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Echi

I beni confiscati al bivio

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Numero 6 / 2015

Echi

I beni confiscati al bivio: tra crisi di legittimità e nuova industria sociale

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Escluse le imprese sociali dalla gestione degli beni confiscati

In Parlamento è in corso un importante confronto sul miglioramento degli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Le proposte di riforma della normativa antimafia sono finalizzate a superare le grandi criticità finora evidenziate dagli operatori. Una parte della riforma tocca anche il tema della destinazione dei beni confiscati, prevedendo l’allargamento della platea di soggetti cui gli enti territoriali possono concedere gli immobili destinati ad uso sociale. La novità più interessante è la previsione che “altre tipologie di cooperative purché a mutualità prevalente” possano avere in concessione questi beni, oltre alle cooperative sociali, che fin dall’avvio della normativa di settore (L. 109/1996) potevano averli. Non si fa riferimento però alle imprese sociali ex lege e questo riaccende il confronto teorico ed ideologico sul perché imprese la cui attività economica principale ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, vengano escluse dalla possibilità dell’uso sociale degli immobili confiscati alle mafie; mentre lo si prevede per le sole cooperative che perseguono fine mutualistico.

Si tratta di mera dimenticanza o di un’esclusione intenzionale di un soggetto imprenditoriale che sta dando prova delle sue capacità di rigenerare asset comunitari complessi – da Sud a Nord – attivando forme di collaborazioni tra persone e organizzazioni e generando nuovi settori di produzione e posti di lavoro?

L’impresa sociale, come noto, identifica tutte quelle organizzazioni in cui l’attività economica d’impresa principale è stabile e ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale. Tali beni o servizi ricadono nei settori indicati tassativamente dal D.lgs. 155/2006 che ha distinto definitivamente il concetto di imprenditoria da quello di finalità lucrativa: si è riconosciuta cioè l’esistenza di imprese che perseguono finalità diverse dal profitto. Una forma di impresa, dunque, che forse più di altre potrebbe assolvere alla “maggiore utilità per l’interesse pubblico”, obiettivo richiamato nella normativa per motivare la valutazione dell’ANBSC[1] (Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata) nelle scelte relative all’amministrazione delle aziende confiscate, che rimane il vero tallone di Achille della gestione dei patrimoni recuperati alle mafie.

Mutualità vs interesse generale

Riteniamo che la promozione dell’interesse generale nella sfera economia, più che della stessa mutualità, possa essere fondamentale per quei territori che hanno avuto il dominio delle mafie.

Molti sociologi ed economisti che si sono occupati dell’analisi dei sodalizi mafiosi, concordano con la tesi per cui l’elemento principale che caratterizza la loro struttura è il surplus cooperativo, che si crea con un “patto di sangue” con cui l’organizzazione mantiene nel tempo il controllo dei suoi uomini, come fosse un “contratto” che accorda e unisce per sempre tutti gli affiliati. È un vero e proprio patto criminale ferreo contro la legalità; un patto indissolubile ed irreversibile, accompagnato da riti di sacralità tra aspiranti mafiosi, per generare accumulazione di denaro e potere, che tra le sue clausole prevede l’uccisione per chi non lo rispetta e/o per chi si ribella. Conseguenza indiretta del patto di sangue è la realizzazione di un surplus cooperativo che facilita lo svolgimento dell’attività criminale. Infatti, avendo il merito di favorire la cooperazione, il patto di sangue consente la creazione di una vera e propria impresa criminale. Esso assicura che individui altrimenti egoisti ed individualisti cooperino tra loro, riuscendo così a massimizzare interessi comuni. Un collante che permette di svolgere in modo efficiente una serie di attività illecite e generare, per tutti gli affiliati, un enorme surplus “cooperativo”.

Non è quindi la bassa dotazione di capitale sociale e di cooperazione tra le persone ad aver impedito uno sviluppo sano e civile e ad aver generato il radicamento delle più spietate organizzazioni criminali nel Mezzogiorno d’Italia, piuttosto è stato grazie alla complicità di particolari ‘pezzi’ dello Stato che si sono sviluppate le più “efficienti” organizzazioni a mutualità prevalente mai conosciute: le mafie. Purtroppo, però, esse hanno un difetto: il loro oggetto sociale è illecito e contrario all’ordine pubblico. Le mafie, paradossalmente e parafrasando la definizione di cooperative a mutualità prevalente presente nel codice civile, possono essere definite come organizzazioni che “svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci [affiliati], consumatori [fiancheggiatori] o utenti [vittime consenzienti]delle loro attività; inoltre, “si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci [affiliati]”; e “si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci [affiliati]”.

Quello che sostanzialmente pare sia mancato nei territori a dominio criminale non è tanto la mutualità – cioè organizzazioni a base associativa regolate dal principio dell’aiuto scambievole e delle prestazioni reciproche – bensì il senso dell’agire per l’interesse generale della comunità e non per l’interesse privato di un singolo o di un gruppo di persone. Detto in altri termini, il capitale sociale di certi territori sembra essere stato prepotentemente dirottato verso logiche chiuse di massimizzazione degli egoismi di gruppi ristretti di persone.

Spostandosi sul versante dei fini che muovono i sodalizi criminali, ci si accorge che essi hanno molte attinenze con altre organizzazioni che criminali non paiono essere. L’essenza dell’azione delle organizzazioni mafiose è acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo delle attività economiche e condizionare l’attività amministrativa. E come tutte le organizzazioni razionali tendono a massimizzare la loro funzione obiettivo.

L’effetto a medio-lungo termine diventa una pericolosa capacità pervasiva dell’economia, possibile grazie all’utilizzo d’ingenti capitali finanziari accumulati attraverso la violenza, il crimine ed i traffici clandestini. Un fiume di “denaro sporco” destinato ad ampliare le attività illecite e a condizionare l’economia legale i cui risvolti hanno assunto una dimensione transnazionale.

Le organizzazioni mafiose, infatti, hanno la capacità “di agire come soggetti economici sui mercati, distorcendone i meccanismi di funzionamento, attraverso l’utilizzo delle enormi risorse economiche e finanziarie reperite nella gestione delle molteplici attività illecite – dal traffico degli stupefacenti al contrabbando, dalla speculazione edilizia agli appalti pubblici, al racket ed all’usura – svolte anche oltre i confini nazionali, e spesso in sinergia con gruppi criminali stranieri” (Commissione Parlamentare, 2007).

Questo avviene perché l’organizzazione criminale di tipo mafioso riesce a “dialogare in modo proficuo con il contesto economico e sociale in cui agisce, traendo ulteriore vantaggio dalla sua posizione di intrinseca forza e assumendo la falsa veste di un comune operatore del mercato” (Sciarrone, 2011). E in effetti la vera forza delle organizzazioni criminali risiede nella loro capacità di costruire intense reti di relazioni funzionali alle loro finalità, che si possono definire come capitale sociale mafioso.

Surplus cooperativo interno, accumulo di capitali e capacità di tessere un efficace ed efficiente sistema relazionale fanno di questi sodalizi delle micidiali imprese, pronte a conquistare quei mercati incapaci a riconoscerne la pericolosità o ad affrontarle con adeguati anticorpi.

Un paradosso dai risultati grotteschi è che le teorie economiche liberiste dominanti rischiano indirettamente di legittimare culturalmente queste organizzazioni e di depotenziare gli strumenti di contrasto nati dalla conoscenza profonda del fenomeno.

L’uso dei beni confiscati nelle strategie di prevenzione e contrasto alle mafie

La precedente premessa può contribuire a gettare luce sull’attuale dibattito in merito all’utilizzo dei beni confiscati, una discussione offuscata dal fuoco incrociato di una certa stampa e di rappresentanti di istituzioni e organizzazioni sociali che ne distorcono il senso, mostrando una conoscenza limitata e in molti casi approssimativa del fenomeno. Tutto ciò rende incomprensibile ai non addetti ai lavori il contenuto della discussione sulla riforma del Codice Antimafia, che, come anticipato, in parte tocca e intende modificare le modalità d’uso dei beni confiscati.

Tali beni non sono semplicemente la materializzazione dei capitali illecitamente accumulati e sottratti a boss, narcotrafficanti o colletti bianchi al servizio dei clan: beni mobili (somme di denaro, titoli di Stato, crediti personali, gioielli), beni mobili registrati (auto, moto, barche, aeromobili), beni immobili (ville, appartamenti, fabbricati rurali, locali commerciali, terreni) e beni aziendali (quote societarie, fabbriche, stabilimenti industriali, impianti produttivi, attività commerciali, macchinari). Essi rappresentano un patrimonio economico gigantesco che le mafie hanno tolto, con i crimini ed il riciclaggio, alle popolazioni locali, determinando una profonda perdita di fiducia tra i cittadini e lo Stato e provocando un’insanabile ferita, che ha consentito la distorsione delle funzioni del capitale sociale di molti territori italiani che solo in parte la Magistratura e le Forze dell’ordine riescono a ricucire con il recupero dei beni.

Vale la pena ribadire che i beni confiscati non sono, per le ragioni illustrare, immobili come gli altri. Sono stati i simboli del potere delle mafie, utilizzati per soggiogare persone e territori. Riutilizzarli significa segnalare “a tutti” che vi è una perdita di controllo e di prestigio dei boss “proprio nel loro stesso ambiente”. Un segnale di forza e affidabilità dello Stato che le mafie non vogliono e non accettano facilmente. I patrimoni confiscati sono difficili da utilizzare, in larga misura a causa degli ostacoli attuati dal sistema di potere della criminalità organizzata sui territori, che si alimenta e si fortifica grazie alla zona grigia della società e al ruolo svolto dai ‘colletti bianchi’. Sarebbe necessario, invece, un impegno importante dello Stato, attraverso le sue articolazioni, nel recuperare quella fiducia smarrita che rappresenta la ferita tra esso e la società civile, attraverso l’azione concreta di restituzione ed utilizzo dei patrimoni tolti alle mafie.

Il dibattito sulla riforma dovrebbe essere ricondotto a queste tematiche di fondo e si dovrebbe evitare che sfoci in una diatriba inconcludente. Le posizioni approssimative su tematiche di interesse generale non contribuiscono a rigenerare un diverso capitale sociale compromesso dallo strapotere delle mafie. E sebbene si tratti di un meccanismo risarcitorio e/o compensativo, prendere il maltolto alle mafie e restituirlo all’interesse generale delle comunità locali per rimarginare le ferite subite, rappresenta sicuramente una modalità razionale per disincentivare l’agire di coloro che le sostengono e mostrare con un’evidenza unica che la generazione e il sostegno di attività illecite non paga.

La dimensione assunta dalle mafie, la loro capacità di inserirsi nel tessuto economico e sociale e di condizionare le funzioni politico-amministrative, conferisce al tema del riuso sociale e istituzionale dei beni confiscati una valenza simbolica che rimanda alla questione di quali “modelli di sviluppo” siano stati promossi nelle terre dominate dalle mafie e come si possano indebolire e sconfiggere.

Le numerose esperienze di utilizzo dei beni confiscati da parte di cooperative sociali, là dove sperimentati concretamente, hanno indicato una strada propizia ed efficace nella capacità di rigenerare il capitale sociale inquinato dalle mafie. L’insegnamento di queste esperienze è aver mostrato che anche nell’ambito economico si può agire nell’interesse generale e non per il vantaggio mutualistico di un gruppo ristretto di persone, dimostrando che l’economia sociale può essere un valido antidoto all’economia criminale.

L’opportunità della promozione dell’interesse generale attraverso le imprese sociali

La riforma in discussione al Parlamento rappresenta un’occasione mancata per rafforzare il riutilizzo sociale dei beni confiscati, avendo escluso dalla gestione le imprese sociali, che più di altre organizzazioni produttive possono orientare le comunità verso l’interesse generale e gestire la complessità del compito di trasformazione del “capitale sociale mafioso” in “capitale sociale puro”.

Le esperienze di riutilizzo dei beni confiscati per fini sociali hanno dimostrato che i modelli di gestione e condivisioni si basano sull’impiego di forti competenze professionali e capacità di sviluppo di progetti innovativi con reali e positive ricadute sulla comunità; tali modelli, inoltre, non si ispirano alla logica del “comando ad autorità” (come quelli imposti dallo Stato) e nemmeno al concetto di proprietà privata (come quelli imposti dal mercato). Essi mostrano che esiste una “terza via” che – per usare le parole del premio Nobel Elinor Ostrom – le cooperative sociali concessionarie di beni confiscati hanno saputo incamminare, a partire dall’individuazione delle organizzazioni ed istituzioni “con” le quali co-progettare e co-gestire i beni, ma allo stesso tempo “dividere” le responsabilità, i ruoli e i compiti.

Queste organizzazioni hanno dimostrato la capacità di adottare modelli multistakeholder, propri dell’impresa sociale, e di sostenerne le progettualità consentendone la riproducibilità e la continuità nel tempo. L’impresa sociale e la flessibilità del suo modello di governance possono perciò aiutare nell’individuazione delle forme di gestione “con-divisa” più adeguate che valorizzino le peculiarità territoriali e consentano la riconversione del capitale sociale mafioso.

I beni confiscati sono diventati veri e propri driver di uno sviluppo del territorio “sano” e “alternativo” a quello imposto dalle mafie, attraverso anche la creazione di occasioni di lavoro per giovani disoccupati e per soggetti svantaggiati. Il loro riutilizzo rappresenta una proxy della capacità di generare capitale sociale in grado di innescare processi di crescita virtuosa, promuovendo reti di relazioni e di affidamento che alimentano una solidarietà diffusa e valori di tipo cooperativo inclusivo. I beni confiscati, quando realmente riutilizzati, rappresentano una preziosa interfaccia del coordinamento fra gruppi di persone ed istituzioni ed un valido veicolo per l’interiorizzazione di pratiche e modelli culturali alternativi a quelli mafiosi.

In quest’ottica, l’impresa sociale con la sua mission orientata all’interesse generale della comunità, le sue caratteristiche e le peculiarità del modello organizzativo, è in grado di svolgere un ruolo importante nei percorsi di riutilizzo dei beni confiscati alle mafie, contribuendo ad accrescere e riallocare l’originaria dotazione di capitale sociale dei territori e fornendo allo stesso tempo un efficace strumento di prevenzione, oltre che di repressione, nella lotta contro la criminalità organizzata.

Escludere l’impresa sociale dalla gestione dei beni confiscati significa voler disconoscerne il ruolo che di fatto essa sta già svolgendo proprio nei territori di mafia dove operano, nonostante le tante difficoltà, cooperative sociali e organizzazioni nonprofit, promuovendo modelli culturali ed economici orientati alla cittadinanza attiva, alla legalità e volti a perseguire l’interesse generale.

ANBSC (2011), Un anno di attività, Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, Roma.

Baldascino M., Mosca M. (2012), “La gestione dei beni confiscati: un’occasione perduta per le imprese sociali?”, in Venturi P., Zandonai F. (a cura di), L’impresa sociale in Italia. Pluralità dei modelli e contributo alla ripresa, Altreconomia, Milano, pp. 213-236.

Baldascino M., Mosca M. (2014), “Il valore sociale delle aziende confiscate”, Rassegna Economica, Rivista Internazionale di Economia e Territorio, n. 1, pp. 155-173.

Commissione Parlamentare (2007), Relazione sullo stato di attuazione delle normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro, confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata, approvata nella seduta del 27 novembre 2007 dalla Commissione Parlamentare in inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. 

Mosca M. (2015), “Ruolo della cooperazione nel recupero delle terre confiscate”, in Economia cooperativa. Rilevanza, evoluzione e nuove frontiere della cooperazione italiana, Secondo Rapporto Euricse, Trento. 

Sciarrone R. (2011), Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Fondazione Res, Palermo.

Note

  1. ^ L’Agenzia è stata istituita con decreto-legge 4 febbraio 2010, n. 4, convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge 31 marzo 2010, n. 50, oggi recepita dal decreto legislativo n. 159 del 6 settembre 2011 (Codice Antimafia).
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