Il numero 2/2025 di Impresa Sociale propone nella parte monografica uno spazio di riflessione sui rapporti, talvolta controversi, che intercorrono tra attivismo giovanile, nelle sue varie forme e articolazioni, e impresa sociale, o più in generale Terzo settore.
Si tratta, come sottolineato da Crescenzi, di una questione imprescindibile, considerato l’invecchiamento del management del Terzo settore, in stragrande misura maschio, bianco, e anagraficamente over 50. Ne è la riprova quanto emerge da una ricerca condotta in Toscana da Galera, Maturo, Lattari e Ferraris che evidenzia l’assenza di under 35 nei Consigli di amministrazione della maggioranza di imprese sociali toscano, come si evince dalla. Le ragioni dello scarso protagonismo dei e delle giovani nell’impresa sociale sono certamente complesse; il nostro intento è avviare una prima riflessione alla quale, ci si augura, potranno seguire ricerche approfondite sul tema nel prossimo futuro. È infatti indubbio che, ancora parafrasando Crescenzi, ci si trovi di fronte ad una vera e propria sfida operativa, strategica e culturale. Se persa, è probabile che condannerà il Terzo settore alla marginalità; se vinta genererà verosimilmente un impatto più innovativo e forte per la società civile, come suggerito dalle esperienze di impresa sociale raccontate in questo numero, che vedono protagonisti molti e molte giovani. Tra queste, spiccano l’esperienza di Insula Net, uno dei tanti ottimi esempi del modo in cui le energie giovanili possono reinterpretare la storia e il domani dell’impresa sociale, così come le esperienze di impresa sociale delle aree interne raccontate da Campora e il caso del Margine, una storica cooperativa sociale torinese.
La sfida di Insula Net si gioca prima di tutto sulla capacità di trasmettere una nuova e diversa visione dell’abitare quale occasione per costruire relazioni, prossimità e cura reciproca e per contribuire a promuovere in modo consapevole e responsabile sostenibilità ambientale e sviluppo sostenibile, con al centro l’idea di casa come bene comune. Alla stessa stregua, con riferimento ad alcune esperienze di impresa sociale promosse da persone giovani nelle aree marginali, Campora sottolinea la crescente attrattività dell’opportunità di essere artefici del proprio percorso lavorativo, anche pionieristicamente rispetto a problematiche ambientali e sociali spesso prive di efficaci risposte di sistema. Quelle che sono sempre state considerate fragilità delle aree interne – spopolamento, rarefazione economica e produttiva, lontananza dai centri urbani – si possono infatti tradurre, grazie all’intervento delle imprese sociali promosse da giovani che nelle aree interne hanno deciso di tornare o di restare, in opportunità. In questo senso, più che aree abbandonate, le aree interne sono descritte da Campora come spazi liberi che abilitano e accolgono percorsi di parità. Alla stessa stregua, come ricordato dalla Fondazione con il Sud, un segnale forte viene dal Sud Italia, dove i e le giovani, pur in un contesto spesso sfavorito e più complesso, sono nel panorama nazionale tra i più attivi nel creare nuove forme di impresa, incluse quelle sociali. Chi promuove queste iniziative sono generalmente giovani con una forte motivazione al cambiamento, sensibili ai temi dell’equità, dell’ambiente, dei diritti.
Senza alcuna presunzione di esaustività, dando voce sia a studiosi e studiose, sia a imprenditori e imprenditrici sociali, il numero offre una lettura critica di alcuni fenomeni tra loro connessi: da un lato, il ricambio generazionale in seno al Terzo settore, che fatica a trattenere e coinvolgere le nuove generazioni, nonostante la sua vocazione partecipativa, e la presenza delle giovani generazioni sia dentro i percorsi professionali del lavoro sociale, sia nei ruoli di responsabilità all’interno delle organizzazioni, dall’altro.
Come sottolineano opportunamente Andorlini nel suo articolo e la Fondazione Caritro nell’intervista, ancor prima di concentrarsi sul rapporto dei giovani con il Terzo settore, è importante tuttavia riflettere in generale sul rapporto tra giovani e lavoro. In una situazione in cui a prevalere è il senso di sfiducia nel sistema economico, sociale e ambientale, le giovani generazioni sono sempre più orientate a ridefinire lo stesso concetto di lavoro, identificandone gli aspetti irrinunciabili in modo diverso da quello delle generazioni precedenti e valorizzando elementi tra i quali spiccano l’assenza di discriminazioni, l’equilibrio lavoro-vita privata, la flessibilità e in generale il miglioramento della qualità della vita prima ancora dell’aspetto remunerativo. In luogo della stabilità lavorativa, i giovani cercano in sostanza un lavoro di senso che generi soddisfazione a livello personale e permetta loro di esprimere i propri valori, le proprie passioni e il proprio potenziale.
Così come è cambiato il rapporto con il lavoro, sono cambiate anche le modalità di partecipazione e di impegno sociale dei giovani. Di qui la difficoltà di interpretare i dati, che spesso lamentano superficialmente un generico calo della partecipazione delle giovani generazioni. Invece, a bene vedere, non è la domanda di partecipazione, né tantomeno la voglia di protagonismo delle nuove generazioni ad essere diminuite: è il desiderio di protagonismo dei giovani a non collimare più con le forme di partecipazione tradizionali, che hanno connotato la storia del Terzo settore del nostro paese.
Alla partecipazione tradizionale, notoriamente basata sull’adesione ad un insieme di valori attraverso la condivisione, i giovani sembrano preferire un’adesione meno strutturata e informale, che possa esprimersi in un sistema per quanto possibile orizzontale di distribuzione del potere e delle responsabilità.
Va da sé che quella componente della cooperazione sociale che ha prediletto l’adozione di modelli organizzativi burocratici, professionali e standardizzati non possa rappresentare, come ben rimarcato da Basile e Crotti, una destinazione attrattiva per i giovani in cerca di spazi di sperimentazione e innovazione. Ad averne indebolito l’attrattività hanno da un lato contribuito le spinte isomorfiche, cha hanno spinto la cooperazione sociale ad assomigliare sempre più all’Ente Pubblico e dall’altro la maldestra imitazione delle organizzazioni for profit, di cui molte cooperative ne hanno acriticamente scimmiottato i modelli e gli strumenti di management, a discapito dell’idealità e della capacità trasformativa.Basile e Crotti ci ricordano come il contatto con la realtà comunitaria si sia spesso ridotto alla mera erogazione di servizi; il tutto senza che venisse peraltro garantito l’elevato livello retributivo delle imprese for profit, il prestigio sociale e i percorsi di carriera e mentre venivano invece trascurati i processi partecipativi e i legami con il territorio.
Dello stesso avviso è Marmo, il quale si sofferma su come la partecipazione dei giovani al lavoro cooperativo si scontri con una serie di ostacoli: precarietà contrattuale, bassa remunerazione, mansioni complesse e un disallineamento tra aspettative di senso e pratiche organizzative. La crisi del lavoro sociale e l’emorragia di operatrici e operatori che sta investendo la cooperazione sociale, così come la diminuzione del numero di giovani interessati a intraprendere una carriera nel sociale confermano la crisi di un intero settore, che è stato modellato grazie al protagonismo e al desiderio di cambiamento di molti giovani che a fine anni Settanta si sono proposti come risposta all’esigenza di tenere insieme professionalità, impegno, partecipazione e senso.
Adducendo una serie di elementi, descritti quale “collage di percezioni”, circa il mismatch rispetto ai bisogni e ai valori delle organizzazioni, Crescenzi si domanda se i ventenni Gen Z siano forse “meno adatti” al Terzo Settore rispetto alle generazioni precedenti. Basile e Crotti a questo proposito sottolineano come la Gen Z sia divisa tra il desiderio di fare la differenza nella società e quello di coltivare la propria carriera in un ambiente che rispecchi i suoi valori. Di qui la domanda: è possibile cambiare rotta e ridare slancio alla cooperazione sociale, coinvolgendo in maniera significativa le nuove generazioni? E se sì, attraverso quali strategie?
Secondo Basile e Crotti emerge in primis l’urgenza di rivedere le modalità organizzative, intervenendo sia sui modelli culturali che su quelli simbolici proposti ai giovani lavoratori e lavoratrici, nella consapevolezza che le nuove generazioni, con le loro esigenze di senso, benessere e autenticità, non rappresentino solo un “pubblico da attrarre”, ma anche la leva necessaria per rigenerare le stesse organizzazioni del Terzo settore e continuare a promuovere e sostenere sistemi di welfare territoriale in grado di rispondere efficacemente ai bisogni delle comunità.
A questo proposito è però centrale ripensare i modelli organizzativi, introducendo una leadership diffusa e modalità decisionali decentrate, oltre alla costituzione di gruppi di lavoro maggiormente autonomi. Riportando il pensiero di Marmo, serve una cultura organizzativa che non abbia paura del cambiamento, ma che sappia mettersi in discussione, accogliendo il nuovo non come minaccia, ma come possibilità e passando dalla mera inclusione dei giovani a una vera co-partecipazione insieme ai giovani.
Secondo Basile e Crotti è altrettanto importante costruire narrazioni locali che non facciano leva sulla vocazione o sul sacrificio, ma sulla reale capacità di generare cambiamento all’interno della comunità. In linea con quanto emerso dall’analisi di Galera, Maturo, Lattari e Ferraris, è fondamentale lasciare più spazio ai temi maggiormente sentiti dai giovani e dalle giovani, come la sostenibilità ambientale, la giustizia sociale, i diritti civili, l’uguaglianza di genere, l’interculturalità. Ed è necessario integrare la formazione esclusivamente tecnica con una formazione maggiormente orientata al senso delle problematiche, valorizzando l'integrazione tra diverse discipline e pensando anche a nuovi profili professionali, più adatti a gestire la complessità. Ma, come sottolineato dalla Fondazione con il Sud, è altresì fondamentale far acquisire consapevolezza del significato reale dell’impresa sociale e delle sue potenzialità da parte dei e delle giovani, essendo quest’ultima ancora oggi troppo spesso erroneamente percepita come un’attività a basso impatto economico o troppo legata a logiche di volontariato in senso stretto. Dello stesso avviso è anche la Fondazione Compagnia di San Paolo secondo cui i e le giovani guarderebbero all’impresa sociale con uno sguardo duplice: da un lato la percepiscono come un luogo possibile di coerenza tra valori personali e lavoro, dall’altro la avvertono talvolta come una forma organizzativa poco conosciuta e attrattiva. Dal medesimo assunto nasce anche la volontà della Fondazione Monte dei Paschi di Siena di assistere i giovani e le giovani nel maturare una maggiore consapevolezza sull’impresa sociale, trattandosi di una specie del genus impresa la cui conoscenza è scarsamente sviluppata e la scelta del veicolo societario è spesso affidata a scelte non ponderate opportunamente od a consigli e suggerimenti da parte di professionisti senza specifiche competenze. Tra le sfide impellenti che i e le giovani imprenditrici saranno chiamati ad affrontare la Fondazione Caritro evidenza nondimeno l’attuazione dell’articolo 55 della Riforma del Terzo Settore, dedicato alla co-progettazione, che richiede un ripensamento del modo in cui il Terzo settore guarda al pubblico e il pubblico guarda al Terzo settore.
A questo proposito, oltre ad una scarsa conoscenza delle specificità dell’impresa sociale, riprendendo le parole di Crescenzi, è fondamentale che il Terzo settore recuperi anche la fiducia – ad oggi inferiore a quella di cui godono le imprese tradizionali - che negli ultimi anni è stata scalfita da fattori esterni, come le campagne politiche di discredito (dai “taxi del mare” in poi) e alcuni scandali. Nell’ottica di riscattare l’immagine dell’impresa sociale, è a detta di Galera, Maturo, Lattari e Ferraris, fondamentale riconoscere alcune storture della cooperazione sociale, tra cui la perdita di contatti con la propria base sociale, sovente poco propensa a prendersi cura delle comunità nelle quali opera.
Marmo si sofferma sul percorso di rinnovamento di molte cooperative sociali, che stanno cercando di ricostruire forme organizzative più inclusive, democratiche e orientate alla partecipazione. Ne sono esempio le pratiche di governance condivisa sperimentate da alcune cooperative giovanili, che introducono spazi di confronto orizzontale, turnazione nei ruoli di coordinamento e percorsi di mentoring intergenerazionale. Un esempio significativo in questo senso è rappresentato anche da quelle cooperative che hanno introdotto assemblee decisionali mensili aperte a tutti i lavoratori e un programma di mentoring tra soci senior e nuovi ingressi, rafforzando così il senso di appartenenza e la trasmissione generativa del sapere. Al contrario, Marmo ci ricorda come invece siano ancora "aggrappate al passato" quelle realtà che continuano a riprodurre modelli direttivi chiusi, con leadership fortemente personalistiche e scarsa apertura all'innovazione proposta dai più giovani.
Non è questo il caso de Il Margine, nata nel 1979, che oggi conta circa 700 soci lavoratori e una governance marcatamente femminile. Tra i soggetti protagonisti della deistituzionalizzazione nell’area della salute mentale ed oggi un attore di rilievo in molti ambiti di intervento nel welfare del territorio, il Margine ha intrapreso nel 2023 un percorso formativo e di partecipazione – una “vision factory” - rivolto a 26 giovani soci per prepararli ad assumere responsabilità nella cooperativa che ha aiutato i e le partecipanti a dare vita, non ad una personale visione de il Margine da qui ai prossimi vent’anni ma ad un progetto comune sul futuro della cooperativa.
In sintesi, pur senza abbandonarsi ad una lettura idealizzata del mondo giovanile – su questo tema è ancora Crescenzi ad evidenziarne anche le problematicità – gli autori convergono nel sottolineare che l’aspirazione al cambiamento non è affatto scomparsa dalle giovani generazioni; semplicemente, rischia di non incrociarsi con ciò che le imprese sociali oggi sono, e che deriva dal lavoro di costruzione di una generazione precedente, che inevitabilmente le ha forgiate a partire dal proprio modo di intendere il lavoro e la vita e dalle proprie priorità di cambiamento.
In questo tentativo di ricostruire la situazione virtuosa che ci ha accompagnato negli scorsi decenni, in cui le imprese sociali hanno rappresentato l’approdo ideale per le istanze trasformative dei e delle giovani, vanno ricordate alcune delle indicazioni che gli autori propongono a più voci. Certamente va ricercato un equilibrio, oggi spesso instabile, tra livelli economici (insoddisfacenti) e livello di impegno richiesto (spesso incompatibile con l’esigenza, ben indicata dagli autori, di trovare un bilanciamento tra vita lavorativa e altre dimensioni dell’esistenza). Ma allo stesso tempo sarebbe errato ridurre le difficoltà nell’incontro tra giovani e imprese sociali ad una questione meramente materiale – troppo lavoro per pochi soldi – dal momento che emerge parallelamente una questione almeno altrettanto rilevante: quella della fatica nel rintracciare il senso del proprio impegno, con il rischio che, in tale situazione, ogni gratificazione materiale continui ad essere insufficiente. In altre parole, la sfida con cui confrontarsi – e questa è l’esperienza che emerge nell’articolo che descrive il percorso della cooperativa Il Margine - è rendere le imprese sociali un luogo in cui le giovani generazioni, sovente propense ad impegnarsi in contesti informali, possano diventare protagonisti di progetti di cambiamento (anche) da loro condivisi nelle stesse imprese sociali.
Questo, non avviene né spontaneamente, né per casualità. Richiede invece, da parte delle imprese sociali esistenti, un modello organizzativo e meccanismi partecipativi su cui investire energie, senza il timore di mettere in gioco identità consolidate; e poi un ecosistema abilitante che, laddove esiste un’idea imprenditoriale forte, aiuti l’attivismo giovanile ad evolvere in impresa sociale sia con un sostegno economico mirato, sia con reti di supporto, spazi di accompagnamento e percorsi di capacity building.
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