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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-6-2015-benefit-corporation-e-impresa-sociale-convergenza-e-distinzione

Editoriale

La sfida dell’innovazione sociale

Andrea Bassi, Giulio Ecchia

Saggi

Il crowdfunding delle imprese sociali italiane

Bernardo Balboni, Ulpiana Kocollari, Ivana Pais

Valutare l'impatto sociale

Stefano Zamagni, Paolo Venturi, Sara Rago

Policy

Benefit corporation e impresa sociale

Paolo Venturi, Sara Rago

Echi

I beni confiscati al bivio

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Numero 6 / 2015

Policy

Benefit corporation e impresa sociale: convergenza e distinzione

Paolo Venturi, Sara Rago

Abstract

La recente approvazione di un disegno di legge che riconosce anche in Italia la qualifica di “società benefit” – ovvero di impresa che, come recita il testo, “persegue il duplice scopo di lucro e beneficio comune” – contribuisce a riaprire il confronto sulle forme e le modalità di produzione di valore sociale oltre i confini delle istituzioni nonprofit. Al di là dell’impatto della norma – inserita nella Legge di Stabilità 2016 recentemente approvata – e dei numeri ancora esigui del fenomeno, si pone la questione di delineare il campo sociale agendo anche sul versante delle imprese di capitali che intendono superare il modello classico della responsabilità sociale d’impresa. Un’operazione di policy design complessa, perché richiede di allargare e arricchire il campo dell’imprenditoria sociale, evitando sovrapposizioni e ridondanze tra i vari modelli, ma anzi favorendo forme di collaborazione e di arricchimento reciproco al fine di incrementare la scala e l’efficacia dell’impatto sociale.


The recent approval of a bill, acknowledging the qualification of Benefit Corporation also in Italy – i.e. of an enterprise that, as the text reads, “pursues the double objective of profit-making and common benefit” – contributes to reopening the debate on the forms and modalities of social value production, as well as on the  boundaries of non-profit institutions. Beyond the outcome of this normative – which is a part of the Stability Law recently approved – and the scope of this phenomenon, which is still quite limited, there is the problem of defining the social field by taking action also in the domain of business enterprises aiming at overcoming the traditional model of corporate social responsibility. This operation of policy design is particularly complex, because it requires to widen and enhance the scope of social entrepreneurship, avoiding overlapping and redundancies among various models, but rather favoring cooperation and mutual enrichment forms with the aim to increase the extent and the efficiency of social impact.


Per generare sviluppo oggi, la produzione di valore economico e quella di valore sociale vanno necessariamente tenute insieme. Questo è particolarmente vero se si guarda al mondo dell’imprenditorialità, essendo tale legame elemento chiave per una crescita inclusiva dei territori e delle comunità. Per questa ragione sono sempre più numerosi gli esempi di forme di impresa che – con molteplici modalità e diversi gradi di intensità – affiancano attività di natura commerciale ad altre di natura sociale (processo di convergenza – convergence – dei soggetti for profit verso la sfera nonprofit) (Bullock, James, 2014) oppure, viceversa, imprese che assumono mission sociali ma producono al contempo un reddito da attività commerciale per poter perseguire le proprie finalità (processo di ibridazione di soggetti nonprofit verso la sfera for profit) (Rago, Venturi, 2014).

Del primo gruppo fanno parte esempi che provengono dall’esperienza americana, come le benefit corporation (Bromberger, 2011). Una benefit corporation è una figura giuridica societaria di natura commerciale che si impegna a: 1) raggiungere uno o più scopi sociali o di pubblica utilità (obiettivo obbligatoriamente specificato nello statuto); 2) avere nel proprio consiglio di amministrazione un socio benefit il cui unico obbligo è quello di garantire il perseguimento della mission piuttosto che il profitto; 3) essere sottoposta ad un processo di certificazione da parte di un soggetto terzo e a realizzare un rapporto annuale volto ad illustrare le azioni compiute per raggiungere gli obiettivi sociali. Le B-Corporation (o B-Corp)[1] sono invece imprese che ottengono una certificazione rilasciata da B Lab (un’organizzazione nonprofit con sede in Pennsylvania che ha creato e promuove la certificazione B-Corp), a seguito della compilazione di un questionario – da parte di proprietari e manager – che viene integrato da test che misurano il loro impegno rispetto a valori sociali, nonché a pratiche responsabili da un punto di vista sociale ed ambientale, i cui risultati vengono resi pubblici dalla stessa B Lab. A livello globale sono più di 1.300 le B-Corp divise in 41 paesi (in oltre 120 settori di attività), di cui 9 sono italiane.

Anche nel nostro Paese il tema della convergenza è alla ribalta: in primis, è stato affrontato con l’introduzione delle startup innovative a vocazione sociale (SIaVS - 45 registrate a fine novembre 2015), ovvero società di capitali con sede principale in Italia costituite anche in forma cooperativa da non più di cinque anni, non quotate, con meno di 5 milioni di euro di fatturato annuo, che non possono distribuire gli utili e che devono produrre, sviluppare e commercializzare beni e servizi innovativi ad alto valore tecnologico[2]; inoltre, per essere definite a “vocazione sociale”, tali soggetti devono operare nei settori previsti all’art. 2, comma 1, del D.lgs. 155/2006 sull’impresa sociale considerati particolarmente rilevanti al fine della produzione di valore sociale. Tanto è vero che, con la revisione della procedura per il riconoscimento delle SIaVS (avvenuta a inizio 2015), è stato introdotto un obbligo di redazione di un “documento di descrizione di impatto sociale” annuale contenente: a) elementi descrittivi riguardanti l’organizzazione e le sue attività, nonché le modalità di produzione di impatto sociale; b) una griglia di indicatori volti a rilevare l’impatto generato sui beneficiari e sugli operatori interni, la governance, le pari opportunità, il supporto alla ricerca, la sostenibilità ambientale, il legame con il territorio e la partecipazione civica, l’apporto economico-finanziario cui si aggiungono indicatori specifici per settore di attività.

La valutazione dell’impatto generato è il fil rouge che è possibile tracciare tra le SIaVS e la proposta di legge avanzata dal Senatore Del Barba (inserita nella Legge di Stabilità 2016 recentemente approvata) volta ad introdurre anche in Italia le società benefit, definite come “società che nell’esercizio di un’attività economica, oltre allo scopo di dividerne di utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti ed associazioni ed altri portatori di interesse”. Per essere tali, le società benefit dovranno modificare il proprio atto costitutivo o statuto, redigere una relazione annuale sull’attività di beneficio comune ed essere sottoposte alla valutazione, da parte di soggetti terzi (non ancora individuati), relativamente a quattro aree: la governance, i lavoratori, la comunità di riferimento, l’ambiente.

Seppure queste pratiche, che – attraverso un processo di convergenza – avvicinano il mondo del for profit al sociale, stiano aumentando e, auspicabilmente, cresceranno nel tempo, dimostrano tuttavia nei fatti come ad oggi non esista un reale “effetto spiazzamento” rispetto alle imprese sociali e alle loro attività, che si configurano piuttosto all’interno di processi di ibridazione. I motivi sono molteplici. Anzitutto le imprese sociali, in maniera volontaria e non strumentale, perseguono un fine sociale, che è core rispetto all’attività imprenditoriale messa in campo. Le società benefit, invece (come riportato nella Legge di Stabilità 2016, art.1, comma 378, lettera a) devono perseguire – all’interno della loro attività economica – uno o più effetti positivi o ridurre gli effetti negativi su una o più categorie di soggetti. Cioè a dire che non necessariamente la società deve produrre impatti positivi rispetto ai suoi stakeholder, bensì che, per essere definita benefit, è sufficiente che essa limiti le esternalità negative che è in grado di generare attraverso la sua attività principale, che rimane quella di natura economica.

Sulla stessa scia seguono le B-Corp, che all’interno della distribuzione del punteggio complessivo massimo ottenibile tramite il questionario di valutazione, tra le molteplici dimensioni che vengono osservate al fine di ottenere la certificazione[3] attribuiscono alla governance il peso più basso. Governance che invece gioca un ruolo fondamentale nella definizione delle imprese sociali e dal cui assetto dipende fortemente la modalità di azione della stessa. La governance multistakeholder delle imprese sociali, infatti, è tratto distintivo di tali soggetti ed elemento imprescindibile per far fronte alle esigenze della comunità, il cui tentativo di risposta – attraverso la produzione di beni e l’erogazione di servizi – è il core business dell’attività d’impresa.

Ben vengano dunque gli approcci emergenti del for profit che rispondono alla necessità di tenere insieme la dimensione economica con quella sociale al fine di generare valore in quella “terra di mezzo” tra for profit e nonprofit, che conta oggi oltre 61 mila imprese for profit operanti in settori sociali (Venturi, Zandonai, 2014a). Essi infatti contribuiscono al pluralismo delle forme di impresa, fattore sempre positivo in un’economia e in una società in continua evoluzione e con bisogni sempre più complessi cui trovare risposte. Ma non confondiamo questi soggetti con l’impresa sociale, che incorpora nel proprio dna una funzione pubblica (interesse generale) perseguita attraverso meccanismi di partecipazione e vincoli non “for profit”. In questo senso pensiamo che le imprese benefit in futuro non costituiscano una minaccia capace di generare un “effetto di spiazzamento” nei confronti delle imprese sociali, a patto che queste si giochino la sfida dell’innovazione sociale attraverso un rinnovato spirito imprenditoriale, capace di alimentare processi produttivi inclusivi in cui la comunità diventa un asset holder strategico e imprescindibile per ri-generare lo sviluppo socio-economico dei territori e dilatare lo spazio della giustizia sociale.

Bibliografia

Bromberger A.R. (2011), “A New Type of Hybrid”, Stanford Social Innovation Review, Spring, pp. 49-53.

Bullock G., James L. (2014), The Convergence Continuum. Towards a ‘4th sector’ in global development?, Accenture. 

Rago S., Venturi P. (2014), “Teoria e modelli di organizzazioni ibride presenti all’interno dell’imprenditorialità sociale”, in Venturi P., Zandonai F. (a cura di), Ibridi organizzativi. L’innovazione sociale generata dal Gruppo Cooperativo CGM, Il Mulino, Bologna, pp. 17-51.

Senato della Repubblica (2015), Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016), Disegno di Legge presentato dal Ministro dell’economia e delle finanze, approvato dal Senato della Repubblica il 22 dicembre 2015. 

Venturi P., Zandonai F. (a cura di) (2014a), L’impresa sociale in Italia. Identità e sviluppo in un quadro di riforma, Rapporto Iris Network, Iris Network, Trento. 

Venturi P., Zandonai F. (a cura di) (2014b), Ibridi organizzativi. L’innovazione sociale generata dal Gruppo Cooperativo CGM, Il Mulino, Bologna.

Note

  1. ^ https://www.bcorporation.net
  2. ^ Quest’ultimo tratto viene definito attraverso la rispondenza ad uno dei tre seguenti criteri: 1) il 15% del maggiore tra costi e valore totale della produzione deve riguardare attività di R&S; 2) un team formato per 2/3 da persone in possesso di laurea magistrale oppure per 1/3 da dottorandi, dottori di ricerca o laureati con 3 anni di esperienza in attività di ricerca certificata; 3) impresa depositaria o licenziataria di privativa industriale oppure titolare di software registrato.
  3. ^ Le dimensioni sono: governance, lavoratori, comunità, ambiente e impatto del modello di business.
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