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Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2021

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Alle sorgenti dell'impresa sociale: percorsi di lettura

Nel trentennale della 381/1991, molti sono i modi per raccontare la nascita, l’evoluzione e l’affermazione della cooperazione sociale nel nostro Paese: in primo luogo quello dei numeri, con le imprese che si moltiplicano, estendono le proprie attività e grazie ad esse imprimono una svolta di cambiamento al nostro Paese; poi quello dell’evoluzione normativa, dalle prime regolamentazioni regionali, alla 381/1991 ai successivi sviluppi; ma oggi Impresa Sociale sceglie di esplorare, senza pretesa di completezza e anzi nella certezza che ogni ricostruzione di questo tipo rischia di tralasciare elementi importanti, i contributi culturali che trent’anni fa hanno consentito all’impresa sociale di farsi largo tra stereotipi ostili (“solo l’intervento pubblico può garantire i diritti dei cittadini”; “se il sociale diventa impresa perde la sua anima”, ecc.), ponendo con forza nel dibattito pubblico il tema di questa nuova forma di impresa che stava imprimendo un così deciso cambiamento sociale. È proprio all’emersione culturale dell’impresa sociale è dedicata questa sezione, in cui si prova ad individuare un certo numero di prodotti culturali (libri, articoli, eventi) che hanno dato forma all’impresa sociale come ora la conosciamo e ne hanno legittimato la presenza tra gli attori rilevanti nel welfare e nelle politiche del lavoro, in Italia e nel resto d’Europa. Ci si concentrerà sulla fase in cui l’idea di impresa sociale, grazie anche a questi contributi di pensiero, ha preso forma nel nostro Paese, selezionando e commentando contributi risalenti a più di 25 anni fa, alla fase precedente alla 381/1991 in cui il fenomeno è emerso o agli anni immediatamente successivi. 


La cooperazione di solidarietà sociale: prime riflessioni su un settore emergente

Questa ricerca, coordinata da Carlo Borzaga, costituisce la prima rilevazione estesa multiregionale, composta da un’indagine nazionale del 1984 e di un approfondimento su alcune regioni del Nord del 1986, i cui risultati sono stati poi pubblicati su diversi canali (tra cui la rivista Sociologia del Lavoro nel 1988 e il numero 1 dei Quaderni della rivista della cooperazione nel 1992). Negli anni in cui inizia a proliferare una produzione normativa regionale sulle “cooperative di solidarietà sociale”, viene condotta una prima ricerca in cui, nell’assenza di elenchi o registri, si tentava di delineare un’immagine della cooperazione di solidarietà sociale nel suo complesso, fornendo una preziosa istantanea di un fenomeno imprenditoriale nel momento di forte espansione iniziale e in cui esso andava acquisendo un’individualità autonoma da iniziative solidaristiche su base volontaria, a cui era ancora comunque fortemente ancorata (si consideri che tra il 1984 e il 1986 queste cooperative avevano in media 19 volontari e 15 dipendenti). È in quegli anni, in occasione della Prima assemblea delle cooperative di solidarietà sociale di Assisi del 1985, che Felice Scalvini scrive:

«È necessario che la cooperativa divenga realmente il luogo del superamento degli ‘opposti snobismi’ che ancora condizionano i rapporti tra volontari ed operatori sociali professionali. Spesso gli uni tendono a valorizzare le motivazioni e gli altri la professionalità come elementi giustificanti una sorta di egemonia e di controllo di una componente sull’altra […] Le cooperative di solidarietà sociale non possono non rifuggire da simili impostazioni proprio perché la loro opzione naturale, sotto il profilo dei valori, del metodo e dei criteri imprenditivi, è di dare corpo e organizzazione alle risorse libere, di volontariato e di professionalità, che una comunità locale è in grado di esprimere, per rispondere ai bisogni dei propri componenti più deboli e indifesi».

Il libro ritrae un mondo in forte crescita: l’analisi dei bilanci mostra tra il 1983 e il 1985 un aumento del fatturato complessivo di oltre il 150%, insomma più che raddoppiato, così come crescono a ritmi esponenziali volontari, soci, lavoratori ed è visibile la capacità di queste cooperative di lavorare per l’allargamento della sfera dei diritti in un welfare ancora per molti versi acerbo.

È interessante notare che in una fase pre-381 non viene ancora concettualizzata la suddivisione oggi pensata come naturale in cooperative di servizi alla persona e cooperative di inserimento lavorativo, ma si lavora su una tripartizione che distingue «1) le cooperative di solidarietà sociale, il cui scopo prevalente è l’erogazione, a fini di solidarietà, di servizi socio-sanitari, ivi compreso l’inserimento lavorativo, stabile o temporaneo, di soggetti svantaggiati 2) le cooperative di produzione e lavoro integrate il cui scopo sociale è di favorire l’integrazione lavorativa stabile di soggetti svantaggiati (generalmente con disabilità permanenti) nelle attività produttive organizzate dalle cooperative stesse e 3) le cooperative di servizi sociali, che possono essere a tutti gli effetti definite come cooperative di produzione e lavoro che hanno come scopo sociale quello di garantire ai soci, professionalmente qualificati, benefici economici e occupazionali attraverso l’erogazione di servizi sociali». Ma il ragionamento sottostante a tale distinzione, pur non recepito a livello normativo, ha continuato ad animare in questo trentennio il dibattito interno alla cooperazione sociale: la concezione dell’inserimento lavorativo e il suo rapporto con percorsi di crescita ed emancipazione, la tensione tra solidarietà e professionalizzazione sono temi che continuano ad accompagnarci anche oggi. 


Il settore emergente: il settore non profit in una prospettiva comparata - Dimensioni economiche del settore non profit in Italia, 1994

Chi ha ancora, nel proprio archivio, i fascicoli originali di questa ricerca coordinata a livello internazionale da Lester Salamon e Helmut Anheier e per l’Italia, da Giampaolo Barbetta per IRS e Università Cattolica? Si tratta della prima ricerca comparata sul settore non profit nei cinque continenti, fondamentale per tanti motivi. Diede alle imprese sociali che si stavano affermando nel nostro Paese la consapevolezza di essere parte di un movimento molto più esteso di quanto potessero immaginare, che dava lavoro – nella maggior parte dei Paesi studiati – a più persone rispetto alle più grandi e rinomate imprese e che era in crescita significativa in tutto il mondo, dal momento che assicurava una parte significativa dei nuovi occupati.

Restituì l’immagine di un sistema che, al netto delle peculiarità locali, aveva imboccato in modo deciso la via del consolidamento economico e aveva assunto caratteri imprenditoriali, dal momento che, accanto a donazioni e milioni di equivalente full time volontari, si trovavano nei sette Paesi in cui la ricerca era stata più approfondita ben 12 milioni di lavoratori e un’assoluta prevalenza di ricavi da vendita di servizi. Trasmise altresì la consapevolezza che nel nostro Paese il non profit era al tempo stesso molto rilevante – 418 mila lavoratori nel 1991, pari all’ 1,8% dell’occupazione nazionale – ma con grandissimi margini di crescita, come dimostravano i dati degli Stati Uniti (6,8% dell’occupazione nazionale) e di altri Paesi in cui il non profit era più sviluppato.

Da un punto di vista metodologico inaugura il tentativo – che sarà replicato a livello europeo e riferito allo specifico delle imprese sociali – di trovare criteri sostanziali utili a comparare organizzazioni sorte in contesti giuridici e culturali molto diversi così da poterle qualificare o meno come appartenenti all’universo non profit. Pochi anni dopo – nel 2001 su dati 1999 – L’Istat iniziò a raccogliere dati sulle istituzioni non profit e dal 2016 il censimento è divenuto permanente.


L’impresa sociale, una chance per l’Europa, 1995

Ricerca realizzata dal Consorzio CGM e coordinata da Carlo Borzaga, presentata a Bruxelles nel 1995. Anche se probabilmente non sono molte le copie di questo volume prodotto in modo artigianale sopravvissute alle insidie del tempo, si tratta di una pubblicazione fondamentale per diversi motivi. Innanzitutto, essa costituisce il primo caso di analisi sistematica dell’impresa sociale in diversi Paesi europei, dando così l’idea di un movimento che andava sviluppandosi, pur all’interno di cornici giuridiche e tradizioni culturali molto diverse, in tutta Europa.

Questo porterà, negli anni successivi, grazie al lavoro di Carlo Borzaga e di Jacques Defourny, alla formazione di EMES, una rete di ricercatori sul tema dell’impresa sociale a livello europeo, che sei anni più tardi, nel 2001, pubblicherà per Routledge The Emergence of Social Enterprise, pubblicato in Italia come L’impresa sociale in prospettiva europea (liberamente scaricabile dal sito di Euricse), in cui si giungerà al primo tentativo di definizione di impresa sociale funzionale a identificare e comparare l’impresa sociale nei diversi contesti del continente.

Guardando questo volume da una prospettiva nazionale, esso è importante per due motivi. Il primo è che ha contribuito a diffondere tra i ricercatori europei l’impresa sociale come eccellenza del nostro Paese, dal momento che lo sviluppo della cooperazione sociale ha rappresentato – e per molti versi rappresenta tutt’ora – la punta più avanzata di questo fenomeno. Il secondo è che questa pubblicazione, uscita poco dopo l’approvazione da parte del Belgio della norma sulle “Società senza fini lucrativi”, ci indusse a iniziare a ragionare sulla possibilità di un perimetro dell’impresa sociale più esteso rispetto alla cooperazione sociale.

Ma L’impresa sociale, una chance per l’Europa è importante anche da un punto di vista del suo apporto teorico; sino ad allora era del tutto prevalente, tra gli studiosi del non profit, rifarsi principalmente alle teorie anglosassoni ancorate al non distribution constraint, il vincolo alla non distribuzione degli utili che una quindicina di anni prima Henry Hansmann aveva proposto come fondamento delle nonprofit enterprise. In questo volume viene portata all’attenzione dei ricercatori europei una visione diversa, che pone a fondamento dell’impresa sociale la governance multistakeholder almeno con la stessa enfasi del vincolo alla non distribuzione degli utili. Tale teoria, che ha sviluppato in modo originale e adattandola al contesto europeo l’intuizione di Avner Ben-Ner, ha caratterizzato – emancipandola dalla mera riproposizione delle impostazioni d’oltre oceano – la visione del fenomeno dell’impresa sociale nel nostro continente. 


Primo Rapporto sulla cooperazione sociale, 1994

È un piccolo libretto di colore giallo vivo – salvo gli sbiadimenti del tempo – curato da Carlo Borzaga, Stefano Lepri e Felice Scalvini e pubblicato dal Consorzio Nazionale Gino Mattarelli nel 1994 che fotografa la cooperazione sociale italiana di inizio anni Novanta; contiene elaborazioni su dati economici – rigorosamente in Lire – e organizzativi delle cooperative sociali relative agli anni dal 1990 al 1993.

Vi erano in quegli anni, secondo gli archivi del Ministero del Lavoro poco più di 2.000 cooperative sociali, in forte crescita da un anno all’altro; gli autori, utilizzando per la prima volta i dati di Confcooperative, Legacoop e CGM, proposero la prima stima organica dell’entità del fenomeno della cooperazione sociale. Grazie a questi lavori pionieristici sappiamo stimare non solo il numero di cooperative sociali allora presenti ma il loro fatturato, la composizione del loro conto economico e stato patrimoniale, il numero di addetti, di volontari, di soci, di lavoratori svantaggiati, le differenze tra cooperative di servizi alla persona e di inserimento lavorativo e tante altre cose.

Al primo rapporto ne seguirono altri tre editi da CGM, l’ultimo dei quali pubblicato nel 2005 e negli anni successivi sono stati diffusi ulteriori lavori di questo tipo da parte delle centrali cooperative; Iris Network ha invece pubblicato quattro successive edizioni del Rapporto sull’impresa sociale in Italia, l’ultima nel 2020. Ciascuno di questi volumi ha a suo modo contribuito mettere a fuoco un fenomeno in continua evoluzione.

L’intuizione per cui questo Primo Rapporto merita la menzione è l’avere investito – in un’era ancora in parte pre-digitale, se si pensa che gli archivi della Direzione Generale della Cooperazione erano costituiti da fogli cartacei inviati dalle diverse Regioni e archiviati in modo approssimativo dentro faldoni – sulla necessità di descrivere la cooperazione sociale attraverso dati e numeri: la ricerca di una base solida, non semplicemente narrativa, per cogliere le evoluzioni del fenomeno e documentare la rilevanza che stava assumendo nel nostro Paese. Probabilmente, se non fosse stato possibile avere a portata di mano questi numeri – che hanno costituito un riferimento per una generazione di ricercatori, tesisti, rappresentanti del movimento cooperativo ecc. – sarebbe stata molto più tenue la capacità della cooperazione sociale di affermarsi come soggetto di rilievo nel welfare e nelle politiche del lavoro. E, vi è da dire con un certo rammarico, questa intuizione non si è ancora tradotta, ad una trentina d’anni di distanza, in una raccolta continua e sistematica di dati che, con i mezzi odierni, potrebbero agevolmente essere rilasciati in forma open ai ricercatori, cosa che contribuirebbe in modo decisivo e allora impensabili alla ricerca su questi temi.


Le cooperative che fecero l’impresa (e parlarono di giustizia sociale)

Volevamo soltanto cambiare il mondo è del 1992, L’impresa sociale è del 1994, il film Si può fare è del 2008, quindi di molti anni dopo, ma riprende e diffonde al grande pubblico gli eventi e le sensibilità di quegli anni. Sono le narrazioni, per parafrasare un altro film, delle cooperative che fecero l’impresa, in tutti i sensi: nel senso di dare vita ad imprese in molti casi, ancora oggi esistenti e riconosciute unanimemente come esempi di eccellenza e nel senso di mostrare al mondo una verità tanto semplice quanto impensabile sino a che qualcuno non iniziò a praticarla: che anche i matti, le persone sino a quel momento viste come fonte di pericolo e quindi da rinchiudere dietro alte mura, potevano integrarsi nella società e grazie al lavoro conquistare la loro autonomia.

Rappresentano il caso forse più riuscito di realizzazione dell’utopia di Basaglia e più in generale sono il simbolo principale di quell’ampio movimento che ha rivoluzionato un sistema assistenziale prima basato su segregazione e custodialismo, che fa della cooperativa “uno dei contraenti di un patto sociale e politico, insieme a quanti vogliono superare il manicomio e porsi dalla parte dei ricoverati che intraprendono un cammino di liberazione” in cui “il salario era occasione di riscatto” (La Nuova cooperativa, Volevamo soltanto cambiare il mondo, 1992).

Questi libri restituiscono, oltre alla narrazione della conquista dell’autonomia, l’immagine di imprese votate al cambiamento e alla costruzione di una società inclusiva, mettendo al centro la giustizia sociale.

«Ciò che accade in questo universo magmatico delle imprese non profit va considerato rispetto alla capacità di rompere sia le leggi mercantili della domanda e dell’offerta per cui il destinatario è un consumatore […] sia di converso le leggi istituzionali della prestazione burocratica, per cui il destinatario è un assistito […] L’impresa sociale investe sul sociale, ma per produrre giustizia sociale. Al cosiddetto terzo settore – il volontariato, le risorse di altruismo, le iniziative di solidarietà, le cooperative sociali, le imprese non profit – è riconosciuta un’importanza crescente soprattutto perché esso avrebbe la capacità di assolvere quei compiti di erogazione di beni e servizi ai soggetti più deboli e svantaggiati […] Ma questi compiti sono sorretti da principi caritativi, economici o di redistribuzione, equità, giustizia sociale? Che cosa garantisce che si dia effettivamente redistribuzione? Che fine fa quell’idea di giustizia sociale che il welfare state ha radicato nelle nostre culture?» (De Leonardis, Mauri e Rotelli, L’impresa sociale, 1994).

Il rapporto dell’impresa sociale con il concetto di giustizia sociale è stato altalenante: ora centrale, ora sopravanzato da altre istanze. Ecco il motivo per cui non si può fare a meno di ricordare questo pezzo di storia.


Già allora, la partnership

Oggi la coprogrammazione e la coprogettazione sono al centro del dibattito pubblico, ma già sfogliando le pubblicazioni di inizio anni Novanta si ritrovano numerosi materiali su questo tema. Ne sia un esempio queste parole a commento della legge 381/1991 appena approvata:

«I soggetti pubblici si trovano così ad avere un interlocutore omogeneo rispetto ai fini e fortemente caratterizzato per quanto concerne il sistema delle garanzie e delle tutele. Con un siffatto soggetto va costruito un rapporto paritario, nel quale riconoscimento, definizione ed esecuzione dell’azione comune, controllo, vengono realizzati su un piano di reciprocità […] il rapporto tra impresa e soggetto pubblico può iniziare ad essere quello tra due partner». (Felice Scalvini, “La nuova legge sulle cooperative sociali: alcune chiavi interpretative”, Impresa Sociale, n. 4/1991).

Tra i tanti articoli della serie rossa di Impresa Sociale dedicati al partenariato tra soggetti pubblici e imprese sociali – l’editoriale del numero 2, pubblicato a inizio 1991, era appunto intitolato La partnership pubblico - imprese sociali – si sceglie di menzionare l’articolo di Eugenio Mele uscito sul numero 5 del marzo 1992 Convenzioni degli enti pubblici con le cooperative sociali, un originale tentativo di ampliare gli spazi di applicazione delle convenzioni per l’inserimento lavorativo, parte di un dibattito che avrebbe portato, nel corso degli anni Novanta, alcune importanti città ad approvare atti regolamentari per diffondere le pratiche di convenzionamento, ad esempio attraverso sistemi di quote di commesse pubbliche dedicate all’inserimento lavorativo (es. il regolamento di Torino del 1998) e tentativi di strutturare un partenariato tra cooperazione sociale e enti locali per la realizzazione di servizi pubblici locali, che aveva trovato nell’evento “La città solidale” del 1995 a Reggio Emilia il suo punto più alto.

È solo il caso di notare che se allora si parlava di inserimento lavorativo più che di servizi alla persona era solo perché il partenariato, in questi ultimi, era allora considerato scontato laddove fossero presenti enti di Terzo settore; semmai si trattava di individuare un modello di welfare che includesse a pieno tiolo anche questi soggetti, il Welfare mix per riprendere il titolo di un libro del 1993 curato da Ascoli e Pasquinelli.

Poi, con il progressivo travaso delle normative europee in tema di concorrenza – la direttiva CE 92/50 è del 1992, il suo recepimento italiano è attuato con il d.lgs. 157/1995 – si inaugurò un lungo ventennio all’insegna della concorrenza, che restrinse progressivamente gli spazi di partenariato sino ad identificarli, alla metà degli anni Dieci, come sinonimo di collusione e, oltre a orientare la cultura degli amministratori pubblici, forse cambiò anche il codice genetico di una parte delle imprese sociali. Poi con l’art. 55 del Codice del Terzo settore si apre un’altra storia, ma questi sono fatti recenti.


Iniziative locali di sviluppo e occupazione

Si tratta di una inchiesta della Commissione Europea pubblicata nel 1995, in qualche modo figlia del celebre libro bianco di Jacques Delors Crescita competitività e occupazione del 1993. In un’Europa alla ricerca di una strategia di sviluppo economico non disgiunta dal miglioramento delle condizioni sociali – e quindi in primo luogo in grado di garantire occupazione – questo report individua una strada che offrirà all’impresa sociale che andava in quegli anni affermandosi la consapevolezza di essere sulla via giusta, di essere effettivamente impegnata sul fronte dove potevano generarsi benessere per i cittadini e una consistente occupazione aggiuntiva.

L’espressione usata nell’inchiesta è quella dei giacimenti occupazionali, 17 aree di attività in cui emerge la possibilità di creare un’occupazione consistente – milioni di posti di lavoro – grazie ad azioni che influiscono direttamente sulla qualità della vita dei cittadini e che vengono sviluppate attraverso iniziative imprenditoriali fortemente radicate nel tessuto locale.

Alcune di queste aree sono quelle che vedono come principali protagoniste le imprese sociali (i servizi domiciliari a persone anziane, la custodia dei bambini, l’aiuto a giovani in difficoltà), altre insistono su spazi allora limitrofi a quelli dell’impresa sociale (l’alloggio, l’ambiente, il turismo, la rivalutazione di spazi pubblici urbani, la valorizzazione del patrimonio culturale), ma in cui già diverse imprese sociali avevano al tempo iniziato a sperimentarsi e che oggi sono a pieno titolo nel loro raggio di azione. Politiche di sviluppo basate appunto su iniziative locali in questi ambiti di attività sono confrontate con le politiche di assunzione da parte della pubblica amministrazione o con tradizionali interventi keynesiani, rivelandosi assai più efficaci.

Insomma, era come dire alla cooperazione sociale che aveva proprio scelto la strada giusta. Sviluppo sociale, crescita economica, occupazione diffusa erano nelle mani di soggetti capaci di far leva sul proprio radicamento locale e sulla vocazione imprenditoriale: quale modo migliore per descrivere la cooperazione sociale e le sue aspirazioni?


Gli inizi: Giuseppe Filippini

Alla guida di quella che spesso è indicata come la prima cooperativa sociale italiana – la San Giuseppe di Brescia, nata nel 1963 – Giuseppe Filippini è tra le figure che hanno caratterizzato il dibattito della nascente cooperativa di solidarietà sociale. I suoi interventi ad inizio degli anni Ottanta, in cui argomenta come questa nuova forma di cooperativa sia non riconducibile a quelle allora esistenti e mal tollerata da un contesto giuridico che non concepisce l’idea della mutualità esterna, sono una preziosa testimonianza del mondo cooperativo nel decennio che intercorre tra la prima proposta di legge in materia firmata dall’On Salvi e la 381/1991:

«Siamo alla fine degli anni cinquanta, quando a cooperatori che avevano fino a quel momento cercato di rispondere ai bisogni dell’occupazione, della casa, della cultura […] si pone l’urgenza di fare qualcosa per rispondere ai nuovi bisogni emergenti dal corpo sociale, bisogni diversi ma forse ancor più drammatici dei primi […] Si comincia a parlare ed a fare una lavoro associato, disinteressato, solidale a servizio di persone che sono nel bisogno: non più cioè una mutualità tra noi (un aiuto vicendevole per servire interessi o finalità nostre) ma una solidarietà con gli altri (un aiuto vicendevole, disinteressato per servire i bisogni degli altri).

[…] Un istituto per bambini in difficoltà familiari li “assiste” […] ma quel bambino rimane una realtà sempre al di fuori dell’istituto che lo ospita, il quale istituto ha le sue esigenze: chiusura periodica nelle festività e durante i mesi estivi, età di ammissione e dimissione dell’assistito... Ma la cooperativa di solidarietà sociale che apre una “Casa-famiglia” per minori in difficoltà ha ben altro atteggiamento. Non assiste il bambino, ma gli è solidale. Il programma degli interventi lo fanno le necessità, la concreta situazione del minore, per accogliere il quale o per dimetterlo non ci sono date né tempo […] se egli accuserà dei deficit fisici o psicologici o d’altro, la cooperativa dovrà farsi carico anche di questi, preoccupandosi di trovare soluzioni idonee – vicine o lontane – comunque rispondenti alle necessità del figliolo. E la vita associativa, morale, culturale, sportiva, ricreativa, gli interessi artistici […] a fianco del soggetto, che non chiamo più minore, perché questa solidarietà può continuare anche oltre il diciottesimo anno, se ciò è necessario o anche soltanto opportuno. Sempre con la prospettiva, però, che quel figliolo dovrà, appena possibile, trovare una sua collocazione all’esterno della Casa, anche se, ovviamente, potendo sempre contare su chi gli ha voluto bene. E quando il nostro amico è in grado di camminare nella vita ed ha una professione od un mestiere in mano […] la Cooperativa si sente sempre impegnata ad aiutarlo non solo nel cercarsi un’occupazione, ma nel fornirgli anche i mezzi per una sistemazione, se di questa ha bisogno». (Giuseppe Filippini, Nodi giuridici da sciogliere, Seminario Fondazione Zancan, Malosco, 19-25 luglio 1981).

Quando la 381/1991 fu approvata non la apprezzò più di tanto: pur consapevole che si era trattato di un necessario compromesso, l’idea di limitare la presenza di volontari al di sotto del 50% gli parve un tradimento e la stessa denominazione cooperative sociali, con espunto il riferimento alla solidarietà, lo trovava fortemente contrario. Ma al di là di questo, è preziosa la descrizione che ci ha lasciato del passaggio da una fase custodialistica alla centratura degli interventi sulla persona in un welfare che stava cambiando.


Quando si inizia a parlare di Impresa Sociale

Quando è stato inventato il termine “Impresa sociale”? Quando è diventato così forte, dal punto di vista identitario, da ispirare il nome della nostra rivista ben 15 anni prima che una legge desse una definizione giuridica di questa espressione?

Nella seconda metà degli anni Ottanta ritroviamo discorsi pubblici, articoli che iniziano a fare riferimento esplicito all’impresa sociale, delineando un posizionamento di questo nuovo soggetto in termini di alterità rispetto allo Stato e al mercato, come testimoniano gli interventi di Felice Scalvini tra il 1987 e il 1988:

«La cooperazione, quella in cui crediamo […] è imprenditoria sociale […] Mentre è oramai unanimemente condiviso che l’impresa tradizionale ha come scopo la massimizzazione del profitto nel lungo periodo, le cooperative di solidarietà sociale hanno come fine la massimizzazione nel lungo periodo della loro utilità sociale. La cooperativa di solidarietà sociale si pone […] nella condizione di dover gestire risorse limitate e costose in funzione della produzione della miglior risposta possibile ad un determinato bisogno sociale rilevante […] ritenendo che il proprio compito consista nel soddisfacimento [di questo bisogno], realizzato nel modo più economico ed efficiente possibile. Non “più mercato” e nemmeno “più privato” nei servizi sociali, bensì, a parer nostro, “più impresa sociale”, vale a dire più imprese con finalità solidaristiche ed organizzate democraticamente che sappiano realizzare nel modo più efficiente, innovativo ed economico possibile buoni servizi, compatibilmente con le risorse disponibili […] non è sufficiente enunciare i fini; anzi, proprio i fini ultimi possono divenire il luogo delle declamazioni, attraverso le quali giustificare le nostre inadeguatezze, le nostre ignoranze, le nostre inettitudini e quindi, inesorabilmente, le nostre sconfitte. Un imprenditore non può muoversi al di fuori di una piena e lucida consapevolezza della realtà: diversamente è destinato al fallimento, ed il fatto di perseguire obiettivi sociali non può rappresentare un’attenuante, anzi, costituisce una ragione di ancor più grave responsabilità».

Non tutti, nel Terzo settore, la presero bene: vi fu chi la considerò una variante dei fenomeni di privatizzazione che in quegli anni prendevano vigore, una forma di contrapposizione tra pubblico e privato, dove solo al secondo è attribuita la capacità di essere efficiente. Ma al tempo stesso nel mondo della cooperazione sociale l’idea di impresa diventava sempre più un elemento centrale della propria identità.

«L’assumere in modo sempre più definito e consapevole l’identità di imprese sociali significa anche lanciare una sfida volta a dimostrare come l’area dell’intervento sociale possa rappresentare nel nostro paese un’area di innovazione ed efficienza. Innanzitutto efficienza, così da evidenziare una volta per tutte, se possibile, quanto sia inutile e fuorviante interrogarsi se vi siano possibilità reali di coniugare solidarietà ed efficienza. Noi sappiamo che l’inefficienza è una imperfezione della solidarietà, talvolta talmente grave da annullarla […] la solidarietà non può che essere efficiente, cioè attenta ad ottenere i migliori e più consistenti risultati gestendo al meglio le risorse disponibili: diversamente si tratta di solidarietà monca, votata all’insuccesso e all’inutilità e quindi irrispettosa e irresponsabile nei confronti delle persone a favore delle quali dice di voler operare».


Impresa Sociale – dal 1990 ad oggi

Certo che potrebbe apparire, come si dice oggi, autoreferenziale inserire in questo Pantheon la rivista Impresa Sociale, ma è proprio difficile farne a meno, laddove si voglia ricostruire l’affermazione culturale di questo fenomeno nei primi anni Novanta.

Il numero zero della rivista allora edita da CGM uscì nell’ottobre 1990, sotto la direzione di Felice Scalvini e Stefano Lepri, un anno prima che la legge 381/1991 vedesse la luce, e si presentò sin da subito come luogo di dibattito culturale, ma anche di diffusione e confronto di esperienze, anticipando la doppia vocazione che ancora oggi caratterizza la rivista e Iris Network.

Il numero quattro merita una speciale menzione: uscito all’indomani dell’approvazione della legge 381/1991 raccoglie in presa diretta i commenti dei protagonisti, anticipando sin da allora i temi che avrebbero accompagnato il successivo dibattito.

Resa facilmente fruibile grazie ad un’opera di digitalizzazione alla fine degli anni Novanta – ma chi ne possiede una copia cartacea originale non la venderebbe per nulla al mondo – la serie rossa di Impresa Sociale descrive in modo ineguagliabile il dibattito sul tema sviluppatosi in quegli anni, ospitando le migliori firme dell’epoca che volentieri la sceglievano per proporre contenuti di livello con linguaggio accessibile e ripercorrendo i principali temi intorno ai quali il mondo dell’impresa sociale andava costruendo la propria identità. Se dal Nord al Sud si sviluppò un’idea condivisa di impresa sociale – dal “campo di fragole” al progetto di inserimento lavorativo, dal rapporto con gli enti pubblici agli sviluppi normativi – se, quindi, si creò un movimento della cooperazione sociale che, al di là delle tante differenze, condivideva valori, obiettivi, elementi di consapevolezza culturale, è senz’altro in buona parte merito della serie rossa di Impresa Sociale.

 

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