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ISSN 2282-1694
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Editoriale

La sfida dell’innovazione sociale

Andrea Bassi, Giulio Ecchia

Saggi

Il crowdfunding delle imprese sociali italiane

Bernardo Balboni, Ulpiana Kocollari, Ivana Pais

Valutare l'impatto sociale

Stefano Zamagni, Paolo Venturi, Sara Rago

Policy

Benefit corporation e impresa sociale

Paolo Venturi, Sara Rago

Echi

I beni confiscati al bivio

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Numero 6 / 2015

Saggi brevi

Composizione sociale italiana e nuovo sviluppo: scenari per un ruolo attivo dell'impresa sociale

Francesco Maietta

Abstract

Dopo la crisi la ripresa: l’economia, la società, le istituzioni sono cambiati, anche a seguito di uno straordinario sforzo di sopravvivenza e riposizionamento. La domanda alla quale questo saggio vuole rispondere è relativa alla composizione sociale che sta attuando la strutturale transizione di questi anni: qual è l’articolazione sociale che caratterizza il nostro Paese nella fase di uscita dalla crisi?

La crisi ha rilanciato una connotazione della nostra società molecolare, molto differenziata, ad alta soggettività, a basso radicamento, piena di aspettative e di obiettivi diversi, e ha reso più stringenti alcune patologie sociali, quali la precarizzazione del lavoro, la povertà e le disuguaglianze sociali. Fenomenologie reali e significative che alimentano però letture statiche della realtà sociale, come quella della terza società degli esclusi. Invece, per capire come promuovere e accompagnare un nuovo sviluppo l’attenzione va posta sui processi per intercettare eventuali nuovi protagonismi di massa, collettivi, in grado di generare una dinamica di crescita.

I nuovi protagonisti vanno da un ceto medio diverso dal recente passato, sobrio e propenso alla responsabilità individuale, ad una imprenditorialità di massa che conquista nuove frontiere, per crescere in modo più stabile o semplicemente utilizzando con astuzia soglie più basse di accesso ai processi di creazione del reddito. La nuova composizione sociale non può essere letta solo come figlia dei processi regressivi – dalle nuove povertà e disuguaglianze alla precarietà concentrata tra giovani e meno istruiti – ma si alimenta delle dinamiche virtuose di nuove imprese, anche di natura sociale, di competenze acquisite magari all’estero e rigiocate nei contesti locali o della capacità inedita di utilizzare le opportunità delle nuove tecnologie.


After the crisis, the growth: economy, society and institutions changed, especially after an extraordinary effort to surviving and reposition themselves. This essay tries to answer a question on the social composition which is currently realizing a structural transition: which is the social articulation characterizing our country in this last phase of the crisis?

The crisis connotated our society as molecular, extremely differentiated, highly subjective, that is not deeply rooted, but rather full of expectations and different objectives, and it made certain social pathologies more urgent, such as precarious labour, poverty and social inequalities. These real and significant phenomenologies are fostering statistical interpretations of social reality, such as those on the third society of excluded people. On the other hand, in order to understand how to promote and follow a new development, attention should be drawn upon the identification of new collective protagonisms, able to engender a dynamic of growth.

New protagonists range from a middle class that is different from the recent past - plain and inclined to individual responsibility - and a collective entrepreneurship that is conquering new frontiers, in order to grow in a more stable way or simply taking advantage of lower barriers to participate in processes of income creation. New social composition cannot be interpreted only as an outcome of regressive processes - from new poverties and inequalities to precariousness, that is widespread among young and less cultivated people - but it is also fostered by virtuous dynamics of new enterprises, by competences acquired abroad and exploited in local contexts or by the innovative ability to use the opportunities offered by new technologies.

Capire oggi la nostra società

Questo saggio vuole rispondere ad una domanda chiave relativa alla composizione sociale di questi anni: qual è l’articolazione sociale che connota il nostro Paese nella fase di uscita dalla crisi, tenuto conto dei processi in atto? E quanto tale composizione conferma o smentisce le interpretazioni socio-politiche che più sono ascoltate, alle quali afferiscono idealità e progetti diversi?

Nella crisi si è rilanciata la connotazione principale della nostra società: molecolare, ad alta soggettività, a basso radicamento, piena di aspettative e di obiettivi diversi. Una società che ha messo in crisi le giunture sistemiche della vita collettiva, refrattaria alle tante modalità di governo e che ha patologie note, a cominciare dalla diffusa sensazione di obbligata solitudine messa in luce da fenomenologie diverse (come ad esempio le tragiche esperienze degli imprenditori suicidi al tempo della crisi). Inoltre, le dinamiche regressive della crisi hanno reso più stringenti alcune patologie sociali: la precarizzazione del lavoro, la povertà e le disuguaglianze sociali. Fenomenologie reali, significative, che alimentano però letture statiche della realtà sociale come quella della terza società degli esclusi o del ritorno della lotta di classe.

Invece, per comprendere come promuovere e accompagnare un nuovo sviluppo l’attenzione andrebbe posta sui processi per intercettare eventuali nuovi protagonismi di massa, collettivi, in grado di generare una dinamica di crescita, in linea con la logica dello sviluppo italiano che, dal miracolo economico alla recente reazione di sopravvivenza alla crisi, è sempre stato alimentato da energie collettive interne al sistema.

Se negli anni recenti la crisi ha generato paura e rattrappimento con effetti non neutrali sulle energie collettive, i processi consentono di cogliere l’altra faccia della fenomenologia sociale, quella che racconta di una dinamica che va oltre la regressione e che già oggi parla e pratica sviluppo. I nuovi protagonisti della ripresa sono già qui e vanno da un nuovo ceto medio diverso dal recente passato, sobrio e propenso alla responsabilità individuale, ad una mai spenta imprenditorialità di massa che conquista nuove frontiere, utilizzando con astuzia soglie più basse di accesso ai processi di creazione del reddito e camminando sempre più sulle gambe dei Millennials.

La nuova composizione sociale non può essere letta solo come figlia dei processi regressivi, dalle nuove povertà e disuguaglianze alla precarietà concentrata tra giovani e meno istruiti; essa si alimenta delle dinamiche virtuose di nuove imprese, di competenze acquisite magari all’estero e rigiocate nei contesti locali o della capacità inedita di utilizzare le opportunità delle nuove tecnologie.

E’ importante dare visibilità ad una composizione sociale in evoluzione, complessa, capace di coltivare aspettative di crescita con percorsi ascensionali, magari ancora allo stato iniziale, ma già largamente oltre le logiche di puro attendismo.

Interpretazioni diverse della società italiana

L’analisi della composizione sociale è sempre stata al centro di una notevole articolazione di pensiero; è così anche in questa fase, in cui si tende a fissare gli esiti della crisi e le potenzialità della tenue ripresa che annuncia il ritorno allo sviluppo. Quale composizione sociale lascia il lungo periodo di crisi? Qual è la risultante della regressività di alcune patologie sociali da un lato e delle strategie di riposizionamento e del nuovo protagonismo che si annuncia, dall’altro? Sono essenzialmente tre le interpretazioni alternative della composizione sociale da considerare, perché hanno notevole ascolto e sono foriere di proposte operative molto diverse tra loro.

La terza società degli esclusi

Le società coesistenti nella composizione sociale attuale sarebbero tre: la prima società delle garanzie, in primis nel lavoro con l’articolo 18; la seconda società del rischio, fatta di commercianti e autonomi che operano su mercati di prodotti e servizi, e la terza società di persone, in particolare donne e giovani, che lavorano di fatto in nero, nel sommerso, con poche tutele (o nessuna). I membri della terza società vorrebbero avere lavoro regolare e relative tutele, ma semplicemente non vi hanno accesso.

Nelle tre società si verifica una tripartizione quasi eguale del totale dei lavoratori, con la collocazione in essa di disoccupati, lavoratori in nero, scoraggiati, oltre che precari. Naturalmente tutto andrà riletto alla luce degli effetti del Jobs Act che, però, pur nella ipotesi più positiva, difficilmente riuscirà a modificare la base materiale di questa interpretazione. Infatti, la ratio della collocazione sociale nel terzo escluso non è reddituale o patrimoniale, ma l’essere esclusi dalle tutele effettive della prima società e dalle potenzialità di reddito di molti degli esponenti della seconda società. Politicamente questa società tende a non avere rappresentanza, incontra qualche sostegno estemporaneo a livello culturale e politico, ma non genera propria rappresentanza socio-politica o istituzionale.

La lotta di classe

La visione della lotta di classe – condivisa di fatto da molti analisti, sindacalisti e politici – parte dalla convinzione che la scomparsa della centralità operaia e della fabbrica e lo smarrirsi delle forme più tradizionali di organizzazione sindacale e politica, non hanno cancellato la lotta di classe intesa come centralità – nella composizione sociale e nella dinamica dei rapporti sociali – del conflitto capitalisti/imprenditori e operai, che rimane la griglia principale e più efficace di lettura della società.

Precariato e boom dei servizi avrebbero articolato il lavoro operaio di un tempo, senza però alterare la sostanza della composizione sociale, e più ancora senza cancellare la linea che divarica gli interessi delle persone in relazione alla loro collocazione sociale. In quest’ottica, oggi sarebbe sul tappeto un problema politico di ricomposizione dei frammenti della nuova classe operaia diffusa, fermo restando le linee di demarcazione sociale tradizionali, magari un po’ appannate dalla nuova composizione sociale.

E’ una lettura che ha trovato rinnovato vigore in alcuni innegabili esiti della crisi, come l’ampliamento delle disuguaglianze, la caduta dei redditi più bassi e la destrutturazione di tutele che sino a non molto tempo fa davano forza a lavoratori che si sentivano al riparo dai rischi di disagio sociale. Più ancora, la crisi avrebbe azzerato le lunghe derive della cetomedizzazione; pertanto, la complessità dei rapporti di proprietà e la patrimonializzazione di massa, gli esiti della società dei consumi ed il dominio della soggettività in ogni ambito avrebbero prodotto un appannamento temporaneo della divisione in classi. Oggi, con la crisi, esce di scena definitivamente l’idea di una identità sociale fuori e oltre i codici classisti. In questa visione si ritiene che alla lotta di classe tra operai e capitalisti della visione classica si è sostituita una lotta di classe estesa all’intero contesto sociale a seguito dell’ampliamento delle disuguaglianze.

La società molecolare vista dal Censis

La società italiana è indistinta perché non descrivibile con forme e figure delineate e significative, ed è sfuggente perché al suo interno si vaga senza radicamenti; quelle citate sono le due caratteristiche costitutive della società che affiancano la caratteristica primaria già indicata, ossia l’essere una società liquida che ha eroso le giunture sistemiche della vita collettiva. Non a caso le progettualità complessive di tipo sistemico sono rimaste inagite, progettualità di pura carta.

In tale contesto non poteva non prevalere una vocazione antica e profondamente radicata nei comportamenti sociali diffusi: vivere in orizzontale, aggregarsi in mondi chiusi in se stessi, privi di capacità di comunicazione in verticale. Sono mondi che non riescono a generare confronto esterno, e per questo vivono di se stessi contenendo la potenza, tanto da diventare incapaci di generare effetti oltre il proprio specifico contesto. Individualismo e soggettività sono forze motrici ancora rilevanti che però hanno fatto emergere anche i loro eccessi patologici, erodendo pericolosamente le tante forme di legame sociale.

La società così com’è: le dinamiche regressive

Tra precariato, povertà e disuguaglianza crescente

Sono oggi in atto dinamiche regressive che hanno implicazioni rilevanti sulla composizione sociale e a cui fanno riferimento alcune delle visioni della società che più hanno corso. La sottile ansia di non avere più le “spalle coperte” dall’accesso al lavoro, dalle auto-tutele e dal welfare – e che di conseguenza si possa d’improvviso essere inghiottiti dal disagio sociale e dalla povertà – ha impattato profondamente sulla vite individuali e sulle aspettative collettive. Precariato, povertà diffusa e disuguaglianze sono tre dinamiche regressive entrate nella vita quotidiana degli italiani e che hanno quasi egemonizzato il racconto della crisi; per questo è importante focalizzare le forme e gli effetti che hanno concretamente assunto e definire i segmenti sociali che più ne sono stati coinvolti.

Distruzione di lavoro, occupabilità differenziata e precarizzazione diffusa

Il rapporto con il lavoro è al cuore dei processi regressivi che negli anni della crisi hanno toccato il proprio massimo: si è assistito ad una distruzione intensa di lavoro, con crescente differenziazione della occupabilità e relativa debolezza aggiuntiva di taluni gruppi sociali, come le persone con basso titolo di studio e i giovani, più toccati dalla paradossale stabilizzazione della precarietà.

La distruzione di lavoro è evidente: focalizzando l’attenzione sugli anni della crisi emerge che sono stati distrutti – per il totale della popolazione con almeno 15 anni – 615mila posti di lavoro, pari a -2,7% dell’occupazione totale (Tabella 1) (Censis, 2015c). Dal 2007 fino a tutto il 2013 l’occupazione si è mossa verso il basso toccando il minimo di 22,2 milioni di occupati, e solo il 2014 ha segnato un’inversione di tendenza con circa 88mila nuovi occupati.

Tabella 1. Andamento dell’occupazione per classi di età. Anni 2007-2014 | Fonte: Elaborazione Censis su dati Istat

La distruzione di occupazione si è andata a innestare in un mercato del lavoro già segnato da differenze significative di occupabilità tra i gruppi sociali. Infatti, le persone con basso titolo di studio hanno una più bassa occupabilità, come emerge dai tassi di occupazione per livello di scolarità: il tasso di occupazione delle persone con licenza elementare è del 28,1%, di quelle con licenza media del 54,3%, dei diplomati del 68,7% e dei laureati dell’80,2%. Esiste quindi una relazione diretta tra livello di scolarità e tasso di occupazione della popolazione non in istruzione formale; il divario tra i tassi di occupazione di persone con licenza elementare e laureati è pari a oltre 50 punti percentuali, è di oltre 26 punti percentuali rispetto a chi ha la licenza media e di quasi 12 punti percentuali rispetto ai diplomati.

Anche la diversa probabilità di entrare nel mercato del lavoro sin dalla prima fase di transizione scuola-lavoro penalizza i livelli di scolarità più bassi. Infatti, se nel periodo 2008-2013 si sono drasticamente ridotti, per tutti i livelli di scolarità, i tassi di transizione dalla condizione di studente a quella di occupato, il crollo del tasso di transizione studente-lavoro tra le persone 15-29 anni non più in istruzione è stato dal 36,4% al 12% per le persone con licenza elementare, mentre dal 56% al 32,9% per i laureati. Crisi occupazionale per tutti i giovani, quindi, ma con una penalità aggiuntiva per i bassi livelli di scolarità, che hanno vissuto anche una più alta probabilità di perdere l’occupazione.

Nella crisi l’elemento primo della fragilità occupazionale è stato rappresentato dalla precarietà riferita alle tipologie contrattuali; durante la crisi si è riscontrato che i tagli di occupazione nelle imprese sono stati subiti in maggior misura dalle persone in occupazione temporanea. E poiché i contratti temporanei erano molto più diffusi in alcuni gruppi sociali, dai giovani alle persone con più basso titolo di studio, è su questi che più si è abbattuta la distruzione di lavoro.

Durante la crisi i termini “giovani” e “precari” sono diventati sinonimi e non solo in Italia. Ora il Jobs Act si pone come ripartenza, ma l’esito al termine del periodo di concessione delle agevolazioni contributive è tutto da verificare. Certo è che ha un compito titanico, tanto più che ad oggi, sebbene si sia bloccata la distruzione di lavoro, non è ripartita con intensità la creazione di lavoro aggiuntivo. Pertanto, persiste l’esito della dualità del mercato del lavoro, che consiste in una sorta di sovrappopolazione relativa che sinora ha dovuto subire tutti i processi di aggiustamento congiunturale e strutturale, perché fuori dal circuito delle tutele. Ed è una sovrappopolazione relativa composta da giovani e persone a più basso titolo di studio, relegati in posizione marginale, ammortizzatore degli equilibri del mercato del lavoro.

Peraltro, questa evidente funzionalità della temporaneità lavorativa utilizzata come cuscinetto elastico su cui scaricare il peso degli aggiustamenti del mercato del lavoro, ha generato una netta maggioranza contraria a percorsi di minori tutele per i lavoratori più giovani o comunque per alcuni lavoratori rispetto ad altri. Infatti, dall’indagine del Censis risulta che pagare meno e/o dare meno tutele a chi entra nel mercato del lavoro non è una scelta efficace. Infatti (Tabella 2):

  • il 67,5% (che sale ad oltre il 69% tra i Millennials) ritiene sia ingiusto, perché si creano fasce di lavoratori penalizzati, facilmente ricattabili;
  • il 19,3% ritiene che sia inevitabile, altrimenti le aziende non assumono nuovo personale, devono poterlo mandare via se non vale;
  • per il 13,2% è giusto, perché, per forza di cose, è meno produttivo, meno capace, deve imparare.

L’esperienza della precarietà diffusa ha convinto gli italiani che garantire minori tutele non consentirà di innescare la creazione di nuova occupazione reale e solida; di fronte a diversificazioni delle condizioni di tutela prevale il timore di nuove spirali perverse di precarietà o marginalità occupazionale.

Del resto, il costo della precarietà è stato quasi interamente assorbito dalle famiglie, se è vero che dei circa 4,4 milioni di giovani che vivono per conto proprio, da soli o sposati/conviventi, 979mila non riescono a coprire le spese mensili con il proprio reddito e 2,3 milioni ricevono regolarmente o di tanto in tanto aiuto economico dai propri parenti. Ai 979 mila Millennials che formalmente vivono per conto proprio e che ricevono aiuto economico regolare, le rispettive famiglie erogano un totale di 4,8 miliardi di euro annui.

Tabella 2. L’opinione degli italiani sulle regole per i nuovi occupati, per età degli intervistati (valori %) | Fonte: Indagine Censis, 2013

Più povertà, maggiore disuguaglianza

Dati ufficiali di confronto UE segnalano che in Italia negli anni della crisi si è avuto un incremento delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale da 15.099.000 a 17.326.000, con oltre 2,3 milioni di persone in più che sono entrate in territorio a rischio disagio, povertà, esclusione sociale (Tabella 3). Va poi tenuto presente che i trasferimenti sociali tengono fuori dall’area del rischio di povertà quasi il 5,2% degli italiani: sono infatti il 24,4% gli italiani a rischio povertà prima dei trasferimenti sociali dello Stato e sono il 19% dopo l’erogazione di tali risorse.

E’ indubbio che si è registrata una sorta di compressione verso il basso di persone che non hanno avuto più redditi o semplicemente si sono trovate ad affrontare spese crescenti con conseguente insostenibilità dei budget familiari. In parallelo con l’ampliamento dell’area del disagio sociale, si è avuto anche un ampliamento della forbice sociale: infatti, prendendo a riferimento dati Istat relativi alle professioni svolte dagli italiani, emerge che nel periodo 2007-2013 (Tabella 4):

  • i lavoratori in proprio hanno subito una riduzione della spesa media mensile pari al 20,6%;
  • gli operai e assimilati del -20,7%, con 2.192 euro mensili;
  • gli imprenditori e i liberi professionisti del -16,0%, con una spesa pari a 3.393 euro;
  • i dirigenti e gli impiegati del -13,8%, con una spesa pari a 2.911 euro.

Tabella 3. Persone a rischio povertà o esclusione sociale*: confronto tra alcuni Paesi europei. Anni 2008-2013 | Fonte: Elaborazione Censis su dati Eurostat | * L’indicatore rischio di povertà o esclusione sociale considera la percentuale di persone che si trovano in almeno una delle seguenti condizioni: vivono in famiglia a bassa intensità di lavoro (hanno lavorato meno del 20% del totale dei mesi dell’anno) / vivono in famiglie a rischio di povertà, cioè con un reddito familiare inferiore al 60% del reddito mediano nazionale (nel 2013 la soglia per l’Italia è pari a 9.456 euro annui) / vivono in famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale, ossia presentano almeno 4 delle seguenti 9 condizioni: mancanza di telefono, tv a colori, lavatrice, automobile, impedimenti nel consumare un pasto a base di carne o pesce ogni 2 giorni, nello svolgere una vacanza di almeno 1 settimana fuori casa durante l’anno, nel pagare regolarmente rate di mutui o affitto, nel mantenere l’appartamento riscaldato, nel fronteggiare spese inaspettate.

Tabella 4. La spesa media mensile delle famiglie per condizione professionale. Anni 2007-2013 | Fonte: Elaborazione Censis su dati Istat

Nel biennio 2012-2013 gli operai e assimilati hanno subito una contrazione della spesa media mensile del -6,9% in termini reali, di contro al -3,6% dato medio.

Chi meno spendeva, più ha dovuto tagliare, con conseguente allungamento delle distanze di spesa tra gruppi sociali. Pertanto, si è avuta una doppia regressività:

  • ampliamento dell’area del disagio conclamato e di quella a rischio disagio;
  • ampliamento delle disuguaglianze sociali e di reddito, con un esito della crisi più penalizzante per i gruppi sociali a più basso reddito e/o con minori risorse e opportunità.

E’ il capovolgimento del paradigma dello sviluppo italiano in cui la maggioranza delle famiglie migliorava il proprio livello di benessere in un contesto di compattamento e di minori distanze sociali; nella crisi, invece, in tanti hanno visto peggiorare la propria condizione sociale in un contesto di ampliamento delle distanze, con il rischio di fratture sociali. Per questo grandi ricchezze e/o redditi convivono con nuove e profonde povertà, e tutto in un contesto socialmente immobile che inevitabilmente allunga le distanze e rende possibili le fratture.

I nuovi processi

Sarebbe un errore interpretativo grave risolvere la lettura della composizione sociale solo sulla scorta delle dinamiche patologiche; occorre infatti guardare con attenzione ai fattori di riposizionamento e rilancio che pure in questi anni hanno preso quota. La società italiana non è solo un coacervo di patologie sociali, ma un intreccio complesso di dinamiche a diversa direzione, di cui occorre capire la risultante di lungo periodo. Per questo è importante guardare alle caratteristiche del nuovo ceto medio e alla persistenza della propensione imprenditoriale che si ormai radicata nei comportamenti diffusi dei Millennials.

Sobrio e propenso alla responsabilità individuale: arriva il nuovo ceto medio

Molecolare, molto differenziata, ad alta soggettività, piena di aspettative e di obiettivi diversi: così è la società italiana che vuol tornare a fare sviluppo. Indistinta e sfuggente, ha messo in crisi le giunture sistemiche della vita collettiva e si è dimostrata refrattaria alla governabilità, tramite processi concertativi o anche di accentuazione della verticalità (“un uomo solo al comando”).

Non ci si può però limitare a tirare le somme della fenomenologia regressiva: occorre partire dai processi per comprendere se esistono e quali siano i nuovi protagonismi di massa, collettivi, in grado di generare una dinamica di sviluppo. In Italia lo sviluppo o è di popolo o non è, e anche la stessa reazione alla crisi è stata fondamentalmente una reazione di popolo, dalla sopravvivenza ai riposizionamenti virtuosi.

Gli anni recenti, come rilevato, hanno generato paura e rattrappimento che sicuramente non sono stati neutrali rispetto alla potenza delle energie collettive; nell’occhio del ciclone ci sarebbe il ceto medio, colpito da dinamiche centrifughe opposte a quelle centripete a cui, sino al recente passato, si deve il più radicale cambiamento socio-economico del nostro Paese.

In realtà, la sopravvivenza alla crisi racconta di un ceto medio profondamente cambiato, ma ancora in grado di essere protagonista. Sul piano della attrattività sociale, dai dati emerge che, in modo trasversale a classi di età, livelli di reddito, professione svolta, prevale la percezione di se stessi come membri del ceto medio. Se la caduta o la fragilità della propria condizione sociale è diffusa, tuttavia a prevalere nel corpo sociale è ancora la percezione di “essere ceto medio”.

La novità è che alla condizione di ceto medio sono associati comportamenti e stili di vita diversi rispetto anche al passato recente. Sobrietà nei consumi e responsabilità individuale piuttosto che compulsione consumista e resa ad un destino impiegatizio: questi i cardini socio-valoriali che aiutano a descrivere la nuova composizione sociale e il senso di sè del nuovo ceto medio. La sobrietà è stata fatta di ridefinizione di carrelli della spesa, dispense, armadi con un radicale ripensamento dei meccanismi di gestione del reddito e della spesa; inoltre i dati Censis mostrano come prosegue la propensione al risparmio cautelativo (il tenere i soldi pronti per ogni evenienza).

E’ una articolazione di comportamenti trasversale ai gruppi sociali, professionali e ai territori ed è maggioritaria tra coloro che si sentono oggi ceto medio.Nella cultura e nella pratica collettiva quindi prevale la spinta sul risparmio piuttosto che la corsa ai consumi; sobrietà è la parola chiave, che non vuol dire ascetismo, ma un uso oculato di risorse potenzialmente disponibili per usi alternativi. E la sobrietà contribuisce a rendere gli stili di vita, intesi come il rapporto con i consumi, le modalità di fruizione del tempo libero, le tipologie di disagio che si vivono, come il più formidabile collante sociale. Ci si sente più vicini alle persone che hanno stili di vita simili ai propri che a quelle che svolgono un analogo lavoro o hanno eguali disponibilità di reddito.

Le dinamiche socio-valoriali indicate sul piano sociale potrebbero essere interpretate in chiave puramente cautelativa se però la società non fosse attraversata da un, forse silenzioso ma non per questo meno significativo, rilancio del fai da te. Nuovi flussi imprenditoriali infatti sono in movimento e materializzano quella propensione alla responsabilità individuale che pure costituisce un fattore costitutivo del nuovo ceto medio, e che comunque genera un protagonismo di massa importante per lo sviluppo.

Il vizio di fare impresa rilanciato dai Millennials

L’antica propensione a fare impresa rimane un tratto costitutivo della nostra società; i numeri segnalano che nella crisi, pur nelle enormi difficoltà, di fatto non è venuta meno la voglia di intraprendere. Infatti, sebbene tra il 2007 e il 2014 ci sia stata una contrazione di 26.508 imprese attive pari a -0,5%, nel lungo periodo, ad esempio tra il 2000 e il 2014 l’incremento è stato di oltre 308 mila imprese attive pari a +6,4%. L’analisi annuale mostra che nel 2014 si è avuto un flusso di nuove iscrizioni di quasi 372 mila imprese a cui ha fatto da riscontro un numero di cessazioni di 340 mila imprese con un saldo netto positivo pari a +30.034 imprese e un tasso di crescita del +0,53%, nettamente superiore a quello dei due anni precedenti.

I dati della creazione di impresa segnalano territori in corsa, cioè più segnati dalla accelerazione della creazione di impresa; ad esempio le province di Roma (+8.268 imprese, +2,5%) e Milano (+3.425 imprese, +1,2%) sono quelle che hanno segnato la dinamica più positiva negli ultimi due anni.

Se la dinamica imprenditoriale è una invariante che ha resistito alla crisi e si va rilanciando, emerge una diversificazione dei sentieri di sviluppo della nuova imprenditorialità. In modo puramente convenzionale, si possono fissare almeno quattro sentieri che fanno capo a processi diversi in termini di fattori di contesto e modalità operative delle imprese:

  • la spinta verso forme più strutturate di impresa, con una più alta capacità di drenare risorse finanziarie di provenienza diversa, dagli incentivi pubblici ai capitali sui mercati finanziari e con una armatura più funzionale alla propria crescita;
  • una neo-imprenditorialità diffusa, spesso micro, capace – soprattutto in alcuni settori – di valorizzare le opportunità legate all’abbattimento delle soglie di accesso (dal costo delle locazioni commerciali agli incentivi fiscali ai più bassi costi di avviamento legato a nuove soluzioni organizzative o tecnologiche);
  • le imprese innovative, di solito start up che gemmano dall’uso astuto delle opportunità legate alle nuove tecnologie. Sono piccole schegge che tra web, app, soluzioni informative e tecnologiche varie, spesso mixate con prodotti e servizi più tradizionali, cercano di intercettare i flussi crescenti di nuovi mercati in rapida crescita e, in molti casi, si pongono come success story eclatanti;

le imprese che vanno sempre più per il mondo, forti di una notevole capacità competitiva affinata nella crisi e sulle ali di una svalutazione dell’euro che mette il turbo in molti settori.

La vera novità sta nel fatto che la creazione di imprese è oggi uno dei terreni più rilevanti di espressione della vitalità dei Millennials; di notevole interesse sono i dati che certificano la vitalità imprenditoriale giovanile (Tabella 5):

  • tra aprile e giugno 2015 le imprese avviate da un under 35 sono state quasi 32mila, con 11.050 cessazioni e un saldo attivo di 20.542 imprese;
  • le nuove imprese giovanili iscritte ai registri ufficiali sono state quasi un terzo del totale (32,3%), contro un 18,5% di cessazioni;
  • il saldo delle nuove imprese giovanili è pari a oltre il 54% del saldo netto del totale delle imprese;
  • il totale delle imprese giovanili è salito a oltre 594mila, pari al 9,8% del totale delle imprese.

Per dare un’idea si può dire che sono nate quasi 300 imprese giovanili al giorno in più, nei tre mesi analizzati (week end inclusi), con un tasso di crescita del +3,6% a fronte del +0,6% del tasso di crescita complessivo.

Alle alte barriere di accesso al mercato del lavoro e ai rischi di incaglio nella precarietà, i Millennials italiani hanno contrapposto una forza vitale, partendo da una potenza italiana consolidata: l’imprenditorialità, la voglia di intrapresa.

Tabella 5. L’imprenditorialità dei Millennials. 2015, II trimestre | Fonte: UnionCamere – InfoCamere, 2015

Colpisce come la voglia di fare dei giovani italiani attraversi il paese da Nord a Sud, andando oltre le tradizionali dinamiche geografiche dello sviluppo; al di là delle tante ragioni, a volte contraddittorie, che possono alimentare la spinta a creare microimprese, è importante sottolineare la forza dell’imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno, confermata dal fatto che:

  • il 40,6% del totale delle nuove imprese in quell’area sono giovanili;
  • il tasso di crescita trimestrale per le imprese giovanili è stato del 3,5%, contro allo 0,6% per il totale imprese nel meridione.

In generale, nel 76% dei casi le neo-imprese giovanili nascono nella forma di impresa individuale e sono micro imprese; commercio (oltre 6.500 le imprese in più nel trimestre), servizi di alloggio e ristorazione (+2.800) e costruzioni (+2.300) sono i settori in cui più si è dispiegata questa vitalità. Più intraprendenti dei coetanei europei, i Millennials italiani sono i primi in graduatoria come lavoratori autonomi: sono 941mila (nella classe 20-34 anni), seguiti da 849mila inglesi e 528mila tedeschi. E sempre in Italia si rileva il più elevato numero di giovani lavoratori autonomi che hanno del personale alle proprie dipendenze (188mila), a fronte dei 163mila della Germania e gli 84mila del Regno Unito.

Altro terreno su cui si esprime con forza la collocazione dei giovani sulla frontiera dell’innovazione, laddove si meticciano nuove tecnologie, orientamenti global, nuovi stili di vita e fare impresa, è quello delle start up.
A fine giugno 2015 le start up innovative iscritte alla sezione speciale del Registro Imprese sono 4.248, tra queste 1.005 hanno come titolare un under 35 e 1.724 annoverano la presenza di un giovane nella compagine societaria. Tra le città più innovative c’è Milano, con 607 start up attive nella sua provincia (14,3% del totale), seguita a distanza da Roma (361 start up, 8,5% del totale) e Torino (224 start up, 5,3%). La quota delle start up con a capo un under 35 (23,7%) rispetto a quella delle società di capitali giovanili (6,7%) è quasi quattro volte superiore; inoltre è il 41,6% delle start up ed il 13,8% delle società di capitale ad avere almeno un giovane nella compagine societaria o nel consiglio di amministrazione.

In generale, si può dire che è in prevalenza giovane l’innovatore che gioca la partita dell’intrapresa, che è perno di processi di rigenerazione economica nei territori e che è in grado di far agganciare il locale alle reti lunghe globali, anche grazie alle nuove tecnologie.

L’impresa sociale nel nuovo contesto: poche note per un pensiero altro

Giocare la persistente molecolarità della società italiana; favorire processi di ricomposizione; più ancora, creare i presupposti di scenario utili per l’accelerazione dei processi sociali spontanei virtuosi: sono alcuni degli obiettivi che la composizione sociale della società, così come è, indica come prioritari.

In questo senso, l’impresa sociale non può essere solo componente significativa dei processi riparativi rispetto alle patologie sociali, ma deve diventare protagonista dei processi sulla frontiera dell’innovazione sociale, dove si sperimentano nuove ibridazioni rispetto ai settori tradizionali.

A questo proposito, si pensi alle opportunità legate al nuovo welfare, allo sviluppo di straordinari mercati sociali interamente finanziati dalle risorse private dei cittadini. Dal sanitario al socio-assistenziale si stimano quasi 50 miliardi di euro di risorse dei cittadini che acquistano prestazioni sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali private, e che rischiano di diventare base materiale per lo sviluppo quasi esclusivo di provider for profit.

Ebbene, questa è una dimensione cruciale dello stile di vita del nuovo ceto medio, pronto a investire per crearsi nuove tutele piuttosto che per ampliare i suoi livelli di consumo; su questa frontiera della domanda sociale pagante, dove ci sono spazi straordinari per nuova imprenditorialità capace di ibridare forme tradizionali di lavoro sociale con le nuove opportunità dell’ICT e del web, si gioca una delle sfide dell’imprenditorialità sociale.

Se la cooperazione sociale come pura ancella dei processi di outsourcing e spending review del welfare pubblico è in difficoltà, occorre portare nel nuovo scenario l’accumulo di expertise e volontà che sono componente decisiva del terzo settore italiano. Ciò vuol dire misurarsi non solo con gli esiti patologici dei processi sociali regressivi, ma con le opportunità che sono state qui indicate e che sono all’origine di nuova creazione di valore su cui può basarsi ogni ipotesi neo-ridistributiva.

Non sono sufficienti strategie orientate al terzo escluso o agli sconfitti della lotta di classe, occorrono iniziative di tipo imprenditoriale capaci di intercettare le nuove energie sociali, facendone il lievito di una nuova imprenditorialità sociale che nel suo stesso operare genera una virtuosa ridistribuzione di opportunità, prima ancora che di redditi e patrimoni, e per ciò contribuisce ad una nuova sostenibilità e qualità della vita delle nostre comunità.

Bibliografia

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