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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-6-2015-valutare-l-impatto-sociale-la-questione-della-misurazione-nelle-imprese-sociali

Editoriale

La sfida dell’innovazione sociale

Andrea Bassi, Giulio Ecchia

Saggi

Il crowdfunding delle imprese sociali italiane

Bernardo Balboni, Ulpiana Kocollari, Ivana Pais

Valutare l'impatto sociale

Stefano Zamagni, Paolo Venturi, Sara Rago

Policy

Benefit corporation e impresa sociale

Paolo Venturi, Sara Rago

Echi

I beni confiscati al bivio

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Numero 6 / 2015

Saggi

Valutare l'impatto sociale. La questione della misurazione nelle imprese sociali

Stefano Zamagni, Paolo Venturi, Sara Rago

Abstract

La necessità di soffermarsi sul tema dell’impatto generato dalle imprese sociali nasce dal passaggio da un modello di welfare state ad uno di welfare society (o “civile”), all’interno del quale il terzo settore – agente fondamentale del rinnovato modello di welfare – subisce anch’esso una metamorfosi, passando dall’essere redistributivo a produttivo. Ciò indica una diversa modalità di reperimento delle fonti di finanziamento, con inevitabili conseguenze sulla necessità di implementare strumenti per la valutazione dell’impatto del proprio operato. All’interno di questo cambiamento di scenario, il presente saggio intende approfondire il tema della valutazione dell’impatto delle imprese sociali a partire dalla definizione di nuove modalità di produzione di valore aggiunto, evidenziando come l’utilizzo di elementi legati al concetto di impatto (la catena del valore dell’impatto, il coinvolgimento degli stakeholder nel processo di misurazione, ecc.) siano strategici per generare valore e per la sua conseguente valutazione in termini di impatto. A seguito di una ricognizione di metodologie e strumenti esistenti a livello internazionale sul tema, il saggio intende offrire una proposta elaborata dagli autori (Social Enterprise Impact Evaluation – SEIE), ovvero una griglia composta da sette dimensioni, ciascuna declinata in indicatori volti a rilevare il contributo specifico in termini di impatto da parte delle imprese sociali.


The need to argue on the impact of social enterprises stems from the shift from a model of welfare state to one of welfare (or “civil”) society, within which the third sector - a fundamental actor in the new welfare model - is undergoing a transformation itself, from being redistributive to being productive. This implies a different way of recovering funding sources, and leads to unavoidable consequences on the need to implement tools measuring the impact of its own action. Within such a change of scenery, this essay aims at studying in depth the assessment of social enterprises’ impact, starting from the identification of new ways of producing added value, thus emphasising how the use of elements linked to the concept of impact (the chain of impact value, stakeholders’ involvement in the measuring processes etc.) are strategic to create value and to its subsequent assessment in impact terms. After a review of methodologies and tools existing at an international level on this topic, the essay introduces a proposal elaborated by the authors (Social Enterprise Impact Evaluation - SEIE), i.e. a form made of seven different variables, each of them is declined in indicators aimed at measuring the specific contribution in terms of impact on the part of social enterprises.

Introduzione

La necessità di soffermarsi sul tema dell’impatto sociale generato dalle imprese sociali nasce dalla fase di passaggio che il Terzo settore italiano sta attraversando e che si lega inevitabilmente alla transizione da un modello di welfare state ad uno di welfare society (o “civile”), due sistemi di welfare che si basano su altrettanti principi. Da un lato, quello di redistribuzione, in cui lo Stato preleva dai cittadini risorse tramite la tassazione e le redistribuisce attraverso il sistema di welfare; dall’altro, il principio di sussidiarietà circolare in cui i cittadini sono coinvolti nel processo di pianificazione e di produzione dei servizi (co-produzione), che supera la dicotomia pubblico-privato (ovvero Stato-mercato) aggiungendovi una terza dimensione, quella del civile.

Anche il Terzo settore – in quanto parte fondamentale del rinnovato modello di welfare – subisce una metamorfosi, passando dall’essere redistributivo a produttivo. Nel primo modello le risorse erano di natura per lo più pubblica e pertanto lo Stato rimaneva titolare della progettazione dei servizi sociali. Nell’ultimo ventennio, tuttavia, ha preso avvio un mutamento in tal senso che incide sia sulle fonti delle risorse per il Terzo settore (sempre più orientato al mercato e con crescenti rapporti con gli istituti di credito), sia sulla conseguente necessità di implementare metodologie e strumenti per la valutazione dell’impatto sociale del loro operato sulle comunità di riferimento, superando le difficoltà tipiche di questi soggetti nell’individuare risorse umane ed economiche da dedicare a tal fine (OECD, 2015).

Come sostengono Perrini e Vurro (Perrini, Vurro, 2013), infatti, “alla progressiva contrazione delle risorse pubbliche e private a disposizione di progetti a valenza sociale, si è affiancata la necessità di ottimizzare i processi di allocazione delle risorse verso imprenditori, iniziative e organizzazioni che fossero in grado di comprovare con trasparenza e oggettività, l’efficacia dei propri modelli d’intervento a sostegno di problemi sociali complessi nei diversi ambiti tipicamente ascritti al Terzo settore”.

“Valutare” significa “dare valore” e non meramente misurare e giudicare. Se nella logica precedente era sufficiente controllare la trasparenza e rendicontare attraverso opportuni documenti, oggi è il Terzo settore stesso a dovere individuare una metrica sufficientemente precisa e saggia tale da garantire il rispetto dell’identità dell’impresa sociale. Una metrica che superi le logiche di misurazione strettamente legate al mondo capitalistico, che tralasciano aspetti definitori e fondamentali del Terzo settore (quali, ad esempio, il grado di democraticità interna), e che sia in grado di valorizzare gli elementi e i percorsi di innovazione sociale di cui le imprese sociali si fanno portatrici nei mezzi e nei fini del loro agire.

La questione della valutazione dell’impatto sociale, inoltre, si lega anche alla necessità di trovare una risposta italiana all’orientamento in materia dettato a livello europeo (CESE, 2013), che prevede che l’obiettivo della misurazione dell’impatto sociale sia “misurare gli effetti sociali e l’impatto sulla società determinati da specifiche attività di un’impresa sociale” e che “qualsiasi metodo di misurazione va elaborato a partire dai risultati principali ottenuti dall’impresa sociale, deve favorirne le attività, essere proporzionato e non deve ostacolare l’innovazione sociale. Il metodo dovrebbe prefiggersi di trovare un equilibrio tra dati qualitativi e quantitativi, nella consapevolezza che la ‘narrazione’ è centrale per misurare il successo”.

Proprio perché “conseguire un impatto sociale positivo rappresenta l’obiettivo fondamentale di un’impresa sociale ed è spesso parte integrante e una componente permanente della sua attività” (CESE, 2013), anche la Riforma del Terzo settore italiano, il cui iter è attualmente in corso[1], si concentra fortemente su questo tema, ricollocandolo al centro del dibatto su più fronti.

Da un lato il concetto di impatto sociale si lega al tema delle modalità di affidamento dei servizi sociali ai soggetti del Terzo settore. La previsione contenuta nel Disegno di Legge, infatti, intende “valorizzare il ruolo degli enti nella fase di programmazione, a livello territoriale, relativa anche al sistema integrato di interventi e servizi socio-assistenziali nonché di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale e individuare criteri e modalità per l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale, improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione, nonché criteri e modalità per la valutazione dei risultati ottenuti” (Governo Italiano, 2015 - art. 4, comma 1, lettera m).

Altresì il tema dell’impatto sociale è collegato alle funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sarà titolato a svolgere secondo le previsioni contenute nel Disegno di Legge: “Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentiti gli organismi maggiormente rappresentativi del Terzo settore, predispone linee guida in materia di bilancio sociale e di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore, anche in attuazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera m). Per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato” (ibidem - art. 7, comma 3).

Al contempo, anche i benefici in termini di misure fiscali e di sostegno economico agli enti non commerciali contenuti nella Delega per la Riforma del Terzo settore saranno ponderati rispetto all’evidenza in termini di impatto sociale delle attività svolte: “definizione di ente non commerciale ai fini fiscali connessa alle finalità di interesse generale perseguite dall’ente e introduzione di un regime tributario di vantaggio che tenga conto delle finalità solidaristiche e di utilità sociale dell’ente, del divieto di ripartizione, anche in forma indiretta, degli utili o degli avanzi di gestione e dell’impatto sociale delle attività svolte dall’ente” (ibidem - art. 9, comma 1, lettera a).

Infine, la stessa definizione della qualifica di impresa sociale, riformulata all’interno del Disegno di Legge, si lega alla produzione di impatti sociali positivi conseguiti attraverso la produzione o lo scambio di beni e servizi di utilità sociale. Cioè a dire che l’impresa sociale è oggi chiamata a dare evidenza dell’impatto da essa generato anche in virtù della possibilità di essere beneficiari di strumenti di finanza ad impatto sociale (social impact investment) (Social Impact Investment Task Force, 2014a). L’impatto sociale all’interno del mondo della finanza sociale viene, infatti, definito come “cambiamenti significativi, sia previsti che non, delle condizioni di benessere delle comunità, indotti dall’allocazione del capitale di investimento sociale, che va al di là di ciò che ci si sarebbe aspettati che accadesse” (Nicholls et al., 2015).

Mai come oggi, quindi, il “terreno” su cui poggia l’impatto sociale delle imprese sociali risulta essere “fertile” e richiede che venga avviato un percorso in grado di dare valore all’operato di tali soggetti.

Nuovi modelli di produzione del valore aggiunto

All’interno di questo cambiamento di scenario, mutano al contempo anche le modalità di produzione del valore aggiunto in quanto modifiche sostanziali stanno riguardando tutte le tipologie di istituzioni socio-economiche esistenti. Da un lato, le imprese for profit stanno cambiando la loro modalità di produzione di beni e servizi, tenendo insieme in misura crescente la dimensione economica e quella sociale del processo di produzione di valore aggiunto. Dall’altro lato, il ruolo dello Stato viene rivisitato alla luce del diffondersi di processi di co-produzione di servizi di welfare. Questo approccio alla produzione del valore aggiunto messo in atto dallo Stato risponde alla domanda di processi democratici nella costruzione di un nuovo welfare inclusivo. Attraverso l’inclusione dei cittadini nel processo produttivo di tali servizi, infatti, si garantisce la costruzione di un welfare caratterizzato da alti livelli di qualità e realmente democratico e capacitante (Venturi, Zandonai, 2014).

Anche il contributo del Terzo settore oggi conosce un differente significato. Le rilevazioni più recenti (Istat, 2013) evidenziano come le organizzazioni non profit siano oggi caratterizzate principalmente dal mutamento in atto del processo di erogazione dei servizi che può essere definito come “marketization”, ovvero una tendenza ad incrementare la percentuale di beni e servizi venduti sul mercato da parte di tali soggetti e, di conseguenza, ad accrescere quella componente produttiva del not-for-profit (Ambrosio, Venturi, 2012). Sempre più attori del sistema economico e produttivo dei territori di riferimento, dunque, pur mantenendo la centralità della mission di carattere sociale.

Il concetto di valore aggiunto prodotto dalle imprese sociali, in particolare, fa riferimento ad “un insieme di caratteristiche e di qualità positive, appartenenti ad una determinata organizzazione […]” in grado di far comprendere a chi la osserva “come questa produca nel contesto di riferimento un cambiamento positivo, distinguendosi così dall’operato di altre organizzazioni similari” (Lippi Bruni et al., 2012). Pertanto “la rilevanza della misurazione del valore aggiunto del Terzo settore risiede nella conseguente possibilità di operare più efficacemente, anche attraverso un’ottimizzazione dell’allocazione delle risorse disponibili, ovvero orientandole sulle attività intraprese dall’organizzazione aventi maggiore impatto” (ibidem).

Il contributo apportato dalle imprese sociali in termini di produzione di valore aggiunto può essere declinato su quattro dimensioni: sociale, culturale, economico, istituzionale. Per il contributo in termini di produzione di beni relazionali e creazione di capitale sociale, le imprese sociali creano valore sociale che si declina, ad esempio, nella capacità di lettura dei bisogni del territorio, nella creazione di reti di partner mantenendo nel tempo tali relazioni, nella costruzione di sistemi aperti di governance multistakeholdership, nella capacità di includere soggetti appartenenti a categorie vulnerabili (svantaggiati, giovani, donne, immigrati, ecc.). In estrema sintesi, come affermato da Perrini e Vurro (Perrini, Vurro, 2013), “il valore sociale creato rimanda alla capacità di un’organizzazione di determinare un cambiamento tangibile e duraturo in un determinato contesto d’azione (Crutchfield, Grant, 2008; Perrini, 2007), modificando significativamente le condizioni di vita dei destinatari della missione sociale (Roche, 1999)”.

Tali imprese inoltre diffondono valori (equità, tolleranza, solidarietà, mutualità) coerenti con la propria mission, nella comunità circostante creando valore culturale attraverso attività di animazione della comunità e applicando politiche di trasparenza nei confronti degli stakeholder.

Tuttavia le imprese sono generatrici, in quanto soggetti produttivi, di valore aggiunto economico generato attraverso l’aumento (o non consumo) di ricchezza materiale, economica e finanziaria (investimento, risparmio) che un’organizzazione produce attraverso la sua attività specifica. Come definito da Perrini (Perrini, 2013), il valore economico è “la somma attualizzata dei flussi che un’impresa o un’organizzazione genererà in futuro dal complesso dei suoi investimenti, a prescindere dal fatto che essi vadano a remunerare la proprietà o gli azionisti o i conferenti di capitale di debito”. Ciò si traduce nella capacità di attivare risorse economiche e non (risparmio della spesa pubblica, attrazione di lavoro volontario, allocazione/acquisizione gratuita di attrezzature e spazi, ecc.) e di promuovere l’imprenditorialità sociale attraverso la costituzione di nuove realtà o lo sviluppo di attività imprenditoriali.

Infine, le imprese sociali generano valore istituzionale contribuendo al rafforzamento della sussidiarietà a diversi livelli istituzionali influenzando le politiche del territorio, istituendo partnership pubblico-private e condividendo visioni e obiettivi comuni con le istituzioni.

La catena del valore dell’impatto

L’economista Peter Drucker interpreta l’imprenditore sociale come colui il quale “cambia la capacità di performance della società” (Gendron, 1996), cioè a dire che l’impatto dell’imprenditorialità sociale supera di gran lunga le aree di interesse specifiche degli imprenditori (ad esempio, disabilità, educazione, questioni di genere, ambiente, ecc.) abilitando le società a migliorare nel complesso le proprie capacitazioni. L’imprenditore sociale riveste, quindi, un ruolo di agente del cambiamento nel settore in cui opera, adottando una mission in grado di generare valore sociale e mostrando un elevato senso di trasparenza nei confronti dei beneficiari e rispetto agli outcome generati (Dees, 1998). Per Ashoka, il network globale di imprenditori sociali fondato nel 1981 da Bill Drayton, gli imprenditori sociali sono in grado di produrre piccoli cambiamenti nel breve periodo che si ripercuotono attraverso sistemi esistenti e che in definitiva comportano un cambiamento significativo di lungo periodo (impatto).

Il cambiamento sociale è pertanto la trasformazione sistemica relativa a modelli di pensiero, relazioni sociali, istituzioni e strutture sociali che ha luogo attraverso un orizzonte temporale di lungo periodo. In particolare, il cambiamento sociale introdotto dagli imprenditori sociali avviene attraverso l’uso di metodologie che migliorano le condizioni della società e permettono la fioritura di potenzialità connaturate nel sistema (Praszkier, Nowak, 2012).

Maiolini et al. (Maiolini et al., 2013) sostengono che “un’impresa sociale genera impatto sociale perché coinvolge la proprietà, il management e molteplici categorie di stakeholder (dai volontari ai finanziatori) in modo tale da favorire importanti relazioni con le comunità locali con le quali interagiscono”. Gli stakeholder devono poter riconoscere e legittimare l’impatto derivante dalle azioni delle imprese sociali (Solari, 1997). Non solo: comprendere i bisogni degli stakeholder è un elemento chiave nella definizione degli obiettivi ex ante e, di conseguenza, al fine di garantire la coerenza in termini di impatto delle attività realizzate (Kail, Lumley, 2012). In tal senso, “l’impresa sociale, data la sua natura inclusiva e partecipativa, sembra l’attore più dedicato e votato alla generazione di impatti sociali positivi e generalizzati” (Chiaf, 2015).

Per poter comprendere concretamente il cambiamento apportato da un’impresa sociale il framework logico da assumere è quello relativo alla cosiddetta catena del valore dell’impatto (impact value chain) che permette di individuare graficamente i diversi passaggi in cui si esplica la cosiddetta teoria del cambiamento (Figura 1).

Figura 1. La catena del valore dell’impatto

A livello europeo e mondiale sono attualmente presenti diversi metodologie e strumenti per la misurazione degli output (esiti), degli outcome (risultati) e dell’impatto sociale (Tabella 1). Per comprendere le diversità e le affinità della pluralità di metodologie e strumenti esistenti, è necessario innanzitutto partire dalla definizione di input, attività, output, outcome e impatto da cui poi si possono articolare differenti set di indicatori.

Gli input sono tutte quelle risorse di diversa natura (denaro, competenze e tempo di individui e organizzazioni, edifici e altri beni fissi come macchinari) impiegate nelle attività, ovvero il lavoro intrapreso utilizzando le risorse con lo scopo di fornire il risultato desiderato (GECES, 2015).

Gli output sono prodotti, beni capitali e servizi risultanti da un intervento, ovvero, i risultati immediati delle attività svolte dall’organizzazione. Rientrano tra gli output anche i cambiamenti risultanti dall’intervento che sono rilevanti per il raggiungimento dell’outcome. Gli output sono quindi risultati che l’azienda ottiene nel breve periodo, i cui effetti sono direttamente controllabili e sotto la responsabilità dell’organizzazione stessa. Gli indicatori di output misurano, quindi, la quantità (e a volte la qualità) dei beni e dei servizi prodotti dall’organizzazione (output) e l’efficienza della produzione, risultato di un’azione, di un progetto o di un programma che l’organizzazione mette in atto (OECD, 1991), senza però estendersi all’efficacia dell’intervento, che è invece contemplata nei risultati e nell’impatto (GECES, 2015).

Gli outcome sono gli effetti (cambiamenti comportamentali, istituzionali e sociali) osservabili nel medio-lungo periodo (da 3 a 10 anni) raggiunti o presumibili degli output dell’intervento (azione, progetto, programma). Gli indicatori di outcome misurano, quindi, i risultati intermedi generati dagli output di un programma/progetto/azione, aiutando a verificare che i cambiamenti positivi ipotizzati abbiano davvero avuto luogo (OECD, 1991). Tali risultati vanno quindi oltre la responsabilità dell’azione della singola organizzazione e sono influenzati anche da fattori esterni che devono essere considerati al momento della costruzione degli indicatori (situazione economica e sociale dei beneficiari, eventuali resistenze culturali, ostacoli al raggiungimento degli obiettivi prefissati, ecc.). Per questo motivo gli indicatori di outcome possono essere costruiti a diversi livelli: comunitario, di organizzazione e di programma. Gli indicatori che si costruiscono per il livello comunitario misurano, a seconda dell’ambito di azione dell’organizzazione, i cambiamenti delle condizioni o del benessere della comunità delle famiglie, dei beneficiari del progetto. D’altra parte gli indicatori costruiti a livello di organizzazione e di programma misurano i risultati fino a dove l’organizzazione, il programma o gli eventuali sotto-programmi sono responsabili.

La definizione di impatto è invece più complessa, come la sua misurazione. Viene infatti definito come il cambiamento sostenibile di lungo periodo (positivo o negativo; primario o secondario) nelle condizioni delle persone o nell’ambiente che l’intervento ha contribuito parzialmente a realizzare, poiché influenzato anche da altre variabili esogene (direttamente o indirettamente; con intenzione o inconsapevolmente). L’impatto viene determinato tenendo in considerazione anche gli esiti di quella che in ambito scientifico viene chiamata “analisi controfattuale”, ovvero quella valutazione che permette di verificare cosa sarebbe successo in assenza dell’attività implementata dall’organizzazione (cosiddetta deadweight - Commissione Europea, 2003a) e, di conseguenza, la causalità tra l’operato dell’organizzazione e l’impatto generato.

Gli indicatori di impatto misurano quindi la qualità e la quantità degli effetti di lungo periodo generati dall’intervento; descrivono i cambiamenti nelle vite delle persone e lo sviluppo a livello globale, regionale e nazionale, tenendo conto delle variabili esogene che lo influenzano (OECD, 1991).

A titolo esemplificativo, al fine di comprendere le differenti categorie appena descritte, si pensi alla realizzazione di un corso di formazione per disoccupati volto al loro inserimento lavorativo. Gli input saranno rappresentati dalle risorse (economiche, umane etc.) messe in campo per la realizzazione del corso; le attività sono quelle specifiche relative alla formazione; gli output corrispondono al numero di persone che prendono parte al corso, mentre l’outcome coincide con il numero di quanti hanno frequentato il corso e hanno successivamente trovato lavoro. Infine, l’impatto è rappresentato dal vantaggio socio-economico per la comunità in cui sono inseriti gli individui che hanno partecipato al corso e trovato un lavoro.

Identificare l’obiettivo perseguito: perché e per chi misurare?

Come sostengono Nicholls et al. (Nicholls et al., 2015), l’impatto sociale è un concetto multilivello e multidimensionale; di conseguenza, la sua misurazione è una sfida impegnativa anche all’interno di programmi di ricerca (di natura accademica o più di policy) e lo è ancor di più nell’attività di redazione di rapporti sul tema da parte delle organizzazioni stesse.

La difficoltà degli strumenti di misurazione nel valutare in modo univoco l’impatto delle attività è accentuata dalla pluralità di obiettivi perseguiti: dalla rendicontazione verso soggetti esterni alla gestione interna delle attività. Plurime sono infatti le motivazioni per cui si può decidere di osservare l’impatto generato da un’impresa sociale (Chiaf, 2015): ad esempio, ex ante, per prendere decisioni in merito al sostenere o meno un progetto, o ex post, per valutarne gli esiti e informarne i beneficiari o, più in generale, la comunità.

Plurale è anche la platea di soggetti rispetto alla quale può essere utile misurare l’impatto. Anzitutto, si tratta di una modalità di “accountability esterna” nei confronti degli investitori (Nicholls et al., 2015). Dal punto di vista di questi ultimi, infatti, ovvero “imprese interessate a gestire strategicamente le proprie iniziative filantropiche, enti e organizzazioni pubbliche impegnate in processi di ottimizzazione dei propri costi e di rafforzamento dell’efficacia dei propri investimenti, fondazioni e investitori istituzionali alla ricerca di progetti o imprese sociali a elevato impatto potenziale – la misurazione è funzionale alla selezione degli investimenti e allocazione delle risorse, alla successiva gestione del portafoglio, ai processi di rendicontazione e alla comunicazione interna ed esterna dell’efficacia dei propri modelli di investimento” (Perrini, Vurro, 2013: 15), nonché al processo decisionale relativo all’eventuale prosecuzione o interruzione del sostegno offerto (Chiaf, 2015).

Dal punto di vista delle imprese sociali, invece, la valutazione dell’impatto generato permette di “comunicare ai propri stakeholder l’efficacia nella creazione di valore economico e sociale, nonché allineare i target operativi con le aspettative dei propri interlocutori e migliorare l’attrattività nei confronti dei finanziatori esterni” (Perrini, Vurro, 2013). In aggiunta alla comunicazione verso l’esterno, la misurazione dell’impatto generato e, soprattutto, la definizione della teoria del cambiamento che ne sta a monte è un’eccellente base per la pianificazione strategica perché lavora metodologicamente attraverso un percorso che parte dal bisogno che si sta cercando di soddisfare per arrivare al cambiamento che si vuole ottenere (Kail, Lumley, 2012). Pensare alla teoria del cambiamento della propria organizzazione all’inizio del percorso di riformulazione della propria strategia può essere estremamente utile per focalizzarsi sull’obiettivo, in quando permette di individuare i nessi causali esistenti e i punti di vista differenti degli stakeholder. Ne consegue che, invece di focalizzarsi su ciò che l’organizzazione sta già facendo, il focus si sposta sulla comprensione di quali attività sono necessarie per raggiungere gli obiettivi. Il processo di sviluppo di una teoria del cambiamento inizia con l’individuazione dell’obiettivo dell’organizzazione o del progetto e successivamente lavora a ritroso attraverso i passaggi che sono necessari per raggiungerlo. Sviluppando la teoria del cambiamento, le organizzazioni possono comprendere come si combinano i diversi aspetti del loro lavoro per raggiungere l’obiettivo finale prefissato. Comprendere i nessi causali aiuta il processo volto a valutare l’importanza di ogni singola attività e quali risorse dovranno essere investite in esse.

La teoria del cambiamento, se utilizzata a consuntivo, è fondamentale anche come base per la misurazione e la valutazione di un’organizzazione in quanto in grado di offrire un quadro teorico che può essere usato per valutare se un’azione/progetto sta dando i risultati preventivati oppure necessita di essere migliorato. Affinché una valutazione o misurazione sia efficace, c’è bisogno di prendere in considerazione i giusti elementi. La teoria del cambiamento permette di identificare gli outcome strategici che devono essere necessariamente misurati. Molte organizzazioni si prefiggono obiettivi troppo ampi che non possono essere misurati; la teoria del cambiamento permette invece all’organizzazione di focalizzarsi su obiettivi concreti e definiti e relativi outcome, che possono essere potenzialmente misurabili. Ciò significa che la misurazione degli outcome può alimentare la strategia dell’organizzazione al fine di assicurare che le risorse siano allocate efficacemente. L’organizzazione potrà quindi adattare le proprie attività secondo ciò che funziona e prevedere che cosa succederà in termini di risultati, “definendo eventuali attività correttive oppure motivando le ragioni di un determinato risultato” (Perrini, Vurro, 2013).

La strategia delineata attraverso la definizione della teoria del cambiamento da parte dell’organizzazione trova il suo completamento all’interno del processo di misurazione dell’impatto, che mette in sequenza temporale le fasi attraverso cui procedere con la valutazione. Due sono i principali modelli utilizzati per definire il processo di misurazione dell’impatto (Figura 2): da un lato, quello utilizzato dalla Social Impact Investment Task Force (Social Impact Investment Task Force, 2014b), mutuato dal lavoro di Inspiring Impact[2] (Inspiring Impact, 2013), che sintetizza il processo di misurazione dell’impatto in 4 fasi: 1) pianificare l’impatto ricercato e determinare come ottenerlo; 2) fare, ovvero realizzare l’impatto; 3) valutare l’impatto ottenuto; 4) revisionare i risultati ed individuare le aree di miglioramento. Il secondo modello, invece, è quello utilizzato dal GECES (GECES, 2015) e mutuato da EVPA (Hehenberger, 2012) che prevede 5 fasi: 1) definizione degli obiettivi; 2) analisi dei soggetti interessati; 3) misurazione dei risultati; 4) valutazione dell’impatto; 5) monitoraggio e miglioramento. Obiettivo del lavoro del GECES, infatti, non è tanto quello di elaborare “dall’alto verso il basso” un singolo set di indicatori per misurare l’impatto sociale, quanto piuttosto quello di promuovere un orientamento allo sviluppo di un processo di misurazione condiviso (OECD, 2015).  

Figura 2. I modelli di processo di misurazione dell’impatto

Dalla teoria alla pratica della misurazione dell’impatto sociale: approcci e strumenti utilizzati a livello internazionale

Sempre più numerosi sono gli strumenti che negli anni sono stati individuati al fine della misurazione dell’impatto generato da parte delle imprese sociali. In tal senso, proposte di nuove metodologie di misurazione dell’impatto sono state avanzate non solo da soggetti accademici, ma anche da organizzazioni internazionali (come ad esempio Nazioni Unite, ILO, OCSE), istituzioni finanziarie, associazioni di categoria piuttosto che da singole imprese (Mulgan, 2010; Grieco et al., 2014).

Per tale ragione, altrettanto numerosi sono i tentativi da parte degli studiosi di offrire chiavi di lettura interpretative di tali approcci attraverso la loro classificazione per categorie omogenee al loro interno. Nicholls (Nicholls, 2015b) suddivide gli approcci esistenti in 3 categorie:

  1. quelli basati sugli output, ovvero che si focalizzano sul contesto in cui le attività hanno luogo e sui conseguenti output, piuttosto che sugli outcome;
  2. quelli basati sugli outcome positivi e intenzionali, che non considerano cioè (se non secondariamente) gli outcome non intenzionali o fino a che punto gli outcome osservati si sarebbero comunque verificati in ogni caso;
  3. quelli olistici, che collegano gli outcome alle attività (causalità) e prevedono un forte coinvolgimento degli stakeholder nella misurazione e valutazione dell’impatto.

Un’ulteriore classificazione è fornita da Grieco et al. (Grieco et al., 2014) che, attraverso un lavoro di ricognizione degli strumenti di misurazione dell’impatto esistenti a livello internazionale che ha osservato un campione di 76 modelli, hanno individuato 4 diversi gruppi di approcci:

  1. quantitativi sociali semplici (simple social quantitative), modelli basati su indicatori quantitativi;
  2. complessi olistici (holistic complex), modelli caratterizzati sia da variabili qualitative che quantitative;
  3. screening qualitativi, modelli basati su variabili qualitative;
  4. management, approcci che, utilizzando variabili sia qualitative che quantitative, sono volti a misurare diverse tipologie di impatto ai fini della gestione dell’organizzazione.

Sempre muovendo dall’analisi della letteratura Bengo et al. (Bengo et al., 2015) indicano, invece, 3 gruppi di approcci:

  1. modelli che guidano alla costruzione di un indicatore sintetico volto a misurare la creazione di valore sociale;
  2. modelli che si focalizzano sul processo di produzione di un servizio/prodotto sociale, articolando l’analisi delle performance delle imprese sociali in input-attività-output-outcome-impatti;
  3. cruscotti e indicatori di performance quali modelli volti ad offrire una “fotografia” dei risultati di un’organizzazione per dimensioni di performance.

Quest’ultima categoria racchiude 3 dei 6 gruppi individuati nella tassonomia proposta da Perrini e Vurro (Perrini, Vurro 2013), ovvero quelle dei metodi strategici, simili a metodi di gestione dei processi operativi; dei metodi partecipativi, basati sul principio di rilevanza per gli stakeholder coinvolti; dei metodi integrativi, che utilizzano metodologie avanzate per controllare il più possibile l’intervento di una pluralità di fattori concomitanti. A queste tre categorie di approcci, se ne aggiungono altrettante: da un lato, i metodi basati sul ritorno atteso, dall’altro i metodi sperimentali e, infine, i metodi logici. Secondo gli studiosi, i primi sono quelli più largamente diffusi in quanto più facilmente applicabili in diversi contesti da differenti soggetti in virtù del fatto che tali strumenti “utilizzano un linguaggio condiviso […] – quello monetario – e forniscono indicatori sintetici e immediati degli impatti associati al perseguimento di dati obiettivi sociali” (Scholten et al., 2006).

Alla luce delle classificazioni appena enunciate e delle chiavi di lettura in esse contenute, si propone a seguire una rassegna, ampia seppur non esaustiva, di strumenti applicati a livello internazionale al fine della misurazione dell’impatto delle imprese sociali. Gli strumenti elencati in Tabella 1 sono stati individuati a partire dalla necessità di dare evidenza in particolare ad approcci rilevanti in termini di diffusione geografica (con conseguente esclusione delle metodologie applicate solo in limitate aree geografiche del mondo) e in grado di misurare gli outcome e/o gli impatti generati, distinguendo inoltre tra misurazione in termini monetari e non monetari.

Di seguito, saranno brevemente descritti gli strumenti citati in rassegna più conosciuti e applicati a livello internazionale.

Tabella 1. Strumenti di misurazione dell’impatto esistenti a livello internazionale

BACO ratio (Best Available Charitable Option)

Lo strumento, realizzato nel 2004 da Acumen Fund[3], è volto alla quantificazione di un plausibile output sociale di un determinato investimento in un’organizzazione, consentendo così un paragone con tutte le alternative esistenti proposte da altre organizzazioni che si occupano della medesima tematica. A tal fine, vengono analizzati 3 distinti parametri: leva finanziaria, leva tecnologica ed efficienza dell’impresa. Lo strumento risulta particolarmente utile agli investitori per poter analizzare tutte le alternative valide ed investire in quella più proficua sia dal punto di vista economico che sociale. Lo strumento è ampiamente conosciuto nel mondo ed utilizzato dagli investitori soprattutto negli Stati Uniti; non ha costi eccessivi e può essere utile per favorire il sostentamento e la scalabilità di un progetto.

Cost-Benefit Analysis (CBA)

Lo strumento calcola il valore attuale dei benefici sociali generati dall’attività o dall’organizzazione al netto dei costi, comprendendo nell’analisi anche le eventuali esternalità sia positive che negative. L’analisi si ottiene grazie all’utilizzo di una o più delle seguenti 3 misure: valore attuale netto; rapporto costi-benefici; tasso di rendimento interno. Lo strumento, ampiamente usato e molto conosciuto, viene applicato nella valutazione dell’impatto di progetti pubblici di grandezza significativa che hanno come obiettivo quello di arginare una problematica socialmente rilevante.

Social Return On Investment (SROI)

Lo SROI è un procedimento strutturato con il fine di comprendere, determinare e gestire il valore degli outcome sociali, economici e ambientali generati da un’attività o un’organizzazione. La procedura di calcolo dello SROI prevede la valutazione in termini monetari dei costi, dei benefici e delle eventuali conseguenze negative di un’attività, accompagnata da un resoconto degli effetti del progetto. 7 sono i principi alla base di una corretta applicazione del metodo:

  1. coinvolgimento degli stakeholder;
  2. misurazione dei cambiamenti previsti e imprevisti sia positivi che negativi;
  3. valutare ciò che conta con gli strumenti opportuni;
  4. usare solo ciò che è materiale (rilevante);
  5. non sovrastimare gli outcome;
  6. essere trasparenti nella misurazione;
  7. verificare il risultato includendo anche terze parti.

Lo strumento, utilizzato su larga scala in tutto il mondo, è utile sia per la pianificazione strategica che per la comunicazione dell’impatto sociale generato, che a sua volta può attrarre degli investimenti. Inoltre, lo SROI può essere utilizzato anche dagli investitori stessi per comparare diverse possibilità di investimento e favorire il processo di decision-making. Lo strumento fornisce un’analisi dettagliata di come il valore viene creato ed è in grado di assegnare quantificare da un punto di vista economico il valore sociale generato.

Balanced Scorecard

Lo strumento analizza le performance dell’impresa sociale basandosi su 5 criteri fondamentali: ambito finanziario; clienti; business-process; crescita; impatto sociale. Il balanced scorecard veniva inizialmente applicato alle imprese for profit ma è stato poi utilizzato sempre più nel settore sociale. Lo strumento è stato ideato dalla società NewProfit Inc. che monitora due volte all’anno le organizzazioni nel suo portfolio, osservandone le performance relativamente a: crescita percentuale dei ricavi annuali; crescita percentuale annuale del numero di beneficiari; qualità del programma in base al singolo investimento. Lo strumento fornisce una misurazione abbastanza completa e piuttosto flessibile.

Social Impact Assessment (SIA)

Lo strumento utilizza le linee guida dello SROI per definire, misurare e documentare l’impatto generato. Il SIA si limita al monitoraggio di solo tre principali outcome che verranno costantemente analizzati e si compone di tre passaggi principali:

  1. identificazione della value proposition dell’impatto sociale tramite la teoria del cambiamento;
  2. identificazione dei 3 principali indicatori che saranno utilizzati nel monitoraggio dei 3 principali outcome;
  3. identificazione in termini quantitativi del valore sociale che l’organizzazione intende creare nei prossimi 10 anni.

GRI Sustainability Reporting Framework

La Global Reporting Initiative (GRI) è un’organizzazione che promuove la pratica del reporting tra le imprese sociali al fine di migliorare la trasparenza delle stesse. L’iniziativa è volta a stabilire delle linee guida che forniscano gli standard e i principi per il reporting delle organizzazioni. Le aree su cui si focalizza l’iniziativa sono quattro: economica, ambientale, sociale e impatto. Il Sustainability Reporting Framework, realizzato da GRI, si compone di linee guida per la realizzazione di report, della “guida settoriale”(relativa a specifici settori di attività) e di ulteriori documenti a supporto. L’iniziativa, sebbene non sfoci in un vero e proprio indice di impatto, è molto conosciuta e diffusa in tutto il mondo e compie inoltre un notevole passo in avanti nella standardizzazione del reporting in ambito sociale.

Randomized Controlled Trials (RCT)

Si tratta di un’analisi controfattuale che prevede l’applicazione di un intervento di tipo sociale ad un gruppo di soggetti estratti con modalità casuale e il successivo paragone con un gruppo di composizione analoga a cui non è stato somministrato l’intervento. Lo strumento permette di identificare l’impatto generato da un determinato outcome, al netto di ciò che si sarebbe ugualmente verificato. Lo strumento è ampiamente conosciuto ed utilizzato in tutto il mondo, soprattutto in Europa e USA, nonostante i costi elevati che ne consentono l’utilizzo soltanto per avere ulteriore conferma di validità di un progetto che aveva già ottenuto outcome positivi e che si intende scalare.

Outcomes star

Si tratta di uno strumento che permette di verificare il punto di partenza, lo stato di avanzamento e l’outcome finale su vari assi rilevanti per il cambiamento che si desidera ottenere. È utilizzato in particolare nell’ambito dei servizi alla persona e permette di valutare l’outcome a livello individuale, di gruppo e organizzativo. Lo strumento fornisce oltre 20 versioni differenti per rispondere alle esigenze di svariate situazioni sociali: dai senza fissa dimora alle persone con problemi psichici, dagli alcolisti alle famiglie in difficoltà. Lo strumento, che ha bassissimi costi di utilizzo, risulta quindi essere particolarmente flessibile ed efficace e, quindi, frequentemente utilizzato.

IRIS (Impact Reporting and Investment Standards)

Lo strumento, sviluppato da GIIN (Global Impact Investing Network), organizzazione non profit avente quale obiettivo principale l’aumento in termini di ampiezza e efficacia dell’impact investing, è un catalogo dei principali indicatori utilizzati per la misurazione dell’impatto sociale, ambientale ed economico. È uno strumento di analisi il cui scopo principale è sviluppare un tipo di reporting che permetta la comparabilità tra i vari enti. Nello specifico, l’organizzazione o il progetto analizzati vengono invitati a seguire una struttura di reporting che consideri i seguenti fattori:

  1. descrizione dell’organizzazione;
  2. descrizione del prodotto finale;
  3. descrizione delle performance finanziarie;
  4. impatto delle attività;
  5. impatto del prodotto.

Il format presentato da IRIS è molto diffuso ed utilizzato anche tra le PMI poiché il suo utilizzo richiede poca esperienza nel settore e comporta bassissimi costi di utilizzo. Dall’altra parte, lo strumento non si focalizza sulla misurazione dell’impatto e non coinvolge attivamente gli stakeholder.

Un frame metodologico per la rilevazione e la misurazione dell’impatto delle imprese sociali

Come visto fin qui, il tema della misurazione dell’impatto delle imprese sociali è molto discusso sia in letteratura (quindi da un punto di vista concettuale) sia nella pratica (ovvero attraverso l’elaborazione di numerosi strumenti di valutazione); tale dibattito si pone l’obiettivo di individuare approcci teorici e relative strumentazioni in grado di dare evidenza dei benefici prodotti da questi soggetti e dell’efficacia delle loro azioni.

Il tema, tuttavia, come illustrato in precedenza, va intrecciato con il concetto di “valore aggiunto” prodotto, ovvero quelle caratteristiche/qualità positive che definiscono l’identità dei soggetti e che producono nel contesto di riferimento un cambiamento positivo, distinguendosi così da altre organizzazioni similari. È in questa definizione la chiave di lettura attraverso cui è possibile fissare il punto di partenza nell’osservazione e conseguente misurazione dell’impatto prodotto dalle imprese sociali, ovvero nella dimensione identitaria di questi soggetti che sono “sociali” sia nei fini che nei mezzi. Per tale ragione, il processo di misurazione non deve essere volto soltanto a quantificare l’esito dell’agire di queste realtà, cioè il “cosa si fa”, ma deve essere altrettanto valutato il modello, ovvero il “come lo si fa”, la dimensione identitaria appunto. Un esempio su tutti, in tal senso, è quello relativo all’aspetto “democratico” delle imprese sociali, caratteristica che contraddistingue la loro governance e, di conseguenza, tutte le azioni intraprese rispetto alla comunità di riferimento. Così declinato “l’impatto è l’esito di un processo inclusivo, di partecipazione, di co-produzione” (Venturi, 2015), cioè a dire che la produzione di impatto da parte delle imprese sociali è strettamente correlata alla loro capacità di essere inclusive.

Proprio per tale ragione è sbagliato cercare di affrontare il tema della misurazione dell’impatto riducendolo ad una mera ricerca di una standardizzazione dell’oggetto del dibattito. Per contro, tale esigenza viene espressa sempre più dal mondo della finanza, che tende a richiedere un progresso in questa direzione al fine di rendere il mercato della finanza sociale il più efficace possibile da un punto di vista di efficienza allocativa (Nicholls et al., 2015).

Fondamentale per la costruzione di un metodo di misurazione per le imprese sociali, quindi, è che questo contempli al suo interno un ruolo centrale della comunità, intesa sia come beneficiari che come soggetti da coinvolgere nel processo di misurazione dell’impatto. Sostanziale risulta dunque non solo definire gli strumenti di misurazione, ma costruire ancor prima un processo che abbia determinate caratteristiche, in primis l’inclusività e la partecipazione della comunità appunto, in linea con i tratti peculiari dei soggetti del Terzo settore e delle imprese sociali. Come sostengono Zappalà e Lyons (Zappalà, Lyons, 2009), “la metrica utilizzata per misurare l’impatto sociale delle imprese sociali dovrebbe essere collegata allo scopo della misurazione in base ai bisogni degli stakeholder”.

Ecco dunque perché un approccio alla misurazione dell’impatto sociale così strutturato può contemplare al suo interno anche metriche diverse in base alle differenti categorie di stakeholder coinvolte in tale processo in maniera continuativa e interessate dagli esiti da esso derivanti, alimentando così al contempo anche la diffusione di una cultura della misurazione dell’impatto al loro interno (Nicholls, 2015a; OECD, 2015). Un modello di misurazione dell’impatto sociale (Figura 3) dovrebbe, quindi, prevedere 4 fasi, di cui la prima di “pianificazione degli obiettivi attraverso il coinvolgimento degli stakeholder”. Il principio di democraticità caratterizza questa fase del processo, in quanto gli obiettivi della valutazione dell’impatto vengono condivisi ed individuati attraverso un processo cui partecipano le categorie di stakeholder coinvolti nell’attività/organizzazione di cui si misura l’impatto.

Di conseguenza, il processo prosegue con l’analisi delle attività, attraverso l’individuazione e la verifica di disponibilità delle fonti di dati, sia qualitativi che quantitativi, in grado di portare successivamente alla misurazione dell’impatto, mediante la scelta della metodologia e dello strumento più appropriato rispetto agli obiettivi prefissati e al conseguente avvio del processo di misurazione.

L’ultima fase del modello riguarda la “valutazione”, nel senso etimologico del termine: “valutare” significa infatti attribuire valore, ossia significato, ai risultati conseguiti dal processo di misurazione, riconnettendo gli esiti quali-quantitativi del processo di misurazione all’interno di un paradigma che permetta di comprendere, attraverso la sua contestualizzazione all’interno di un modello interpretativo, il contributo specifico ossia il valore aggiunto sociale delle imprese oggetto di analisi. Gli esiti della fase di “valutazione” e della conseguente comprensione del cambiamento apportato dall’impresa sociale osservata saranno successivamente la base informativa per la riformulazione di strategie e conseguenti obiettivi che l’organizzazione si porrà per lo sviluppo futuro, al fine di rispondere sempre più puntualmente ai bisogni insoddisfatti della propria comunità di riferimento.

Figura 3. Frame per la misurazione dell’impatto sociale | Fonte: elaborazione AICCON

Le dimensioni oggetto della misurazione

All’interno del concetto di impresa sociale vi è una moltitudine di soggettualità differenti, accomunate da elementi identitari condivisi, ma al contempo caratterizzate da peculiarità proprie dei diversi modelli operativi (forme giuridiche) selezionati per perseguire al meglio la propria mission sociale (biodiversità organizzativa). Si va, quindi, dall’associazionismo, i cui tratti distintivi sono legati alla mutualità interna (ovvero rivolta ai propri soci) e al ruolo di advocacy rivestito, alla cooperazione sociale, che si denota per il ruolo produttivo e, di conseguenza, per il suo apporto in termini di inclusione sociale e occupazione (in particolare, ma non solo, di soggetti svantaggiati attraverso il loro inserimento lavorativo) nonché per il contributo in termini anche economici, poiché soggetti che sottostanno alle logiche di mercato, all’interno del quale producono beni ed erogano servizi.

Tratti comuni delle diverse tipologie di soggetti che possiamo includere sotto il cappello “impresa sociale” sono certamente la natura privata, l’assenza di scopo di lucro/divieto di redistribuzione dei profitti, il perseguimento di attività di interesse generale, l’elemento di partecipazione attiva all’attività decisionale dell’organizzazione e, quindi, la caratteristica di democraticità che contraddistingue gli organi di governance di questi soggetti.

Ulteriori elementi che contribuiscono alla produzione di valore aggiunto sociale e, di conseguenza, a determinare l’impatto delle imprese sociali si legano poi maggiormente alla loro natura giuridica, alle specifiche attività realizzate e al settore di attività in cui essi operano. Ad esempio, l’apporto di lavoro volontario, più frequente all’interno di associazioni piuttosto che della cooperazione sociale e, al contrario, la dimensione occupazionale, con un’incidenza in questi termini maggiore nelle imprese sociali piuttosto che all’interno di organizzazioni di natura associazionistica.

Nei successivi paragrafi verrà declinata una proposta, avanzata da chi scrive, di modello per la misurazione e la valutazione dell’impatto sociale generato. Saranno dapprima descritte le dimensioni che, a parere degli autori, maggiormente differenziano i soggetti osservati ed offrono gli elementi chiave per l’individuazione e la conseguente misurazione dell’impatto delle imprese sociali (Figura 4); successivamente, le dimensioni indicate saranno declinate in specifici ambiti (sotto-dimensioni) all’interno delle quali saranno elencati degli indicatori in grado di evidenziare informazioni ed aspetti puntuali e rilevanti in termini di impatto generato.

Figura 4. Le dimensioni della misurazione dell’impatto delle imprese sociali | Fonte: elaborazione AICCON

Sostenibilità economica

Anzitutto, l’impresa sociale si connota per essere un soggetto economico e, come tale, per poter rimanere sul mercato deve garantire un buon livello di sostenibilità e di capacità di generare valore aggiunto economico. Per tale ragione, un’impresa sociale va misurata e valutata su questo piano rilevante al pari di quello sociale per l’esistenza dell’organizzazione. Un buon livello di sostenibilità economica è indice di una capacità delle imprese sociali di garantire nel tempo la produzione dei beni o l’erogazione dei servizi nei propri ambiti di attività e, di conseguenza, di creazione e mantenimento di posti di lavoro e di generazione di benessere per le comunità e i territori in cui sono inserite.

Promozione di imprenditorialità

La dimensione imprenditoriale delle realtà oggetto di analisi non è secondaria all’aspetto “sociale” che ne denota l’attività e il modello imprenditoriale. In particolare, le imprese sociali molto spesso fanno da “incubatori” rispetto alla nascita di nuove imprese (sia sociali che for profit) attraverso un’attività di promozione dell’imprenditorialità nei territori di riferimento (Venturi, Zandonai, 2014). Imprenditorialità che, come definita dalla Commissione Europea (Commissione Europea, 2003b), è “uno stato mentale e un processo volto a creare e sviluppare l’attività economica combinando disponibilità a rischiare, creatività o innovazione con una gestione nell’ambito di un’organizzazione nuova o esistente”. Come sosteneva Cantillon nel 1730, l’imprenditore, infatti, è un soggetto che presenta tre caratteristiche fondamentali (Zamagni, 2013). La prima è la propensione al rischio, ovvero “l’imprenditore si muove all’azione prima di conoscere quale sarà l’esito della sua attività” (ibidem.). La seconda caratteristica riguarda la capacità di innovazione o creatività: “l’imprenditore non è tale se si limita a replicare quanto è stato realizzato dagli altri. Egli è dunque un soggetto che concorre a dilatare la frontiera delle possibilità produttive” (ibidem). In tal senso, l’imprenditore è il soggetto che “gettando un ponte tra i luoghi in cui si produce la conoscenza e i luoghi in cui essa viene applicata” (ibidem) introduce percorsi di innovazione a diversi livelli (prodotto, processo, organizzazione, ecc.). Infine, l’imprenditore è dotato di ars combinatoria (arte della combinazione) e cioè deve conoscere non solo la capacità dei suoi collaboratori, ma anche le caratteristiche del contesto, al fine di creare un accostamento ottimale tra tutte le risorse esistenti a sua disposizione. È proprio su queste tre caratteristiche che può essere osservato e valutato il contributo specifico delle imprese sociali all’aumento del tasso di imprenditorialità dei territori.

Democraticità e inclusività della governance

La democraticità è uno degli elementi storicamente alla base delle imprese sociali. Secondo Pace (Pace, 2004) una gestione improntata sul rispetto del principio di democraticità “assicura un maggior livello di efficienza nell’uso delle risorse, una spiccata capacità di perseguire le finalità istituzionali, nonché flussi informativi qualitativamente e quantitativamente più consistenti, creando altresì utili occasioni di confronto, discussione e scambio”. La partecipazione alla governance contribuisce a produrre valore aggiunto sociale da più punti di vista (Propersi, 2011): innanzitutto, permette di ridurre le asimmetrie informative attraverso una migliore distribuzione delle informazioni. Inoltre, un’organizzazione democratica permette una maggiore capacità di controllo che, di conseguenza, tende ad inibire comportamenti opportunistici. Infine, una governance multistakeholder permette di rendere partecipi anche i beneficiari del proprio agire, di cogliere le differenti istanze che i diversi portatori di interesse possono sollevare e di mantenere un contatto diretto e costante con la comunità di riferimento e i territori in cui si opera a garanzia della caratteristica di inclusività.

Partecipazione dei lavoratori

Le modalità attraverso cui le imprese sociali coinvolgono i propri dipendenti sono un ulteriore ambito di misurazione e valutazione dell’impatto generato. Il valore prodotto internamente dall’impresa sociale nei confronti degli stakeholder primari (i lavoratori appunto) è fondamentale tanto quanto il valore prodotto per gli stakeholder secondari (esterni). I lavoratori possono essere chiamati ad esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere adottate influenzando anche la qualità dei beni e dei servizi prodotti o scambiati, piuttosto che essere beneficiari di servizi di welfare aziendale, tema rispetto al quale l’impresa sociale può chiamarli a contribuire attivamente in termini di individuazione dei bisogni da colmare.

Altresì, per alimentare il senso di appartenenza alla realtà in cui si svolge la propria attività lavorativa e, di conseguenza, consolidare la relazione tra questa e i lavoratori, essi possono essere coinvolti in attività di formazione specifica sui temi identitari piuttosto che nella somministrazione di indagini/ricerche volte a comprendere la motivazione del personale, in grado di evidenziare i punti di forza e debolezza nei rapporti tra lavoratori e imprese sociali di appartenenza.

Resilienza occupazionale

Uno degli aspetti più facilmente misurabili per valutare l’impatto determinato dall’impresa sociale è la sua capacità di contribuire alla crescita occupazionale del territorio di riferimento (Pace, 2004). L’apporto delle imprese sociali in termini di occupazione, sia da un punto di vista quantitativo (numero di occupati) che qualitativo (condizioni occupazionali), è da sempre tratto distintivo di tali soggetti. Pure all’interno della crisi perdurante, i livelli di occupazione delle imprese sociali si sono mantenuti stabili o debolmente erosi negli ultimi anni, continuando tuttavia a garantire occupazione a categorie di soggetti che più fanno difficoltà ad essere inserite stabilmente nel mercato del lavoro (donne, immigrati, giovani).

Relazioni con la comunità e il territorio

Il legame con il territorio e la diffusione della cultura costituiscono variabili di fondamentale importanza per uno sviluppo equilibrato e duraturo nel tempo delle imprese sociali (Pace, 2004). Il riconoscimento e la valorizzazione di un’impresa sociale sono il frutto del lavoro di accreditamento che la stessa impresa è chiamata a realizzare con lo scopo di fidelizzare il suo mercato di riferimento e di sviluppare un’interazione con le diverse realtà sociali ed economiche presenti sul territorio. È nel rapporto con i territori e le comunità di riferimento, ovvero l’ecosistema in cui essa si inserisce, che l’impresa sociale sviluppa percorsi di innovazione sociale volti a produrre impatto nel lungo periodo. L’innovazione sociale viene definita fondamentalmente come l’applicazione di idee innovative in un prodotto/processo/modalità organizzativa che generano un impatto, ovvero modificano in maniera stabile e positiva il livello di benessere di una società o di parte di essa attraverso la creazione di valore aggiunto (Lippi Bruni et al, 2012). Tuttavia, l’innovazione sociale non è volta soltanto ad incrementare la qualità della vita delle persone e la coesione sociale all’interno della comunità; essa può giocare un ruolo fondamentale a livello di competitività – aumentando il grado di efficienza delle risorse impiegate – e di sostenibilità.

Conseguenze sulle politiche pubbliche

Essendo quella messa in campo da un’impresa sociale un’azione con finalità di interesse generale per definizione, essa non può non influenzare (più o meno positivamente) le politiche pubbliche dei territori in cui essa opera. Molti dei settori in cui agiscono le imprese sociali, infatti, sono ambiti in cui la pubblica amministrazione definisce politiche per orientare le attività connesse: sanità, servizi socio-assistenziali, inserimento lavorativo, ecc. Proprio per tale ragione, in molti territori l’esperienza pluriennale maturata in tali ambiti dalle imprese sociali incidono sulle politiche della pubblica amministrazione sotto diversi fronti: efficientamento dell’offerta ovvero risparmio per la pubblica amministrazione; aumento della qualità dei servizi erogati; crescita della copertura in termini di numero di beneficiari serviti; realizzazione di progettualità ed erogazione dei servizi all’interno di partnership pubblico-privato. Con riferimento a quest’ultimo punto, il ruolo delle imprese sociali è fondamentale se inserito all’interno del modello di sviluppo di quella che oggi va sotto il nome di “economia della conoscenza” ed, in particolare, nei processi di produzione di innovazione all’interno di relazioni con i soggetti che compongono il modello della tripla elica (Leydesdorff, 2000): istituzioni pubbliche, imprese for profit e sistema universitario. In tal senso, l’apporto delle imprese sociali in termini di bisogni, conoscenze e competenze specifici contribuisce a rendere proficua la relazione tra i diversi soggetti e a legittimare gli esiti di queste relazioni all’interno della struttura sociale.

Social Enterprise Impact Evaluation (SEIE): una griglia di valutazione dell’impatto delle imprese sociali

A partire dalle 7 dimensioni appena descritte, è possibile individuare ambiti specifici e relativi aspetti ed informazioni puntuali in grado di cogliere i singoli elementi che contribuiscono a generare il valore aggiunto sociale delle imprese sociali e a dare così evidenza dell’impatto da queste generato. La tabella 2 riporta una proposta di griglia di valutazione in cui le dimensioni individuate vengono declinate in sotto-dimensioni ed indicatori.

Al fine di procedere con la misurazione e la successiva valutazione dell’impatto generato dalle imprese sociali, in fase di applicazione della griglia rispetto ai diversi ambiti di attività piuttosto che a differenti tipologie giuridiche, andrà attribuito un peso percentuale a ciascuna sotto-dimensione, in modo tale da avere una ponderazione del punteggio ottenuto dai singoli indicatori rispetto alle specificità delle organizzazioni oggetto del processo di misurazione e valutazione:

Σ (punteggio indicatori x peso %) = indice di misurazione

Tabella 2. SEIE: una griglia di valutazione dell’impatto delle imprese sociali

Il modello di misurazione proposto (SEIE), come già premesso, è frutto di un’elaborazione degli autori sulla base dell’approccio al tema condivisa nei paragrafi precedenti e, pertanto, enfatizza alcuni aspetti tralasciandone, invece, altri. A tal fine, corre l’obbligo di sottolineare come il SEIE sia uno strumento in corso di definizione e che necessita, al fine della sua validazione, di una fase di ricerca applicata con le realtà che si intendono valutare attraverso lo strumento, tenendo conto anche delle specificità dei diversi ambiti di attività in cui esso può essere utilizzato.

Conclusioni

L’attitudine imprenditoriale è “una capacità di vedere e pianificare il futuro e la voglia di prendersi in prima persona la responsabilità dei rischi necessari a realizzare la propria visione” (The European House-Ambrosetti, 2015), ma anche di mettere a frutto le opportunità che si presentano nel corso della vita lavorativa. Tale predisposizione permette di alimentare valori che vanno al di là del singolo imprenditore e delle attività di impresa e che permettono di contribuire allo sviluppo economico e sociale dell’intera società.

Tutto il valore prodotto da un’attività imprenditoriale è, infatti, ultimamente di natura sociale; tuttavia solamente una parte di esso è catturata attraverso la misurazione del valore economico e finanziario prodotto dall’impresa, valore soggetto per natura alle logiche dei prezzi di mercato e che è stato storicamente osservato attraverso i principi e gli strumenti della contabilità aziendale. Oggi, tuttavia, l’impresa produce un valore più ampio rispetto a quello meramente economico e finanziario.
Per tale ragione è necessario tenere in considerazione il valore sociale prodotto, un valore di cui le diverse tipologie di stakeholder beneficiano in misura differente all’interno di percorsi evolutivi che nel corso del tempo si realizzano all’interno dell’impresa e del suo ecosistema di riferimento.

In altre parole, l’imprenditore ha una funzione sociale chiave, in quanto “nel perseguire il suo disegno imprenditoriale per il benessere proprio e della propria impresa, contribuisce a realizzare il bene comune e trasformare positivamente la società” (de Molli, 2013). Il paradosso dei nostri tempi è che il mondo dell’impresa, for profit o non profit, sebbene produca ogni giorno valore sociale non è in grado di darne evidenza. Soltanto alcuni imprenditori nel corso della storia (si pensi a Rockefeller, Carnegie, Ford e Adriano Olivetti in Italia) hanno compreso la rilevanza del valore aggiunto sociale da loro prodotto attraverso la propria attività imprenditoriale e ne hanno dato evidenza, perseguendo “quel grande progetto di impegno sociale noto come capitalismo del benessere (welfare capitalism)” (Zamagni, 2013).

Ma quali sono le motivazioni per cui le imprese, soprattutto quelle sociali, dovrebbero interessarsi a misurare e valutare l’impatto sociale da esse prodotto? Anzitutto per ragioni legate al fatto che la produzione di valore aggiunto sociale aumenta il capitale reputazionale dell’imprenditore e, di conseguenza, dell’impresa stessa. Come sostiene Peter F. Drucker (Drucker, 1993), infatti, “le imprese di successo sono quelle che si concentrano sulle responsabilità piuttosto che sul potere, sulla tenuta di lungo periodo e sulla reputazione della società piuttosto che accumulare risultati di breve termine l’uno sopra l’altro”. Uno degli indicatori contenuti dell’indagine condotta annualmente dal Global Entrepreneurship Monitor (GEM, 2014) mira a rilevare la percentuale di persone che avviando un’impresa di successo hanno raggiunto un alto livello di reputazione e rispetto da parte della società. Ciò ha conseguenze positive sull’aumento della domanda da parte dei consumatori nei confronti dell’impresa, in quanto essi si possono avvalere del proprio potere di acquisto per orientare l’offerta e incidere sul valore (economico, sociale e ambientale) prodotto dall’impresa (voto col portafoglio - Becchetti et al., 2008).

La seconda ragione per cui l’interesse degli imprenditori verso il dare evidenza del valore aggiunto sociale da loro prodotto dovrebbe raggiungere alti livelli di consapevolezza risiede nella correlazione esistente tra valore sociale prodotto nei confronti dei propri dipendenti e aumento della produttività del lavoro di questi ultimi. Studi recenti (Oswald et al., 2013) dimostrano come livelli di benessere dei lavoratori incidono positivamente sulla loro produttività in una percentuale che oscilla tra il 10 e il 12%. La consapevolezza dei collaboratori rispetto alle azioni intraprese dall’imprenditore nei loro confronti è un elemento che alimenta la competitività dell’impresa e al contempo il benessere dei lavoratori. Produrre valore aggiunto sociale per i propri lavoratori e darne evidenza attraverso la sua misurazione, quindi, costituisce un importante elemento per lo sviluppo delle imprese.

Infine, un ulteriore punto di forza per gli imprenditori che optano per misurare e valutare il proprio impatto sociale risiede nell’accresciuto potere di negoziazione e nella maggiore capacità di dialogare con e influenzare le istituzioni locali.

Dati recenti evidenziano come l’Italia si trovi al 49° posto a livello globale per tasso di imprenditorialità (Zoltan et al., 2015) e che ciò sia dovuto principalmente ad una scarsa attitudine imprenditoriale del nostro Paese: solo 1 italiano su 10 valuta concretamente la possibilità di aprire un’impresa, mentre 7 su 10 non ha mai neppure pensato a tale opportunità. Per poter uscire da questa crisi, invece, serve “una società ad alta attitudine imprenditoriale […] caratterizzata innanzitutto da una forte prospettiva verso il futuro, […] capace di pianificare strategicamente i propri obiettivi sul lungo periodo, innovativa, dinamica, concorrenziale e in grado di valorizzare chi assume su di sé le responsabilità dei propri rischi” (The European House-Ambrosetti, 2015).

Per alimentare un processo di crescita a livello nazionale in termini imprenditoriali e, in particolare, della componente (che fino ad oggi risulta essere deficitaria) di imprenditorialità sociale, ovvero parte di tessuto economico-produttivo che nel suo agire concorre altresì a riequilibrare le dimensioni sociali (equità, inclusione sociale e benessere) dell’ecosistema in cui si inserisce, oggi più che mai le imprese sociali stesse devono partire dall’acquisizione di una forte consapevolezza dell’impatto da loro stesse generato e fare dell’evidenza derivante dalla misurazione del valore aggiunto sociale prodotto la base per incrementare la propria competitività, inclusività e generatività di nuovi e innovativi percorsi di sviluppo delle comunità e dei territori.

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Note

  1. ^ Il Disegno di Legge “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale” presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri (Matteo Renzi) e dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Giuliano Poletti) di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (Pier Carlo Padoan) (n. 2617, ora n. 1870) è stato approvato dalla Camera dei Deputati il 9 aprile 2015 e trasmesso dal Presidente della Camera dei Deputati alla Presidenza del Senato il 13 aprile 2015 (Governo Italiano, 2015).
  2. ^ Inspiring Impact è un progetto decennale promosso da Association of Charitable Foundations (ACF), Association of Chief Executives of Voluntary Organisations (ACEVO), Building Change Trust, Charities Evaluation Services, Evaluation Support Scotland (ESS), National Council of Voluntary Organisations (NCVO), New Philanthropy Capital (NPC) e Substance.
  3. ^ Lanciato nel 2001 a New York, Acumen è un fondo non profit di venture capital sociale che offre investimenti di capitale in forma di erogazioni liberali, debito ed equity per iniziative imprenditoriali sociali.
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