsi individualizzati di empowerment di lavoratori fragili, che contribuiscono significativamente a ridurre i livelli di disuguaglianza e a favorire la partecipazione attiva alla vita pubblica di persone altrimenti escluse dai processi decisionali.

I numerosi esempi di imprese sociali che offrono un’accoglienza di qualità – ribaltando così il paradigma dominante – dovrebbero essere esemplificativi della necessità di superare questi ostacoli culturali che, demonizzando la dimensione imprenditoriale, impediscono di considerare i benefici di una funzione produttiva strumentale al raggiungimento di finalità sociali. Allo stesso modo, gli esempi di imprese sociali che, facendo leva sulla capacità di “ascoltare” il territorio, sono riuscite a favorire il dialogo e il confronto costruttivo in territori a forte vocazione identitaria dove a prevalere è l’ostilità di una parte della popolazione verso gli immigrati, dovrebbero far riflettere sul vantaggio competitivo che deriva dal coinvolgimento di diverse componenti di società, in rappresentanza dei differenti punti di vista e istanze, nelle strutture proprietarie e di governance degli enti gestori (Sacchetti, 2018; Borzaga, Galera, 2016; Borzaga, Sacchetti, 2015; Defourny, Borzaga, 2001)[8]. Ostilità, spesso dettata da un’irrazionale “paura dello straniero”, che molte imprese sociali sono riuscite a lenire, traghettando comunità arroccate su posizioni identitarie verso atteggiamenti di maggiore apertura nei confronti dei nuovi arrivati.

Ostacoli di natura esogena

Ma ci sono anche alcuni ostacoli esogeni, che contribuiscono a spiegare la scarsa diffusione delle iniziative di accoglienza virtuose. Tra questi la stessa conformazione del sistema di accoglienza italiano a doppio binario, articolato in un sistema ordinario e in uno straordinario, che hanno modellato un’accoglienza “a macchia di leopardo”, le cui differenze – tra e all’interno degli stessi territori – sono accentuate dai continui mutamenti normativi. Questo sistema ha dato vita ad una molteplicità di esperienze, che si inseriscono in un continuum di iniziative CAS e SAI che vanno da veri e propri “business dell’accoglienza” a esperienze di ospitalità che mirano a trovare un incastro virtuoso tra bisogni e potenzialità delle persone accolte da un lato e delle comunità che accolgono dall’altro.

Tra questi due estremi, le iniziative di molti enti, integrandosi nel sistema di welfare, sono diventate mere appendici dell’ente pubblico e hanno perso la capacità di cogliere nuovi bisogni e sperimentare servizi, rimanendo soggiogate da forti pressioni isomorfistiche. Queste organizzazioni – la maggioranza – hanno garantito un’offerta di qualità mediocre sotto tutti i punti di vista (Galera, Parisi, 2021).

Nonostante alcuni commentatori abbiano visto all’interno del sistema SAI un’evoluzione dell’accoglienza in senso partecipativo e plurale (Grigion, 2021), c’è da rilevare l’esistenza di alcuni limiti strutturali che impediscono, in esso, un pieno dispiegamento delle logiche di collaborazione finalizzate all’inclusione. Alcuni limiti sono riconducibili al crescente grado di burocratizzazione di tale sistema e alla logica prettamente assistenziale che lo ispira, che frappone, ad esempio, una serie di ostacoli allo svolgimento di attività rivolte al contempo ai migranti e alla collettività, riducendo così le possibilità di interazione. Inoltre, le regole che sovraintendono il funzionamento dei progetti SAI ostacolano lo sviluppo di attività di natura imprenditoriale.

Un secondo limite del sistema SAI è la sua apertura principalmente ai titolari di protezione internazionale e l’esclusione dai servizi di integrazione (ad eccezione dell’insegnamento della lingua italiana) dei pochi che riescono ad accedervi, tra chi è in attesa di conoscere il risultato della domanda di richiesta di asilo. Una logica, questa, coerente con l’approccio securitario ed emergenziale che connota l’intero sistema di accoglienza, pensato per escludere chi non è dotato di una protezione internazionale.

Questa visione si scontra con le lungaggini amministrative connesse alla valutazione delle richieste di asilo, che condanna la maggioranza dei richiedenti asilo ad attese estenuanti – che durano in media oltre un anno e mezzo – in evidente contraddizione con la raccomandazione fornita dalla maggior parte degli studi a livello internazionale di avviare i percorsi di integrazione fin dal momento dell’arrivo dei migranti nel paese ospitante[9]. Durante il lungo periodo trascorso all’interno del sistema CAS, diventato per antonomasia il sistema di accoglienza per gli esclusi dal sistema ordinario, i richiedenti asilo sono invece per lo più abbandonati a loro stessi.

A differenza del sistema SAI – che alla luce delle linee guida dovrebbe basarsi su una proficua interazione tra enti locali aggiudicatari dei finanziamenti ministeriali ed enti di Terzo settore, sebbene selezionati su base competitiva – il sistema CAS funziona secondo la logica tipica dei contratti di affidamento ed esternalizzazione dei servizi pubblici da parte delle prefetture a uno o più operatori economici, non necessariamente di Terzo settore.

Questo ha portato alla già richiamata natura a doppio binario del sistema di accoglienza italiano con, da un lato, il sistema SPRAR/SIPRIMI/SAI che, riconoscendo il protagonismo degli enti locali, dovrebbe operare secondo una logica di governance multilivello e promuovere una accoglienza integrata grazie alla collaborazione con enti di Terzo settore che, a rigore di logica, dovrebbero essere selezionati in virtù della loro conoscenza del territorio di accoglienza; dall’altro lato il sistema CAS che, come in altri ambiti di welfare, tenderebbe per sua natura a privilegiare notoriamente le grandi strutture, in grado di generare economia di scala, a scapito dei progetti gestiti dagli enti di terzo Settore radicati sul territorio.

Questa modalità di esternalizzazione dei servizi di accoglienza ha non a caso favorito una gestione tipicamente “business”[10] dell’accoglienza, diventato appannaggio di imprese for profit senza scrupoli, del tutto disinteressate ai percorsi di inclusione delle persone ospitate.

Tuttavia, se guardiamo agli esiti dell’accoglienza, nella realtà dei fatti le differenze tra i due sistemi sono talvolta sfumate, dipendendo – la qualità in primis – da alcune caratteristiche strutturali dei soggetti gestori. Non mancano sia esempi virtuosi di CAS gestiti da organizzazioni radicate nelle comunità, attente ai risultati di inclusione dei propri beneficiari, sia esempi di progetti SAI che vedono coinvolti soggetti gestori non legati al territorio, che ne ignorano le caratteristiche[11].

È tuttavia innegabile che, a partire dal 2017, a seguito della riduzione delle risorse messe a disposizione del sistema centrale decisa prima dal Ministro dell’Interno Marco Minniti[12] e poi confermata dal suo successore Matteo Salvini[13], si sia registrata la progressiva chiusura di molte esperienze CAS, distintesi per aver saputo gestire egregiamente la sfida dell’accoglienza, innescando inediti processi di sviluppo a livello locale. Limitandosi alla copertura di servizi essenziali (vitto, alloggio e, solo parzialmente, servizi sanitari), i bandi prefettizi post 2017 hanno infatti reso insostenibile l’accoglienza straordinaria diffusa sul territorio in appartamenti, così come l’offerta di importanti misure di integrazione, come ad esempio l’insegnamento della lingua italiana, non più coperto dai finanziamenti CAS.

A prescindere dagli ottimi risultati ottenuti in termini di integrazione e dai processi di innovazione attivati anche in territori montani e rurali, questi cambiamenti hanno portato molti enti di Terzo settore, in particolar modo quelli di dimensioni più contenute[14], a ritenere i bandi CAS impraticabili. Di qui la scelta di chiudere i servizi di accoglienza. È questo il caso della Cooperativa sociale Cadore, che nasce non per occuparsi di accoglienza, ma come soggetto di sviluppo del territorio. Oltre a operare in una pluralità di settori, che spaziano dalla manutenzione ambientale e turismo di comunità all’offerta di servizi a rischio chiusura come ad esempio un cinema, nel 2011 la Cadore inizia a gestire alcuni CAS su sollecitazione della Prefettura di Belluno. Il modus operandi della cooperativa – che si configura come cooperativa di comunità – si basa sull’ampia partecipazione degli enti pubblici anche come soci, di alcune associazioni e della popolazione locale nella co-produzione dei diversi servizi. Rispetto all’accoglienza, il modello operativo scelto dalla Cadore si è tradotto in un’accoglienza in piccoli gruppi e nell’attivazione di servizi aggiuntivi ben oltre gli obblighi contrattuali, con particolare attenzione ai percorsi di inclusione sociale e lavorativa. Un ruolo chiave è riservato inoltre al dialogo e alla mediazione per traghettare pezzi di popolazione verso una logica inclusiva. Nonostante i risultati ottenuti[15], nel 2018 la Cadore ha deciso di chiudere i battenti come CAS, ritenendo i bandi non praticabili. Rimane invece attiva nei suoi tradizionali settori di intervento, dove continua ad attivare innovativi percorsi di sviluppo che vedono protagoniste persone fragili a rischio di esclusione sociale.

Nell’ottica di superare i limiti di entrambi i sistemi, può forse essere decisiva l’adozione degli strumenti di coprogrammazione e coprogettazione previsti dall’art. 55 del Codice del Terzo settore. Essi, inaugurando un nuovo modello istituzionale fondato sull’amministrazione condivisa fra pubblico e Terzo settore, possono contribuire a ridisegnare le politiche dell’accoglienza attraverso un approccio effettivamente orientato alla realizzazione dell’interesse generale, ovvero alla garanzia dei diritti fondamentali dei migranti. Le organizzazioni del territorio, qui, non avrebbero un ruolo ancillare, relegato alla mera erogazione di prestazioni previa selezione entro meccanismi di tipo competitivo, ma avrebbero il potere di contribuire alla realizzazione delle politiche entro logiche di autentica collaborazione alla pari col pubblico. Ciò favorirebbe una maggiore aderenza delle pratiche di accoglienza e dei servizi alle esigenze del territorio, nonché ai bisogni delle persone coinvolte.

A creare un clima non incline a sperimentare nuovi percorsi di inclusione contribuisce tuttavia anche lo stato di insicurezza e precarietà legato alla richiesta di asilo. Questa situazione si è aggravata a seguito della riforma del 2018, che ha cancellato la protezione umanitaria[16] e ha improvvisamente escluso tutti coloro che erano già titolari di questo tipo di protezione dai servizi a supporto del loro percorso verso l’autonomia. Si sono di conseguenza progressivamente ridotte le possibilità d’inclusione per molti migranti e in particolare per tutti coloro che hanno un’elevata probabilità di essere da un giorno all’altro dichiarati irregolari.

Ad indebolire la capacità del sistema di rispondere in maniera costruttiva alle sfide poste dall’accoglienza a livello locale contribuisce anche il cambio di ruolo degli operatori dell’accoglienza che, dopo anni di formazione sul campo, da sperimentatori di nuovi percorsi innovativi sono assurti a burocrati e “controllori” (Spinelli, Accorinti, 2019).

Da ultimo, è necessario ricordare come la diffusione di atteggiamenti razzisti e xenofobi ostacoli gravemente l’attività di molte organizzazioni di Terzo settore, molte delle quali non disposte ad operare in un clima di crescente ostilità che potrebbe potenzialmente esporle al rischio di ritorsioni e, quindi, alla possibile chiusura non solo delle attività di accoglienza, ma anche di servizi rivolti ad altri pubblici deboli.

Il ridimensionamento degli enti gestori che operano entro una visione di sviluppo locale e inclusione

L’epilogo di Riace non fa ben sperare chi ancora resiste, soprattutto alla luce dell’ostilità crescente e della polarizzazione delle posizioni sull’argomento. E alla stessa stregua, non fa essere ottimisti la decisione di molte organizzazioni di Terzo settore, che avevano avviato autentici percorsi di inclusione, di chiudere le attività di accoglienza o di adattarsi alle nuove regole, riducendo drasticamente i servizi offerti. Uno scenario che porta a riflettere su alcuni punti chiave: la crescente ostilità nei confronti di chi opera a favore dei migranti, da un lato, e la prevalenza di una logica burocratico-esecutiva e di un approccio meramente assistenziale in seno al sistema di accoglienza, dall’altro, che allontanano i soggetti gestori da un modello di intervento orientato ai bisogni delle persone e allo sviluppo locale.

Esempi del crescendo di ostilità nel Paese

Quanto è successo a Riace è la riprova del crescendo di ostilità di una parte della politica e della magistratura, che non solo sono disinteressate a trovare soluzioni al “problema migratorio”, ma tentano con ogni mezzo, lecito ed illecito, di spegnere le energie della società civile che, spesso in maniera spontanea, si prodiga per far incrociare la mobilitazione volontaria delle comunità locali a favore di richiedenti asilo e rifugiati con la sperimentazione di nuovi modelli di gestione del territorio, dell’abitare e di integrazione.

Questo processo di assedio, iniziato nel 2016, è stato accelerato dal Decreto introdotto da Salvini nel 2018, che ha accentuato l’ostilità nei confronti del fenomeno migratorio in generale (Bolzoni et al., 2020). La tendenza a demonizzare soluzioni ben funzionanti da parte di alcune componenti della politica ha prodotto i suoi effetti in numerosi territori, spesso senza destare eccessivo scalpore. Tra questi, lascia senza parole lo smantellamento di un sistema di accoglienza che si era distinto nel panorama nazionale in virtù della qualità dei servizi offerti: il Centro Informativo per l’Immigrazione (Cinformi), braccio operativo creato ad hoc dalla Provincia Autonoma di Trento per supportare la questura nelle procedure amministrative relative all’immigrazione e per garantire la regia dell’accoglienza a livello provinciale attraverso una rete di enti di Terzo settore del territorio. Il Cinformi è stato smembrato a seguito dell’insediamento della giunta provinciale trentina a trazione leghista nel 2018, che dello smantellamento di questa agenzia aveva fatto la sua bandiera elettorale. Questo sistema – un unicum nel panorama nazionale – era riuscito a uniformare gli standard di accoglienza sul territorio, garantendo servizi trasversali altamente qualificati per l’assistenza legale, l’ospitalità e l’inserimento sociale e lavorativo delle persone accolte anche grazie ad una qualificata supervisione e formazione degli operatori. L’unicità del sistema trentino risiedeva, tra le altre cose, nell’offerta di servizi di formazione ed accompagnamento al lavoro finalizzati a facilitare il matching con la domanda di lavoro locale inevasa[17]. Con l’insediamento della nuova giunta, i servizi trasversali sono stati svuotati, il numero degli operatori è stato drasticamente ridotto, e i benefici di un’accoglienza che funzionava, sono stati cancellati (Boccagni et al., 2020).

L’impressione, confermata purtroppo dall’esito negativo di tanti altri progetti di accoglienza, indotti o costretti a chiudere, è che una parte significativa del Paese, in un circolo vizioso che si autoalimenta, persista nel negare la realtà dei fatti, dimostrata da studi e analisi (Openpolis - ActionAid, 2021; In Migrazione - Oxfam Italia, 2019; Galera, 2018). L’analisi delle esperienze di accoglienza radicate nei territori dimostra che il fenomeno migratorio può essere gestito in maniera virtuosa nell’interesse di chi è accolto e di chi accoglie, e l’inclusione può trasformarsi in sviluppo economicamente e socialmente sostenibile del territorio. Ma questo presuppone una gestione oculata del processo di accoglienza e integrazione in tutte le sue fasi, che solo il coinvolgimento degli attori locali può garantire. Un modello di gestione che i decisori politici, intenzionati a dimostrare che il fenomeno migratorio non può essere governato, schivano da tempo con ogni mezzo.

La logica burocratica esecutiva e l’approccio assistenziale insiti nel sistema di accoglienza

Tuttavia non è solo il crescendo di ostilità, alimentato dalla macchina del fango della politica, a ostacolare l’azione delle organizzazioni di accoglienza che operano nel segno di una visione di sviluppo locale. È anche lo stesso impianto del sistema di accoglienza, così come disegnato, a non remare a favore di chi è incline ad innovare e offrire servizi di accoglienza e integrazione di qualità. Anzi, il sistema sembra disegnato a tavolino per premiare le organizzazioni che svolgono una funzione meramente esecutiva entro i confini di regolamenti e linee guida, e penalizzare le organizzazioni che generano processi trasformativi, facendo leva su competenze e risorse non valorizzate. Regolamenti e linee guida, redatti presumibilmente per disincentivare le organizzazioni con finalità speculative, che hanno tuttavia soffocato pesantemente l’inclinazione all’innovazione.

La burocratizzazione, unita all’approccio prestazionale, tipico dei servizi di welfare pubblico, ostacola in particolare l’azione di chi ha una visione unitaria dei bisogni dei migranti, che spaziano dalla necessità di raggiungere un’autonomia finanziaria ed una stabilità abitativa, fino alla possibilità di scegliere e progettare il proprio percorso di vita (De Luca, 2021). In contraddizione con le dinamiche evolutive delle politiche di welfare, le regole vigenti nel campo dell’accoglienza disincentivano l’adozione di un approccio olistico, che deve giocoforza fare assegnamento sulla capacità di creare connessioni tra i diversi servizi e politiche, incluse quelle di welfare e quelle del lavoro. Così impostato, l’impianto del sistema tende a premiare la logica assistenziale che si contrappone fortemente a quella orientata allo sviluppo locale e alla sostenibilità fatta propria dal sistema di Riace e da altre pratiche.

Un esempio su tutti è la somma di 35 euro pro-capite destinati al sostentamento di profughi e richiedenti asilo, una cifra sicuramente adeguata nelle aree ad alto reddito del Nord Italia, considerata tuttavia eccessivamente elevata dal Comune di Riace, in considerazione del più basso costo della vita. Nell’ottica di garantire una gestione oculata e di buon senso delle risorse a disposizione, il Comune aveva ben pensato di redistribuire una parte di questi introiti per finanziare attività di interesse per la comunità. Così la stampa di una moneta locale virtuale, spendibile solo a Riace, fatta di banconote raffiguranti il volto di personaggi come Peppino Impastato, Che Guevara o il Mahatma Gandhi era stata escogitata per sostenere lo sviluppo del territorio.

Ebbene, queste e altre scelte strategiche per lo sviluppo del territorio di accoglienza sono state giudicate alla stregua di delitti contro la pubblica amministrazione e il patrimonio dalla Procura di Locri, in quanto non conformi alle regole amministrative del sistema istituzionale di accoglienza.

Di qui sorge spontanea una domanda: come e in che misura è possibile innovare nel complesso campo dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti senza esporsi al rischio di essere accusati di peculato, turbativa d’asta o favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?

Se è di inclusione autentica che vogliamo parlare, non andrebbe forse detto fuori dai denti che sono queste stesse regole, pensate per garantire un’accoglienza tampone, frutto di un approccio per lo più securitario ed emergenziale, ad aver fatto il loro tempo? Purtroppo, fatte salve alcune rare eccezioni, la politica a tutti i livelli non sembra, per motivi evidentemente elettorali, intenzionata ad appoggiare soluzioni sensate rispetto all’immigrazione e all’accoglienza, divenute un vero “campo di battaglia” (Fontanari, Ambrosini, 2018) in cui l’unica alternativa alla costruzione di muri sempre più alti e invalicabili è il silenzio.

Conclusioni

L’esperienza di Riace non può essere analizzata prescindendo dai limiti della normativa in materia di immigrazione e accoglienza. Da un lato vanno considerate le conseguenze della tendenza a interpretare la legge in senso inumano, anteponendo la sicurezza alla tutela della vita delle persone. Dall’altro, è doveroso riconoscere i limiti del sistema di accoglienza, disegnato in base a una logica burocratico-esecutiva e assistenziale che mina l’inclinazione ad innovare.

Quanto al primo aspetto, molte organizzazioni preposte alla gestione di progetti di accoglienza si trovano sistematicamente nella situazione di dover scegliere drammaticamente tra osservare alla lettera la legge in vigore o difendere i diritti delle persone fragili. Un classico esempio è l’obbligo in capo agli enti gestori di espellere dal sistema quei richiedenti asilo che sono stati riconosciuti come irregolari, perché la loro richiesta di asilo è stata rigettata in tutti i gradi di giudizi previsti dalla normativa. Una decisione dolorosa, sapendo che l’espulsione è l’anticamera di situazioni di grave marginalità e spinge i diniegati verso forme di sfruttamento e caporalato. Il ginepraio di norme amministrative che quotidianamente appesantisce il lavoro di molti enti gestori fa il resto, ostacolando l’innovazione, ovvero escludendo dai finanziamenti pubblici le organizzazioni che, nel tentativo di garantire ad esempio la sostenibilità dei loro progetti oltre l’orizzonte temporale dell’accoglienza istituzionale, sono considerate colpevoli di non aver osservato regole amministrative inidonee, se non del tutto inapplicabili.

Alla stessa stregua, l’esperienza di Riace ci impone una riflessione sui principi stessi su cui si basano le politiche di accoglienza. Esse sono tese al mero “tamponamento” delle emergenze e considerano il richiedente asilo e il rifugiato come soggetti da assistere entro percorsi prestabiliti, che impediscano loro di entrare in conflitto con i luoghi della cittadinanza, essendo percepiti, in generale, come una potenziale minaccia all’ordine costituito. L’accoglienza così concepita non prevede la costruzione di ponti che garantiscano un’inclusione effettiva entro le comunità. All’interno dell’accoglienza, l’assistenza non costituisce un passaggio propedeutico all’abilitazione degli interessati, ma esaurisce la sua funzione negli interventi di ospitalità a richiedenti asilo e rifugiati.

È questa la principale contraddizione con cui l’esperienza di Riace ha fatto i conti, affrontandola di petto, senza compromessi. Si tratta, come sintetizza Giulia Li Destri, del “conflitto difficilmente sanabile tra la responsabilità politica di un luogo, da una parte, e la sua semplice gestione amministrativa, dall’altra” (Li Destri, 2018 - p. 43).

Il sistema di accoglienza di Riace ha contrapposto alla gestione amministrativa la forza della decisione politica, non emanazione della volontà del singolo, ma espressione di una serie di pratiche che, a Riace, hanno informato un diverso modello di attuazione dei diritti fondamentali delle persone. Come prosegue l’autrice, che a Riace ha condotto una lunga e puntuale ricerca sul campo durante il suo dottorato, “questa narrazione, portata avanti con scelte al limite della correttezza formale volte proprio a svelare il carattere ‘post-politico’ della mera gestione burocratica, è stata accompagnata da una vera e propria opera di patrimonializzazione di Riace condotta attraverso una re-invenzione dell’identità del luogo che prende avvio proprio dal tratto saliente (e paradossale, se di identità si parla) dall’accettazione dell’altro, cercando di trasformare il patrimonio di umanità di Riace (con le decine di nazionalità presenti) in patrimonio dell’umanità” (Li Destri, 2018).

È dentro questo perimetro che si colloca una riarticolazione del rapporto fra giustizia e diritto, laddove quest’ultimo viene visto al di là della sua semplice aderenza alla norma formale. In gioco è, piuttosto, la centralità di una concezione dinamica della giustizia, la quale si sostanzia dal lato dei diritti fondamentali da garantire alle persone, più che da quello delle procedure formali a cui dare attuazione. L’esperienza di Riace ha fatto emergere, in più occasioni, l’insufficienza di quelle procedure, che si è tradotta in una frizione difficilmente sanabile fra la dimensione formale e quella sostanziale della giustizia. A favorire l’acuirsi di tale tensione hanno certamente contribuito la burocratizzazione e la sclerotizzazione di procedure amministrative riconducibili alla visione assistenziale precedentemente richiamata, incapaci di evolvere verso diversi obiettivi e modelli di inclusione.

In questo scenario, battersi per la giustizia significa innanzitutto comprendere in quali spazi – anche normativi – può darsi una revisione delle pratiche dell’accoglienza, che possa sostanziare un diverso modello di giustizia, fondato sulla centralità dei diritti fondamentali delle persone. Si tratta di immaginare un modello istituzionale che possa acquisire carattere abilitante rispetto a richiedenti asilo e rifugiati, e che garantisca margini di manovra, in questa direzione, sia agli attori politici che agli enti gestori, costringendoli al contempo al confronto con la comunità, al di fuori di una concezione verticistica e arbitraria della decisione politica.

Gli istituti giuridici della coprogrammazione e della coprogettazione, al centro dell’art.55 del Codice del Terzo settore, possono forse garantire un allargamento degli spazi della democrazia, permettendo ad amministrazioni pubbliche e formazioni sociali del territorio orientate alla realizzazione dell’interesse generale di disegnare in maniera collaborativa le politiche pubbliche. Si tratta di uno spazio in cui viene rideclinato in senso partecipativo e plurale lo stesso concetto di interesse generale, inteso non più come categoria astratta da assumere pedissequamente, ma come concetto dinamico, radicato nei bisogni della comunità (Pisani, 2021; Pellizzari, Borzaga, 2020).

Se l’esperienza di Riace ha scontato un eccessivo dinamismo rispetto all’esistenza di griglie normative che impedivano margini di iniziativa, costringendo le amministrazioni entro approcci passivi che interiorizzavano di default la logica assistenziale in essi sottesa, oggi esiste uno spazio in cui poter collaborare al disegno delle politiche pubbliche, ponendo al centro la solidarietà, l’interesse generale e la democrazia. A tal fine, è però necessario dare nuovo impulso alla ricerca empirica, confrontandosi con quelle esperienze che già hanno messo in campo, in questi anni, forme di coprogrammazione e coprogettazione. Ciò può aiutare a cogliere le sfide da affrontare nella traduzione concreta di tali strumenti, identificando al contempo i campi in cui è necessario intervenire con percorsi di formazione mirati. Fondamentale, infatti, è rafforzare la formazione, sia presso le organizzazioni di Terzo settore che all’interno delle amministrazioni pubbliche, in modo da rendere pienamente operativa la cultura della collaborazione, nella sua incompatibilità alle logiche della competizione e del profitto.

DOI: 10.7425/IS.2021.04.05
 

Bibliografia

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Bolzoni M., Donatiello D., Giannetto L. (2020), “(Dis)fare accoglienza. Attori e contesti alla prova dei Decreti Sicurezza”, in Marchetti C., Molfetta M. (a cura di), Il diritto d'asilo - Report 2020. Costretti a fuggire... ancora respinti, Fondazione Migrantes, Tau Editrice, Roma, pp. 165-200.

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Note

  1. ^ Il tramonto di Riace inizia nel 2016, quando un ispettore inviato dalla Prefettura di Reggio Calabria evidenzia numerose criticità amministrative e organizzative nella sua relazione di ispezione. A questa relazione ne seguono altre due nel 2017, sempre ad opera della Prefettura, che valutano il progetto positivamente. Nel 2017 la Procura di Locri iscrive Lucano nel registro degli indagati per abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata e lo stesso anno il Ministero dell’Interno (guidato da Marco Minniti del Partito Democratico, a cui dal primo giugno 2018 subentra Salvini) esclude Riace dai finanziamenti statali per il mantenimento del sistema d’accoglienza. Nel 2018 prende avvio l’inchiesta Xenia (dal greco antico xenos, straniero, ospite) secondo cui Lucano sarebbe stato il promotore di un’associazione a delinquere. Il 30 settembre 2021, Il Tribunale di Locri, presieduto dal giudice Accurso, condanna a tredici anni e due mesi di carcere (molto più di quanto chiesto dalla procura) l’ex Sindaco di Riace, e a un numero variabile di anni 17 collaboratori. Si veda: Livieri (2021), Per cosa è stato condannato a oltre 13 anni Mimmo Lucano, Il Post.
  2. ^ Un’accoglienza in grado di coniugare i percorsi di autonomia e inclusione delle persone accolte con la rigenerazione delle comunità accoglienti e lo sviluppo locale.
  3. ^ Il sistema SAI si articola in due livelli: un primo, con servizi di base per richiedenti asilo, e un secondo, con servizi per l’integrazione destinati a coloro che hanno già ottenuto il riconoscimento della protezione. Per una spiegazione dettagliata del sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia si veda ActionAid e Openpolis (2021).
  4. ^ A prevalere è stata, nella maggioranza dei casi, la volontà di trovare soluzioni a problemi apparentemente irrisolvibili. Un esempio paradigmatico è dato dalla mancanza del Registro regionale delle cooperative sociali che ha indotto il Comune di Riace a crearne uno proprio a livello municipale per rendere possibile l’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti (previsto a determinate condizioni dalla normativa degli appalti) a due cooperative sociali, iscrittesi al registro comunale.
  5. ^ Nel 2010 Mimmo Lucano arriva terzo nella competizione mondiale dei sindaci, il World Mayor, grazie ai progetti di accoglienza del comune sviluppati negli ultimi 10 anni. Sempre nel 2010 viene intervistato nel cortometraggio di Wim Wenders, “Il volo”. Nel 2016 viene inserito tra i 50 più importanti leader del mondo (al quarantesimo posto) dalla rivista Fortune. L’anno successivo, nel 2017 riceve il premio per la Pace Dresda 2017. Tra gli altri premi conferiti si ricordano: il “Premio Mario Tommasini” assegnato nel 2021 da parte dell’omonima Fondazione di Parma e il “Premio 2021 MdM” da parte delle Fondazione svizzera Mains dans les Mains.
  6. ^ Si veda anche: Cereda (2021), L'effetto dell'accoglienza: ripopolamento senza costi per le casse pubbliche, Vita.it, 5 febbraio 2021.
  7. ^ Alcuni degli ostacoli descritti sono condivisi anche dagli enti locali di piccole dimensioni, specie quelli che si trovano in aree interne.
  8. ^ Modelli proprietari e di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuzione degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
  9. ^ Così come sottolinea la stessa Commissione Europea nel suo Piano di Azione per l’integrazione e l’inclusione 2021-2027.
  10. ^ Si veda il report di Valori.it sul business dell’accoglienza in Italia.
  11. ^ Un esempio eclatante è quello della Cooperativa Medihospes, già gestore del tristemente noto CARA di Borgo Mezzanone (FG), uno degli enti gestori dell’accoglienza più grandi in Italia; per un approfondimento si veda il report Openpolis.
  12. ^ Decreto 17 febbraio 2017, n. 13, convertito in legge 46/2017.
  13. ^ Decreto 5 ottobre 2018, n. 113, convertito in legge 142/2019.
  14. ^ Tra gli enti medio grandi si veda il caso della rete Temporanea d’Impresa Bonvena.
  15. ^ A giugno 2018, un terzo delle persone in accoglienza era contrattualizzato, 20 persone precedentemente accolte hanno messo radici in Cadore e lavorano oggi regolarmente, di cui 3 come soci lavoratori della cooperativa, i restanti 17 con contratti di vario tipo presso lavanderie industriali, nella ristorazione, agricoltura, edilizia e occhialeria.
  16. ^ Una forma di protezione nazionale, complementare alle forme di protezione internazionali, ovvero l’asilo e la protezione sussidiaria.
  17. ^ Una ricerca condotta sull’accoglienza in Trentino, prima e dopo il cambio di giunta del 2018, rivela che ogni euro speso per l’accoglienza ne attiva all’incirca un altro nell’economia trentina (Boccagni et al., 2020).
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