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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2025

Saggi

Riavvicinare i giovani al lavoro sociale. Le strategie

Nicola Basile, Elena Crotti

Il 2024 potrebbe essere ricordato come l’anno della crisi del lavoro sociale. Si assiste da un lato ad un’emorragia di operatrici e operatori che hanno deciso di intraprendere percorsi professionali differenti e, dall’altro, a una diminuzione del numero di ragazze e ragazzi interessati a intraprendere una carriera nel sociale. Tutto ciò sta mettendo in seria difficoltà i comuni, le aziende di servizi, le cooperative sociali, insomma tutte quelle organizzazioni che, a vario titolo, si occupano di servizi sociali.

La domanda alla quale si intende rispondere è: perché le nuove generazioni scelgono di non intraprendere le professioni sociali? Quali sono le ragioni che stanno rendendo queste professioni meno attrattive rispetto al passato? E, infine, quali potrebbero essere delle ipotesi per aumentare l’attrattività di questo ambito lavorativo per i giovani, in particolare nei confronti degli Enti del Terzo Settore?

È necessario premettere che il primo nodo riguarda le retribuzioni[1], che nel comparto sociale risultano particolarmente basse, generando spesso fatiche esistenziali. Tuttavia, è altrettanto vero che si tratta di un elemento che accompagna da tempo le professioni sociali, motivo per cui spiega solo in parte il fenomeno che si intende approfondire in questo contributo.

Gettarsi nel mondo, la Generazione Z

Appare importante sviluppare una riflessione sulla Generazione Z, per introdurre i cambiamenti culturali che stanno trasformando il rapporto con il mondo del lavoro, con il tempo e con le istituzioni. Questa generazione si caratterizza si caratterizza per una spiccata ricerca di senso, alla flessibilità e all’impatto sociale delle proprie attività. Inoltre, mostra una diversa grammatica della motivazione rispetto alle generazioni precedenti. È fondamentale delineare chiaramente di chi si sta parlando; in questa direzione, gli studi generazionali possono essere utili, pur considerando che tali analisi si basano spesso su categorie tipicamente anglosassoni, in particolare statunitensi. Proveremo a ragionare partendo dalle peculiarità dei giovani e delle giovani del nostro Paese.

Quando si parla della Generazione Z, ci si trova di fronte alla prima generazione nata completamente nell’era digitale. Sono ragazze e ragazzi che, fin dalla tenera età, hanno sviluppato un rapporto quotidiano e strutturato con internet, social media e smartphone. È evidente che questi strumenti hanno inciso in modo significativo sulla percezione del tempo, dello spazio e delle modalità relazionali.

La Generazione Z punta a una formazione solida e a un contesto organizzativo capace di offrire feedback costanti per migliorare le competenze gestionali, un contesto in cui le prospettive di carriera devono essere chiare e ben definite, per permettere una piena valorizzazione del talento. Un rapporto Censis mette in evidenza (Rapporto Censis, 2023)[2] come i ragazzi e ragazze di questa generazione prediligano contesti professionali che favoriscono la formazione continua e che al tempo stesso garantiscano ambienti di lavoro flessibili, informali, inclusivi e aperti al dialogo. Dimostra inoltre una forte familiarità con le tecnologie e la volontà di integrarle nel mondo del lavoro, dove a monte devono essere comunque presenti modalità di comunicazione moderne e dinamiche

Come evidenziato da alcuni studi sul tema (D’Alessandro F., 2023)[3], questi giovani attribuiscono grande valore al work-life balance, dando importanza all'autonomia sul posto di lavoro e alla possibilità di vivere pienamente il tempo libero: il lavoro non rappresenta il fulcro della loro vita quotidiana. Mostrano una propensione ad abbandonare occupazioni percepite come poco stimolanti o poco valorizzanti: lo sviluppo personale e la soddisfazione individuale sono centrali.

In Italia emergono caratteristiche specifiche:

  1. La “sindrome del ritardo”, descritta da Livi Bacci già nel 2000 (Livi Bacci, 2000)[4], persiste e porta sempre più spesso a un ritardo nell’uscita di casa e nell’ingresso nel mondo del lavoro. Ciò rappresenta un ostacolo all’autonomia dei giovani, che restano fortemente legati alle reti familiari. Cresce anche la disillusione verso le istituzioni pubbliche, rendendo l’estero una prospettiva sempre più attrattiva. Riflessioni poi riprese anche in contributi più recenti.
  2. L’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo (Istituto Giuseppe Tonioli, 2023) evidenzia come la Generazione Z nutra sempre meno fiducia nelle istituzioni, nei partiti politici e nella rappresentanza formale. Aumenta invece una fiducia selettiva verso l’associazionismo locale, l’attivismo digitale e le micro-comunità online.
  3. i giovani vivono una costante ibridazione culturale, in particolare nell’uso di internet e dei social, che viene spesso integrato con esperienze locali e tradizionali.
  4. Sono la generazione delle policrisi (politica, ambientale, sociale): i dati mostrano come questa generazione sia particolarmente esposta a una fragilità emotiva che si riverbera nell’aumento di disagio psicologico, ansia, depressione e disturbi alimentari. Tali condizioni sembrano legate a domande di senso che non trovano risposta nelle modalità tradizionali, e in una assoluta incertezza per il futuro. Solo il 16% della GenZ e l’11% dei Millennial si aspetta un miglioramento della situazione economica generale (Studio Deloitte, 2024)[5].

Sulla base delle esperienze e della letteratura, appare interessante costruire un confronto tra i Millennial e la Generazione Z:

Aspetto

Millennial (1981-1996)

Generazione Z (1997-2012)

Tecnologia

Introdotta nella loro vita durante adolescenza e giovinezza.

Prima generazione realmente nativa digitale.

Socializzazione politica

Hanno vissuto l’ultima fase dei movimenti globali, sviluppando un approccio collaborativo e ottimista.

Hanno assistito al fallimento dei progetti collettivi e sviluppato fiducia in contesti ristretti e micro-attività.

Carriera/lavoro

Ricerca di realizzazione personale attraverso il lavoro.

Approccio pragmatico, orientato alla stabilità e alla resilienza

Media preferiti

Facebook, Instagram, blog: contenuti ampi e riflessivi.

TikTok, YouTube: contenuti brevi e informativi,

Relazioni

Separazione tra relazioni online e offline.

Forte ibridazione e continuità tra le due dimensioni, con una attenzione alla naturale etorogeneità dell’umano

Aspirazioni

Impegno personale per generare impatto sociale.

Un impegno più orientato al fare, animato dalla volontà di portare cambiamenti concreti, pur nella consapevolezza di un alto rischio di fallimento

Rapporto con le istituzioni

Dialogo e partecipazione con intento trasformativo.

Sfiducia e disintermediazione dei processi istituzionali.

Partecipazione sociale

Centratura dall’appartenenza verso il coinvolgimento delle specifiche attività.

Forme di partecipazione più fluide e on-line

 

Questioni aperte e sfide emergenti

È evidente che lo sguardo attraverso cui i giovani interpretano il lavoro sociale è socialmente costruito e si forma sulla base delle interazioni quotidiane, dei discorsi professionali, delle scale di valori, dei contesti educativi e dei processi mediatici. Tutto ciò consente di analizzare e cercare di comprendere la difficoltà, da parte delle ragazze e dei ragazzi, a aderire ai contesti professionali del sociale, anche in un’ottica di espressione culturale e generazionale. In questa direzione, proveremo a utilizzare alcuni “concetti sensibili” – concetti non rigidamente definiti – come “Le grandi dimissioni” e la “Svalorizzazione del lavoro sociale”.

D’altro canto, non si può prescindere da uno sguardo organizzativo e istituzionale: in quest’ottica, risulta utile fare riferimento a due concetti rilevanti come l’“isomorfismo organizzativo” e i “percorsi di professionalizzazione”. È evidente, infatti, come l’adozione di modelli organizzativi, burocratici e professionali standardizzati abbia ridotto le possibilità di sperimentazione, diminuendo al contempo l’attrattività del settore. Ciò ha introdotto barriere simboliche e culturali che rendono più difficile l’ingresso nel mondo del lavoro sociale.

Le lezioni delle “grandi dimissioni

Ragionare sulle motivazioni per cui ragazze e ragazzi, oggi, faticano ad avvicinarsi a percorsi universitari legati alla professione sociale — e ancor più a entrare nei sistemi che generano politiche di welfare — significa, dal nostro punto di vista, muoversi tra una serie di ipotesi che, ad oggi, difficilmente risultano comprovabili scientificamente. Parlare del lavoro sociale e dell’accesso ad esso da parte delle nuove generazioni richiede di sviluppare una riflessione sul fenomeno delle grandi dimissioni: un processo avvertito in particolare dal 2021 e caratterizzato da un numero significativo di dimissioni volontarie. Analizzarlo è fondamentale, poiché aiuta a comprendere che cosa cercano le persone, soprattutto le nuove generazioni, nel contesto lavorativo. Questo fenomeno, a nostro parere, ha origini precedenti alla pandemia da COVID-19, la quale ha agito da acceleratore e, al tempo stesso, da rivelatore di dinamiche già in atto. In questa prospettiva, è evidente come tale processo offra alcune chiavi di lettura utili a comprendere perché le nuove generazioni stentino a indirizzarsi verso il lavoro sociale.

Analizzando il fenomeno, emergono una serie di nuclei interpretativi che aiutano a comprendere come oggi le persone scelgano di investire il proprio tempo-lavoro. Ciò risulta particolarmente rilevante per le giovani generazioni, spesso meno vincolate da responsabilità di cura o da obblighi di mantenimento verso altri, e quindi dotate di margini di libertà maggiori rispetto ad altre fasce della popolazione. Il primo aspetto riguarda la sfera individuale: la Gen Z vede il lavoro come un'estensione della propria identità. Più che in passato, i giovani sono motivati a scegliere carriere che permettano loro di esprimere i propri valori, le proprie passioni e il proprio potenziale. L'autorealizzazione non si limita al raggiungimento di successi professionali, ma si estende alla sensazione di fare qualcosa di significativo, che vada oltre il semplice guadagno economico (Stigliano G., 2021; Bertolini S, Goglio V., 2023)[6]. Su questo sfondo assume un ruolo rilevante la ricerca di un maggiore equilibrio tra vita personale e lavoro (work-life balance). I giovani, sempre più, rifiutano lavori percepiti come “ladri di tempo di vita” e tendono a scegliere professioni che garantiscono migliori condizioni di benessere. Prediligono contesti in cui non si lavori nel fine settimana o che consentano forme di lavoro agile, come lo smart working. È chiaro, in questo senso, che non vi è disponibilità a restare intrappolati in ambienti lavorativi in cui il senso del lavoro è andato perduto, né tantomeno in organizzazioni che, pur dichiarando mission e valori ambiziosi, adottano pratiche operative incoerenti e dissonanti. Questo scenario, purtroppo, sembra diventare sempre più frequente negli enti del Terzo Settore. Un’ulteriore criticità riguarda le cooperative, che per natura giuridica e narrativa promettono un coinvolgimento strategico e partecipato, ma che spesso non riescono a mantenere tali promesse, generando frustrazione. Questo sentimento nella Gen Z risulta amplificato dalla preferenza per approcci più diretti e individuali, dove il loro impatto è tangibile e immediato, cosa che nelle organizzazioni tradizionali non sempre è garantita.

La tensione che attraversa la Gen Z è quella di una generazione divisa tra il desiderio di fare la differenza nella società e quello di coltivare la propria carriera in un ambiente che rispecchi i suoi valori. Questo conflitto tra il desiderio di contribuire al bene comune e il bisogno di autorealizzazione produce una mancata adesione da parte di questa generazione a contesti non inclusivi e poco valorizzanti, così come verso ambienti che producono eccessivo stress e stanchezza emotiva — elemento ricorrente nel lavoro sociale, data la costante esposizione a situazioni di sofferenza e disagio (Byung-Chul Han, 2020; Coin F., 2023)[7]. Sul piano organizzativo, emergono nel Terzo settore e in particolare nelle imprese sociali ulteriori criticità:

  • Le organizzazioni appaiono sempre più orientate al controllo, come dimostrano i meccanismi di rendicontazione sempre più stringenti;
  • Vi è una scarsa chiarezza nei percorsi di carriera: le cooperative sociali appaiono strutturalmente bloccate, rendendo difficile immaginare reali opportunità di crescita professionale;
  • Si avverte una limitata flessibilità, che ostacola l’adozione di innovazioni provenienti dal mondo del lavoro. Il lavoro sociale, fondato sulla relazione, sembra difficilmente riformabile in questa direzione. Questa caratteristica, a nostro avviso, è la risultante di strutture organizzative e modelli di lavoro che si sono cristallizzati nel tempo, rimanendo legati a logiche burocratiche e prestazionali. Se il sistema fosse meno rigidamente strutturato e maggiormente orientato a risultati di qualità, che valorizzano l’ascolto e la cura, il lavoro sociale potrebbe essere molto più innovativo e in grado di attrarre anche le nuove generazioni, in cerca di esperienze professionali gratificanti e significative.

Infine, va considerata una trasformazione culturale di fondo: il lavoro sta perdendo centralità nella definizione identitaria della persona. Questo meccanismo — tipico del Novecento — è oggi in crisi e mette in difficoltà organizzazioni che basano la propria capacità di reclutamento e sviluppo su un forte movente motivazionale. Chi opera da tempo nelle cooperative avrà certamente colto quanto il confine tra lavoro e militanza, o tra impegno volontario e sfruttamento, sia diventato sempre più scivoloso. Nel modello culturale emergente, diventano centrali il desiderio di autorealizzazione, il benessere personale e l’autonomia unitamente alla capacità di lavorare per obiettivi più ampi, nel rispetto dei propri valori e passioni: istanze che devono essere prese sul serio anche nei contesti organizzativi del lavoro sociale.

L’isomorfismo organizzativo

Dall’altro lato, appare necessario inquadrare come sono cambiate le organizzazioni del terzo settore e, in particolare le cooperative sociali che appaiono essere le principali organizzazioni all’interno del quali oggi trovano spazio i giovani e le giovani lavoratrici del terzo settore. In particolare, appare necessario approfondire il concetto di isomorfismo organizzativo (Paul J. DiMaggio, Walter W. Powell, 1983)[8] l’isomorfismo è il processo per cui le organizzazioni, operando nello stesso campo istituzionale, tendono a somigliarsi, assumendo strutture, linguaggi, prassi e modelli organizzativi simili. Questo avviene non per efficienza, ma per pressioni istituzionali, normative e mimetiche.

Gli Enti del Terzo Settore (N. Basile, G. Imbrogno, S. Tassinari, 2019)[9], in questo senso, sono state spinte ad assomigliare sempre più all’Ente Pubblico, in specifico a quelle pubbliche amministrazioni sempre più orientato dallo stile gestionale del New Public Management (Di Mascio F., Natalini A, 2018)[10]: in altre parole, ad un ente pubblico “orientato prevalentemente al miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia dei servizi, attraverso uno specifico modello di management. Tale orientamento appare oggi problematico perché negli anni si è erosa la funzione sociale delle istituzioni e la loro carica istituente. Proprio la poca adattabilità e l’eccesso di soluzioni standard, che spesso si dimostrano scarsamente efficaci, dovrebbero spingere le pubbliche amministrazioni a prendere in considerazione modelli di funzionamento alternativi.” (N. Basile, R. Sirtori, F. Viganò, 2023)[11]. Questo, dal nostro punto di vista, ha portato a una sorta di maldestra imitazione delle organizzazioni for profit, ma senza garantire l’elevato livello retributivo, il prestigio sociale, i possibili percorsi di carriera, ecc.

È fondamentale inquadrare questa situazione riferendosi ai diversi tipi di isomorfismo organizzativo, tutti in qualche modo rinvenibili nell’evoluzione del Terzo settore: quello coercitivo, che deriva da pressioni normative o regolative (es. leggi di riferimento, fondi vincolanti, ecc.), mimetico, quando è l’incertezza a spingere le organizzazioni a prendere spunto dai modelli maggiormente legittimati e dominanti, normativo, cioè legato in maniera specifica alla professionalizzazione, alla specifica formazione e alle reti epistemiche condivise.

Gli Enti del Terzo Settore chiaramente sentono un influsso importante di questi concetti sintetizzati nella tabella 1.

Tipologia di isomorfismo

Effetto sul Terzo Settore

Coercitivo

I cambiamenti normativi cui, negli ultimi vent’anni, è stato sottoposto il settore delle politiche sociali hanno spinto gli Enti del Terzo Settore (ETS) a sviluppare strutture sempre più regolamentate e conformi agli standard legislativi (es. adattamento ai Sistemi di Qualità, al Codice degli Appalti e adeguamento dei servizi ai vincoli imposti dai fondi pubblici). Questo processo ha comportato vantaggi a livello organizzativo e di sistema, ma ha anche limitato la capacità di sperimentazione degli ETS. Tale rigidità pesa soprattutto sui giovani operatori, che rischiano di entrare in un sistema estremamente codificato, sentendosi parte di un meccanismo che non comprendono pienamente né, spesso, condividono nei suoi obiettivi.

Mimetico

A partire dagli anni ’80 si è diffusa la retorica secondo cui il settore profit rappresenterebbe il modello più efficiente e quindi da emulare. Ciò ha portato a un crescente orientamento al controllo dei costi e all’ottimizzazione delle risorse. In un contesto povero di investimenti come quello del sociale, questo approccio ha comportato spesso una contrazione degli interventi e una riduzione delle risorse umane. È importante ricordare che, in particolare nel mondo cooperativo, si è affermata l’idea che i servizi dovessero essere sostenibili tramite il pagamento diretto da parte degli utenti (es. le spinte, poi esauritesi, sulla cosiddetta “sanità leggera” nei primi anni 2000). La criticità principale risiede nell’aver assunto l’efficienza operativa come unico parametro valutativo, con conseguente disinvestimento nei processi partecipativi, nella valorizzazione dell’impatto sociale e nella coerenza con la mission. Aspetti, questi, che risultano fondamentali per le nuove generazioni.

Normativo

La crescente professionalizzazione dei servizi e la definizione di standard sempre più rigidi hanno portato a percorsi professionali molto settorializzati e prevalentemente fondati sull’istruzione universitaria. Questo ha ridotto gli spazi di sperimentazione e innovazione, anche a causa di una frammentazione eccessiva delle figure professionali (si pensi, ad esempio, alla distinzione tra l’educatore sanitario e altre tipologie di educatori). È significativo notare come all’aumento della richiesta di professionalizzazione non sia corrisposto né un adeguamento delle retribuzioni, né un riconoscimento sociale proporzionale. Per le Organizzazioni del Terzo Settore ciò ha rappresentato una doppia difficoltà: da un lato, il reclutamento di personale è avvenuto in un contesto formativo molto teorico e poco esperienziale; dall’altro, i vincoli della finanza pubblica non hanno permesso un adeguamento degli stipendi al livello di formazione richiesto.

 

Gli effetti di tutto questo sugli Enti del Terzo Settore, dal nostro punto di vista, sono osservabili in alcuni elementi strutturali:

  • La crescente adozione di strutture manageriali aziendali nel Terzo Settore porta a una standardizzazione che può compromettere la capacità di adattarsi alle specificità del lavoro sociale. Le organizzazioni hanno concentrato la loro attenzione principalmente sulla gestione dei processi e sui risultati misurabili, a discapito dell’approccio trasformativo che dovrebbe caratterizzare il lavoro sociale. Questo limita la libertà degli operatori, li spinge a conformarsi alle richieste del contesto e riduce la loro capacità di rispondere in modo flessibile ai bisogni delle persone
  • L’uniformazione del linguaggio progettuale e amministrativo, dal momento che le modalità di scrittura e di descrizione delle proprie attività diventano sempre più vicine a modelli di carattere burocratici e aziendalistici, portando ad una rinuncia di fatto alla propria specificità culturale, relazionale e comunitaria.
  • Sempre più spesso le competenze richieste sono di tipo burocratico e/o tecnico, valorizzando i saperi strumentali, procedurali e amministrativi. In particolare, si fa riferimento alle competenze legate alla gestione progettuale, alla rendicontazione e alla compliance normativa. Questo non sarebbe un problema se non comportasse un disinvestimento sulle capacità relazionali e trasformative, fondamentali per il lavoro sociale. Il rischio è quello di allontanare gli operatori dalle motivazioni che li hanno spinti a scegliere di lavorare nell’ambito delle politiche sociali.
  • La standardizzazione delle forme e delle modalità organizzative del lavoro, la stringente definizione dei ruoli professionali e la rigidità contrattuale (tempi, strumenti, ecc.) hanno negli anni favorito l’adozione di modelli standardizzati, provenienti in parte dall’Ente Pubblico e in parte dal settore privato. Si rischia così di applicare approcci rigidi e poco adattabili a situazioni complesse, dimenticando che il lavoro sociale richiede spesso soluzioni creative e attente alle specificità dei singoli casi.
  • Come effetto dell’isomorfismo organizzativo, ma anche delle esigenze di compliance alle indicazioni amministrative e di accountability rispetto al proprio operato — che deve apparire sempre “professionale” e “affidabile” — le organizzazioni sociali rischiano di concentrarsi eccessivamente sulla dimostrazione della loro conformità a modelli predefiniti e sulla giustificazione dei risultati, a discapito dell'efficacia reale del loro impatto sociale.

Tutto questo porta ragionevolmente a diminuire il movente motivazionale, in quanto una rilevanza dell’efficienza e della dimensione tecnica a discapito dell’idealità e della capacità trasformativa porta ad una perdita di attrattività nei confronti delle nuove generazioni. Dall’altra parte, è altrettanto evidente che a tutto questo non è seguito un reale aumento delle retribuzioni. La combinazione di questi due fattori potrebbe a ribaltare la domanda di partenza: ovvero non “Perché i giovani non aderiscono alle professioni sociali?”, ma “Perché i giovani dovrebbero aderire alle professioni sociali?”

Percorsi professionalizzanti lunghi, tecnici e costosi, scarsa percezione di cambiare il mondo, inserimento in strutture estremamente frammentate, modalità di lavoro estremamente rigide e scarse retribuzioni. 

La professionalizzazione dei percorsi di formazione

Negli ultimi anni, nel campo delle politiche sociali, si è assistito a una crescente professionalizzazione della formazione, che ha prodotto numerosi impatti sulle pratiche sociali. In una prima fase, questo processo ha comportato la trasformazione di percorsi fortemente esperienziali in percorsi universitari, seguito da un progressivo adeguamento agli standard professionali. Tale evoluzione ha determinato cambiamenti significativi almeno su due piani:

  • Una marcata specializzazione dei saperi, che ha portato a una settorializzazione delle competenze. Questo, se da un lato ha favorito un maggiore approfondimento tecnico, dall’altro ha rischiato di indebolire la formazione critica e riflessiva, spingendo verso approcci iper-specialistici e/o gerarchizzati, in cui trovano poco spazio l’interdisciplinarità e una comprensione sistemica dei fenomeni sociali. Il sapere sociale tende ad assumere una forma tecnico-operativa, con un’enfasi marcata su strumenti e protocolli, spesso a scapito della dimensione relazionale, narrativa e situata del lavoro sociale.
  • Il tentativo di rafforzare il riconoscimento della figura dell’operatore sociale, in particolare agli occhi delle istituzioni. Tuttavia, ciò ha condotto alla definizione di sistemi d’intervento spesso molto rigidi, come quelli legati agli accreditamenti o all’uso estensivo di protocolli. Anche la formazione continua, come nel caso dell’Educazione Continua in Medicina (ECM), rischia talvolta di assumere un carattere eccessivamente formale.

Tutto ciò rischia di generare un senso di smarrimento. Infatti, mentre da un lato si punta a sviluppare modalità di lavoro estremamente professionali e riconosciute (ma si può davvero parlare di un’operazione riuscita?), dall’altro si rischia di perdere quella dimensione vocazionale che ha storicamente giocato un ruolo fondamentale all’interno delle professioni sociali.

L’irrigidimento dei percorsi formativi e professionali ha realmente condotto a un maggiore riconoscimento sociale degli operatori e delle operatrici? Osservando il panorama attuale delle politiche sociali, qualche dubbio emerge. Basti pensare, ad esempio, a come viene oggi interpretata la figura dell’educatore che lavora con studenti e studentesse con disabilità.

La distinzione tra educatori sanitari e socio-pedagogici risponde davvero a logiche d’intervento sistemiche e interdisciplinari? Oppure riflette principalmente equilibri tra differenti sistemi formativi? Non c’è una risposta definitiva, ma le trasformazioni osservate in questi anni sollevano interrogativi rilevanti. Sarebbe fondamentale provare a costruire risposte capaci di generare un reale riassestamento del sistema.

La svalorizzazione del lavoro sociale

Il Terzo Settore, storicamente, ha alimentato il proprio capitale sociale attingendo alle grandi formazioni culturali del nostro Paese. Tuttavia, è interessante notare come anche queste realtà stiano risentendo sempre più della crisi di attrattività presso le nuove generazioni. In questa direzione, appare evidente che la fine delle grandi narrazioni collettive abbia contribuito a un progressivo impoverimento delle risorse simboliche e motivazionali.

Contemporaneamente, le organizzazioni del Terzo Settore hanno vissuto una crisi di legittimità e rappresentanza, anche a seguito di scandali come quello di “Mafia Capitale”. Oggi, in molti casi, il Terzo Settore — anche a causa di fenomeni di isomorfismo organizzativo — appare come un sistema eccessivamente rigido, poco aperto alla sperimentazione, e con una capacità limitata di leggere la complessità e le nuove soggettività emergenti. Quanto, per esempio, si è realmente in grado di dialogare con i movimenti giovanili, come Fridays for Future? Il contatto con la realtà comunitaria, spesso, si riduce all’erogazione di servizi, ma manca una vera capacità di rappresentanza. Infine, quante organizzazioni sono ancora in grado di connettere la propria azione quotidiana con le cause originarie che le hanno generate, o con i cambiamenti che intendono promuovere all’interno della comunità?

Tutto ciò sembra contribuire a una perdita di attrattività degli Enti del Terzo Settore, a favore di forme di partecipazione più fluide, radicate in reti locali e spesso intermittenti. Questo fenomeno porta con sé una preoccupazione rilevante: il rischio di un’individualizzazione dell’esperienza politica e sociale, fortemente settorializzata su singole tematiche (ambiente, genere, fluidità, ecc.). Un approccio simile rischia di far perdere di vista le questioni strutturali, che rappresentano le vere barriere alla mobilità e alla partecipazione, soprattutto per le fasce più giovani della popolazione.

È importante sottolineare che la disaffezione della Generazione Z nei confronti del lavoro sociale non è solo legata a motivi retributivi o organizzativi, ma affonda le radici in una frattura simbolica e culturale. Questo tipo di lavoro, un tempo letto come vocazionale e identitario, oggi appare spesso incoerente con le biografie culturali e le aspettative valoriali delle nuove generazioni. In tal senso, non è tanto il lavoro sociale in sé a essere rifiutato, quanto una certa narrazione eroica e auto-sacrificale che ha perso forza e credibilità.

Riaccendere il desiderio: possibili direttrici

Gli Enti del Terzo Settore si trovano ad affrontare due sfide fondamentali per il proprio futuro. La prima riguarda la necessità di trovare un nuovo posizionamento, che consenta di superare l’eccessiva burocratizzazione, la svalutazione culturale, il disallineamento rispetto alle nuove generazioni e la capacità di leggere i cambiamenti strutturali che l’inverno demografico ci costringerà ad affrontare. Dall’altra, emerge l’urgenza di rivedere le modalità organizzative, intervenendo sia sui modelli culturali che su quelli simbolici proposti ai giovani lavoratori. Questo aspetto risulta rilevante per evitare una continua perdita di capitale umano, in particolare quello legato alle nuove generazioni, che nel lungo periodo potrebbe compromettere il funzionamento stesso del welfare locale. In questo scenario, può essere utile proporre alcune ipotesi di lavoro orientate all’innovazione organizzativa, al benessere lavorativo e all’autenticità valoriale: fattori fondamentali per rispondere alle esigenze di senso espresse dalla Generazione Z.

Strategia organizzativa

Il primo elemento da evidenziare nella definizione di una strategia riguarda la costruzione di modelli che favoriscano una maggiore partecipazione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici, attraverso processi capaci di evitare eccessive verticalizzazioni all’interno dei contesti organizzativi e modalità di lavoro che, nel rispetto delle regole, consentano spazi di sperimentazione. In questa direzione, è centrale ripensare i modelli organizzativi introducendo una leadership diffusa e modalità decisionali decentrate, oltre alla costituzione di gruppi di lavoro maggiormente autonomi. Questo permetterebbe di sperimentare ruoli più flessibili e garantirebbe una maggiore libertà di azione alle persone che vivono l’organizzazione. È necessario, proprio per questo, sviluppare una più ampia partecipazione di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori all’interno dei processi decisionali e strategici della cooperativa, anche attraverso l’utilizzo di strumenti collaborativi (es. Open Space Technology, World Café, Laboratori di futuro, ecc.).

Occorre inoltre promuovere una cultura organizzativa che valorizzi la sperimentazione, anche attraverso il riconoscimento della cultura dell’errore e dell’apprendimento, magari prevedendo incentivi per i comportamenti più intraprendenti. Un altro aspetto fondamentale è quello di spostarsi, per quanto possibile, da una rendicontazione esclusivamente amministrativa verso processi di accountability maggiormente in grado di mettere in luce il valore sociale prodotto.

Ridefinire la narrazione: il senso e l’autenticità

In assenza di narrazioni ampie e condivise collettivamente, diventa necessario provare a costruire narrazioni locali che non facciano leva sulla vocazione o sul sacrificio, ma su “significato e cambiamento”. È essenziale, in questa direzione, superare la retorica incentrata sulla dedizione personale e sullo spirito di sacrificio a favore degli altri, per adottare uno storytelling orientato al senso e al significato dell’azione sociale, evidenziando soprattutto la reale capacità di generare cambiamento all’interno della comunità. È fondamentale connettere le professioni sociali e le relative attività a temi maggiormente sentiti dai giovani e dalle giovani, come la sostenibilità ambientale, la giustizia sociale, i diritti civili, l’uguaglianza di genere, l’interculturalità, ecc.

Le professioni sociali, così, potrebbero tornare a essere percepite come occasioni per generare cambiamento, rispondere ad alcuni bisogni esistenziale – che restano un’importante leva motivazionale – e uscire dal quadro burocratico e standardizzato sopra descritto. Diventa fondamentale che queste narrazioni siano costruite in modo collettivo e che vedano un ruolo fondamentale delle nuove generazioni, sia nella fase di elaborazione sia in quella di promozione. È importante, inoltre, che la diffusione di queste narrazioni avvenga anche attraverso i linguaggi, i canali e i valori propri della Gen Z.

Contesti formativi

È necessario sviluppare processi di formazione interdisciplinare, capaci di superare la settorializzazione dei saperi. È fondamentale uscire da una formazione esclusivamente tecnica per promuoverne una maggiormente orientata al senso delle problematiche, valorizzando l'integrazione tra diverse discipline: sociologia, antropologia, psicologia, pedagogia, economia, comunicazione, urbanistica, diritto, tecnologia digitale. È importante che operatori e operatrici, soprattutto i più giovani, possono disporre di contesti in cui interrogarsi sul senso del proprio agire, acquisire strumenti di analisi critica della realtà sociale, sviluppare consapevolezza politica e culturale, e incentivare una cultura professionale autonoma, consapevole e trasformativa, non puramente applicativa o burocratica. Alla base di tutto ci deve essere come substrato e sostegno un paradigma di tipo relazionale in cui operatore e individuo sono coinvolti nello stesso processo trasformativo e di sviluppo della persona, al di là della propria condizione o ruolo. È inoltre fondamentale sviluppare concorsi di azione orientati all'apprendimento (imparare facendo), in modo da generare conoscenza e facilitare processi di innovazione. Risultato interessante che queste attività formative sono state progettate e realizzate in modo condiviso tra diverse organizzazioni, favorendo così uno scambio inter-organizzativo. In questa direzione, è altrettanto stimolante l'idea di attivare scambi all'interno del contesto europeo, per promuovere un confronto più ampio e orientato alla condivisione di pratiche.

Advocacy e condizioni lavorative

Appare necessario, infine, facilitare un processo di ascolto delle esigenze degli operatori e delle operatrici, valorizzando il ruolo dell’organizzazione all’interno delle reti inter-organizzative e delle associazioni di rappresentanza, al fine di promuovere una reale funzione di voice per il personale. Naturalmente, questo processo non deve concentrarsi esclusivamente sul tema retributivo, ma tenere conto delle esigenze in modo complessivo.

In questa prospettiva, è essenziale anche lo sviluppo di un sistema organizzativo orientato alla conciliazione tra vita privata e lavoro. Assumono particolare importanza alcune dimensioni strutturali come la flessibilità oraria, la possibilità di svolgere una parte delle attività in modalità smart working e il rafforzamento dell’autonomia decisionale delle persone.

Si tratta inoltre di lavorare non sulla perfomance quantitativa ma su obiettivi di impatto e di generazione di cambiamento, che valorizzi il carattere processuale del lavoro sociale, costringendo a prendere atto della non finitezza di questo tipo di lavoro. Anche in questo caso, sarà centrare stimolare la nascita di modelli organizzativi maggiormente orientati al raggiungimento degli obiettivi e dei risultati, anziché ai vincoli di orari e di presenza fisica.

Non si tratta di adattare i giovani al lavoro sociale, ma di rendere il lavoro sociale maggiormente attraente. Le nuove generazioni ci interrogano con la loro esigenza di senso, e rappresentano una leva possibile per rigenerare dall'interno anche le modalità con cui il welfare si struttura e si racconta. In questa ottica, il bisogno di autenticità, impatto e coerenza non va considerato un ostacolo, ma un'opportunità di rilancio. Potremmo allora affermare che la Generazione Z non rifiuta il lavoro sociale: rifiuta un certo modo di pensare, organizzare e narrare il lavoro sociale. È una distinzione fondamentale per orientare le strategie future e comprendere appieno le possibilità trasformative racchiuse nelle nuove generazioni.

L’innovazione al centro

Le organizzazioni potrebbero essere incentivate a investire nella formazione e nello sviluppo di progetti innovativi attraverso fondi per l'innovazione, da affiancare ai sistemi tradizionali con cui gli ETS si sostengono (finanziamenti pubblici, sistemi di accreditamento ecc.). Piuttosto che dover seguire una formula fissa, le organizzazioni potrebbero essere sostenute per esplorare approcci nuovi e creativi a partire dalle loro esperienze sul campo, adattando i modelli sociali alle necessità concrete. L’idea di base è quella che ispira il tema delle start-up: superare le rigidità, rendendo i soggetti del terzo settore luoghi di innovazione sociale con ambienti di lavoro che favoriscano la collaborazione, l'innovazione e la sperimentazione, attirando così giovani talenti. Dando più libertà di azione, si potrebbe aumentare l'entusiasmo verso il settore sociale.

Questa soluzione intermedia tra l’assunzione diretta e non supportata dell’intero rischio di impresa da parte dei giovani – soluzione che crea apprensione nella Gen Z (almeno italiana) - e l’inquadramento in strutture precostituite e rigide dell’ETS permette di coniugare la ricerca di realizzazione personale tipica di questa generazione, con l’anelito/esigenza di generare un impatto positivo sulla società. In altre parole, gli incubatori di innovazione applicate al mondo del Terzo Settore offrono un'opportunità unica di lavorare per una causa importante, ma in un contesto che consente libertà, innovazione e flessibilità, caratteristiche molto apprezzate dalla Gen Z, in cui il benessere mentale e personale non rischia di essere messo a repentaglio. Un altro aspetto che può rendere gli ETS attrattivi per i giovani in un sistema sperimentale di questo tipo sta nell’essere inseriti in un sistema fatto di relazioni e reti complesse in cui l’innovazione sociale non resta esclusivo patrimonio dell’organizzazione dentro la quale nasce, ma diventa in maniera quasi automatica valore per l’intera comunità, mitigando così gli aspetti competitivi insiti nel nostro modello economico.

Verso nuovi paradigmi

Nel percorso sin qui sviluppato, si è riformulata la domanda di partenza, passando dal chiedersi perché i giovani non vogliano accedere alle professioni sociali al domandarsi perché dovrebbero sceglierle. È fondamentale comprendere, da un lato, chi sono i ragazzi e le ragazze che si affacciano oggi al mondo del lavoro, quali valori, principi e leve motivazionali li muovono. Dall’altro, è necessario interrogarsi su come, negli ultimi cinquant’anni di evoluzione del welfare, si siano trasformati gli Enti del Terzo Settore.

L’esternalizzazione dei servizi ha determinato una crescita significativa, in particolare delle cooperative sociali, modificandone però in parte le caratteristiche originarie e le tensioni interne. È evidente, inoltre, che sono cambiati anche i sistemi di welfare locale e le modalità di formazione dei professionisti. Tutto ciò genera diverse barriere all’accesso — o meglio, faticano a offrire elementi di attrattività autentica e coerente con i valori emergenti portati dai ragazzi e ragazze di questa generazione.

Prendere atto della situazione, senza accettare passivamente i processi in atto, rappresenta l’unica strada percorribile per sviluppare strategie in grado, nel tempo, di coinvolgere nuovi ragazzi e ragazze, o almeno di non disperdere il capitale umano già attratto.

È necessario acquisire la consapevolezza che le nuove generazioni, con le loro esigenze di senso, benessere e autenticità, non rappresentano solo un “pubblico da attrarre”, ma anche una possibile leva di rigenerazione per le stesse organizzazioni del Terzo Settore, a patto che queste siano capaci di mettersi in discussione. Nel contributo, si sono individuate quattro piste di lavoro: quattro ipotesi che potrebbero diventare direttrici utili alla costruzione di programmi locali, condivisi tra più organizzazioni e capaci di generare visioni territoriali comuni.

Si è consapevoli che i trend di sviluppo del welfare locale e del Terzo Settore siano profondamente disallineati rispetto alla presente proposta. In questa direzione, si ritiene che, in questa fase, sia necessario avviare esperienze di resistenza capaci di sperimentare nuovi modelli di lavoro, in grado di ridare slancio ai contesti territoriali e risultare attrattivi per le ragazze e i ragazzi. Questa situazione è strettamente legata alla transizione che stanno attraversando gli Enti del Terzo Settore. Si è di fronte a significativi processi di accorpamento che, tuttavia, non hanno ancora portato alla definizione di un reale paradigma di sviluppo. Sta emergendo con forza l’ipotesi di una riorganizzazione del Terzo settore entro grandi realtà organizzative; proprio per questo motivo, è fondamentale che si creino connessioni tra le diverse esperienze che stanno esplorando modelli differenti. Diventa quindi essenziale costruire reti capaci di dialogare, condividere conoscenze e sviluppare paradigmi alternativi.

In conclusione, l’elaborazione di nuovi modelli organizzativi e di sviluppo rappresenta l’unico modo per cercare, nonostante le tendenze demografiche, di attrarre nuove energie e continuare a promuovere e sostenere sistemi di welfare territoriale in grado di rispondere efficacemente ai bisogni delle comunità. Questo sforzo risulterà tanto più efficace se affiancato da un’azione coordinata tra soggetti formativi, organizzazioni territoriali e decisori politici con cui costruire un ecosistema del welfare capace di accogliere e valorizzare il contributo della Generazione Z. Serve coraggio istituzionale, capacità di innovazione organizzativa e volontà di mettersi in ascolto, cogliendo questo snodo come occasione per una “rigenerazione” del lavoro sociale.

DOI: 10.7425/IS.2025.02.03

 

Bibliografia

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Stigliano G., (2021), Generazione Z: Le nuove sfide del lavoro, Egea, Milano.

[1] “I contratti nazionali che regolano il trattamento economico degli educatori sociopedagogici prevedono condizioni stipendiali tra le più basse tra le professioni che operano nel nostro paese. Certamente quella dell’educatore è la professione con lo stipendio più basso tra quelle che prevedono l’obbligo di un titolo di laurea. A ciò si aggiunge che spesso le condizioni di lavoro sono davvero difficili: attribuzione di incarichi diversificati per comporre un impegno orario pieno (supporti educativi scolastici in diversi istituti più interventi domiciliari in famiglie residenti in territori diversi; forme di lavoro di fatto a cottimo, imposte dalle stazioni appaltanti che non riconoscono il lavoro scolastico se il bambino è assente; servizi residenziali altamente impegnativi con indennità per lavoro notturno decisamente basse); possibilità di carriera e di conseguenti aumenti stipendiali ridottissime.” S. Premoli. Educatori cercasi: la crisi del mercato del lavoro educativo, Vita 

[2] Rapporto Censis (2023) Giovani e lavoro in Italia: la Gen Z tra opportunità e sfide

[3] D’Alessandro F. (2023) "Le aspettative lavorative della Gen Z: tra autorealizzazione e ricerca di benessere" in Rivista Italiana di Sociologia

[4] L. Bacci, Avanti Giovani

[5] Studio Deloitte, GenZ e Millennial Survey, 2024 https://www.deloitte.com/it/it/issues/work/2024-deloitte-global-gen-z-and-millenial-survey.html

[6] Stigliano G., (2021), Generazione Z: Le nuove sfide del lavoro, Egea, Milano  

 Bertolini S., Goglio V., (2023) “Giovani e Senso del Lavoro” in “La Giovane Italia” Rivista Il Mulino n°4/2023

[7] Byung-Chul Han, (2020), La società della stanchezza, Nottetempo, Milano. Coin F., (2023), Le Grandi Dimissioni, Einaudi, Milano

[8] Paul J. DiMaggio, Walter W. Powell, The Iron Cage Revisited: Institutional Isomorphism and Collective Rationality in Organizational, in “American Sociological Review”, Vol. 48, No. 2 (Apr., 1983), pp. 147-160.

[9] N. Basile, G. Imbrogno, S. Tassinari, Mettere al lavoro l'ingegnosità della cooperazione Moltiplicare connessioni per innescare evoluzioni inattese, in “Animazione Sociale”, N. 327, pp. 35-45

[10] Si veda Di Mascio F., Natalini A., Oltre il New Public Management. Le riforme amministrative tra meccanismi e contesti, Carocci, Roma 2018.

[11] N. Basile, R. Sirtori, F. Viganò, Co-programmare e co-progettare in mezzo ai problemi I fili da tessere tra agire politico e agire tecnico, in “Animazione Sociale”, n. 362, p. 67.

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