Un nuovo dossier raccoglie storie che combinano l'eccellenza di impresa e un peculiare rapporto con il proprio territorio: un investimento reciproco tra impresa sociale e la sua comunità governato dalla reciprocità, che diventa parte integrante del modello di sostenibilità di queste imprese.
Cosa ci può ancora sorprendere, nelle imprese sociali? Le abbiamo viste, innovare, svilupparsi, resistere quando il resto dell’economia arranca sotto i colpi della crisi. Le abbiamo viste impegnate durante l’emergenza sanitaria nell’inventare nuovi interventi per far fronte ai bisogni delle persone. Le abbiamo viste raccogliere nuove energie giovanili da trasformare in impresa che agisce a vantaggio della comunità.
In questo dossier si inizia un ulteriore racconto, una sfumatura in più che ci può aiutare a comprendere la complessità del mondo delle imprese sociali.
Protagoniste di questo dossier non sono startup, ma imprese solide e affermate. Vi lavorano centinaia di persone, hanno fatturati significativi e buoni risultati economici. Sono, nel proprio settore, eccellenti per qualità dei servizi realizzati; le due che operano in un ambito, quello ambientale, frequentato anche da imprese for profit, hanno dimostrato di saper competere ad armi pare con qualsiasi soggetto. Sono imprese che innovano, investono, rilanciano. Sono ben strutturate ed organizzate, hanno processi di produzione efficienti.
Ma non è di questi aspetti – dell’eccellenza di impresa in quanto tale - che, principalmente, si parlerà in questo dossier; semmai essi sono una delle premesse che indagare un fenomeno che a prima vista potrebbe apparire poco comprensibile.
L’elemento dissonante, da cui prende le mosse questo dossier, è che queste imprese, a prima vista, sprecano risorse; in particolare dedicano risorse – economiche, ma anche organizzative - non occasionali ma consistenti ad azioni che parrebbero avere un significato economico dubbio e che riguardano la relazione con la propria comunità territoriale: organizzano una dispensa alimentare, un banco di comunità, investono nella cultura, realizzano film, gestiscono radio locali, e così via. Attività che, nello stile di queste imprese, sono gestite con attenzione alla qualità dei prodotti, ma che sicuramente sembrano poco remunerative da un punto di vista economico e non così coerenti con un disegno di ottimizzazione organizzativa.
Come interpretare tutto ciò?
Non ci sorprenderebbe trovare azioni di questo tipo in piccole imprese sociali con caratteri semi – associativi, nate da attività di animazione del territorio o di volontariato, dove l’aspetto economico è in fondo secondario, ma, come è evidente dal resto del racconto, non è questo il caso.
Si potrebbe leggere tutto ciò con l’ottica dell’investimento di immagine, con una strategia comprensibile anche in un’impresa for profit, ma, anche ad uno sguardo sommario ai loro siti, queste attività con dubbio significato economico – laddove presenti - figurano in modo laterale e quasi dimesso, come se fossero così naturali da non meritare più di tanto di essere evidenziate, rendendo chiaro che non si tratta di mere operazioni di immagine.
Si potrebbe, ancora, interpretare queste azioni dandone un’interpretazione con categorie etiche: sono imprese efficienti e produttive, ma sono anche imprese “buone”, che quindi “regalano” risorse al proprio territorio; insomma, potremmo interpretare queste azioni alla stregua di donazioni disinteressate coerenti con la mission fondativa di queste imprese. Ma anche questa interpretazione sarebbe, a ben vedere, quantomeno riduttiva.
Infine, si potrebbe pensare che si tratti di una sorta di divertissement, uno svago piacevole ma in fondo laterale rispetto alle attività “vere”; ma in realtà le attività di cui si parla sono impegnative per le imprese che le realizzano, arrivano ad esito di processi interni coinvolgenti, richiedono investimento, mobilitazione organizzativa, energie dedicate.
A ben vedere queste azioni hanno in realtà un significato diverso e più profondamento connesso con gli aspetti core della gestione di queste imprese. Per quanto, considerate di per sé, come centro di costo autonomo, le attività di cui parliamo abbiano al massimo una redditività molto limitata (quando non siano pagate dai margini realizzati in altri settori), esso sono parte integrante del peculiare equilibrio economico di queste imprese dove il conto economico leggibile tramite le scritture contabili – che registra le transazioni relative all’offerta e remunerazione dei servizi - riesce solo parzialmente ad interpretare l’effettivo sistema di complessiva sostenibilità che le caratterizza. Accanto vi è uno scambio – o meglio, un sistema di reciprocità che coinvolge impresa sociale e sua comunità di riferimento – che la scienza economica fatica a cogliere appieno e soprattutto a descrivere con equivalenti monetari.
Una parte del conto economico reale di queste imprese è in altre parole costituito ricavi non monetizzabili, che derivano dal commitment delle comunità verso l’impresa, senza cui l’impresa non potrebbe fare quello che fa; e tali apporti sussistono perché al tempo stesso tali imprese sociali nelle proprie comunità ci investono, nei modi qui descritti. Si tratta di meccanismi di reciprocità che talvolta sfuggono a ragionamenti di breve periodo, perché implicano un posizionamento reputazionale dell’impresa, costruito nel corso degli anni. Le comunità danno, le comunità ricevono; noi nei bilanci economici riusciamo a tradurre più agevolmente in poste specifiche almeno una parte di quanto le comunità ricevono (e quindi quello che l’impresa sociale spende a loro favore), ma molto meno quello che danno; ma è un problema del nostro metro interpretativo.
Le imprese sociali che – anche in questo caso si tratta di flussi di medio periodo – smettessero di essere considerate un pezzo vivo della propria comunità, cessassero di indirizzare ad essa energie anche al di fuori della prestazione dei servizi per i quali è corrisposto un pagamento, vedrebbero probabilmente il proprio sistema di sostenibilità man mano assomigliare a quello delle imprese ordinarie. Spenderebbero di meno – salvo investimenti di immagine – per la propria comunità, ma dovrebbero pagare in moneta tutti i fattori produttivi di cui necessitano. Ci guadagnerebbero? Ci perderebbero? La risposta, da un punto di vista economico, è incerta, ma ciò che è chiaro che smarrirebbero un aspetto caratterizzante il loro essere impresa sociale, che non si riduce certo nel produrre senza fini di lucro di beni e servizi in determinati settori di attività, ma si identifica con una relazione peculiare e forse mai compresa sino in fondo con la propria comunità di riferimento.
Ed ecco allora in questo dossier, che sicuramente attende di essere ampliato con altre storie, la presentazione della cooperativa Cauto di Brescia – 450 lavoratori nell’ambito dei servizi ambientali e oltre 100 volontari – che realizza una dispensa alimentare, un banco di comunità e un’officina sociale; e poi la cooperativa Arcobaleno di Torino, anch’essa una importante cooperativa di inserimento lavorativo che si occupa di ambiente, che ha scelto di investire in ambito culturale, di realizzare film, di portare i propri soci in viaggio in giro per il mondo; la cooperativa Open Group di Bologna, di cui si potrebbe raccontare l’impegno nel realizzare una radio locale o nel recupero di un edificio degradato a finalità sociale, ma che qui è citata per narrare cosa fa un’impresa di questo tipo in occasione di una situazione emergenziale come quella vissuta a causa del Covid; e infine il consorzio Co&So di Empoli, che ad esito di un percorso culturale consapevole ha destinato risorse alla creazione del Distretto di economia civile coinvolgendo in questa impresa 25 organizzazioni di Terzo settore e del tessuto sociale e produttivo del territorio. Si è consapevoli che – fortunatamente – l’elenco è molto più lungo e Impresa Sociale sarà lieta di continuare a narrare storie di questo tipo. Al termine di questo percorso – la teoria sta alla fine, nella consapevolezza che riesce a cogliere solo parzialmente la ricchezza della realtà – il saggio Perché l’impresa sociale ha senso, pubblicato sul numero 2/2020 di Impresa Sociale, con forse può contribuire, almeno in parte, a inquadrare i concetti qui proposti.
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