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ISSN 2282-1694
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Editoriale

La sfida dell’innovazione sociale

Andrea Bassi, Giulio Ecchia

Saggi

Il crowdfunding delle imprese sociali italiane

Bernardo Balboni, Ulpiana Kocollari, Ivana Pais

Valutare l'impatto sociale

Stefano Zamagni, Paolo Venturi, Sara Rago

Policy

Benefit corporation e impresa sociale

Paolo Venturi, Sara Rago

Echi

I beni confiscati al bivio

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Numero 6 / 2015

Recensioni

Beni comuni e cooperazione

Flaviano Zandonai

Lorenzo Sacconi, Stefania Ottone (a cura di) (2015), Beni comuni e cooperazione, Il Mulino, Bologna.

Il libro curato da Lorenzo Sacconi e Stefania Ottone rappresenta una pubblicazione importante all’interno dell’ormai consistente produzione editoriale sui beni comuni. La rilevanza del contributo deriva sia dall’articolazione dei contenuti proposti – ispirati a una logica autenticamente multidisciplinare: economia, diritto, filosofia – sia dalla scelta di focalizzare l’analisi intorno a un tema specifico, ovvero il ruolo dei modelli cooperativi nella governance dei commons. Da questo punto di vista il volume si caratterizza per un approccio decisamente diverso rispetto ad altri contributi – magari anche di maggior successo editoriale – che per lo più si sono dedicati alla querelle dei pro e contro i beni comuni, utilizzando questa particolare classe di risorse come una sorta di strumento dialettico finalizzato a risolvere l’annosa questione della “terza via” tra Stato e mercato nel regolare la produzione di beni e servizi, in particolare quando questi ultimi assumono qualifiche di “interesse generale” o “interesse collettivo”. Una modalità di argomentazione che certamente contribuisce a far emergere un tema rilevante, fino a poco tempo fa marginale nel dibattito scientifico e pubblico, ma che al tempo stesso causa una polarizzazione delle posizioni – basti pensare alla qualifica di “benecomunisti” ormai di uso gergale – poco utile nel momento in cui si è chiamati “a passare all’azione”, verificando in che modo la governance dei beni comuni sia effettivamente in grado di generare uno specifico valore aggiunto, a livello di efficacia e di sostenibilità, rispetto soluzioni gestionali basate sull’offerta di beni pubblici governata e gestita dalla Pubblica Amministrazione e dai suoi subcontractor o su beni privati intermediati dalle istituzioni di mercato.

La densità analitica dei diversi capitoli restituisce un quadro conoscitivo che, nella prima parte, ricostruisce la genesi del concetto di bene comune a partire dal legame con i fondamenti etico-filosofici e istituzionali della vita sociale: giustizia sociale (Salvatore Veca), economia civile (Stefano Zamagni), sfera pubblica (Laura Pennacchi), proprietà (Alberto Lucarelli) e, non ultimo, schemi comportamentali individuali e collettivi (Sacconi, Ottone). Nella seconda parte si approfondisce il ruolo della governance cooperativa nel dominio dei beni comuni, con particolare riferimento all’ambito dei servizi pubblici locali. Una parte che, nel suo insieme, restituisce preziose conoscenze sui “modelli economici” dei commons, che sono incentrati soprattutto sulla capacità di focalizzare non “core business”, ma piuttosto economie che si manifestano come esternalità nel tempo e nello spazio. E se a contare sono soprattutto le esternalità, allora la funzione d’uso dei beni comuni è definita, recuperando un felice pensiero del filosofo John Rawls, “dietro un velo di ignoranza”, ovvero senza conoscere del tutto quali saranno, soprattutto in futuro, le attività e le iniziative che prenderanno forma in questo contesto. Una modalità di governance complessa, rispetto alla quale è necessario riscrivere sia i modelli di gestione, sia le forme organizzative, in particolare quelle di natura imprenditoriale. La cooperazione, da questo punto di vista, si presenta effettivamente come un modello particolarmente adeguato ad operare in questo campo, a patto di “portare a regime” elementi di innovazione istituzionale che la stessa cooperazione – soprattutto nella sua declinazione sociale – ha già sperimentato, ma che non ha ancora del tutto metabolizzato. Il riferimento va, da una parte, ad un assetto di governance inclusivo e plurale e, dall’altra, alla capacità di interiorizzare una domanda di beni e servizi (di pubblica utilità) che appare sempre più differenziata e sempre meno coesa guardando alle sue matrici culturali e ideologiche. Una cooperativa multi-stakeholder di utenza che, come ricorda Sacconi, sia capace di fissare le regole “costituenti” per una fruizione dei beni comuni in grado di abilitare economie esterne, a partire dall’avvio e manutenzione di “pratiche conversazionali” che alimentano la propensione al cooperare, senza per questo compromettere la disponibilità dello stesso bene non solo qui ed ora ma guardando anche, e soprattutto, alle generazioni future. Un modello d’impresa che, come ricorda Ermanno Tortia, è esso stesso un bene comune. Senza aver paura, in questo caso, di abusare di questa qualifica.

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