Non vi è alcun dubbio che il Terzo settore italiano come lo conosciamo oggi – ed in particolare la parte impegnata nei servizi di integrazione sociale e lavorativa – ha essenzialmente una duplice radice: il volontariato organizzato e la cooperazione (di solidarietà) sociale. Insieme, da un lato hanno sviluppato – a partire dagli anni ‘70 del ‘900 – riflessioni, strategie e modelli di servizi, dall’altro hanno portato avanti istanze di riconoscimento e di sostegno, tra cui in particolare le due leggi di cui quest’anno ricorre il trentennale. Due leggi che hanno poi aperto la strada anche allo sviluppo e al riconoscimento di altre forme organizzative – associazioni e fondazioni – in parte preesistenti e impegnate nella promozione della socialità, della cultura e dello sport, ed infine all’approvazione del Codice del Terzo settore, passando per leggi come quella sulle Associazioni di Promozione Sociale e sulle Onlus.
Di seguito incentrerò la riflessione soprattutto sulla cooperazione sociale, senza tuttavia dimenticare il volontariato.
Nessuno oggi mi pare metta più in dubbio la rilevanza sociale, economica e occupazionale del volontariato e soprattutto della cooperazione sociale. Ciò su cui credo le idee siano sempre più confuse sono le ragioni che ne hanno comportato lo sviluppo. Sempre più spesso si sente affermare – anche da studiosi che da tempo si occupano di questi temi – che esso è stato determinato soprattutto, se non esclusivamente, dalle politiche di “privatizzazione” o di “esternalizzazione” dei servizi sociali e che ciò avrebbe reso la cooperazione sociale (e una parte significativa del volontariato) non solo interamente dipendenti dalle risorse pubbliche e assimilati ai modelli organizzativi della pubblica amministrazione, ma anche colpevoli di avere consentito un generico “disimpegno” dello Stato sociale e una riduzione delle risorse pubbliche ad esso dedicate. Finendo sia per metterne in discussione il valore sociale e la capacità di innovazione, che per affidare lo sviluppo del settore a nuovi “esperimenti generativi” che nella maggior parte dei casi si scoprono essere comunque cooperative sociali, magari solo impegnate in attività diverse da quelle tradizionali.
Si tratta tuttavia di una lettura a dir poco (e per diverse ragioni) molto parziale e quindi fuorviante: innanzitutto perché considera solo una parte – e neppure quella maggioritaria – di un fenomeno articolato e complesso, quello della cooperazione sociale impegnata nella pura fornitura su appalto di servizi socioassistenziali (quando non di sole ore di lavoro) e, in secondo luogo, perché basata su schemi interpretativi presi a prestito da altre esperienze come quella anglosassone, e infine, perché ancora dipendente dalla convinzione – non necessariamente dichiarata – che il sistema economico sia fondato su due soli attori: il mercato e lo Stato, e che tertium non datur. Cioè sull’idea dura a morire che in determinati ambiti – quelli dei servizi di interesse generale e in particolare di welfare – possa intervenire solo lo Stato nelle sue diverse articolazioni e non siano possibili – se non poco organizzate, di breve durata e di dimensioni minimali – iniziative promosse da gruppi di cittadini che si associano liberamente per dare vita e continuità a servizi in grado di affrontare problemi sociali trascurati sia dalle imprese private che dal sistema pubblico di welfare.
Con la conseguenza di proporre analisi superficiali, che negano la portata innovativa e l’originalità dei fenomeni sia del volontariato che soprattutto della cooperazione sociale, vista spesso con sospetto – in quanto impresa – anche dai sostenitori del volontariato. Analisi che rischiano di sottovalutarne il potenziale nello sviluppo di nuovi servizi sia sociali che più in generale alla comunità, di cui – anche a seguito della pandemia – si sente un crescente bisogno. In particolare, un bisogno di creare spazi di “ascolto attivo” e di co-decisione su tematiche socialmente delicate (come ad esempio la gestione del fenomeno migratorio, la costruzione di reti di servizi socio-sanitari all’interno di un nuovo paradigma sanitario, la gestione di beni comuni), in alternativa ai fallimenti dei modelli tradizionali di democrazia rappresentativa e all’incapacità di trovare soluzioni attraverso la politica, che ormai cavalca qualsiasi tema di rilevanza pubblica per soli fini elettorali. Spazi che anche in questi ultimi anni la cooperazione sociale ha saputo individuare e gestire in maniera molto innovativa ed efficace, come nel caso dell’accoglienza di rifugiati in territori a forte vocazione identitaria, accompagnando ed “educando” la comunità verso l’ospitalità e trasformandola in un volano di sviluppo.
Il modo migliore per sottoporre queste tesi ad un serio esame critico e valutarne la tenuta è tornare alle radici dei due fenomeni, cercare cioè di capire e ricostruire il contesto in cui si sono formati, da chi sono stati promossi e se e come si sono relazionati tra loro fino all’approvazione quasi contestuale – e anche questo non è un caso – delle due leggi di riconoscimento.
Iniziando dall’analisi del contesto, è fondamentale ricostruire sia la situazione del sistema italiano di welfare in cui volontariato e cooperazione sociale si sono inseriti, sia il clima politico e culturale che caratterizzava il periodo in cui i due fenomeni si sono sviluppati.
Negli anni in cui essi si sono formati e diffusi – più come movimenti che come vere e proprie istituzioni – il sistema di welfare italiano si caratterizzava per:
Con riguardo invece al clima politico e culturale va ricordata la presenza in quelli stessi anni di un ampio e composito movimento sociale che esprimeva una chiara volontà di cambiamento. Come sostiene Felice Scalvini in una recente intervista parlando dei fondatori delle prime cooperative, “noi in realtà speravamo di cambiare il mondo”. Se diversi soggetti hanno iniziato a operare in varie forme collettive nel sociale è in primo luogo perché si stava creando una distanza culturale incolmabile tra la cultura allora prevalente dei servizi e le nuove sensibilità che si stavano diffondendo dopo il ‘68. Una distanza che si cercò di ridurre non solo con movimenti di protesta, come quello studentesco e operaio, ma anche con azioni dirette a costruire nella concretezza un intervento sociale a partire da presupposti radicalmente diversi da quelli proposti dalle istituzioni dominanti.
Passando al tema dei promotori – fino ad oggi il più trascurato anche dalla ricerca – è importante ricordare la natura e le caratteristiche dei fondatori non solo delle organizzazioni di volontariato ma delle stesse cooperative sociali. Le poche ricerche disponibili su questi aspetti riguardano le cooperative sociali e consentono di sostenere che:
Tutto porta quindi a sostenere senza ombra di dubbio che le amministrazioni pubbliche hanno avuto un ruolo molto limitato nella nascita e nelle prime fasi di sviluppo (a macchia di leopardo) di volontariato e cooperazione sociale, con alcune amministrazioni che ne hanno compreso fin dall’inizio la rilevanza, sostenendoli con innovativi strumenti contrattuali come le convenzioni (cui farà poi riferimento anche la legge 381), le stesse dove i fenomeni sono oggi più diffusi e meglio organizzati.
Infine, va ricordato che fin dalle origini – fine anni ‘70 e soprattutto ‘80 – volontariato e cooperazione sociale hanno saputo organizzarsi non solamente sul piano operativo – come scelsero di fare alcuni gruppi come Capodarco e CNCA – ma dotandosi di organizzazioni di rappresentanza politica e di promozione, come il MOVI e Federsolidarietà. I due movimenti si sono confrontati in modo continuativo e crescente nel corso degli anni e hanno condiviso molte strategie, a partire dalle proposte di legge (poi divenute la 266 e la 381) che furono presentate nel 1981 quella sulla cooperazione sociale e nel 1982 quella sul volontariato. Lo dimostra una vasta documentazione, a partire dalle assemblee nazionali dei due movimenti e dalle pubblicazioni della Fondazione Zancan, oltre al forte legame personale tra i leader. Al punto che fino alla fine degli anni ‘90 diverse cooperative sono state costituite come evoluzione naturale di una preesistente organizzazione di volontariato. Fu inoltre in un seminario congiunto tra rappresentanti dei due movimenti, organizzato dalla Fondazione Zancan, che per la prima volta in Italia venne utilizzato, per rappresentare un fenomeno cha stava diventando sempre più complesso dal punto di vista organizzativo, il termine di “Terzo Sistema” (cui fu poi preferito quello di Terzo Settore). E si iniziò a considerare le varie espressioni della società civile o del “privato sociale” come un soggetto terzo rispetto a Stato e Mercato.
Solo se si tiene contemporaneamente conto di queste diverse evidenze è possibile apprezzare e interpretare correttamente ciò che è successo in quegli anni. Non sono semplicemente nate un po’ casualmente e poi riconosciute due nuove forme organizzative, distinte e promosse da interessi diversi, prima con funzioni di supplenza, poi destinatarie di processi di privatizzazione di servizi prima gestiti dal pubblico. Al contrario, si è prodotto un movimento dal basso, interno alla società civile, di uomini e donne insoddisfatte dell’assenza o della scarsa qualità dei servizi sociali, che autonomamente, senza particolari stimoli da parte di soggetti pubblici e attraverso un impegno personale gratuito, hanno inventato e dato vita ad una serie di servizi. Non vi è stato nessun processo di privatizzazione perché c’erano ben pochi servizi sociali pubblici da privatizzare (le Ipab). Il processo che si è andato formando è stato non solo diverso, ma addirittura opposto a quello anglosassone cui in troppi frettolosamente si ispirano. Infatti i finanziamenti pubblici che hanno determinato, nei decenni successivi, una decisa crescita e un rafforzamento soprattutto della cooperazione sociale sono arrivati e cresciuti solo successivamente al consolidamento e al riconoscimento giuridico, soprattutto a partire dagli anni ‘90, perché gli amministratori pubblici si sono via via convinti della necessità di garantire i servizi inizialmente proposti da volontariato e cooperative sociali e hanno preferito scegliere di affidarli a questi ultimi e alle organizzazioni di Terzo settore nate nel frattempo piuttosto che gestirli in proprio.
Solo rileggendo in questo modo le radici del Terzo settore si può apprezzare pienamente il valore rappresentato dal volontariato e della cooperazione sociale. Essi infatti:
La cooperazione sociale in particolare:
Purtroppo, negli anni che sono seguiti all’approvazione delle due leggi, molte di queste innovazioni non sono state comprese e valorizzate. Amministrazioni pubbliche prigioniere dell’ideologia welfarista, ma impreparate o impossibilitate ad attivare e gestire i servizi sociali ed educativi di cui vi era bisogno hanno optato per il loro affidamento – previsto dalla legge 142 del 1990 – a organizzazioni di volontariato e soprattutto a cooperative sociali. Inizialmente ne hanno rispettato l’autonomia e garantito le risorse necessarie a garantire servizi di qualità, ma dopo l’approvazione del d.lgs. 157/1995 – applicativo in senso restrittivo della Direttiva comunitaria 50 del 1992 – hanno opportunisticamente – spesso solo per risparmiare qualche migliaio di euro – fatto crescente ricorso allo strumento dell’appalto sovente al massimo ribasso, privando progressivamente organizzazioni di volontariato e cooperative sociali di quell’autonomia organizzativa e nell’individuazione dei bisogni su cui avevano fondato il loro sviluppo.
Un processo massiccio a cui molte cooperative non hanno saputo opporsi anche per la debolezza su queste tematiche delle loro organizzazioni di rappresentanza, che però (e per fortuna) non ha interessato tutto il volontariato e tutta la cooperazione sociale: sono infatti molte le aree di intervento dove queste organizzazioni hanno mantenuto o stanno riconquistando ampi spazi di autonomia, sia nell’inserimento lavorativo (agricoltura sociale, riciclo e riuso di beni e materiali, accordi di rete con imprese private, ecc.) che nella gestione di nuovi servizi alle comunità.
La grande capacità di resilienza dimostrata poi nel corso della crisi pandemica conferma la generale tenuta del modello. Se è vero, come affermato da più parti, che il nuovo modello economico e sociale di cui si sente la necessità dovrà essere sostenibile e inclusivo, esso avrà bisogno non solo di politiche, ma anche di imprese più inclusive, come appunto hanno dimostrato di sapere essere le cooperative sociali e le altre imprese sociali in forma cooperativa per le quali si apre quindi una nuova fase di sviluppo anche, se non soprattutto, al di fuori dei settori tradizionali. Ovviamente se sapranno cogliere le opportunità che si presenteranno insistendo su almeno tre aspetti: puntando sull’originalità del modello, che consente di realizzare la partecipazione di diversi pezzi della comunità, in particolare di chi è in prima linea nel cercare di innescare processi trasformativi (ad esempio i giovani impegnati sui temi della transizione ecologica); superando il complesso di inferiorità rispetto alle altre imprese e alle amministrazioni pubbliche, favorito dalla lettura della loro evoluzione che qui si è cercato di chiarire; evitando l’errore di imitare le imprese convenzionali come da molte parti – a partire da fantomatici finanziatori – viene loro suggerito, tenendo presente che, al di là di quello che esse (incluse le società benefit e le B-Corp) e i loro sostenitori cercano di far credere, perseguono obiettivi diversi dalla coesione sociale realizzata occupandosi delle componenti più fragili delle comunità.
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