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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2025

Saggi

Giovani e cooperazione sociale: la nostalgia di futuro

Michele Marmo

Abstract

Questo contributo esplora il rapporto tra giovani e cooperazione sociale attraverso la metafora del “ritorno”, riletta alla luce del mito di Ulisse. La “nostalgia di futuro” diventa così chiave interpretativa per comprendere le tensioni tra desiderio di senso e disincanto, tra vocazione partecipativa e pratiche organizzative spesso rigide. Il testo propone una lettura critica della crisi di trasmissione intergenerazionale, evidenziando alcune prassi ancora “aggrappate al passato” e, al contempo, rilanciando le esperienze cooperative più orientate al futuro: quelle capaci di aprirsi alla co-gestione, alla narrazione condivisa, alla costruzione di un “noi” autenticamente generativo. Attraverso riferimenti simbolici, dati empirici ed esempi concreti, l’articolo invita a ripensare il lavoro cooperativo come spazio di alleanza trasformativa tra le generazioni.

Introduzione

Ho sempre apprezzato i miti che, con le loro narrazioni simboliche, offrono alla nostra immaginazione chiavi interpretative per cercare di comprendere che cosa stia avvenendo e per intravedere nelle strade intraprese segnali che oltrepassano la contingenza presente.

Pensando al momento che sta attraversando la cooperazione sociale, e in particolare al rapporto esistente fra giovani, lavoro e forme organizzative, mi sono ritrovato immerso in modo stimolante nella parola ritorno, che negli anni mi è stata suggerita dal ricordo del viaggio a ritroso da Troia di Ulisse. Un protagonista dei grandi racconti della Grecia antica che non ha bisogno di presentazioni, ma a cui in queste pagine mi piace avvicinarmi come l’uomo della nostalgia (nostos e algos letteralmente in greco significano ritorno e dolore), l’uomo sospinto tra mille difficoltà da un incoercibile desiderio del ritorno lasciandosi alle spalle una guerra tragica.

Ma Ulisse è anche l’uomo che nel suo viaggio verso Itaca si ritrova insieme alla dea Calipso, prigioniero della sua bellezza e della tentazione che gli propone: vivere per sempre in quell’isola restando eternamente giovane, diventando immortale e dunque sottraendosi alle vicissitudini dolorose e gioiose del vivere dell’uomo. Lui, invece, desidera tornare: è il ritorno a caratterizzare il suo desiderio e a spingerlo a non sottrarsi alla sfida del vivere nella sua concretezza, rifugiandosi in una qualche isola di astratto benessere.

Come ora spiegato, la parola nostalgia nasce dall’unione di nostos e algos: il dolore del ritorno, la malattia che colpisce quanti hanno una memoria imbevuta di pensieri ed emozioni legati a un vissuto che è entrato nella profondità della propria esistenza e di cui si riconosce la natura originaria, la fonte da cui scaturisce acqua sorgiva. Ecco, è qui che si gioca la credibilità della nostalgia: sulla sua capacità di essere attratta da ciò che costituisce la fonte per attingerne a piene mani la ricchezza e densità del vivere.

Mi sembra di intravedere nel fascino della nostalgia una suggestione che ha a che fare con l’esperienza in profondità della cooperazione sociale per come oggi la vedo e per come ne interpreto la fase evolutiva che, da più parti almeno, la attraversa e che la sta sospingendo non a un agitarsi frenetico e scomposto, ma a reinvestire la propria storia in un’intima nostalgia di futuro.

O meglio, la cooperazione deve sciogliere questa tensione fra la nostalgia di un ritorno al passato e la spinta desiderante di ripensarsi in una nostalgia di futuro il cui orizzonte proprio le nuove generazioni sembrano indicare.

Come sono messi i giovani in relazione a questo mondo?

Una nostalgia che si intreccia profondamente con il rapporto fra giovani e cooperazione, tanto nei termini dell’impegno volontario, quanto nella scelta di un impiego professionale in questo ambito. Secondo dati Istat del 2021, sono oltre 4,6 milioni i volontari attivi in Italia, e tra questi circa 600.000 sono giovani tra i 19 e i 29 anni. La fascia 14-17 anni ha fatto registrare una crescita significativa: dal 3,9% del 2021 al 6,8% nel 2023 (Fonte: Osservatorio Con i Bambini, 2023). Tuttavia, è importante distinguere tra la disponibilità al volontariato, che rimane forte, e l’effettiva scelta di lavorare nella cooperazione sociale. Quest’ultima fatica a trattenere e coinvolgere stabilmente le nuove generazioni, nonostante la sua vocazione partecipativa.

Una ricerca di Confcooperative-Federsolidarietà Veneto rivela che il 45% dei lavoratori nelle cooperative sociali ha un’anzianità inferiore ai cinque anni, segno di un ricambio generazionale ancora in corso (Fonte: Rivista Impresa Sociale, 2023). Ma la partecipazione dei giovani al lavoro cooperativo si scontra con ostacoli: precarietà contrattuale, bassa remunerazione, mansioni complesse e un disallineamento tra aspettative di senso e pratiche organizzative.

Eppure, vi sono segnali circa il fatto che i giovani possano essere attratti da un lavoro che rappresenta al tempo stesso un progetto di cambiamento sociale, che è il modello di cui le cooperative sociali sono portatrici. Secondo Italia Generativa (2023), il 23% dei giovani italiani ha svolto attività di volontariato, superando la media europea del 20%. Questa percentuale, seppur non direttamente traducibile in disponibilità a lavorare nella cooperazione sociale, segnala un desiderio diffuso di partecipazione civica, soprattutto se connessa a esperienze concrete, territoriali, libere da schemi ideologici.

È in questo contesto che la cooperazione sociale deve interrogarsi sulla propria capacità di rinnovarsi, di ascoltare, di creare luoghi di apprendimento e ingaggio autentico. Il Servizio Civile Universale, ad esempio, continua a rappresentare un’occasione formativa e professionale per molti giovani, ma spesso non prosegue in un percorso stabile all’interno del mondo cooperativo.

Il desiderio di futuro che abita molti giovani si esprime nella richiesta di un lavoro che abbia senso, in ambienti relazionali significativi, con un reale riconoscimento del valore del proprio contributo. Questo coincide con quanto molte cooperative stanno cercando di ricostruire: forme organizzative più inclusive, democratiche e orientate alla partecipazione. Ne sono esempio le pratiche di governance condivisa sperimentate da alcune cooperative giovanili, che introducono spazi di confronto orizzontale, turnazione nei ruoli di coordinamento e percorsi di mentoring intergenerazionale. Un esempio significativo in questo senso è rappresentato da quelle cooperative che hanno introdotto assemblee decisionali mensili aperte a tutti i lavoratori e un programma di mentoring tra soci senior e nuovi ingressi, rafforzando così il senso di appartenenza e la trasmissione generativa del sapere. Al contrario, risultano "aggrappate al passato" quelle realtà che riproducono modelli direttivi chiusi, con leadership fortemente personalistiche e scarsa apertura all'innovazione proposta dai più giovani.

In un tempo in cui la crisi delle istituzioni, dei corpi intermedi e delle forme tradizionali di rappresentanza è evidente, la cooperazione può tornare ad essere uno spazio generativo se capace di connettersi con le aspirazioni delle nuove generazioni. L’impresa cooperativa diventa così una delle rare forme di economia accessibile: «friendly», transgenerazionale, inclusiva. Un patrimonio da reinterpretare con radicalità e coraggio, a partire dai giovani.

La nostalgia di futuro, allora, può diventare energia trasformativa. Non come rimpianto di un passato idealizzato, ma come desiderio che si nutre delle radici per generare frutti nuovi. La cooperazione che vuole rimanere viva deve tuffarsi nelle incertezze delle cose che nascono, come suggeriva Aldo Moro, e non aggrapparsi a ciò che muore, anche se rassicurante.

Forse è questa la lezione più profonda del mito di Ulisse: non cercare l’immortalità fuggendo il limite, ma accettare la sfida del ritorno, del quotidiano, dell’umano. Un ritorno alla fonte della cooperazione sociale, dove il lavoro torna ad avere senso, e dove i giovani non sono semplicemente da attrarre, ma da accogliere come co-autori di un futuro condiviso. La nostalgia, così intesa, può essere il motore di una rigenerazione possibile.

Una crisi di eredità

C’è un sentimento diffuso che attraversa oggi il rapporto tra giovani e cooperazione sociale: la sensazione di un patto interrotto. Un’alleanza mancata, o forse mai davvero stipulata, tra chi ha fondato l’impresa sociale come strumento di giustizia e chi oggi vi si affaccia con domande nuove, spesso senza trovare ascolto. Questo testo si propone di esplorare, in chiave al tempo stesso narrativa ma anche riflessiva, le radici di questo scarto, riconoscendo nella “nostalgia” non una malinconia regressiva, ma un movimento creativo.

Come Ulisse, che rifiuta l’immortalità sterile offerta da Calipso per tornare alla sua Itaca, anche la cooperazione è chiamata oggi a rinunciare al mito dell’autosufficienza per ritornare a un’origine trasformata. In questa chiave, la nostalgia di futuro è desiderio di continuità creativa, è fedeltà non a una forma, ma a una promessa. Una promessa che, per molti giovani, appare oggi sospesa.

Il mito come metafora: Ulisse e il dolore del ritorno

Il mito non è favola, è strumento conoscitivo. È un modo per dire l’indicibile, per avvicinarsi a una verità che non si lascia afferrare con le sole categorie razionali. Ulisse, nell’Odissea, è l’archetipo di un ritorno che non è semplice ritorno geografico, ma attraversamento esistenziale. È l’uomo che, pur potendo fuggire il tempo e il dolore rifugiandosi nell’eterno presente dell’isola di Calipso, sceglie invece la finitudine, l’incertezza, la responsabilità. È, come dice Recalcati, l’uomo fedele al desiderio.

In questa prospettiva, la nostalgia non è chiusura ma apertura. È uno spazio emotivo e simbolico in cui si tiene insieme ciò che è stato e ciò che ancora può essere. Non c’è nostalgia senza fedeltà, e non c’è fedeltà senza trasformazione. Anche per la cooperazione sociale vale lo stesso schema: ogni ritorno all’origine ha senso solo se è attraversato dal desiderio di rigenerazione. La radice non è un’ancora che trattiene, ma una sorgente che alimenta.

Reinserire il mito in una riflessione sul sociale, sul lavoro, sul futuro, significa restituire profondità antropologica ai nostri strumenti interpretativi. Significa riconoscere che non si tratta solo di politiche o modelli organizzativi, ma di immagini, di simboli, di narrazioni che danno forma al possibile. Ed è proprio per questo che Ulisse è ancora nostro contemporaneo.

Tra desiderio e disincanto: il bisogno di senso

Nel cuore della crisi tra giovani e cooperazione sociale si annida un tema meno visibile ma più decisivo: il desiderio. I giovani non cercano solo un posto di lavoro, ma un posto nel mondo. E la cooperazione, nella sua vocazione originaria, si proponeva proprio come risposta a questa esigenza: un modo per tenere insieme professionalità, impegno, partecipazione e senso.

Eppure, oggi, molti di coloro che si avvicinano al mondo cooperativo lo fanno con entusiasmo e lo lasciano con amarezza. Perché? Perché il desiderio si alimenta di coerenza. Quando i discorsi sull’etica, sull’inclusione, sulla partecipazione si infrangono contro strutture organizzative chiuse, pratiche gerarchiche, mancanza di dialogo, nasce una frattura. E il disincanto prende il posto della speranza.

Recalcati, nel parlare del desiderio, lo definisce come una forza orientata: una tensione verso l’altro, verso il futuro, verso l’ignoto. Il desiderio è generativo solo se riconosciuto, sostenuto, narrato. Ma quando viene ignorato o ridicolizzato — “i giovani vogliono troppo”, “non hanno pazienza”, “sono fragili” — si inaridisce. Non scompare, ma si ritrae. E con esso si ritrae anche la possibilità di costruire una vera alleanza tra generazioni.

Il bisogno di senso non è un vezzo. È una domanda antropologica. È il segno che la dimensione lavorativa non è separabile da quella esistenziale. I giovani non vogliono solo sopravvivere: vogliono contribuire, lasciare traccia, sentire che il loro tempo ha un valore. E quando questo non accade, il disimpegno è una forma di difesa, non di superficialità.

La fragilità dei legami e il ritorno del “noi”

Viviamo in un’epoca in cui le strutture del “noi” sono in crisi. La società liquida, come ci ricorda Bauman, ha sciolto molti dei legami che tenevano insieme le generazioni, i ruoli, le appartenenze. Anche la cooperazione sociale, che per definizione si fonda su un’idea di comunità, ha subito questa erosione. In molte realtà, il “noi” è diventato un’etichetta retorica, non una pratica quotidiana.

Ma i giovani — e questo è un dato controintuitivo — cercano proprio questo: un “noi” vero, concreto, esperienziale. Non un’appartenenza ideologica, ma un’appartenenza relazionale. Un luogo dove si possa parlare, agire, costruire insieme. Dove l’errore sia accolto, la fragilità condivisa, la responsabilità distribuita.

Dove l'intergenerazionalità non sia solo una parola, ma una prassi. Alcune cooperative stanno traducendo questo principio in realtà attraverso percorsi strutturati di co-progettazione, laboratori intergenerazionali e incubatori di idee dove le nuove generazioni sono protagoniste nel definire attività, servizi e strumenti digitali. Alcune cooperative hanno attivato laboratori di progettazione sociale in cui giovani e operatori senior co-immaginano nuovi servizi, come percorsi educativi interculturali nelle scuole, co-ideati con giovani migranti. Tali esperienze dimostrano che è possibile superare la logica del semplice inserimento giovanile per passare a una vera co-partecipazione. Al contrario, dove il "noi" si riduce a uno slogan, le organizzazioni si chiudono nella ripetizione rassicurante di pratiche consolidate, incapaci di rispondere alla complessità contemporanea.

La fragilità di cui parliamo non è un difetto. È la condizione stessa della cooperazione. È ciò che permette di rimanere aperti, porosi, ricettivi. Ma per farlo serve una cultura organizzativa che non abbia paura del cambiamento, che sappia mettersi in discussione, che accolga il nuovo non come minaccia ma come possibilità.

Costruire il “noi” oggi significa attraversare questa fragilità. Significa ammettere che non si ha tutto sotto controllo, che la trasmissione non è automatica, che i codici di ieri non bastano per leggere il presente. Ma significa anche credere che, proprio in questo vuoto, possa nascere qualcosa. Un nuovo patto, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di fare cooperazione. Insieme.

Questa frattura è anche relazionale. La trasmissione tra generazioni si è indebolita. Dove le organizzazioni non sanno coltivare una cultura accogliente, inclusiva e dialogica, il “noi” si sgretola. Eppure, quando si investe in processi formativi e spazi partecipativi reali, accade qualcosa: i giovani restano. Non per convenienza, ma per senso.

La trasmissione interrotta: cosa significa ereditare oggi?

Trasmettere non significa semplicemente “consegnare” qualcosa. Trasmettere è un atto simbolico, che implica riconoscimento, ascolto, responsabilità. Nella cooperazione sociale, questa trasmissione si è spesso svolta in modo informale, per prossimità e imitazione. Ma oggi quel modello non basta più. Il mutamento dei linguaggi, delle aspettative e dei contesti richiede una trasmissione consapevole, critica, aperta al nuovo.

Recalcati lo scrive con forza: “Ogni eredità è un’interpretazione”. Non si eredita mai qualcosa così com’è, ma la si fa propria attraverso una riscrittura. I giovani non chiedono di ricevere un patrimonio da custodire come un feticcio. Chiedono di potervi mettere mano, riscriverlo, contaminarlo. Il problema sorge quando chi detiene quella storia teme la sua alterazione, la sua trasformazione. Così, si irrigidisce, si difende. E la trasmissione si spezza.

Questa frattura si manifesta non solo nella difficoltà a “fare spazio”, ma anche nella resistenza a lasciar raccontare una storia comune con parole nuove. Una cooperazione che vuole durare deve accettare che la sua narrazione venga rifatta. Deve saper dire: “questa è stata la nostra storia, ora proviamo a scriverla insieme, con la vostra voce”. Solo così la nostalgia si fa generativa. Solo così il passato diventa sorgente, e non peso.

Immaginare un’alleanza nuova: la generazione del “con”

L’orizzonte verso cui guardare non è più quello della semplice “inclusione dei giovani” nei modelli esistenti, ma quello della co-creazione. I giovani non vogliono entrare in una casa già arredata, dove ogni cosa è al suo posto e nulla si può spostare. Vogliono contribuire all’arredamento, ridefinire le stanze, aprire nuove finestre. La cooperazione sociale può diventare questa casa comune, ma deve riconoscere che non basta accogliere: occorre condividere.

Serve una generazione del “con”: co-gestione, co-responsabilità, co-narrazione. Questo implica una rinuncia simbolica al controllo da parte di chi ha costruito il sistema. Alcune esperienze innovative lo dimostrano: l'introduzione di bilanci partecipativi, l'uso di strumenti digitali collaborativi, la sperimentazione di nuovi ruoli professionali ibridi (tra educazione, cultura, digitale) sono segnali di una cooperazione orientata al futuro. La cooperativa Stranaidea, a Torino, ad esempio, ha sviluppato un bilancio sociale partecipativo costruito con il contributo attivo di lavoratori e beneficiari, e ha introdotto figure professionali ibride che coniugano competenze educative e digitali. Si tratta di pratiche che aumentano la trasparenza e la flessibilità organizzativa, avvicinando la cooperazione alle aspettative delle nuove generazioni. Dove invece si fatica a lasciare spazio e si insiste su strutture statiche, si rafforza la distanza tra generazioni.

Una disponibilità a lasciarsi cambiare. È un processo che può generare paura, perché tocca la propria identità. Ma è anche il solo modo per evitare che la cooperazione diventi autoreferenziale, distante, museale.

Una vera alleanza non si costruisce a partire dalla concessione, ma dalla reciprocità. Non è “tu sei giovane, quindi ti lascio spazio”. È “tu hai un desiderio, una visione, un’urgenza: vediamo come può incontrarsi con la mia”. In questo spazio intermedio nasce la politica cooperativa del futuro: una politica fatta di relazioni, di progettualità condivisa, di alleanze generative. Una politica che non si accontenta di essere etica, ma aspira a ritornare ad essere trasformativa.

Alcuni dei soci giovani della cooperativa di cui faccio parte (gli under 30 costituiscono circa il 70% della base sociale) hanno chiesto alla dirigenza di poter utilizzare gli spazi fisici della sede per momenti di incontro informale, di poter utilizzare la terrazza della sede per momenti conviviali fra colleghi e lo facevano segnalando quando sentissero importante avere occasioni per costruire senso di appartenenza non solo attraverso la realizzazione di progetti e servizi, ma anche nella condivisione di un tempo di vita sentito come molto significativo per nutrire la loro dimensione relazionale. Mi viene alla mente la risposta di molti giovani all’interno di una ricerca sui consumi dei giovani e sulla loro bassa capacità di spesa: “toglietemi tutto, ma non il momento dell’aperitivo con gli amici”!

Conclusione – una nostalgia che apre, non chiude

Ritorniamo al punto di partenza. La nostalgia, se vissuta come rimpianto paralizzante, chiude. Ma se vissuta come tensione, come desiderio fedele a ciò che ci ha fondati, apre. E oggi abbiamo bisogno di aperture, non di restaurazioni. Di nuove generazioni che non rinneghino il passato, ma che abbiano il coraggio di reinventarlo.

La cooperazione sociale, nella sua essenza più profonda, è sempre stata una scommessa sul possibile. Un laboratorio imperfetto ma radicale, in cui si sono sperimentati nuovi modi di abitare il lavoro, la cittadinanza, la cura. Se vuole restare viva, deve continuare ad essere questo: un luogo che non ha paura di cambiare, di sbagliare, di ascoltare. Un luogo che non cerca solo consenso, ma dialogo. Non solo bilanci, ma visioni.

Per fare questo, serve una scelta. Una scelta ulissica, potremmo dire: quella di rifiutare l’eterno presente, l’isola di Calipso, per attraversare il tempo. Un tempo abitato da altri, da giovani, da diversità. Solo così Itaca continuerà ad avere senso. E solo così la cooperazione potrà dire ancora “noi”, senza nostalgia del passato, ma con una nostalgia di futuro che, finalmente, si fa promessa.

Se la cooperazione saprà tornare alle sue radici senza temere le voci nuove, potrà essere ancora casa. E i giovani non saranno da trattenere, ma da coinvolgere come co-autori. “Itaca ti ha dato il bel viaggio”, scrive Kavafis. E forse, oggi, quel viaggio va ripreso insieme. Perché solo tornando insieme, Itaca può farsi nuova.

DOI: 10.7425/IS.2025.02.05

 

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