Sostienici! Rivista-Impresa-Sociale-Logo-Mini
Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
impresa-sociale-6-2015-l-impresa-sociale-al-servizio-della-buona-occupazione-una-biodiversita-da-tutelare

Editoriale

La sfida dell’innovazione sociale

Andrea Bassi, Giulio Ecchia

Saggi

Il crowdfunding delle imprese sociali italiane

Bernardo Balboni, Ulpiana Kocollari, Ivana Pais

Valutare l'impatto sociale

Stefano Zamagni, Paolo Venturi, Sara Rago

Policy

Benefit corporation e impresa sociale

Paolo Venturi, Sara Rago

Echi

I beni confiscati al bivio

Mauro Baldascino, Michele Mosca

Numero 6 / 2015

Saggi brevi

L'impresa sociale al servizio della 'buona occupazione': una biodiversità da tutelare

Licia Allegretta, Barbara Barabaschi

Abstract

Negli ultimi anni l’impatto congiunturale sui livelli occupazionali e sulle politiche di welfare ha focalizzato l’attenzione sulla creazione di occupazione dignitosa e di qualità – in contrapposizione ai bad jobs con scarse tutele e opportunità in termini di guadagno e crescita professionale – secondo la definizione di decent work promossa dall’ILO (ILO, 2011) e in accordo con le strategie EU sull’occupazione. Le politiche comunitarie e nazionali riconoscono l’impresa sociale tra le forme organizzative più “funzionali” alla promozione di “buona” occupazione (Borzaga, Galera, 2011) e i suoi tratti caratterizzanti (modello organizzativo, cultura del lavoro etc.) contribuiscono a definire la sua distintività rispetto ad altre forme di imprenditorialità. Questo saggio si colloca in tale ambito, con particolare riferimento al legame con il territorio, quale parte integrante del modello di intervento delle politiche per una “buona” occupazione.

In una prima parte il tema viene contestualizzato a livello teorico nel più ampio dibattito della riforma dei sistemi di welfare, incline a prospettive di “investimento sociale” e welfare generativo. Il contributo presenta poi alcune esperienze di innovazione e imprenditoria sociale a sostegno dell’occupabilità, promosse da reti internazionali di innovatori sociali in collaborazione con network di attori locali (soprattutto dell’Europa meridionale). Le riflessioni finali, pur evidenziando qualche risvolto critico, sostengono l’importanza di definire un “modello europeo” di impresa sociale (tentativo in atto da anni presso le istituzioni comunitarie) e di tutelarne la “biodiversità”.


The impact of the crisis on employment levels and on welfare policies in recent years focused the attention on the creation of decent and quality employment – as opposed to bad jobs which have few protections and opportunities in terms of earnings and career growth – according to ILO definition of decent work and according to EU employment strategies. Communitarian and national policies consider social enterprise as an organisational form that is “functional” to the promotion of “good” employment; its characteristic features (organizational model, work culture etc.) help to define its uniqueness compared to other forms of entrepreneurship. This essay fits in this field, with particular reference to the link with the territory, as an integral part of the intervention model of “good” employment policies.

In the first part, the topic is theoretically contextualised in the wider debate on the welfare systems reform, inclined towards the perspectives of social investment and generative welfare. Secondly, the paper presents some innovation experience of social enterprises supporting the employment, promoted by international networks of social innovators in cooperation with networks of local actors (this is especially true in Southern Europe). The final reflections, while showing some aspect critically, argue the importance of defining a “European model” of social enterprise (attempt underway for years in the Community institutions) and of protecting “biodiversity”.

Imprese sociali tra mercati locali del lavoro e welfare

Il tema dell’imprenditoria sociale interseca due questioni cruciali emerse negli ultimi decenni nel panorama economico-sociale europeo. Il primo riguarda l’evoluzione dei sistemi di welfare, messi sotto pressione dalle dinamiche demografiche e dalla crescente flessibilità dei rapporti di lavoro che, nel tempo, hanno ridotto in misura significativa le risorse a disposizione dello Stato per far fronte ai bisogni sociali e garantire l’espressione dei diritti di cittadinanza, tra i quali l’accesso ad un’occupazione dignitosa. Almeno da un punto di vista teorico, il ripensamento delle politiche di welfare ha intrapreso il cammino dell’innovazione, auspicando una prospettiva di “investmento sociale”, che si basa in sostanza sullo spostamento delle tutele dai vecchi ai nuovi rischi e riconduce la problematica della disoccupazione, soprattutto, alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro. E’ orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del capitale umano, a promuovere la massima inclusione sociale ed a creare lavori di qualità[1] (Benvegnù-Pasini, Vecchiato, 2014). Personalizzare i servizi con un approccio volto a massimizzare l’empowerment, le capabilities dei singoli e la valorizzazione della diversità nei territori, oltre che nelle organizzazioni, rappresenta una leva strategica per incrementare l’efficacia dell’azione pubblica (Ascoli, 2014).

Tuttavia, anche a causa della gravità della recente crisi economica, gli Stati non sono in grado di sostenere da soli i costi del passaggio a tale prospettiva. Ciò vale maggiormente per i sistemi di welfare mediterranei, caratterizzati da politiche pubbliche più fragili e incerte e da vulnerabilità sociali crescenti connesse al mancato o inefficiente inserimento nel mercato del lavoro (disoccupazione e inattività giovanile e femminile, degli over 50, sistema produttivo ad alto impiego di personale poco istruito). L’affiancamento di attori terzi, rispetto a Stato e mercato, nella produzione di beni e servizi in risposta ai bisogni sociali è stata l’opzione affermatasi nella maggior parte dei Paesi europei (Ferrera, 2006; Saraceno, 2004). Opzione inizialmente a carattere spontaneo, ma presto consolidatasi in risposte collettive formalmente organizzate. Un avallo teorico a sostegno di tali risposte si riscontra nella letteratura sociologica, che con Touraine avverte che una reazione alla crisi non può essere trovata nei soggetti tradizionali dell’economia e della politica, bensì nell’aggregazione orizzontale delle comunità di cittadini (movimenti, associazioni etc.) le quali, ricreando le relazioni dirette tra i soggetti interessati, favoriscono l’apertura dei gruppi locali ai problemi di carattere generale quali, ad esempio, la disoccupazione (Touraine, 2012). Anche Goldsmith propone il ruolo attivo delle reti comunitarie di base e di quelli che egli definisce civic entrepreneurs. In contesti storico-sociali caratterizzati da elevata complessità e differenziazione dei bisogni, in particolare, l’attore pubblico non sarebbe in grado di formulare risposte con sufficiente flessibilità ed efficacia. Ciò renderebbe necessario il ricorso all’azione comunitaria (fertile community) e il suo manifestarsi in forme organizzative quali cooperative, imprese sociali e di comunità, associazioni di volontariato, non è alternativa all’iniziativa dello Stato, piuttosto si propone come un’integrazione virtuosa (in termini di competenze, idee e capacità manageriali) della rete di risorse pubbliche (Goldsmith, 2010).

La seconda questione è rappresentata dalla rivalutazione della dimensione territoriale. La globalizzazione, che per le imprese ha comportato un’organizzazione della catena del valore su base mondiale, per i territori ha significato il confronto con nuove culture e l’esigenza di maggiore inclusione sociale. Cambiamenti che hanno avuto risvolti significativi nell’analisi dello sviluppo locale, essendosi allentati i rapporti di dipendenza diretta tra impresa e territorio. Con riferimento alla prima, si citano le forme evolutive dei sistemi distrettuali alla ricerca di modelli organizzativi in grado di coniugare crescita economica e coesione sociale tramite uno specifico mix di variabili endogene (locali) ed esogene (globali). Secondo il paradigma dello sviluppo condiviso (citato dalla letteratura sociologica contemporanea – Zanfrini, 2002), il territorio viene interpretato in quanto forza produttiva che offre agli agenti economici risorse decisive: specifiche condizioni di vita e di lavoro, conoscenze e linguaggi condivisi, possibilità di relazioni con altri attori economici, servizi dedicati, accesso a infrastrutture materiali e immateriali.

In tale contesto si collocano le esperienze di imprenditoria sociale oggetto del presente saggio; esse risultano in grado di recepire le istanze provenienti dai singoli territori e offrire risposte personalizzate, sulla base di un’esperienza maturata “altrove”, poiché inserite in reti sovra-locali (in tal senso definibili glocali) e la cui azione risulta complementare a quella pubblica, in particolare nell’erogazione dei servizi di promozione dell’occupabilità.

Gli esempi analizzatti – in termini di servizi all’occupabilità e all’occupazione – ben consentono di evidenziare il carattere “locale” che le imprese sociali devono avere per produrre soluzioni efficaci. La sociologia del lavoro, infatti, tradizionalmente osserva come parlare di un unico mercato del lavoro nazionale rischi di generare distorsioni sia a livello teorico, sia a livello operativo, nella definizione e attuazione delle politiche del lavoro. Prendere a riferimento un contesto territoriale più circoscritto, invece, consente di compiere analisi relative al mix di bisogni e risorse specifici e formulare, di conseguenza, risposte puntuali. In tal modo vengono a crearsi tanti mercati del lavoro quanti sono i mix di bisogni, attori, risorse (economiche, sociali e relazionali) (Laville, La Rosa, 2009).

La riflessione su queste buone pratiche si concentra sull’approccio e sugli obiettivi che identificano nel processo stesso di costituzione dell'impresa il vero fattore di sviluppo e rigenerazione delle comunità. Un framework che lavora sul capitale umano, sulla comunità intesa come “imprenditrice di se stessa”, facendo leva sulla promozione di asset comuni inespressi. Elementi intangibili, come la creatività, le tradizioni e i saperi taciti comuni, l’identità dei luoghi; ma anche elementi tangibili, quali spazi ed aree dismesse, da riqualificare, potenziali sistemi per la produzione di energie alternative (Tricarico, 2014). Questo tema, che parte dall’imprenditoria sociale e attraversa tutti i settori economici e sociali del Paese, si propone come protagonista di una nuova agenda europea, come “passo avanti” rispetto alle politiche pubbliche di welfare, spesso legate ad azioni di recovery e di eccessiva regolamentazione delle iniziative (Sassen, 2004).

La generatività occupazionale delle imprese sociali

Come evidenziato dalla consultazione pubblica per l’Atto per il Mercato Unico (Commissione Europea, 2011a) le imprese sociali e, più in generale l’economia sociale, hanno destato un notevole interesse per la capacità di dare risposte innovative alle attuali sfide economiche, sociali e, in certi casi, ambientali, sostenendo, al contempo, un’occupazione considerata “di qualità” (stabile e poco delocalizzabile), l’integrazione sociale, il miglioramento dei servizi locali, la coesione territoriale. Esse, in particolare, agendo sulla base di principi democratici e partecipativi volti a promuovere la giustizia sociale, rappresentano una delle forme organizzative più idonee alla creazione di posti di lavoro finalizzata all’inclusione e all’innovazione sociale (Commissione Europea, 2011c).

La Commissione Europea, nella Comunicazione sulla Responsabilità Sociale d’Impresa (Commissione Europea, 2011b), auspica la realizzazione di una società imprenditoriale in contesti che storicamente hanno mostrato scarsa propensione al lavoro autonomo, evidenziando un approccio “culturale” al modello di imprenditorialità sociale con chiaro orientamento europeo. I risvolti in termini occupazionali, seppure poco citati, non sono stati ignorati dalle politiche europee, trovando spazio anche nella strategia “Europa 2020” (Commissione Europea, 2012b) che però, fino ad oggi, ha faticato a trasformarsi da dichiarazione d’intenti ad una vera e propria politica industriale e sociale. Per l’impresa sociale, essa fissa l’obiettivo di generare 7,6 milioni di posti di lavoro operando in tre aree principali: green economy, servizi sanitari e di cura alla persona (che hanno segnato un +10% di occupazione nel triennio 2010-2012), nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione. Rispetto a tale obiettivo, anche non considerando settori a elevato valore aggiunto, le cooperative e le imprese sociali risultano ben posizionate e dunque sembrano avere il potenziale per svolgere un ruolo trainante verso l’uscita dalla crisi, a patto di assegnare la giusta priorità ad ambiti finora considerati residuali (Santini, Vitelli, 2014).

Il legame tra imprese sociali e occupazione viene qui indagato sotto due profili: quello diretto, ossia dell’occupazione che opera all’interno delle imprese sociali e quello indiretto, vale a dire generato grazie alle imprese sociali che erogano servizi di supporto all’occupabilità. Nel primo caso, il riferimento è al contesto italiano, vista la difficoltà a reperire dati comparabili a livello europeo. Nel secondo caso, si presentano alcune esperienze sviluppate (anche) in Italia da imprese sociali dalla forma organizzativa a rete, operanti a livello internazionale.

Per approfondire tipologia e specificità della forza lavoro all’interno delle imprese sociali ci si avvale delle elaborazioni del Rapporto di Unioncamere del 2014 dal titolo “Impresa, comunità e creazione di valore”, che dedica un capitolo a dinamiche e risvolti occupazionali delle imprese sociali italiane (Unioncamere, 2014). Il Rapporto evidenzia che, sebbene in termini strutturali quasi la metà di tali imprese si concentri nell’istruzione (198 imprese; 23,2% del totale) e nell’assistenza sociale non residenziale (187; 21,9%), tra maggio 2013 e maggio 2014 si è assistito ad una crescita complessiva che ha interessato anche settori legati all’ambiente e al turismo, come le attività di servizi per edifici e paesaggio (da 33 a 40) e le attività di ristorazione (da 8 a 19).

Tabella 1: Imprese sociali dell'industria e dei servizi con dipendenti e relativa struttura dell'occupazione dipendente, per settore di attività e classe dimensionale (valori assoluti e percentuali) | I valori assoluti sono arrotondati alle decine; a causa di questi arrotondamenti i totali possono non coincidere con la somma dei singoli valori | * Dipendenti al 2012 nelle imprese sociali attive nel 2010 (stime ottenute dai valori dichiarati dalle imprese in sede d'indagine Excelsior) | Fonte: Unioncamere, 2014.

A differenza di quanto accade in altri paesi europei, le forme organizzative hanno un carattere mediamente strutturato. Ad esempio, a fine 2012, nelle imprese sociali (extra-agricole con almeno un dipendente) si stimava un numero di dipendenti superiore a 400mila unità, corrispondenti al 3,8% dell’intera occupazione alle dipendenze nelle imprese industriali e dei servizi complessivamente considerate. Un bacino occupazionale che è andato crescendo nel corso degli ultimi anni (a fine 2009, ad esempio, il “peso” si attestava al 3,1%) quale effetto di una costante crescita dei lavoratori dipendenti, passati dai 356.680 del 2009 ai 434.840 del 2012 (+21,9%).

È anche in questi numeri – oltre che in quelli che vedono il coinvolgimento dei numerosi volontari che prestano la loro opera nelle stesse imprese sociali – che si trovano conferme di come tali imprese possano rappresentare un motore di coesione sociale e tenuta economica, diffondendosi all’interno dei nostri sistemi produttivi territoriali, a partire da quelli più svantaggiati (nel Meridione l’incidenza dei dipendenti nelle imprese sociali è passata, tra il 2009 e il 2012, dal 2,7% al 3,6%).

La coesione prodotta dalle imprese sociali è alimentata in modo significativo dalla loro capacità di creare occupazione: basti pensare che nel 2013, pur costituendo l’1% del totale imprenditoriale, hanno contribuito a quasi il 5% della domanda di lavoro dell’intero sistema produttivo nazionale (Unioncamere, 2014). Dati che sembrano confermare alcune correnti teoriche che riconoscono un ruolo emergente della società civile, sia come generatore di capitale sociale funzionale all’inserimento (o reinserimento) nel mercato del lavoro, sia come bacino di opportunità lavorative (Rifkin, 2011).

Tabella 2: Persone per le quali le imprese sociali e il complesso delle imprese** hanno programmato l'attivazione di un nuovo contratto di lavoro nel 2013, per tipologia contrattuale (valori assoluti e percentuali) | * Collaboratori a partita IVA e occasionali | ** Per "complesso delle imprese", come per le imprese sociali, si fa riferimento alle imprese dell'industria e dei servizi con almeno un dipendente. Il totale imprese comprende ovviamente anche le imprese sociali | Fonte: Unioncamere, 2014.

Le imprese sociali dimostrano non solo capacità di creazione di lavoro, ma anche di resilienza alle difficoltà del quadro economico generale. Pur avendo subito le razionalizzazioni della spesa pubblica, soprattutto a livello locale, i saldi dei rapporti di lavoro si sono rivelati migliori rispetto a quelli delle altre tipologie d’impresa. Nel 2013, ad esempio, il saldo tra assunzioni e cessazioni riferito ai lavoratori dipendenti (esclusi gli interinali) ha segnato una flessione dell’1,2% contro il -2,2% del settore privato. Per tale motivo il Rapporto in esame riconosce alle imprese sociali una funzione di ammortizzatore (in contesti recessivi come quello degli ultimi anni) connessa alla vocazione sociale con la quale tali imprese nascono e al pari di quanto già sperimentato in passato dai modelli produttivi di stampo comunitario, quali i distretti industriali, la micro-imprenditorialità diffusa e le imprese familiari (Unioncamere 2014).

Che l’occupazione rappresenti uno degli ambiti che meglio evidenzia la distintività dell’imprenditoria sociale, è dimostrato anche dall’analisi dei fabbisogni professionali programmati negli ultimi anni. L’indagine mette in luce una strategia di rinnovamento della forza lavoro tramite un upgrading formativo e assunzione di lavoratori in possesso di laurea o diploma della scuola secondaria superiore, in misura più elevata rispetto alla media del totale delle imprese. Ad esempio, nel 2013, la quota di laureati previsti in entrata nelle imprese sociali era più elevata di quella dell’intero sistema imprenditoriale (24,9% contro 11,4%). Lo stesso vale per laureati e diplomati assunti tra il 2010 e il 2013. In tale periodo, la quota di lavoratori definiti high skill, riconducibili alle professioni intellettuali, scientifiche e ad elevata specializzazione, comprese quelle dirigenziali, è passata dal 29,7% al 33,7%.

Non solo, nella strategia di gestione del personale le imprese sociali hanno continuato a trovare spazio per i lavoratori con minore livello di istruzione e qualificazione (i profili in ingresso low skill sono passati dal 17,7% al 18%), dimostrando così la possibilità di coniugare il principio di innovazione con quello di inclusione sociale. Con riferimento a quest’ultima, merita una riflessione l’attenzione alle differenze tra lavoratori, che pare confermata dalle previsioni di assunzione. Da queste ultime traspare che i profili per i quali non sono indicati requisiti relativi al genere e all’età sono più numerosi rispetto a quelli del complesso delle imprese. Considerati anche i casi con preferenze esplicite per gli under 30 o per il genere femminile, il fabbisogno occupazionale è costituito per oltre l’80% da assunzioni under 30 (esplicite o potenziali) pari a 23.100 unità sul totale delle 27.700 e per quasi la totalità (94%) da assunzioni femminili (esplicite o potenziali). Anche relativamente alle differenze di etnia, le imprese sociali mostrano una maggiore capacità di inclusione lavorativa rispetto al complesso delle imprese, con una previsione per il 2013 di circa il 20% del totale (5.400 su 27.700), contro circa il 15% registrato nella media generale.

Nel seguito si analizzeranno alcune esperienze recenti di progetti di imprenditoria sociale, come esempi di sviluppo locale e occupazione. La loro fase di startup fa sì che i dati relativi all’impatto occupazionale siano disponibili in misura limitata e frammentaria; tuttavia i casi sono apparsi particolarmente utili a delineare i tratti distintivi della cultura del lavoro da essi sviluppata e veicolata.

THIS WORKS di Ashoka: il volto euro-mediterraneo dell’imprenditoria sociale

“Gli imprenditori sociali non si accontentano di dare un pesce o di insegnare a pescare. Non si fermeranno finché non avranno rivoluzionato l’industria della pesca” (Bill Drayton, Fondatore di Ashoka)

Il nuovo “Piano d’azione imprenditorialità 2020” (Commissione Europea, 2012b) ha adottato tra i suoi principi guida il concetto di innovazione sociale, inteso come “l’insieme di iniziative e pratiche sociali che fanno riferimento allo sviluppo e all’attuazione di nuove idee (prodotti, servizi e modelli), che rispondono a esigenze sociali e contemporaneamente creano nuovi rapporti o collaborazioni sociali, fornendo un beneficio alla società e promuovendo la capacità di agire della stessa” (Parlamento Europeo, 2013 - art.2).

A questa istanza di cambiamento ha provato a rispondere il progetto THIS WORKS di Ashoka[2], la rete globale di imprenditori sociali che si propone di accelerare l’innovazione sociale creando un ecosistema favorevole al trasferimento di idee e soluzioni innovative di comprovata efficacia. Il progetto THIS WORKS è un’iniziativa lanciata nel 2014 da Ashoka, con l’aiuto della fondazione Robert Bosch e un consorzio di partner locali, con l’obiettivo di accelerare l'innovazione sociale nel campo dell’occupazione in Grecia, Italia e Spagna (italy.ashoka.org/works). Nel periodo 2008-2013 il declino dell’occupazione – specie per i profili low skill del settore manifatturiero e delle costruzioni (Portogallo -4,1%, Spagna -3,6%, Grecia -4,3 %, Italia -1,8%) – è stato caratterizzato da una forte crescita della disoccupazione giovanile (15-29 anni) e dal moltiplicarsi del numero di assunzioni temporanee (con scarso livello di tutele previdenziali) e stagionali (Grecia 60%, Spagna 56%, Portogallo, Italia 39%) (Commissione Europea, 2014b).

Il progetto THIS WORS mira a promuovere un modello di imprenditoria sociale attraverso una strategia moltiplicativa e generativa che realizza, a livello locale, iniziative di successo già sperimentate da altri innovatori sociali (fellow) che, in questo modo, agiscono da catalizzatori del cambiamento (changemakers) esercitando un’azione di supporto a policy makers e partner strategici locali. Ogni fellow è affiancato da un advisor che lo supporta nel processo di replica delle sue attività[3]. Il motto di Ashoka è infatti “everyone a changemaker” ovvero ciascuno di noi può essere attivatore/catalizzatore di cambiamento sociale. Il changemaker è un innovatore che non subisce il cambiamento, ma contribuisce, nell’ambito della propria comunità, a risolvere problemi complessi, adottando un modello di business inclusivo e sviluppando una catena del valore “ibrida” (hybrid value chain)[4]. L’approccio ai problemi è integrato, partendo dalla consapevolezza che affinché il cambiamento sia duraturo, occorre il coinvolgimento di tutti gli attori potenzialmente interessati.

Lo sviluppo della rete THIS WORKS avviene attraverso tre azioni coordinate, che coniugano la dimensione locale e globale:

  1. Preparazione e accelerazione. In questa prima fase i promotori della rete selezionano le soluzioni più efficaci già sperimentate a livello internazionale. I criteri di selezione sono cinque: spiccato orientamento a produrre cambiamento (innovazione); contributo diretto alla soluzione di un problema sociale (impatto sociale); ingegno e realismo nella risposta al problema (imprenditorialità); ricerca di risposte nuove al problema (creatività); rispetto di alti standard etici (etica). La maggior parte degli imprenditori sociali che stanno dietro a queste soluzioni prescelte hanno aderito a GlobalizerX, un programma ideato per permettere di esplorare e sviluppare una strategia per la diffusione delle loro idee. Attraverso il programma GlobalizerX, i fellows di Ashoka hanno la possibilità di collaborare con la rete di advisors Ashoka nell’elaborazione delle loro strategie di riproduzione.
  2. Vetrina. Le soluzioni prescelte vengono presentate a imprenditori sociali locali attraverso eventi e workshop in città selezionate nell’area geografica in cui si intende attivare il cambiamento; uno degli obiettivi è anche incoraggiare la motivazione al cambiamento e rafforzare lo spirito di comunità e attrarre nuovi partner di progetto.
  3. Attuazione di piani d’azione locale. L’impatto di questi eventi ed i feedback raccolti (livello di partecipazione, adesioni rilevate, manifestazioni di interesse) concorrono a definire/attuare i paini d’azione locale, tramite i quali i cittadini sono accompagnati nelle fasi di avvio e consolidamento delle loro imprese. Ogni piano d’azione riporta le innovazioni ritenute prioritarie per il territorio o per la comunità locale di insediamento dell’impresa e le esplicita in documenti di “pre-impegno” siglati da fondatori e sostenitori. Viene così formalizzato un investimento locale e comunitario per il raggiungimento degli obiettivi tracciati.

Il modello organizzativo proposto da THIS WORKS rappresenta un’esperienza di “innesto” di imprese sociali con l’obiettivo di perseguire l’interesse generale della collettività attraverso un sistema di governo partecipato da più soggetti (pubblici/privati senza fini di lucro) che producono beni e servizi finalizzati a migliorare la vita dei membri delle comunità locali (Borzaga, Zandonai, 2015). THIS WORKS punta a trasformare in opportunità imprenditoriali voci di spesa considerate tradizionalmente improduttive per i sistemi sociali ed economici territoriali (quali le risorse destinate ai soggetti esclusi dal mercato del lavoro o di difficile occupabilità, ai beni culturali e ambientali, ai servizi alla persona ed educativi gestiti in modo inefficiente) recuperando la comunità come fonte generativa di sviluppo del proprio territorio e del relativo patrimonio, materiale e immateriale (storico, ambientale, paesaggistico, sociale, culturale, imprenditoriale). L’OCSE evidenzia come il territorio possa configurarsi quale risorsa generatrice di valore, in quanto promotore e detentore del capitale sociale, culturale e finanziario di un’area geografica, con evidente impatto moltiplicativo sul potenziale del territorio stesso in termini di performance economiche, attivazione di reti anche extra-territoriali e interdipendenze non convenzionali o di non-mercato tra gli attori locali (OECD, 2001).

Lo schema d’azione della rete THIS WORKS collega la prospettiva locale-comunitaria a quella internazionale e rimanda agli orientamenti delle politiche europee a sostegno dell’occupazione, dove si raccomanda un impegno diretto degli enti locali nella creazione e diffusione di nuova “conoscenza” tra gli attori del territorio, specie con riferimento alle dinamiche dei mercati del lavoro. La formula organizzativa del progetto si configura inoltre quale fonte di apprendimento per le istituzioni locali, in termini di governance locale (rete di risorse umane, economiche e politiche) alternativa al tradizionale modello di governo burocratico (fondato sulla logica dell’adempimento amministrativo). Una corretta mobilitazione di attori e risorse può infatti favorire l’innovazione sociale, oppure, in caso contrario, può limitare lo sviluppo della comunità (lock in). In tal modo viene attivato un processo diffuso di apprendimento a livello locale (learning region) capace di rispondere in maniera efficace ai complessi bisogni espressi da quel territorio. Si tratta soprattutto di sostenere idee e soluzioni innovative che creino capitale sociale (Putnam, 1995) e rafforzino “legami deboli” (Granovetter, 1983) tra soggetti diversi (comprese le imprese tradizionali e le reti informali) che condividono lo stesso territorio (Martini, 2014).

Di seguito si riportano alcune delle esperienze più rappresentative della rete THIS WORKS, considerate ad alto impatto sociale (perché volte a favorire la ripresa dell’occupazione nell’Europa meridionale), originali nella formulazione della risposta al problema e allo stesso tempo semplici nella loro attuazione.

Una “navetta” (di salvataggio) per il lavoro e l’imprenditorialità solidale

Una delle soluzioni innovative per la creazione di buona occupazione nella regione euro-mediterranea è rappresentata dall’esperienza spagnola delle Lanzaderas de empleo y empredimiento solidal ovvero delle “navette” (di salvataggio) per l’impiego e l’imprenditoria solidale. L’iniziativa è stata promossa dalla Fondazione Santa Maria la Real al fine di dare una risposta sociale alla drammatica situazione occupazionale spagnola e all’inefficace gestione dei servizi pubblici per l’impiego. Iniziato nel 2014, il progetto adotta un modello collaborativo basato sul supporto alle persone e sulla loro capacità di lavorare in squadra. Il progetto mira a combattere l’isolamento dei disoccupati, combinando l’azione di ricerca del lavoro con l’empowerment di gruppo derivante dal lavoro in team. Ogni “lanzadera” consiste in gruppi di 20 volontari, tra i 20 e 60 anni, che accettano di lavorare insieme in maniera solidale aiutandosi reciprocamente nella ricerca del lavoro e nei percorsi di riqualificazione professionale e/o formativa (i membri agiscono come il motto dei moschettieri “tutti per uno, uno per tutti”). Ogni persona cerca attivamente il posto di lavoro per sé stesso e per gli altri. In questo percorso sono coordinati da un coach che crea le condizioni ottimali per permettere a ciascuno il raggiungimento degli obiettivi professionali e personali, attraverso un programma personalizzato che li porterà alla terra di approdo (il proprio posto di lavoro). La metodologia delle Lanzaderas vuole migliorare l’occupabilità dei partecipanti attraverso il bilancio delle competenze e la definizione di un piano di sviluppo personalizzato che, però, va raggiunto con la solidarietà e l’impegno nella squadra. Il programma permette inoltre di elevare l’autostima delle persone, contribuendo a sviluppare la loro intelligenza emotiva e la loro capacità di creare contatti con potenziali datori di lavoro. Il progetto è stato sperimentato nel 2013 in cinque località della Cantabria e della Aguilar de Campò, con un risultato del 60% degli inserimenti nel mercato del lavoro e del 25% di nuovi imprenditori. Nel 2014 i progetti si sono moltiplicati in altre regioni spagnole, coinvolgendo fino a 1.000 persone e con un forte impatto mediatico. Il programma è stato successivamente finanziato dal Governo spagnolo, dai Fondi Europei, da enti locali, fondazioni e istituti bancari (Barclays e Rabobank) ed enti di solidarietà sociale, favorendo un effetto moltiplicatore e “generativo” che ha riattivato le risorse e il capitale umano dei territori in cui la sperimentazione si è realizzata.

Figura 1: Il piano di lavoro del progetto delle "Lanzaderas de Empleyo y Emprendimiento solidal" | Fonte: http://italy.ashoka.org/josé-maria-gonzales-pérez

L’azione in ambito locale fa sì che la dimensione comunitaria risulti particolarmente accentuata e permette di evidenziare il rapporto di reciprocità tra impresa sociale e collettività. Da un lato, le imprese sociali hanno bisogno, soprattutto nella fase iniziale, di risorse provenienti dalla comunità locale, specie in termini di legittimazione a sostegno della loro attività; dall’altro lato, grazie alle loro iniziative, fanno riemergere risorse di natura relazionale, agendo così come soggetti in grado sia di costruire nuovi legami sociali che di riattivare quelli indeboliti.

Un’iniziativa connessa alle “navette” di salvataggio per l’impiego e l’imprenditoria solidale, è rappresentata dalla Escuela Tallers (Trade School Workshop): come creare occupazione giovanile recuperando il patrimonio storico-artistico e culturale. Il modello, ideato nel 1985 da Peridis (architetto), mira a trasformare centinaia di siti storici e culturali in rovina in concrete opportunità di occupazione giovanile. Partendo dalla sua esperienza professionale, il modello di intervento sociale si propone di formare una nuova generazione di giovani artigiani capaci di preservare e promuovere (tramite tecniche di restauro sostenibili e campagne di comunicazione ad hoc), il ricco patrimonio storico-culturale spagnolo e di intercettare opportunità di business anche per il rilancio dell’economia locale. Al 2013, i numeri connessi all’iniziativa erano: circa 1.000 scuole create, oltre 100 nuove imprese avviate nel settore storico-culturale e quasi 400 partecipanti inseriti nel mercato del lavoro come ristrutturatori del patrimonio artistico e culturale spagnolo. Oltre alla ricaduta occupazionale, un valore aggiunto dell’iniziativa consiste nella capacità delle “scuole” di coinvolgere le amministrazioni, le associazioni di cittadini, le rappresentanze di lavoratori e imprese, nel processo di recupero del ricco patrimonio culturale delle comunità locali. Nel corso degli anni, l’intuizione di Peridis, a fronte degli ottimi risultati raggiunti, è stata riconosciuta dal Governo spagnolo, che ha deciso di cambiare la destinazione di parte dei fondi per i sussidi di disoccupazione in borse di formazione-lavoro per gli studenti delle Escuela Tallers. Un esito indiretto è stato quindi il rafforzamento delle politiche attive per il lavoro, a livello nazionale. L’esperienza, grazie ai successi ottenuti e alla forte carica di replicabilità, nel tempo ha acquisito rilevanza anche in altri Paesi (tra cui l’America Latina e l’Africa, terre di provenienza di molti immigrati) dove le comunità vivono simili problematiche sociali e occupazionali.

Una “vitamina” per essere economicamente convenienti e socialmente sostenibili

Il progetto Vitamine T è stato sviluppato dall’organizzazione francese Group Vitamine T nata nel 1978 con l’obiettivo di ricollocare nel mercato del lavoro un largo numero di soggetti professionalmente e socialmente deboli. Primo obiettivo dell’organizzazione è creare occupazione, immaginandola come una vitamina fondamentale per la vita delle persone (di qui la lettera “T” come travail) e delle imprese. Il progetto accompagna le persone escluse dal mercato del lavoro verso un’occupazione stabile e duratura offrendo loro opportunità professionali lontane dalla precarietà e dall’incertezza occupazionale. Per raggiungere questo obiettivo Vitamine T ha sviluppato un modello innovativo di creazione di co-partnership sociali con aziende private, offrendo servizi convenienti e di qualità per il recruitment del personale, la penetrazione sul mercato e attività di Corporate Social Responsability. Le 13 filiali, dislocate nel Nord della Francia, cercano di rispondere a due esigenze diverse: accompagnare i disoccupati a trovare un’occupazione di lunga durata e offrire prestazioni di alto livello professionale alle imprese in vari settori produttivi, sui temi della qualità, sicurezza e sostenibilità. In questo percorso di “sostenibilità” a doppio circolo, l’organizzazione ha dimostrato di avere un alto impatto sociale, adottando un modello di business a catena di valore ibrido (HVC). Punto di forza del modello è costituito dalle partnership con attori locali (imprese e associazioni nonprofit) che hanno permesso di rispondere ai bisogni occupazionali di soggetti fragili, ma anche alla domanda delle imprese di servizi di qualità a costi sostenibili (nell’arco di 25 anni di attività circa, 27mila disoccupati hanno trovato lavoro e circa 3mila persone collaborano in 14 imprese e 4 joint venture). Attualmente Andrè Dupon, presidente esecutivo di Vitamine T, è alla ricerca di changemakers italiani che vogliano combattere la crisi occupazionale creando nuove opportunità di lavoro sostenibili e inclusive. Il modello Vitamine T promuove un approccio integrato al mercato del lavoro, di “lunga durata”, sviluppando una formula organizzativa di successo legata alla capacità delle imprese di creare non solo occupazione “buona”, ma anche di recuperare un modello di imprenditorialità che coniughi la convenienza economica alla sostenibilità sociale, in controtendenza al mito della competitività (economica) tout court nel mercato del lavoro globale.

Social School for Women Empowerment

Il progetto, nato dall’iniziativa della fellow spagnola Ana Bella Estévez, mira a valorizzare le competenze professionali delle donne con alle spalle esperienze di violenza di genere, per aiutarle ad emanciparsi dalla situazione di difficoltà, riconquistare la fiducia in se stesse e iniziare il processo di separazione dal loro maltrattatore. Il progetto si propone di integrare i servizi pubblici esistenti, insufficienti a fornire una risposta integrata su tutti i fronti del problema dell’esclusione sociale delle donne vittime di violenza: psicologico-individuale (perdita di autostima), relazionale-mediatico (isolamento, messaggi stigmatizzanti), normativo (legislazione inefficace), dei servizi pubblici (poco integrati).

L’idea guida è che le donne non dovrebbero essere considerate “vittime”, ma piuttosto “sopravvissute” con alto potenziale di ripresa. Il lavoro viene considerato la prima via di reinserimento sociale, il primo passo verso la ripresa di fiducia e la ricostruzione del capitale sociale eroso nel periodo degli abusi. Il progetto si muove su livelli diversi ma complementari:

  1. Reti di sostegno tra pari, in partnership con la pubblica amministrazione e gli altri attori sociali, per raggiungere più donne e in modo più efficiente. Le relazioni iniziano attraverso telefonate, e-mail o incontri informali agli eventi ospitati dalla Fondazione Bella Ana (workshop, stand alle fiere e le occasioni di raccolta fondi). La Fondazione mette in contatto donne e volontari che cercano di sviluppare un rapporto di fiducia fondato sull’empatia e definire un percorso personalizzato di uscita dalla situazione di disagio. Viene anche svolta attività di formazione esperienziale a favore degli assistenti sociali per promuovere un unico stile d’azione.
  2. Social School for Women Empowerment, che ogni anno aiuta una rete di circa 1.200 sopravvissute spagnole, insegna alle donne a sviluppare il loro potenziale e a diventare agenti di cambiamento, cercando di trasferire anche competenze finalizzate alla nascita di nuove imprese sociali. Il programma prepara le donne per lavori ad alta visibilità – come promotrici di vendita o impieghi relativi alla gestione delle risorse umane – evitando lavori invisibili che creano una seconda vittimizzazione. Nel 2012 e 2013 oltre 200 donne sono state formate e hanno lavorato come agenti commerciali, contribuendo alla crescita economica e sociale di imprese come la Danone.
  3. Soluzioni abitative temporanee e opportunità di lavoro a tempo parziale per le donne non ancora completamente disponibili al lavoro.
  4. Partnership con scuole e università per prevenire lo sviluppo di modelli di comportamento a rischio di violenza e realizzare stage per gli studenti che lavoreranno nei servizi sociali.

Il modello organizzativo prevede il coinvolgimento più ampio possibile delle associazioni a favore delle donne, che fungono da nodi geografici di diffusione dello stesso approccio (sia a livello locale che globale). I nodi della rete possono essere rappresentati da donne sopravvissute, che hanno l’occasione di diventare changemakers, con ruoli di leadership e l’autonomia di organizzare attività a livello locale. Nel 2013 circa l’1% delle donne sopravvissute era diventa changemaker attiva, contribuendo ad aiutare, in media, altre 300 donne. Il modello è comunque sottoposto a continue revisioni, per renderlo sempre più sostenibile, replicabile in nuovi contesti e attrattivo per nuovi partner in tutto il mondo, in modo da aumentare l’influenza nei confronti delle politiche pubbliche a sostegno delle donne.

School Raising: a scuola di crowdfunding per fare startup con junior achievement

Il progetto School Raising rappresenta una buona pratica italiana di innovazione sociale; si pone l’obiettivo di accompagnare gli studenti italiani delle scuole di secondo grado a praticare l’alternanza scuola-lavoro attraverso l’esercizio dell’auto imprenditorialità e la promozione di opportunità formative ed educative in contesti scolastici con un ridotto budget finanziario. School Raising è la prima piattaforma italiana di questo genere, è promossa dall’omonima associazione ed è finalizzata a promuovere attività di crowdfunding per sostenere progetti innovativi proposti dagli studenti (anche in orario extrascolastico). School Raising favorisce una forte sinergia tra le comunità scolastiche, le imprese ed i cittadini, garantendo ai giovani servizi di qualità sia a livello didattico che extra-didattico, nonostante le carenze infrastrutturali delle scuole italiane. Attraverso la presentazione di progetti, la piattaforma mette in comunicazione le scuole con cittadini responsabili e attivi che intendono partecipare al miglioramento della scuola pubblica italiana. Attualmente la piattaforma offre l’opportunità di inserire il proprio progetto online e di candidarlo nelle varie sezioni di crowdfunding (progetti innovativi, culturali, strutturali, robocup junior Italia) visualizzando in tempo reale la percentuale di finanziamento raccolta.

L’impatto sociale ed occupazionale di THIS WORKS

Ad oggi il progetto School Raising rappresenta una delle quattro esperienze di innovazione sociale – oltre a Source International, Made in Carcere e Addiopizzo Travel – promosse da changemakers delle rete THIS WORKS Italia, che stanno iniziando a generare un impatto sociale sull’intero territorio nazionale in termini di generatività occupazionale[5], rilevato dal sistema di monitoraggio della rete Ashoka che periodicamente pubblica alcuni dei principali risultati conseguiti dalle esperienze avviate. Altre informazioni di carattere quanti-qualitativo riguardano il cambiamento innescato dagli imprenditori sociali nel sistema territoriale locale (Ashoka, 2006).

Pur riconoscendo alcuni limiti metodologici, Ashoka ha impostato il sistema di monitoraggio in modo da seguire nel tempo i progetti e mappare le traiettorie di sviluppo dei fellows (approccio longitudinale), nonché le loro strategie di diffusione/replicabilità[6]. Tra gli indicatori chiave adottati da Ashoka per misurare l’impatto sociale di un’impresa innovativa vi sono:

  • il livello di originalità dell’idea imprenditoriale (dovrebbe essere circa dell’83% a 10 anni dal suo avvio);
  • il livello di replicabilità/trasferibilità della stessa (circa 93% dopo 10 anni);
  • l’influenza che essa ha avuto sulle politiche pubbliche (circa 71% dopo 10 anni);
  • il posizionamento dell’impresa, in termini di leadership, rispetto al proprio ambito di attività (54-66% dopo 10 anni).

Oltre ad un set di informazioni raccolte periodicamente attraverso una survey somministrata alla rete internazionale dei fellows, l’indagine fornisce un feedback sull’assetto organizzativo di Ashoka ed in particolare del come contribuisca ad innescare il processo di cambiamento sociale risolvendo problemi sociali complessi a vari livelli (individuale, istituzionale, sociale) (Ashoka, 2006). I dati evidenziano inoltre che gli Ashoka fellows percepiscono in maniera positiva il valore aggiunto dell’appartenere ad una rete globale di imprenditori sociali; questi vantaggi possono essere riassunti in: a) offerta di concrete opportunità di collaborazione e scambio con altre imprese o esperti durante l’intero ciclo di vita dell’impresa; b) attivare cambiamenti sociali a livello locale e globale; c) rafforzare positivamente l’identità professionale, sia come imprenditore sociale (self identify), sia come attiv-attore di cambiamento delle politiche nazionali (policy change) nel medio-lungo periodo.

Oltre a misurare l’impatto delle iniziative promosse dagli innovatori sociali in ambito occupazionale, THIS WORKS presenta un’interessante ricaduta occupazionale nei Paesi dell’Europa meridionale (Grecia, Italia e Spagna).

Esaminando i dati generali relativi all’imprenditoria nascente si colgono segnali non confortanti; il Report del Global Enterpreneurship Monitor (GEM, 2014) mostra come le attitudini imprenditoriali e l’autopercezione delle capacità imprenditoriali siano fattori fortemente legati alle condizioni storiche e culturali di ciascun Paese, con il rischio di vedere limitato il potenziale di sviluppo dell’imprenditoria sociale nei paesi con maggiori difficoltà occupazionale. Così, a fronte di un’elevata percezione positiva nei Paesi del Nord Europa (Svezia 70%, Norvegia 63,7%, Danimarca 59%, Regno Unito 41%), nei Paesi dell’area euro- mediterranea interessati da una grave crisi occupazionale, l’autovalutazione delle capacità imprenditoriali è superiore alla percezione delle opportunità offerte (Italia 26%, Portogallo 22%, Grecia 19,9%, Francia 28%). Come sostiene la Commissione Europea, infatti, l’imprenditorialità si definisce innanzitutto come “uno stato mentale determinato da una forte motivazione di soggetti che, da soli o nell’ambito di un'organizzazione, sono in grado di riconoscere opportunità imprenditoriali traendo profitto, ma anche producendo rinnovamento economico, sociale e ambientale” (Commissione Europea, 2003). Tuttavia, l’effetto più negativo pare provenire non tanto dalla percezione delle proprie capacità imprenditoriali (approccio necessity driven) quanto dalla consapevolezza di vivere in un contesto incapace di offrire opportunità (approccio opportunity driven). Tale convinzione avrebbe una sua incidenza non solo sulla motivazione ad avviare un’iniziativa imprenditoriale, ma anche sull’idea che la propria impresa possa avere un buon impatto occupazionale in termini di nuovi e migliori posti di lavoro. Impatto per nulla scontato, visto che i dati GEM mostrano che a elevati valori dell’indice Tea (Total early stage Enterpreneurship Activity) – Germania 6,8%, Romania 31,7%, Croazia 19,5%, Lituania 19,7%, Gran Bretagna 7,2%, Francia 12,6% – non corrisponde necessariamente un effetto moltiplicativo di nuovi posti di lavoro, neppure nel medio periodo. Tali evidenze paiono rafforzare il valore di esperienze come quelle appena descritte.

Tra retorica e opportunità: l’impresa sociale europea da tutelare

Le esperienze citate sembrano evidenziare come l’imprenditoria sociale, nel suo processo evolutivo, tenda ad assumere una morfologia simile a quelle di tipo “comunitario”, legata a innov-attori che, anche in situazioni di scarsità di risorse, riescono a cogliere le opportunità materiali e immateriali del proprio territorio e a valorizzarle in ottica di moltiplicazione del valore. In tutti i casi esaminati sono state attivate risposte creative alle criticità del mercato del lavoro, agendo sulla capacità dei soggetti di sfruttare le risorse endogene per essere resilienti, ovvero di sviluppare energie “buone” utili ad affrontare e governare gli ostacoli incontrati lungo i percorsi di carriera per “navigare acque difficili” (CEDEFOP, 2014).

La Commissione Europea riconosce alla dimensione locale e comunitaria dell’impresa sociale una “biodiversità” strutturale e morfologica da tutelare, rispettando, a livello normativo, le varie “caratterizzazioni” culturali, politiche ed economiche dei Paesi in cui operano gli imprenditori sociali. Il concetto di “ecosistema” utilizzato in ambito europeo per promuovere le imprese sociali rimanda non a caso all’insieme di attori, relazioni, vincoli ed opportunità presenti nel contesto in cui l’impresa opera, ovvero a tutti quei fattori che concorrono a sviluppare le “attitudini” imprenditoriali di chi decide di “fare impresa” sociale (Commissione Europea, 2011c).

I casi presentati appaiono inoltre coerenti con quanto prescritto dai documenti di indirizzo dell’Unione Europea, che indicano il contributo delle istituzioni locali e dei decision makers quale condizione imprescindibile per attivare il dialogo sociale sulle exit strategies per il superamento della crisi. Recenti studi (CEDEFOP, 2014; OEDC ,2013) aggiungono quale ulteriore condizione, la presenza di servizi per l’orientamento che, da una parte sostengano la capacità dei soggetti di individuare nuove opportunità di lavoro e carriera, dall’altra attivino partnership tra governi locali e regionali a supporto delle imprese sociali per sviluppare “poli di innovazione sociale”. Questi agirebbero così da incubatori di capitale sociale locale, aumentando l’attrattività del territorio attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro.

La spesa pubblica destinata a sostenere le imprese sociali genera, nel medio-lungo periodo, un elevato impatto sociale ed economico, rappresentato dai servizi pubblici alla persona (housing sociale, job creation, cure sanitarie, formazione). Anche analizzando l’andamento dell’indice di Gini della distribuzione del reddito delle famiglie in Italia, si scopre come nel gruppo delle regioni con crescita del nonprofit (in termini di valore aggiunto e addetti) superiore alla media nazionale, si è verificato il più elevato aumento dell’equidistribuzione del reddito delle famiglie. Segno di una ricchezza che si costruisce su comunità in cui la società civile svolge funzioni di un più equo assestamento dello sviluppo, anche attraverso azioni redistributive (Unioncamere, 2014).

A favore delle imprese sociali vi è la recente consultazione della Commissione Europea sullo Small Business Act, finalizzata a favorire l’accesso, anche delle piccole imprese sociali, alle risorse finanziarie tradizionalmente riconosciute ad altre tipologia di impresa, aprendo un dibattito internazionale sulla biodiversità dei modelli imprenditoriali e sui nuovi sistemi di certificazione dell’attività delle imprese sociali, ma non solo[7] (Commissione Europea, 2014c).

La dimensione “locale” e comunitaria di molte imprese sociali richiama dunque il valore simbolico-culturale (oltre che materiale) di questa forma organizzativa il cui valore aggiunto appare fortemente radicato (embedded) nel patrimonio di valori, regole e attitudini della comunità di persone che la compongono e che concorrono a creare benessere sociale ed economico. I dati, oltre ad evidenziare la rappresentatività crescente del fenomeno – l’economia sociale in Europa riguarda il 6,5% della popolazione attiva e circa 14 milioni di cittadini (CIRIEC, 2012) – registrano anche una buona legittimazione sociale di tali organizzazioni, sostenuta da una percezione positiva dei dipendenti, rispetto sia alle condizioni di lavoro, sia all’impatto sull’ambiente e sul proprio stile di vita (bassi costi legati all’assenza del personale per malattie, occupazione stabile e poco delocalizzabile, gestione responsabile, trasparente, che coinvolge gli stakeholders – Commissione Europea, 2014b).

Di qui, la sfida delle istituzioni comunitarie a realizzare un modello di imprenditorialità sociale europeo funzionale ad una maggiore diffusione e razionalizzazione di tali imprese in tutti i paesi dell’Unione. Tuttavia, tale modello si basa su pre-condizioni imprescindibili, che riguardano struttura e cultura di una forma organizzativa che spesso è attraversata da contraddizioni interne ed esterne. Se ne citano alcune, quali spunti di riflessione conclusivi della presente analisi, perché possono costituire un punto di partenza – non certo di arrivo – dell’auspicato “modello europeo” di impresa sociale.

Da una parte, si invoca una cultura dell’imprenditorialità europea per le sue ricadute occupazionali, stimolando la creazione di nuove imprese attraverso un’azione coordinata di rinnovamento legislativo comunitario e nazionale (ad esempio prevedendo un sistema normativo europeo “snello” capace di offrire una seconda chance agli imprenditori onesti con esperienze fallimentari); dall’altra si sostiene il mito della “buona” imprenditorialità sociale a priori recuperando un modello di ruolo, quello dell’imprenditore sociale, meno sottoposto alle pressioni competitive di chi opera mercato dei beni e servizi privati. Dato, quest’ultimo, che diviene punto di debolezza se si traduce in un profilo professionale con minori competenze di tipo manageriale rispetto all’imprenditorie del settore privato e che, al contempo, può concorrere a rendere lo stesso profilo meno attrattivo per i giovani con volontà di intraprendere.

Anche il presente contributo permette di confermare che l’analisi dei dati occupazionali non si presta a letture semplicistiche, ma richiede specifici approfondimenti. La complessità dei bisogni ai quali l’impresa sociale tenta di rispondere, fa sì che vi sia spazio per “cattive” prassi, non solo in ambito occupazionale. Così come il radicamento territoriale nasconde rischi di derive localistiche ed un certo potenziale di sviluppo di capitale sociale negativo, fino a promuove modelli di imprenditorialità e di ir-responsanbilità sociale d’impresa[8]. Porre l’accento sulla biodiversità e sull’adozione di un approccio euro-mediterraneo all’imprenditorialità sociale, come evidenziato dai casi presentati, può invece aiutare a scongiurare i rischi prefigurati.

Per altri versi il riconoscimento giuridico e normativo dell’impresa sociale nei vari Stati europei, seppure a diverse velocità, rappresenta un buon punto di partenza, ma espone al contempo a qualche ambiguità concettuale e normativa (Galera, Zandonai, 2012). Oltre alla questione semantica (Jahier, 2013) la definizione di impresa sociale adottata in ambito europeo sembra rivendicare una cultura della “buona” imprenditorialità sulla base di un principio di “distintività” organizzativa rispetto alle imprese tradizionali. Si tratta in alcuni casi di una retorica della buona occupazione promossa dalle imprese sociali che, purtroppo, per motivi (anche) congiunturali, viene disattesa da più parti. L’aspettativa della “buona” occupazione generata dalla nuova imprenditorialità sociale potrebbe invece ritrovare la forza (e il coraggio) di recuperare una distintività valoriale prima ancora che giuridico-normativa, innescando un processo di riformulazione del concetto di “social investment” in ambito aziendale, contrattuale e istituzionale. Tale inversione di rotta dovrebbe guardare oltre l’isomorfismo organizzativo indotto dalla domanda di esternalizzazione dal pubblico al privato sociale, che nel lungo periodo ha generato effetti perversi in termini di perfomance (costi-efficacia), nonché una perdita d’identità socio-organizzativa delle imprese sociali. L’attuale congiuntura economica può rappresentare paradossalmente una buona occasione per riappropriarsi di un modello di imprenditorialità ad alto valore aggiunto, basato sulla qualità del servizio, ma anche sul principio di reciprocità che ha dato vita alle tante esperienze mutualistiche e di solidarietà sociale pre-istituzionali[9].

Bibliografia

Ascoli U. (2014), Welfare, nuovi rischi sociali e innovazione, Prolusione Inaugurazione A.A. 2013/2014, Università Politecnica delle Marche.

Ashoka (2006), Measuring Effectiveness. A six year summary of methodology and findings

Benvegnù-Pasini G., Vecchiato T. (2014), “Il welfare generativo e le sue potenzialità”, Studi Zancan, 6, pp. 5-12.

Borzaga C., Defourny J. (2001), L’impresa sociale in prospettiva europea. Diffusione, evoluzione, caratteristiche e interpretazioni teoriche, Edizioni31, Trento.

Borzaga C., Depedri S., Galera G. (2010), “L’interesse delle cooperative per la comunità”, in Bagnoli L. (a cura di), La funzione sociale della cooperazione. Teorie, esperienze e prospettive, Carocci, Roma.

Borzaga C., Galera G. (2011), “Social enterprises and decent work”, chapter 6 in Aa.Vv (eds.), The Reader 2011. Social and Solidarity Economy: Our common road towards Decent Work, ITC of ILO, pp. 89-100. 

Borzaga C., Zandonai F. (2015), “Oltre la narrazione, fuori dagli schemi: i processi generativi delle imprese di comunità”, Impresa Sociale, 5-2015, pp. 1-7. 

CEDEFOP (2014), Navigating in difficult waters. Learning for career and labour market transitions, Research Paper CEDEFOP - European Centre for the Development of Vocational Training, Luxembourg. 

CIRIEC (2014), L’economia sociale nell’Unione Europea, sintesi della relazione elaborata da CIRIEC su richiesta del Comitato economico e sociale europeo (CESE). 

Commissione Europea (2003), L’imprenditorialità in Europa. Libro Verde, COM(2003) 27 definitivo, Bruxelles. 

Commissione Europea (2011a), L’atto per il mercato unico. Dodici leve per stimolare la crescita e rafforzare la fiducia. “Insieme per una nuova crescita”, COM(2011) 206 definitivo, Bruxelles. 

Commissione Europea (2011b), Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese, COM(2011) 681 definitivo, Bruxelles. 

Commissione Europea (2011c), Iniziativa per l’imprenditoria sociale. Costruire un ecosistema per promuovere le imprese sociali al centro dell’economia e dell’innovazione sociale, COM(2011) 682 definitivo, Bruxelles. 

Commissione Europea (2012a), Verso una ripresa fonte di occupazione, COM (2012) 173 definitivo, Bruxelles. 

Commissione Europea (2012b), Piano d’azione imprenditorialità 2020. Rilanciare lo spirito imprenditoriale in Europa, COM(2012) 795 final, Bruxelles. 

Commissione Europea (2014a), L’iniziativa per l’imprenditoria sociale della Commissione Europea, DG Internal Market & Services, Bruxelles. 

Commissione Europea (2014b), European Vacancy Monitor, no. 12, February 2014, pp. 21-26. 

Commissione Europea (2014c), Report on the public consultation on the “New SME Policy”, Public Consultation on the new Small Business Act, 

Demozzi M., Zandonai F. (2007), “L’impresa sociale di comunità: processi di sviluppo e modelli organizzativi”, in Scaratti G., Zandonai F. (a cura di), I territori dell’invisibile. Culture e pratiche di impresa sociale, Bari-Roma, Editori Laterza, pp. 251-273.

Demozzi M., Zandonai F. (a cura di) (2008), Impresa sociale di comunità. Strumenti per la creazione e la gestione, WikiBooks. 

Di Maggio P.J., Powell W.W. (1983), “La gabbia di ferro rivisitata. Isomorfismo istituzionale e razionalità collettiva nei campi organizzativi”, in Di Maggio P.J., Powell W.W. (a cura di), Il neoistituzionalismo nell’analisi organizzativa, Edizioni Comunità, Torino.

Ferrera M. (2006), Le politiche sociali, Il Mulino, Bologna.

Fondazione Zancan (2013), Rigenerare capacità e risorse. La lotta alla povertà, Rapporto 2013, Il Mulino, Bologna.

Galera G., Zandonai F. (2012), “L’evoluzione in ambito internazionale: una lettura istituzionale”, in Venturi P., Zandonai F. (a cura di), L’impresa sociale in Italia. Pluralità di modelli e contributo alla ripresa, Rapporto Iris Network, Altreconomia, Milano, pp. 111-133.

GEM (2014), Global Entrepreneurship Monitor Italia 2014, GEM Global Entrepreneurship Monitor. 

Goldsmith S. (2010), The Power of Social Innovation: How Civic Entrepreneurs Ignite Community Networks for Good, Jossey-Bass Publication, San Francisco CA. 

Granovetter M. (1983), “The Strength of Weak Ties: A Network Theory Revisited”, Sociological Theory, 1, pp. 201-233. http://dx.doi.org/10.2307/202051

Jahier L. (2013), “Oltre l’economia e la moneta: una nuova dimensione sociale dell’Europa”, Impresa Sociale, 1-2013, pp. 48-52. 

ILO (2011), The Reader 2011. Social and Solidarity Economy: Our common road towards Decent Work, ITC of ILO. 

Laville J.L., La Rosa M. (2009), Impresa sociale e capitalismo contemporaneo, Ed. Sapere 2000, Milano.

Magatti M., Giaccardi C. (2014), Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano.

Martini E. (2014), “Regioni che apprendono: luoghi per l’apprendimento permanente e lo scambio di conoscenza”, Studi di Sociologia, 2, pp. 171-186.

OECD (2001), The OECD Territorial Outlook 2001, Paris.

OECD (2013), Policy Brief on Social Entrepreneurship Entrepreneurial. Activities in Europe, European Commission, Luxembourg. 

Parlamento Europeo (2013), Regolamento (UE) n. 1296/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2013 relativo a un programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale (“EaSI”) e recante modifica della decisione n. 283/2010/UE che istituisce uno strumento europeo Progress di microfinanza per l’occupazione e l’inclusione sociale, Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, L 347/238 del 20.12.2013. 

Putnam R.D. (1993), Making Democracy Work: Civic Tradition in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton.

Rifkin (2011), La terza rivoluzione industriale, Mondadori, Milano.

Rullani F. (2005), “Le comunità di schiuma. Esplorare insieme”, in Bonomi A. (a cura di), La Società delle paure, Communitas, 11, pp. 91-104.

Santini F., Vitelli F. (2014), L’assunzione della qualifica di impresa sociale come determinante indiretta della crescita. Un’analisi fondata su cinque case studies, paper presentato in occasione di Colloquio Scientifico sull’impresa sociale, 23-34 maggio, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Perugia. 

Saraceno C. (a cura di) (2004), Dinamiche assistenziali in Europa, Il Mulino, Bologna.

Sassen S. (2004), Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna.

Tourain A. (2012), La globalizzazione e la fine del sociale, ristampa, Il Saggiatore, Milano.

Tricarico L. (2014), “Imprese di Comunità nelle Politiche di Rigenerazione Urbana: Definire ed Inquadrare il Contesto Italiano”, Euricse Working Papers, 68|4. 

Unioncamere (2014), Imprese, comunità e creazione di valore. L’economia reale attraverso il contributo delle imprese familiari, della cooperazione e dell’imprenditoria sociale, Rapporto Unioncamere 2014, Centro Studi Unioncamere, Roma. 

Vecchiato T. (2014), “Il welfare generativo, una sfida politica e sociale”, Studi Zancan, 4, pp. 40-44.

Zandonai F. (2013), “Una nuova stagione di politiche europee per l’impresa sociale: implementazione e ricadute dell’Iniziativa per l’imprenditoria sociale“, Impresa Sociale, 0-2013, pp. 52-55. 

Zanfrini L. (2002), Lo sviluppo condiviso. Un progetto per le società locali, Vita e Pensiero, Milano.

Note

  1. ^ Il riferimento è a tipologie occupazionali a cui siano abbinati i diritti minimi di tutela previdenziale, assistenziale e retributiva.
  2. ^ Da 35 anni Ashoka seleziona imprenditori sociali con progetti innovativi, implementando una rete di oltre 3mila innovatori sociali. Attiva in 82 Paesi, l’organizzazione fondata da Bill Drayton è arrivata in Italia con la rete THIS WORKS per sviluppare un forte ecosistema a favore dell’innovazione sociale.
  3. ^ L’organizzazione non accetta finanziamenti pubblici e si autofinanzia con donazioni e contributi di imprenditori, aziende, istituzioni e singoli cittadini.
  4. ^ Cfr. http://issuu.com/ashokaitalia/docs/brochure_ashoka_italia
  5. ^ Cfr. http://issuu.com/ashokaeurope/docs/ashoka_new_solutions_for_employment
  6. ^ Il documento di Ashoka “Measuring Effectiveness. A six year summary of methodology and findings” (Ashoka, 2006) evidenzia alcuni limiti metodologici della rilevazione, quali l’auto-somministrazione del questionario (self reporting), l’assenza di valutazione esterna del lavoro svolto (internal processes), il rischio di distorsione interpretativa del questionario tradotto in lingue diverse, la molteplicità degli strumenti di raccolta delle informazioni (email, telefono, intervista face-to-face etc.), l’estensione temporale e geografica della rilevazione (ogni 6 anni in 20 paesi diversi - irregularities).
  7. ^ Si veda ad esempio la regolamentazione finanziaria e bancaria, l’accesso agli appalti pubblici e ai fondi strutturali o al finanziamento diretto nell’ambito del programma EaSI (Employment and Social Innovation) attraverso la misura dedicata al microcredito per le imprese cooperative e sociali (Parlamento Europeo, 2013).
  8. ^ Alcune riflessioni sul processo di ibridazione delle imprese sociali sono riprese da Borzaga e Defourny (2001).
  9. ^ “Valori e i principi di condotta delle associazioni popolari, rispecchiati nel movimento cooperativo storico, sono gli stessi che hanno plasmato il moderno concetto di economia sociale, impegnato a dare risposta ai bisogni dei gruppi sociali più vulnerabili e indifesi, tramite la creazione di organizzazioni di auto-assistenza alle condizioni di vita determinate dal capitalismo industriale e post-industriale del XX e XXI secolo. Le cooperative, le società di mutuo soccorso e le "leghe di resistenza" sono il riflesso dei tre orientamenti assunti da questo impulso associativo” (CIRIEC, 2014).
Sostieni Impresa Sociale

Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.

Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.