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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2021

Editoriale

A trent’anni dalla 381

Carlo Borzaga

Come superare le letture semplicistiche del volontariato e della cooperazione sociale, partendo da una riflessione documentata sulle loro origini


Non vi è alcun dubbio che il Terzo settore italiano come lo conosciamo oggi – ed in particolare la parte impegnata nei servizi di integrazione sociale e lavorativa – ha essenzialmente una duplice radice: il volontariato organizzato e la cooperazione (di solidarietà) sociale. Insieme, da un lato hanno sviluppato – a partire dagli anni ‘70 del ‘900 – riflessioni, strategie e modelli di servizi, dall’altro hanno portato avanti istanze di riconoscimento e di sostegno, tra cui in particolare le due leggi di cui quest’anno ricorre il trentennale. Due leggi che hanno poi aperto la strada anche allo sviluppo e al riconoscimento di altre forme organizzative – associazioni e fondazioni – in parte preesistenti e impegnate nella promozione della socialità, della cultura e dello sport, ed infine all’approvazione del Codice del Terzo settore, passando per leggi come quella sulle Associazioni di Promozione Sociale e sulle Onlus.

Di seguito incentrerò la riflessione soprattutto sulla cooperazione sociale, senza tuttavia dimenticare il volontariato.

Nessuno oggi mi pare metta più in dubbio la rilevanza sociale, economica e occupazionale del volontariato e soprattutto della cooperazione sociale. Ciò su cui credo le idee siano sempre più confuse sono le ragioni che ne hanno comportato lo sviluppo. Sempre più spesso si sente affermare – anche da studiosi che da tempo si occupano di questi temi – che esso è stato determinato soprattutto, se non esclusivamente, dalle politiche di “privatizzazione” o di “esternalizzazione” dei servizi sociali e che ciò avrebbe reso la cooperazione sociale (e una parte significativa del volontariato) non solo interamente dipendenti dalle risorse pubbliche e assimilati ai modelli organizzativi della pubblica amministrazione, ma anche colpevoli di avere consentito un generico “disimpegno” dello Stato sociale e una riduzione delle risorse pubbliche ad esso dedicate. Finendo sia per metterne in discussione il valore sociale e la capacità di innovazione, che per affidare lo sviluppo del settore a nuovi “esperimenti generativi” che nella maggior parte dei casi si scoprono essere comunque cooperative sociali, magari solo impegnate in attività diverse da quelle tradizionali.

Si tratta tuttavia di una lettura a dir poco (e per diverse ragioni) molto parziale e quindi fuorviante: innanzitutto perché considera solo una parte – e neppure quella maggioritaria – di un fenomeno articolato e complesso, quello della cooperazione sociale impegnata nella pura fornitura su appalto di servizi socioassistenziali (quando non di sole ore di lavoro) e, in secondo luogo, perché basata su schemi interpretativi presi a prestito da altre esperienze come quella anglosassone, e infine, perché ancora dipendente dalla convinzione – non necessariamente dichiarata – che il sistema economico sia fondato su due soli attori: il mercato e lo Stato, e che tertium non datur. Cioè sull’idea dura a morire che in determinati ambiti – quelli dei servizi di interesse generale e in particolare di welfare – possa intervenire solo lo Stato nelle sue diverse articolazioni e non siano possibili – se non poco organizzate, di breve durata e di dimensioni minimali – iniziative promosse da gruppi di cittadini che si associano liberamente per dare vita e continuità a servizi in grado di affrontare problemi sociali trascurati sia dalle imprese private che dal sistema pubblico di welfare.

Con la conseguenza di proporre analisi superficiali, che negano la portata innovativa e l’originalità dei fenomeni sia del volontariato che soprattutto della cooperazione sociale, vista spesso con sospetto – in quanto impresa – anche dai sostenitori del volontariato. Analisi che rischiano di sottovalutarne il potenziale nello sviluppo di nuovi servizi sia sociali che più in generale alla comunità, di cui – anche a seguito della pandemia – si sente un crescente bisogno. In particolare, un bisogno di creare spazi di “ascolto attivo” e di co-decisione su tematiche socialmente delicate (come ad esempio la gestione del fenomeno migratorio, la costruzione di reti di servizi socio-sanitari all’interno di un nuovo paradigma sanitario, la gestione di beni comuni), in alternativa ai fallimenti dei modelli tradizionali di democrazia rappresentativa e all’incapacità di trovare soluzioni attraverso la politica, che ormai cavalca qualsiasi tema di rilevanza pubblica per soli fini elettorali. Spazi che anche in questi ultimi anni la cooperazione sociale ha saputo individuare e gestire in maniera molto innovativa ed efficace, come nel caso dell’accoglienza di rifugiati in territori a forte vocazione identitaria, accompagnando ed “educando” la comunità verso l’ospitalità e trasformandola in un volano di sviluppo.

Il modo migliore per sottoporre queste tesi ad un serio esame critico e valutarne la tenuta è tornare alle radici dei due fenomeni, cercare cioè di capire e ricostruire il contesto in cui si sono formati, da chi sono stati promossi e se e come si sono relazionati tra loro fino all’approvazione quasi contestuale – e anche questo non è un caso – delle due leggi di riconoscimento.

Iniziando dall’analisi del contesto, è fondamentale ricostruire sia la situazione del sistema italiano di welfare in cui volontariato e cooperazione sociale si sono inseriti, sia il clima politico e culturale che caratterizzava il periodo in cui i due fenomeni si sono sviluppati.

Negli anni in cui essi si sono formati e diffusi – più come movimenti che come vere e proprie istituzioni – il sistema di welfare italiano si caratterizzava per:

  1. essere basato (e purtroppo lo è ancora!) quasi esclusivamente su trasferimenti monetari, con pochi servizi sociali, tutti a carattere emergenziale, altamente istituzionalizzati e standardizzati, gestiti in larga parte da istituzioni originariamente private (le Opere Pie) trasformate in enti a gestione pubblica (Ipab) alla fine dell’Ottocento e durante il fascismo; non era neppure chiaro a quali amministrazioni competesse l’organizzazione dei servizi sociali allora in capo al Ministro degli Interni;
  2. una regolamentazione – l’articolo 1 della legge Crispi – che affidava solo alle istituzioni pubbliche – e impediva ai privati – la fornitura di servizi sociali e la presenza diffusa di una ideologia welfarista secondo cui lo Stato da solo dovrebbe essere in grado di rispondere a tutti i bisogni, purché dotato di adeguate risorse. In coerenza con questa narrazione si muovevano la classe politica, i centri studi, le scuole per operatori sociali e, alla fine, una buona parte anche del volontariato che riteneva immorale gestire, soprattutto in forma privata imprenditoriale, servizi sociali, assistenziali e sanitari e definiva quasi unanimemente l’azione delle nascenti iniziative come di “di supplenza” ad un intervento pubblico che prima o poi ne avrebbe rilevato o sostituito le attività;
  3. l’emergere di una serie di nuovi bisogni o di nuove povertà – alcuni indotti da leggi particolarmente lungimiranti, come il ridimensionamento degli ospedali psichiatrici e la chiusura dei brefotrofi – ma quasi privi di risposte pubbliche; emblematico il frequente passaggio dei dimessi dagli ospedali psichiatrici direttamente alle case di riposo;
  4. un Terzo settore così come oggi definito poco sviluppato anche perché reso invisibile dall’assunzione forzata – a seguito della legge Crispi – della gestione da parte delle amministrazioni pubbliche (in forma di Ipab) delle iniziative private laiche e religiose nate prima della fine dell’800 e ancora operative, dagli stretti legami di molte realtà associative con i principali partiti politici e da un movimento cooperativo quasi marginalizzato, con una cultura e una regolamentazione che rendevano le cooperative molto simili alle altre imprese, chiuso su sé stesso e privo di visione.

Con riguardo invece al clima politico e culturale va ricordata la presenza in quelli stessi anni di un ampio e composito movimento sociale che esprimeva una chiara volontà di cambiamento. Come sostiene Felice Scalvini in una recente intervista parlando dei fondatori delle prime cooperative, “noi in realtà speravamo di cambiare il mondo”. Se diversi soggetti hanno iniziato a operare in varie forme collettive nel sociale è in primo luogo perché si stava creando una distanza culturale incolmabile tra la cultura allora prevalente dei servizi e le nuove sensibilità che si stavano diffondendo dopo il ‘68. Una distanza che si cercò di ridurre non solo con movimenti di protesta, come quello studentesco e operaio, ma anche con azioni dirette a costruire nella concretezza un intervento sociale a partire da presupposti radicalmente diversi da quelli proposti dalle istituzioni dominanti.

Passando al tema dei promotori – fino ad oggi il più trascurato anche dalla ricerca – è importante ricordare la natura e le caratteristiche dei fondatori non solo delle organizzazioni di volontariato ma delle stesse cooperative sociali. Le poche ricerche disponibili su questi aspetti riguardano le cooperative sociali e consentono di sostenere che:

  1. sia nelle fasi iniziali di sviluppo, che successivamente, nella grande maggioranza dei casi sono state fondate da gruppi di cittadini uniti o da obiettivi comuni o da legami di amicizia: delle 320 cooperative sociali rappresentative dell’universo intervistate nel 2007 il 51,5% dichiaravano di essere state fondate da un gruppo di persone con ideali comuni; all’opposto solo il 2,7% era stato promosso da un ente pubblico e solo il 9% da un gruppo di persone alla ricerca di lavoro;
  2. le motivazioni che hanno spinto i soci alla costituzione della cooperativa sono state in larga prevalenza la volontà di dare risposte a bisogni insoddisfatti (il 47,5% secondo l’indagine citata al punto precedente) o di offrire servizi di qualità superiore a quelli esistenti (12,4%); solo nel 7% dei casi dichiaravano di essere nate su stimolo di un ente pubblico;
  3. dalla ricostruzione (sempre nell’ambito della medesima indagine) del profilo di oltre 900 fondatori, risulta spiccata l’esistenza di legami professionali e di condivisione di esperienze associative; inoltre quasi un terzo era in possesso di laurea, nel 60,4% erano occupati prevalentemente come dipendenti in organizzazioni private (il 72%) piuttosto che in enti pubblici (solo 28%); elevate anche le percentuali di quadri, liberi professionisti e dirigenti di organizzazioni e imprese private; tra le cooperative nate negli anni ‘80 nessun fondatore operava o aveva esperienze nel settore dei servizi sociali;
  4. infine, merita ricordare che delle quasi 500 cooperative rilevate nel 1986 quasi la metà (41%) non aveva rapporti con enti pubblici e la parte restante riceveva quasi solo contributi; rapporti contrattuali più stabili come le convenzioni erano quasi inesistenti.

Tutto porta quindi a sostenere senza ombra di dubbio che le amministrazioni pubbliche hanno avuto un ruolo molto limitato nella nascita e nelle prime fasi di sviluppo (a macchia di leopardo) di volontariato e cooperazione sociale, con alcune amministrazioni che ne hanno compreso fin dall’inizio la rilevanza, sostenendoli con innovativi strumenti contrattuali come le convenzioni (cui farà poi riferimento anche la legge 381), le stesse dove i fenomeni sono oggi più diffusi e meglio organizzati.

Infine, va ricordato che fin dalle origini – fine anni ‘70 e soprattutto ‘80 – volontariato e cooperazione sociale hanno saputo organizzarsi non solamente sul piano operativo – come scelsero di fare alcuni gruppi come Capodarco e CNCA – ma dotandosi di organizzazioni di rappresentanza politica e di promozione, come il MOVI e Federsolidarietà. I due movimenti si sono confrontati in modo continuativo e crescente nel corso degli anni e hanno condiviso molte strategie, a partire dalle proposte di legge (poi divenute la 266 e la 381) che furono presentate nel 1981 quella sulla cooperazione sociale e nel 1982 quella sul volontariato. Lo dimostra una vasta documentazione, a partire dalle assemblee nazionali dei due movimenti e dalle pubblicazioni della Fondazione Zancan, oltre al forte legame personale tra i leader. Al punto che fino alla fine degli anni ‘90 diverse cooperative sono state costituite come evoluzione naturale di una preesistente organizzazione di volontariato. Fu inoltre in un seminario congiunto tra rappresentanti dei due movimenti, organizzato dalla Fondazione Zancan, che per la prima volta in Italia venne utilizzato, per rappresentare un fenomeno cha stava diventando sempre più complesso dal punto di vista organizzativo, il termine di “Terzo Sistema” (cui fu poi preferito quello di Terzo Settore). E si iniziò a considerare le varie espressioni della società civile o del “privato sociale” come un soggetto terzo rispetto a Stato e Mercato.

Solo se si tiene contemporaneamente conto di queste diverse evidenze è possibile apprezzare e interpretare correttamente ciò che è successo in quegli anni. Non sono semplicemente nate un po’ casualmente e poi riconosciute due nuove forme organizzative, distinte e promosse da interessi diversi, prima con funzioni di supplenza, poi destinatarie di processi di privatizzazione di servizi prima gestiti dal pubblico. Al contrario, si è prodotto un movimento dal basso, interno alla società civile, di uomini e donne insoddisfatte dell’assenza o della scarsa qualità dei servizi sociali, che autonomamente, senza particolari stimoli da parte di soggetti pubblici e attraverso un impegno personale gratuito, hanno inventato e dato vita ad una serie di servizi. Non vi è stato nessun processo di privatizzazione perché c’erano ben pochi servizi sociali pubblici da privatizzare (le Ipab). Il processo che si è andato formando è stato non solo diverso, ma addirittura opposto a quello anglosassone cui in troppi frettolosamente si ispirano. Infatti i finanziamenti pubblici che hanno determinato, nei decenni successivi, una decisa crescita e un rafforzamento soprattutto della cooperazione sociale sono arrivati e cresciuti solo successivamente al consolidamento e al riconoscimento giuridico, soprattutto a partire dagli anni ‘90, perché gli amministratori pubblici si sono via via convinti della necessità di garantire i servizi inizialmente proposti da volontariato e cooperative sociali e hanno preferito scegliere di affidarli a questi ultimi e alle organizzazioni di Terzo settore nate nel frattempo piuttosto che gestirli in proprio.

Solo rileggendo in questo modo le radici del Terzo settore si può apprezzare pienamente il valore rappresentato dal volontariato e della cooperazione sociale. Essi infatti:

  1. hanno dimostrato chiaramente che i cittadini possono contribuire spontaneamente e direttamente alla realizzazione e gestione di attività di interesse generale, anche molto innovative, organizzandosi nei modi opportuni, al pari e spesso meglio degli enti pubblici pur non disponendo della stessa capacità economica; e che possono farlo anche “contro” la cultura prevalente e le stesse leggi (nel caso specifico quella sulla natura mutualistica e mono-stakeholder delle cooperative e quella sulle Ipab che fino al 1988 imponeva la costituzione di una fondazione di diritto pubblico); se oggi abbiamo in Costituzione il principio di sussidiarietà e l’articolo 55 del Codice del Terzo settore lo dobbiamo al volontariato e alla cooperazione sociale;
  2. hanno contribuito a modificare in modo significativo il sistema di welfare italiano, riuscendo in breve tempo a indurre le amministrazioni pubbliche non a privatizzare i servizi che non producevano, ma a finanziare il consolidamento o l’ampliamento dell’offerta dei servizi proposti in via autonoma dal volontariato e dalla cooperazione sociale; essi hanno quindi contribuito ad aumentare la spesa sociale nei loro ambiti di impegno e non a fornire alibi alla loro riduzione, come il 90% degli articoli sul tema continua ossessivamente a ripetere; anche se ancora in misura non sufficiente, non solo se si assumono a riferimento i Paesi europei più virtuosi ma anche solo la media europea.

La cooperazione sociale in particolare:

  1. è stata la prima forma di impresa che per legge – la 381 – a statuto opera nell’interesse non solo dei suoi proprietari, ma più in generale della comunità ed in particolare dei soggetti più deboli, e quindi si caratterizza per l’etero-destinazione di parte del valore prodotto; ha così contribuito ad aprire la strada ad un generale ripensamento delle finalità dell’impresa di cui finalmente si comincia a intravvedere la luce;
  2. ha modificato gli obiettivi della forma cooperativa e quindi i destinatari della sua attività: non più solo il perseguimento dell’interesse dei soli soci (mutualità intesa come forma di solidarietà chiusa) ma anche, se non soprattutto, quello di terzi in condizioni di bisogno (solidarietà aperta) e di conseguenza ha ampliato gli ambiti di attività in cui la forma cooperativa così modificata presenta dei vantaggi specifici anche nel reperimento delle risorse; senza l’esperienza della cooperazione sociale oggi non si parlerebbe neppure di cooperative di comunità;
  3. consentendo la presenza di soci volontari e non ponendo veti all’assunzione del ruolo di socio a qualsiasi portatore di interesse, ha modificato la governance cooperativa in senso multistakehoder; la cooperativa sociale è di fatto la prima impresa multistakeholder – termine oggi diventato i moda – apparsa in un ordinamento giuridico;
  4. ha dimostrato che i servizi sociali non vanno considerati solo come una voce di spesa o delle modalità di trasferimenti in kind e che quindi non sono destinati a dipendere totalmente dalle risorse pubbliche ad essi destinati, ma sono gestibili secondo modalità imprenditoriali, quindi recuperando risorse umane (i volontari ed i cooperatori), immobiliari (edifici non utilizzati e terreni abbandonati) e finanziarie (le banche) da più fonti e gestendole in modo da creare valore destinato però non esclusivamente ai proprietari, ma alla comunità di riferimento. Ha così generato posti di lavoro aggiuntivi – spesso sottraendoli all’economia familiare o informale – soprattutto per manodopera femminile e – nel caso delle cooperative di inserimento lavorativo per persone difficili da occupare – lavori buoni, in grande maggioranza stabili e soddisfacenti (più che quelli creati da altri soggetti, inclusi quelli pubblici, dove – anche se nessuno lo dice – il ricorso ai contratti a termine e alle collaborazioni coordinate e continuative è largamente abusato);
  5. ha contribuito all’emergere del fenomeno dell’impresa sociale e successivamente alla rivalutazione dell’economia sociale a livello europeo e internazionale, promuovendo le prime iniziative di ricerca e confronto e innervando la stessa definizione di Emes, che riprende esattamente quella della cooperativa sociale italiana, soprattutto rispetto alla distribuzione parziale di utili; non a caso leggi del tutto simili o comunque ispirate alla 381 sono state approvate in numerosi Paesi europei e non solo.

Purtroppo, negli anni che sono seguiti all’approvazione delle due leggi, molte di queste innovazioni non sono state comprese e valorizzate. Amministrazioni pubbliche prigioniere dell’ideologia welfarista, ma impreparate o impossibilitate ad attivare e gestire i servizi sociali ed educativi di cui vi era bisogno hanno optato per il loro affidamento – previsto dalla legge 142 del 1990 – a organizzazioni di volontariato e soprattutto a cooperative sociali. Inizialmente ne hanno rispettato l’autonomia e garantito le risorse necessarie a garantire servizi di qualità, ma dopo l’approvazione del d.lgs. 157/1995 – applicativo in senso restrittivo della Direttiva comunitaria 50 del 1992 – hanno opportunisticamente – spesso solo per risparmiare qualche migliaio di euro – fatto crescente ricorso allo strumento dell’appalto sovente al massimo ribasso, privando progressivamente organizzazioni di volontariato e cooperative sociali di quell’autonomia organizzativa e nell’individuazione dei bisogni su cui avevano fondato il loro sviluppo.

Un processo massiccio a cui molte cooperative non hanno saputo opporsi anche per la debolezza su queste tematiche delle loro organizzazioni di rappresentanza, che però (e per fortuna) non ha interessato tutto il volontariato e tutta la cooperazione sociale: sono infatti molte le aree di intervento dove queste organizzazioni hanno mantenuto o stanno riconquistando ampi spazi di autonomia, sia nell’inserimento lavorativo (agricoltura sociale, riciclo e riuso di beni e materiali, accordi di rete con imprese private, ecc.) che nella gestione di nuovi servizi alle comunità.

La grande capacità di resilienza dimostrata poi nel corso della crisi pandemica conferma la generale tenuta del modello. Se è vero, come affermato da più parti, che il nuovo modello economico e sociale di cui si sente la necessità dovrà essere sostenibile e inclusivo, esso avrà bisogno non solo di politiche, ma anche di imprese più inclusive, come appunto hanno dimostrato di sapere essere le cooperative sociali e le altre imprese sociali in forma cooperativa per le quali si apre quindi una nuova fase di sviluppo anche, se non soprattutto, al di fuori dei settori tradizionali. Ovviamente se sapranno cogliere le opportunità che si presenteranno insistendo su almeno tre aspetti: puntando sull’originalità del modello, che consente di realizzare la partecipazione di diversi pezzi della comunità, in particolare di chi è in prima linea nel cercare di innescare processi trasformativi (ad esempio i giovani impegnati sui temi della transizione ecologica); superando il complesso di inferiorità rispetto alle altre imprese e alle amministrazioni pubbliche, favorito dalla lettura della loro evoluzione che qui si è cercato di chiarire; evitando l’errore di imitare le imprese convenzionali come da molte parti – a partire da fantomatici finanziatori – viene loro suggerito, tenendo presente che, al di là di quello che esse (incluse le società benefit e le B-Corp) e i loro sostenitori cercano di far credere, perseguono obiettivi diversi dalla coesione sociale realizzata occupandosi delle componenti più fragili delle comunità.

 

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