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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2025

Saggi

Il lavoro delle giovani donne nelle aree marginali. (Semplice) dissonanza o opportunità?

Francesca Campora

Ogni dissonanza è un campanello. Proprio lì, una porta si potrebbe aprire e introdurci a un ambito inaspettato, diverso, o addirittura capovolto, rispetto all’usuale.

Parlando di dissonanze innescate da fenomeni circoscritti, limitati rispetto alla tendenza generale, al dato dominante e scientificamente corroborato, il condizionale è più che mai d’obbligo. Tuttavia, o per semplice curiosità o per quella risposta cognitiva che Leon Festinger definiva “ristrutturazione del pensiero per ristabilire l’equilibrio” (Festinger, 1957), fatti salvi i condizionali e la cautela a mettere in discussione o ribaltare interpretazioni consolidate e supportate, spesso una dissonanza ci obbliga a un confronto tra informazioni non del tutto coerenti tra loro. E se, riguardando i dati e i fatti e valutando storie e casi, non si giungesse a una vera e propria “ristrutturazione” di quanto prima considerato certo, si potrebbe svelare e accertare un’anomalia, un’eccezione capace, da un lato, di confermare la regola ma, dall’altro, di mostrare un’alternativa.

Un’alternativa è un’opportunità. Può essere esplorata, condivisa, diffusa, replicata, rinforzata.

Recentemente, in occasione del XX Convegno Aree Fragili (Rovigo, 28-29 marzo 2025) “Conoscenza, riconoscimento, gratitudine. Le donne nelle aree rurali fragili” dedicato al ruolo delle donne nelle aree interne-rurali-marginali, mi è stato chiesto di raccontare la prospettiva maturata da Fondazione Edoardo Garrone nei dieci anni di lavoro accanto alle giovani imprenditrici e ai giovani imprenditori della montagna. La proposta sottendeva una domanda piuttosto evidente: dal nostro punto di osservazione, esiste un tema “di genere” in quella particolare categoria che sono le/i giovani imprenditrici/imprenditori della montagna italiana? Se sì, è assimilabile, per presupposti e manifestazioni, a tutto quanto abbondantemente rappresentato e verificato sulla situazione lavorativa delle donne nel nostro paese?

Qui urgono un paio di passi indietro.

Primo passo indietro. Lavoro e giovane imprenditoria sociale nelle aree marginali.

Che si tratti di giovani donne o di giovani uomini, la nostra esperienza ci porta senz’altro ad affermare che l’opportunità di essere artefici del proprio percorso lavorativo, magari anche pionieristicamente rispetto a problematiche ambientali e sociali spesso prive di efficaci risposte di sistema (o dal Sistema), attrae sempre più. Soprattutto quando questa scelta può rappresentare una vera e propria traiettoria esistenziale, estesa allo stile di vita, agli affetti e al ritorno a modelli relazionali e abitativi incentrati sulla comunità e la condivisione.

Sempre più spesso e, in ogni caso in modo radicale, la scelta lavorativa e personale coincidono con la ricerca della felicità, una felicità di piccole occasioni quotidiane, troppo a lungo – e ingiustamente - lasciata fuori dalle stanze dove si validano e riproducono le aspettative sociali.

Il World Youth Report 2020 prodotto dalle Nazioni Unite (ONU) aveva come tema centrale “L’imprenditoria sociale giovanile e l’Agenda 2030”. L’obiettivo del rapporto era di collegare l’imprenditoria sociale giovanile al raggiungimento dell’Agenda 2030, mostrando come essa contribuisca al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Questa relazione è partita dall’osservazione della situazione lavorativa dei giovani nel mondo e propone l’imprenditoria sociale come soluzione sostenibile per combattere la disoccupazione giovanile.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, «i giovani dai 15 ai 24 anni sono 1,21 miliardi e rappresentano il 15,5% della popolazione mondiale. Le proiezioni prevedono che la coorte di giovani raggiungerà 1,29 miliardi (15,1 per cento del totale mondiale) entro il 2030 e quasi 1,34 miliardi (13,8 per cento della popolazione globale) entro il 2050». La disoccupazione tra gli 1,2 miliardi di giovani del mondo è molto più alta di quella degli adulti e, la quota di giovani nella forza lavoro globale è diminuita dal 21% nel 2000 al 15% nel 2018. Per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), «dovrebbero essere creati 600 milioni di posti di lavoro nei prossimi 15 anni per soddisfare le esigenze occupazionali dei giovani». Ci vogliono soluzioni alternative e l’imprenditoria sociale si sta dimostrando una delle più ambite dalle giovani generazioni consapevoli e informate. Il rapporto delle Nazioni Unite sull’imprenditoria sociale[1] giovanile mostra che questo settore di attività può contribuire alla creazione di posti di lavoro sostenibili e inclusivi. Questo tipo di impresa ha il vantaggio, dice il rapporto, di creare posti di lavoro soprattutto quando si trovano in «aree geografiche che non sono attraenti per le imprese commerciali e possono aiutare a rianimare le economie locali e creare nuove opportunità di lavoro». Il rapporto osserva anche che nel 2016 «le imprese sociali hanno beneficiato a 871 milioni di persone in nove Paesi dell’Europa e dell’Asia centrale, fornendo servizi e prodotti per un valore di 6 miliardi di euro e creando posti di lavoro, soprattutto tra i gruppi sociali più emarginati».

Questi macro-dati sulle aree “marginali” del mondo, si adattano molto bene a comprendere l’analogo processo di cui Fondazione Edoardo Garrone, si occupa nelle aree interne del nostro Paese con Progetto Appennino: luoghi per decenni dimenticati dai mercati e dai grandi player che lasciano spazio a sperimentazioni, innovazione sociale e nuove formule sociali. Nell’ambito di tale progetto, tutte le 61 imprese nate grazie ai Campus ReStartApp e ReStartAlp promossi dalla Fondazione Edoardo Garrone dal 2014 a oggi[2] e le oltre 100 seguite con percorsi di accelerazione, dimostrano la generatività della contaminazione, quando gli obiettivi sociali e ambientali incontrano modelli organizzativi e gestionali idi tipo imprenditoriale e quando il benessere delle persone viene considerato in modo laico, interconnesso, senza barriere e pregiudizi tra la dimensione economica e quella sociale.

Un altro punto di forza rilevato dal rapporto, riguardo all’impegno di un gran numero di giovani nelle imprese sociali, è che «le caratteristiche degli individui che si impegnano con successo nell’imprenditoria sono la creatività, la resilienza, l’ispirazione, la tolleranza al rischio e l’orientamento all’azione, vere e proprie risorse nel contesto attuale, poiché queste qualità attitudinali e comportamentali sono necessarie ad affrontare squilibri, a ridisegnare equilibri e a non tralasciare nessuna possibilità e nessuna fragilità.» L’imprenditoria sociale offre infine un complemento significativo ai modelli educativi tradizionali, aiutando i giovani a rafforzare e diffondere le competenze del 21° secolo, che sono in gran parte focalizzate su “cosa c’è dopo”, piuttosto che “cosa c’è adesso”. Queste abilità rientrano in quattro categorie principali, spesso indicate come le “quattro C”: pensiero critico e problem solvingcomunicazionecollaborazione e creatività. Competenze che non sono nuove ma di nuova importanza perché strettamente legate all’attuale bisogno di innovazione economica, sociale e scientifica.

Secondo passo indietro. Lavoro e donne.

Doveroso (oltre che doloroso) ricordare quello che dati, statistiche e studi, ogni volta confermano sulla situazione lavorativa delle donne nel nostro Paese.

Donna e lavoro è un binomio da sempre difficile e oggi più che mai irrisolto: dopo tappe storiche nel percorso di emancipazione femminile[3] (il voto, l’istruzione e l’accesso sempre più diffuso alle università, i diversi contesti in cui sono previste “quote rosa”, la definizione dello stupro come delitto contro la persona e non contro la morale o il costume, l’abolizione del “delitto d’onore”) e sempre più ampie e diffuse misure per la parità di genere nei luoghi di lavoro, al di là dell’enunciazione dei principi e dell’apparente affermazione del diritto, carte, codici e intenzioni non bastano e non abilitano quando le infrastrutture culturali e fisiche della famiglia, dell’educazione e del welfare non sono minimamente adeguate a sostenere la prassi quotidiana di una parità, che resta così solo un bel titolo senza svolgimento contenuto.

E dati e statistiche, convergono con l’esperienza soggettiva: nessuna dissonanza quindi, tra quello che dicono i report e quello che raccontano le donne: le nostre amiche, le figlie, le sorelle, le madri.

La situazione in Italia

Lo scorso marzo è stato presentato il Rapporto CNEL-ISTAT “Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità” che conferma, nel complesso, l’ampio divario tra il nostro Paese e il resto dell’Europa: il tasso di occupazione femminile risulta inferiore di 12,6 punti alla media Ue ed è il valore più basso tra i 27 paesi dell’Unione. Ad ampliare ulteriormente i divari con l’Ue si aggiungono le marcate disparità territoriali: mentre tutte le regioni del Nord e del Centro, tranne il Lazio, hanno raggiunto l’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona 2010, pari al 60%, nessuna regione meridionale ha raggiunto il target europeo. Tipico esempio di intersezionalità dello svantaggio, che, se ulteriormente incrociato con il fattore anagrafico, si evidenzia ancora di più: il divario di genere si accentua a sfavore delle donne nelle classi di età più avanzate, attestandosi a 12,1 punti per i più giovani e a 22,9 punti nella fascia più adulta. Le differenze si accentuano ulteriormente nel Mezzogiorno, dove la distanza tra i tassi di occupazione femminile e maschile passa da 14,2 punti per classe 15-34 anni a quasi il triplo per le 50-64enni (33,1 punti in meno rispetto agli uomini).

Le disuguaglianze nell’opportunità di occupazione sono ancora più significative se si considerano unitamente ai dati sulla vulnerabilità che caratterizza i rapporti di lavoro. Mentre tra gli uomini sette occupati su dieci possono contare su un lavoro standard (dipendente a tempo indeterminato o autonomo con dipendenti), tra le donne sono in questa situazione poco più della metà delle occupate (53,9%). Quasi un quarto delle donne che lavora presenta uno o più elementi di vulnerabilità (dipendente a tempo determinato, part time involontario, ecc.), contro il 13,8% gli uomini. Risultano più spesso vulnerabili le lavoratrici giovani (38,7%), residenti nel Sud (31,2%), con bassa istruzione (31,7% per le donne che hanno fino alla licenza media) e straniere (36,5%).

Anche la condizione famigliare impatta diversamente sull’occupazione delle donne e degli uomini. Il 69,3% delle donne che vivono da sole ha un impiego, percentuale che scende al 62,9% tra le madri sole e al 57,2% tra le madri in coppia. Viceversa, tra gli uomini il tasso di occupazione per i single è di circa il 77% e arriva all’86,3% per i padri in coppia. Tra i 25 e i 34 anni meno della metà delle madri risulta occupata. Le disparità a livello territoriale appaiono molto importanti, legandosi anche alla diversa disponibilità di servizi per la prima infanzia: mentre nelle regioni del Nord e del Centro il tasso di occupazione delle madri supera o sfiora il 70%, nel Mezzogiorno si attesta poco sopra il 40%.

Anche l’istruzione non pare sufficiente ad arginare la discriminazione. Grazie al maggiore investimento in formazione, le donne in Italia sono mediamente più istruite degli uomini. Il 68% delle 25-64enni ha almeno un diploma o una qualifica, contro il 62,9% degli uomini. Il 24,9% è in possesso di un titolo terziario, contro il 18,3% degli uomini. Ma questo non si traduce in un vantaggio lavorativo. Permane una marcata segregazione orizzontale: circa la metà dell'occupazione femminile risulta concentrata in sole 21 professioni, mentre per gli uomini questo valore raggiunge ben 53.

Secondo il Gender Equality Index (GEI), in Italia, il rischio di povertà per le donne è del 20% e del 18% per gli uomini (2022). Questo squilibrio è radicato in una serie di barriere strutturali che vanno dalla ineguale partecipazione al mercato del lavoro alla sbilanciata distribuzione delle responsabilità di cura all’interno delle famiglie, causando carriere interrotte e guadagni inferiori nel corso della vita. Inoltre, la discriminazione di genere sul lavoro e il mancato accesso a servizi per l’infanzia di qualità contribuiscono ad aumentare i tassi di disoccupazione femminile.

Questo dato è ulteriormente aggravato dalla segregazione occupazionale in determinati settori. Le donne, infatti, sono sovrarappresentate nell’istruzione, nella salute e nel lavoro sociale, mentre la loro partecipazione nei settori scientifici e tecnologici (STEM) è nettamente più bassa. Ciò è particolarmente grave perché strettamente legato al divario di genere sia nell’occupazione che nelle retribuzioni (le competenze STEM, sono attualmente tra le più richieste e meglio pagate sul mercato del lavoro). Dunque, le scelte educative e professionali hanno un impatto diretto sulle disparità salariali tra uomini e donne.

Il contesto italiano appare particolarmente impari, a causa del divario di genere nella cura familiare: l’81% delle donne è impegnato quotidianamente in questa attività rispetto al 20% degli uomini. Le donne italiane dedicano in media cinque ore al giorno al lavoro di cura non retribuito per la famiglia, uno dei tassi più alti tra i Paesi facenti parti dell’OCSE.

Questo squilibrio nel carico di cura tra uomini e donne, correlato anche alla già esistente disparità salariale, contribuisce a interrompere le carriere delle donne e a ridurre il loro potenziale di guadagno nel corso della vita. Nonostante le donne italiane siano mediamente più istruite degli uomini, con il 65.7% delle donne tra i 25 e i 64 anni aventi almeno un diploma, contro il 60,3% degli uomini, l’interruzione delle carriere dovuta alla maternità e alle responsabilità familiari perpetua il divario occupazionale e salariale (Istat 2023).

Anche la segregazione verticale (“tetto di cristallo”) continua ad essere una realtà. In Italia, le parlamentari donna, sono il 33,6%. La quota di donne elette nei consigli regionali si ferma al 24,5%. Per quel che riguarda le imprese, solo il 28,8% è a conduzione femminile. La quota di imprenditrici è comunque in crescita, in tutte le classi di età, ma soprattutto tra le under 35 (+2,3 punti).

Il “Glass-Ceiling Index”: la situazione internazionale in cifre.

L’esigua presenza delle donne nelle istituzioni e nei ruoli apicali delle organizzazioni pubbliche e private costituisce un elemento centrale nell’analisi delle tematiche di genere. Spesso bloccate in posizioni di middle management, ancorché esaltate per le loro qualità di lavoratrici qualificate, nelle aziende e nelle organizzazioni, le donne faticano ancora a discostarsi dalla funzione di mero raccordo col top management e ad accedere a posizioni di maggior rilievo, retribuzione e prestigio, pur rappresentando la popolazione lavorativa mediamente più istruita. A tal riguardo, il settimanale inglese “The Economist” ha stilato il c.d. “Glass-Ceiling Index” (“GCI”), indicatore che rileva annualmente il ruolo e l’influenza delle donne in ambito professionale tra i 29 Paesi membri più industrializzati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (“OCSE”).

L’indagine condotta sul campione di Stati OCSE osservati dal GCI mostra che, per quanto sulle donne non gravino impedimenti legali al raggiungimento dei traguardi lavorativi attesi (e, anzi, nonostante la parità sia un valore fondante dei moderni ordinamenti giuridici democratici), di fatto e in misura variabile da Paese a Paese, il pari accesso alle opportunità di carriera non è garantito.

Pertanto, è cruciale individuare le cause della concreta disparità di opportunità professionali e le possibili iniziative da adottare per contrastarla, assicurando l’effettività dei diritti.

Nel 1984, l’espressione “tetto di cristallo” fu adottata da Gay Bryant, fondatrice ed ex-direttrice della rivista “Working Woman” che, prossima ad assumere la direzione di “Family Circle”, evidenziava come le donne rimanessero bloccate nel “limbo” del management intermedio, senza riuscire a conquistare spazio nei ruoli apicali e scegliessero pertanto di perseguire carriere alternative come lavoratrici autonome o si predisponessero a uscire dal mercato del lavoro per dedicarsi al progetto di costruzione familiare. Questo punto è molto interessante per i ragionamenti a seguire: laddove le donne esperiscono per generazioni un sistema strutturalmente refrattario alla realizzazione di un percorso di crescita professionale e piena affermazione delle proprie capacità, ideato e perpetrato secondo logiche indifferenti (o contrarie) alla parità di genere, scelgono l’alternativa, tentano il percorso autonomo, fuori dallo schema, fuori dal “qui si è sempre fatto così”.

Si tratta di uno schema così pervasivo e assimilato da diventare invisibile.

L’immagine del “soffitto di cristallo” evoca l’idea di una barriera trasparente o perfino invisibile – eppure tangibile, dura e spesso insormontabile – che preclude alle donne di scalare i vertici in ambito professionale o che, quantomeno, ostacola la progressione di carriera delle lavoratrici (e/o di altre categorie sociali marginalizzate, alle quali è stato esteso l’uso della metafora), dando luogo alla segregazione occupazionale di genere di tipo verticale.

Nel 2007, le psicologhe Alice H. Eagly e Linda L. Carli approfondirono questo concetto nel libro “Through the Labyrinth: The Truth About How Women Become Leaders”, coniando addirittura l’espressione “labirinto di cristallo”, ad indicare il percorso di carriera tortuoso che le donne sono chiamate ad affrontare, a causa degli ostacoli legati al genere, in contrasto con i più lineari percorsi di carriera maschili.

Il fenomeno del “soffitto di cristallo” non ha una genesi unitaria, ma si presenta come il prodotto di un complesso intreccio tra componenti sociali, culturali e psicologiche, che generano meccanismi più o meno consapevoli di discriminazione o di esclusione dell’offerta di lavoro femminile dal vertice della gerarchia organizzativa e che orientano le preferenze delle donne e le loro scelte professionali. Rispecchia il portato culturale dei “ruoli di genere” a partire dagli “stereotipi di genere”, cioè ricostruzioni acritiche e automatiche – apprese, veicolate e perpetuate nei processi di socializzazione – che associano agli individui un paniere convenzionale di inclinazioni, attributi o caratteristiche, in virtù della mera appartenenza a un genere. L’adesione agli stereotipi di genere si traduce in pregiudizi di genere (il c.d. “gender bias”), ossia distorsioni cognitive e/o errori di valutazione, che vengono interiorizzati dagli individui come singoli – donne incluse – e recepiti dalla collettività, forgiando statiche e arbitrarie differenziazioni di ruolo sociale e professionale. La sussistenza di “archetipi” di genere nel mercato del lavoro influenza tanto l’acquisizione di specifiche hard skill da parte dei/delle lavoratori/lavoratrici, quanto le “attese” di genere sul piano delle soft skill (assertività e dominanza, intese come canoni “maschili”, da un lato, in contrapposizione a collaborazione e inclusione, intese come tratti “femminili”) e dello stile di leadership, culturalmente basato sul modello “maschile” prevalente, in quanto legato alla maggioranza di genere al vertice.

Il quadro di quanto sia ragionevolmente possibile aspettarsi dalle donne rispetto al proprio percorso in contesti professionali e sociali storicamente e densamente codificati, è piuttosto chiaro e costantemente confermato. Tornando invece alla riflessione di Gay Bryant sulle “alternative”, scelte e sviluppate in base a presupposti di autonomia e in contesti “fuori”, “diversi” o “altri” rispetto a quelli più popolari e popolati, diventa interessante trovare conferme nei dati sulla crescita dell’imprenditorialità al femminile.

Imprenditorialità femminile: quella possibilità fuori dallo schema

Dai dati dell’Osservatorio per l’imprenditorialità femminile di Unioncamere, realizzato con il supporto di SiCamera e del Centro studi Tagliacarne, emerge che nel 2023 le imprese femminili in Italia sono 1 milione e 325mila, il 22,2% del totale del tessuto produttivo nazionale e che la crescita principale si sta concentrando in settori tradizionalmente “maschili”, soprattutto in quelli a maggior contenuto di conoscenza. 

l 10,6% delle aziende femminili è guidato da imprenditrici under 35 (contro il 7,9% delle attività non femminili). L’imprenditorialità rappresenta un approdo importante per molte giovani e risulta particolarmente diffuso nel Mezzogiorno, offrendo così a tante donne un’opportunità concreta di impegno e di crescita professionale: sono circa 500mila le aziende guidate da donne nelle regioni del Sud, quasi il 37% del totale.

Il lavoro autonomo e l’imprenditorialità sembrano quindi rappresentare, sempre di più e per sempre più donne, un’opportunità per mettere a frutto la propria preparazione, per realizzare le proprie aspirazioni professionali e, non raramente e non disgiuntamente dai primi due fattori, per offrire un contributo al proprio contesto sociale. Sempre più spesso, infatti – e questo non riguarda solo le donne ma più in generale un’ampia fetta delle nuove generazioni – l’iniziativa imprenditoriale coincide con la possibilità di innovare, di fare le cose in modo diverso, di unire lavoro e partecipazione sociale, di rispondere a bisogni collettivi – cambiamento climatico, inclusione, povertà educativa, ecc. - inadeguatamente intercettati dal pubblico; e di farlo non con il volontariato, ma con azioni competenti, professionali e capaci di generare valore. In generale, emerge nei più giovani l’importanza a far coincidere scelte professionali con sistemi valoriali improntati a un “neo umanesimo” di stampo fortemente ambientalista.

Imprenditorialità sociale giovanile: quella stessa possibilità fuori dallo schema. E non riguarda solo le donne.

Questa propensione è confermata, ad esempio, da un recente studio di Deloitte a livello globale, “Deloitte Global 2024 Gen Z and Millenial Survey”, che ha raccolto le opinioni di più di 14mila Gen Z (nati tra gennaio 1995 e dicembre 2005) e più di 8mila Millenial (nati tra gennaio 1983 e dicembre 1994), per un totale di più di 22mila interviste.

 

Gen Z

Millenials

Si dichiarano preoccupati per il cambiamento climatico e la situazione sociale

62%

53%

Ritengono importante avere un purpose di valori nel proprio lavoro

83%

81%

Dichiarano di aver fatto pressioni sul proprio datore di lavoro per intraprendere azioni sul cambiamento climatico e la giustizia sociale

50%

38%

Dichiarano di aver intenzione, in futuro, di rifiutare offerte di lavoro sulla base di valutazioni su impatti ambientali e sociali

35%

32%

Fonte: OECD (2022)

 

I giovani di oggi cercano di attivarsi per fare la differenza; molti creano e fanno crescere imprese sociali innovative che sfruttano le nuove tecnologie e le pratiche commerciali per promuovere il cambiamento. I giovani danno sempre più priorità alle carriere con un impatto sociale e ambientale positivo. A livello globale, due giovani su cinque considerano l'impatto sociale come uno dei fattori decisivi per le loro scelte professionali. Allo stesso tempo, quasi la metà dei giovani dei Paesi OCSE preferirebbe essere un lavoratore autonomo piuttosto che lavorare come dipendente. Le imprese sociali possono aiutare i giovani a trasformare queste aspirazioni in una duplice opportunità: impegnarsi nell'imprenditoria e generare un impatto sociale positivo. I giovani stanno cogliendo le opportunità e guidano molte imprese sociali in tutto il mondo. Fino al 20% delle posizioni di leadership nelle imprese sociali della provincia del Québec (Canada), della Francia e della Spagna sono occupate da giovani e più di un imprenditore sociale su quattro e quasi due aspiranti imprenditori sociali su cinque in Australia, Stati Uniti ed Europa occidentale hanno meno di 34 anni.

Imprese sociali e aree marginali: dove la marginalità è campo libero da schemi e stratificazioni, spazio libero per sperimentare soluzioni e ribaltare ruoli.

Con la premessa che sempre più giovani – e in particolare giovani donne, per tutti i motivi sopra citati – siano motivati a far coincidere scelte professionali e impegno sociale e possano trovare nelle aree marginali terreni liberi da pregiudizi, schemi precostituiti e quindi spazi di sperimentazione e innovazione, andiamo a vedere cosa succede nelle aree montane.

ReStartApp: le giovani imprese della montagna

Dal 2014, Fondazione Edoardo Garrone è impegnata in un programma di riqualificazione dei territori montani (appenninici e alpini) incentrato sul coinvolgimento dei giovani e sullo sviluppo di nuovi modelli imprenditoriali, capaci di cogliere le opportunità dei mercati e, al contempo, di rispondere a bisogni e potenzialità del territorio, generando valore e impatto sociale per la comunità di riferimento.

Progetto Appennino è un insieme di percorsi formativi – incubazione, accelerazione e creazioni di reti tra imprese e altri attori dello sviluppo locale – dedicati allo sviluppo di imprese generative, attivate e condotte da giovani; un modello filantropico che, con circa 5 milioni di investimento a fondo perduto, in 10 anni ha dato vita a più di 60 nuove imprese tra Appennini e Alpi (per un totale di 14 diverse regioni) e ha accompagnato circa 100 imprese appenniniche in attività di riorganizzazione, potenziamento del proprio modello di business e formazione di reti tra imprese su base geografica o di settore di attività.

Tutto è cominciato nel 2014 con il primo Campus ReStartApp, incubatore residenziale itinerante per imprese montane under 40: da allora si sono susseguite 13 edizioni, tra località degli Appennini e delle Alpi (7 regioni in tutto) e sono stati coinvolti circa 150 progetti. Sulla base di questa esperienza – sicuramente priva di qualsivoglia portata statistica, ma allo stesso tempo, per specificità e particolarità del contesto, interessante per osservazioni e intuizioni – possiamo certamente evidenziare alcuni temi confermati nel susseguirsi delle edizioni. Gli studi realizzati a partire dal 2019 con il team di ricerca della Business School dell’Università Statale di Milano sui modelli di crescita e impatti delle imprese nate dai percorsi formativi di Fondazione Edoardo Garrone hanno ulteriormente corroborato alcune evidenze di seguito in sintesi riportate.

Caratteristiche delle giovani imprenditrici e dei giovani imprenditori della montagna. Età media 29,5 anni, laureati, già inseriti in percorsi lavorativi stabili (professionisti, dipendenti a tempo indeterminato di imprese medio/grandi, ecc.), non necessariamente provenienti da territori montani. La montagna a volte è un luogo familiare a cui tornare, altre è un incontro “folgorante” che risponde a desideri e ambizioni personali già in via di definizione; si tratta nella maggioranza di casi di giovani che non sono soddisfatti dello stile di vita condotto fino a quel momento, che cercando una maggiore corrispondenza tra professionalità e valori esistenziali e, quasi sempre, lavorano per un’adesione tra il progetto di vita e il progetto imprenditoriale, coinvolgendo anche i propri affetti o il proprio nucleo familiare.

Imprese, innovazione e tecnologia al servizio della felicità. In tutti i casi, che si tratti di prodotti o di servizi, i giovani imprenditori della montagna hanno ben chiaro che al centro di tutto – dall’ispirazione agli obiettivi – ci debba essere uno stile di vita più equo e rispettoso. Ogni loro progetto imprenditoriale, per quanto sostenibile dal punto di vista economico, muove dalla ricerca di un miglioramento per l’ambiente e per le persone. Lavorare in questo orizzonte di senso, mettendo in pratica le proprie competenze e le proprie passioni, è quanto li rende felici, anche quando la scelta della montagna e dell’autoimprenditorialità ha comportato la perdita di sicurezza di un reddito più alto e sicuro.

La montagna non ha genere. Dopo i primi due punti, in coerenza con le precedenti analisi, non stupisce quest’ultima evidenza. Senza adottare nessuna specifica misura per incoraggiare la partecipazione femminile ai Campus, sin dalla prima edizione è stato evidente che la risposta arrivasse in egual misura da giovani ragazze e ragazzi. Metà di quelle 60 imprese nate dai Campus ReStartApp, sono condotte da donne che, all’epoca dell’avvio, erano under 35.

Abbiamo parlato di tutto ma non di quello. L’ultima evidenza, decisamente di tipo qualitativo, è però quella che, tornando al tema delle dissonanze come fari puntati sulle opportunità, attira maggiormente l’attenzione. Durante i lavori dei 13 Campus (per ognuno circa 3 mesi di aula, tutti i giorni dalle 9 alle 18) e in tutti i percorsi di consulenza e accompagnamento delle giovani imprenditrici della montagna, nelle diverse fasi dall’avvio al consolidamento dei loro progetti, da parte loro non è mai emerso il tema del genere e/o di particolari difficoltà legate al fatto di essere donne. Abbiamo condiviso problematiche e intoppi di ogni sorta e natura – dalla relazione con le amministrazioni locali ai finanziamenti rurali fino a questioni puntuali sulle lavorazioni o sulle filiere – ma mai una delle oltre 80 ragazze coinvolte in questi anni nella formazione ha citato criticità, barriere o pregiudizi. Il tetto di cristallo, insomma, sembra non comparire tra le architetture delle aree interne.

Facendo solo alcuni dei possibili esempi, Luisa Lodrini (Sambloom | https://storiedigiovaniimprese.fondazionegarrone.it/2020/11/24/sambloom-3/) ha dovuto faticare per trovare il terreno adatto o il laboratorio capace di lavorare la materia prima come previsto dai suoi prodotti; Marta Baldassarri (Etico Sartoria Marchigiana | https://storiedigiovaniimprese.fondazionegarrone.it/2023/11/15/etico/) ha dovuto studiare l’assetto societario più giusto per garantire sviluppo al suo progetto e lotta ogni giorno contro i meccanismi distruttivi della fast fashion; Chiara Spigarelli (Agrivello | https://storiedigiovaniimprese.fondazionegarrone.it/2023/06/22/agrivello/) sapeva di poter recuperare il vello delle pecore, ma ha dovuto studiare molto duramente per trovare la lavorazione e il prodotto finale più giusti per gli impatti ambientali e l’utilità di mercato; Benedetta Morucci (Lamantera | https://storiedigiovaniimprese.fondazionegarrone.it/2023/01/20/lamantera/) dopo quasi cinque anni di intenso lavoro, sta riuscendo a trovare i partner locali per ripristinare la filiera della lana abruzzese.

Sfide e complessità continue, che ogni giorno mettono costantemente alla prova le competenze o la solidità del progetto, ma mai nulla che metta in discussione il ruolo di una giovane donna come imprenditrice al pari dei colleghi uomini. Soddisfazioni, intuizioni confermate e piccoli successi che compensano la fatica e rafforzano il progetto originario: cercare attivamente il proprio percorso lavorativo ed esistenziale, farlo sganciati dalle aspettative sociali dominanti, riconoscendo le priorità comuni e contribuendo alle cause del margine e della fragilità, nella consapevolezza che il benessere non è completo se non è condiviso. Qui, realizzazione personale, partecipazione e responsabilità sociale, innovazione e inclusione, non solo coesistono, ma si alimentano le une con le altre.

Etico | Sartoria Marchigiana – Marta Baldassarri

Il piccolo laboratorio dove Marta Baldassarri (Campus ReStartApp 2021) disegna le sue collezioni, realizza i modelli e colora le stoffe è nel centro storico medievale di Ripe San Ginesio, minuscolo comune della provincia di Macerata a pochi chilometri dal Parco nazionale dei Monti Sibillini.

Originaria di Morrovalle, sempre nel maceratese ma più vicino alla costa, è arrivata quassù nel dicembre del 2020, attratta dalla opportunità offerta dall’amministrazione comunale che metteva spazi a disposizione degli artigiani a prezzo calmierato. «Prima di me c’erano già alcuni amici che hanno aperto un birrificio artigianale. La possibilità di avere la mia bottega partendo da zero e pagando un affitto di 60 euro al mese è stato un incentivo importante. Da qui, mi basta camminare poche centinaia di metri e sono già nel bosco, cosa per me fondamentale perché raccolgo le foglie che stampo sugli abiti e le piante che uso per colorare».

Il suo primo approccio con la moda l’ha avuto a vent’anni (era il 2007): Marta ha lavorato per due anni nell’ufficio prodotto di un brand importante, seguendo tutte le fasi di creazione di una collezione; ha lasciato perché non tollerava che fossero rivenduti a prezzi esorbitanti prodotti di scarsa qualità e realizzati in parti del mondo dove non c’è alcun riguardo per l’ambiente e le condizioni di lavoro delle persone.

Dopo quel periodo, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Bologna, seguendo i corsi di Design e Disegno industriale e lì si rende conto della problematicità del concetto di industrializzazione applicato estensivamente e indiscriminatamente: nel tempo, la perdita di conoscenza e competenze del saper fare artigiano, rappresenterà un problema. Non solo sociale (persone sostituite da macchine), ma ancor prima esistenziale perché il saper fare e il fare sono intimamente connesso alla felicità. La risposta è nel vecchio negozio di scampoli della zia, che era ormai chiuso, ma aveva dentro ancora tanti tessuti. Marta ha sempre cucito, fin da piccola, e ha deciso di dare ascolto alla sua passione, alle sue idee.  A quel punto è inevitabile iniziare a fare in proprio. L’idea di Marta è quella di utilizzare i tessuti di scarto delle grandi aziende per creare abiti e dare vita alle sue collezioni a partire da ciò che già c’è, per non alimentare un sistema di iperproduzione e spreco.

Nel frattempo, si avvicina all’ecoprinting, una tecnica di stampa naturale che permette di imprimere e riprodurre sul tessuto forme e colori di elementi vegetali, come foglie, fiori, bacche, semi o cortecce. Nasce un progetto completamente improntato al recupero di quanto già prodotto in abbondanza e all’utilizzo sapiente delle materie offerte spontaneamente dalla natura. Si tratta di una circolarità che impronta anche la presenza di Marta nel suo borgo: le bucce di avocado, da cui ricava tonalità di rosa che vanno da quello antico a quello caldo, sono gli scarti di un ristorante, mentre la buccia di cipolla gliela regala il fornaio.

Marta vive in Appennino con la sua famiglia e oggi ospita una giovane artigiana di talento che sta imparando tutto da lei sulla sartorialità artigianale e le tinture naturali; perché, come dicevamo, la giovane imprenditoria sociale non sa non essere generativa.

 

Volendo alla fine di questo percorso azzardare alcune ipotesi – e perché no, altrettante domande per prossimi filoni di ricerca che Fondazione Edoardo Garrone potrebbe sviluppare – su quali fattori sembrano azzerare la portata della questione di genere tra la giovane imprenditorialità delle aree marginali vi sono:

  • L’assenza di schemi precostituiti: quelle che sono sempre state considerate fragilità delle aree interne – spopolamento, rarefazione economica e produttiva, lontananza dai centri urbani – si traducono, in opportunità: sono rarefatti, se non inesistenti, anche gli schemi, i pregiudizi e le pratiche che abbondano nelle aziende, negli uffici e negli studi professionali. In questo senso, più che aree abbandonate, così come per quanto riguarda le sperimentazioni in ambito imprenditoriale, ambientale e sociale, le arre interne sono spazi liberi che abilitano e accolgono percorsi di parità.
  • La coincidenza tra progetto di vita e progetto imprenditoriale: spesso il giovane nucleo condivide lavoro e cura della famiglia nello stesso luogo, condividendo le tempistiche e avvicendandosi nei due ambiti, senza che la cura della famiglia ricada prevalentemente sulle figure femminili.
  • Il supporto della neo costituentesi comunità: spesso le giovani imprenditrici, i giovani imprenditori e il loro nucleo famigliare possono contare su una comunità di dimensioni ridotte, in fase di progressiva ricostituzione che, nell’assenza di servizi e presidi centrali, condivide risorse, collabora e dimostra livelli di coesione e sostegno sociale nettamente superiori ai centri urbani.
  • L’attivazione di strategie nuove per problemi diversi da quelli della città: si tratta di contesti in cui il modello di leadership non può essere quello delle aziende e degli uffici e si avvantaggia invece di competenze di ascolto, approcci di cura, mediazione e inclusività più tipicamente associati alla dimensione femminile.

Sembrerebbe in definitiva che, i sentieri tracciati dalle giovani imprenditrici della montagna, rappresentino dissonanze significative rispetto alle disparità di genere.

A volte le rivoluzioni passano attraverso il rafforzamento delle alternative.

DOI: 10.7425/IS.2025.02.06

 

Bibliografia

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Deloitte, (2025), 2025 Gen Z and Millennial Survey, disponibile online all’indirizzo https://www.deloitte.com/global/en/issues/work/genz-millennial-survey.html.

Fondazione Garrone, pagina web Storie di giovani imprese, disponibile all’indirizzo https://storiedigiovaniimprese.fondazionegarrone.it/ consultato il 30/5/2025.

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Freguja C., Romano M.C., Sabbadini L.L., (2025), Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità, Rapporto CNEL – Istat, disponibile online all’indirizzo https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/03/istat-cnel.pdf.

OECD, (2022), Unlocking the potential of youth-led social enterprises, OECD Local Economic and Employment Development (LEED) Papers, No. 2022/11, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/d5bddad8-en.

Pupilli L, Severini M., (2016), Dodici passi nella storia, Marsilio, Venezia.

Unioncamere – Osservatorio per l’imprenditorialità femminile, (2024), Imprenditoria femminile, i dati del 2023, pubblicato online il 28/3/2024, https://sni.unioncamere.it/notizie/imprenditoria-femminile-i-dati-del-2023-2

United Nations, (2020), World Youth Report 2020, disponibile online all’indirizzo https://social.desa.un.org/publications/world-youth-report-2020.

XX Convegno Aree Fragili, (2025), Position Paper “Conoscenza, riconoscimento, gratitudine. Le donne nelle aree rurali fragili”, disponibile online all’indirizzo https://www.areefragili.it/conoscenza-riconoscimento-gratitudine-le-donne-nelle-aree-fragili-2/.2

[1] Nel Rapporto l’imprenditorialità sociale è definita come «l’attività imprenditoriale intrapresa allo scopo esplicito di risolvere i problemi della società». Si riferisce quindi alle imprese che generano profitti cercando di generare impatto sociale.

[2] https://fondazionegarrone.it/progetto-appennino/il-percorso/

[3] Pupilli L, Severini M., (2016).

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