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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2025

Saggi

Giovani, talento e Terzo settore: come attrarre i giovani e gestire meglio le nostre persone?

Marco Crescenzi

Abstract

Le organizzazioni del terzo settore e i giovani ventenni della Generazione Z stanno avendo seri problemi nella relazione e di matching. Questo sia dal punto di vista della compatibilità culturale (linguaggi, visione ed etica del lavoro), sia della compatibilità operativa (qualità della performance, acquisition e retention). Al punto che i dirigenti e i responsabili delle risorse umane si chiedono quanto il Terzo Settore sia ancora interessante per i giovani. Il problema è grave, perché impedisce il ricambio generazionale e lo sviluppo del talento interno, e se non gestito rischia - anche considerato lo scenario nazionale ed internazionale avverso - di avviarci ad un rapido declino. La questione è urgente, perché al momento c'è un forte mismatch tra domanda ed offerta di impiego ed una grossa difficoltà a trovare profili all’altezza delle aspettative.

La fragilità di molti giovani, tendenza della generazione Z ad accorciare la permanenza lavorativa a due o tre anni, la difficoltà ad impegnarsi a fondo rinunciando in parte al life balance e la difficoltà di resistenza alla frustrazione, costringono le organizzazioni da un lato a mettersi in discussione, ma dall’altro a cercare e far crescere i “giovani giusti” di cui hanno bisogno per portare avanti le loro missioni. Possiamo dire che è finito l’idillio tra giovani e terzo settore ed il rapporto “scontato”, inauguratosi negli anni Ottanta, quando era normale considerare il Terzo settore come il luogo ideale per fare una carriera etica, “di lavoro e di valore”, unendo impegno professionale, sociale, civile.

Oltre alla sfida generazionale, i nostri dirigenti si trovano a gestire più generazioni in contemporanea e la complessità di gruppi non omogenei in termini di esigenze, cultura, sensibilità. Ciò senza dimenticare il tema di genere, dove peraltro si verifica una contraddizione di fondo: quasi il 70% dei lavoratori è donna ed il 30% uomo, ma a livello dirigenziale la percentuale si inverte.

E poi va considerato un terzo fattore, quello anagrafico. Le organizzazioni sono invecchiate, ed in particolare è invecchiato il management: in stragrande misura maschio, bianco, e anagraficamente over 50. Se il terzo settore vuole continuare a rimanere incisivo e competitivo, attraverso un ricambio generazionale efficace, deve mettersi profondamente in discussione, ed applicare strategie adeguate di talent intelligence, acquistion e management che vadano dall’employer branding – comunicarsi in modo attraente - alla talent retention - la fidelizzazione dei migliori. È necessario dare vita ad un ecosistema generativo del talento e di nuovi leader, da cui attingere le nostre persone e da sviluppare con cura. Una grande sfida operativa, strategica e culturale che, se persa, condanna il Terzo settore alla marginalità, se vinta ad un impatto più innovativo e forte per la società civile.

I giovani ventenni “Z Gen” sono “meno adatti” al Terzo Settore rispetto a generazioni precedenti? Su quali dimensioni? Quali sono le caratteristiche e fragilità della generazione Z e come essa si riconfigura dal punto di vista antropologico? Di quanta fiducia ed attrattività gode il Terzo settore oggi? Il Terzo settore è ancora attrattivo? Come cambia l’approccio dei ventenni al lavoro e che rischi comporta per il Terzo settore[1]? Come ricreare un “talent matching” positivo tra giovani e Terzo settore, sia in fase di selezione che di gestione e sviluppo? A partire da queste domande ragioniamo insieme su un momento storico complesso[2].

I giovani ventenni “Z Gen” sono “meno adatti” al Terzo Settore rispetto alle generazioni precedenti?

Il problema è che le organizzazioni di terzo settore stanno incontrando seri problemi nella relazione con la Z Gen. Questo dal punto di vista della compatibilità culturale (linguaggi, visione del lavoro), della compatibilità operativa (qualità della performance, acquisition e retention) e della compatibilità strategica (quanto investire sui giovani se - come vedremo- hanno tempi di permanenza più brevi e come possono essere manager se - come vedremo - reggono meno lo stress?).

Gli elementi qui riportati non sono pensati come una valutazione strutturata della Gen Z (su cui arriveremo in seguito), ma come un “collage di percezioni”, giuste o meno, circa il mismatch rispetto ai bisogni e ai valori delle organizzazioni. Ma è sulle percezioni che si agisce. Eccole:

  1. Life balance: “impegno sì, ma fino ad un certo punto”. L’idea che alla fine “i giovani non sono più disposti a buttarsi nel fuoco per noi”, che il brand non basta: mentre fino a pochi anni fa bastava il nome e la reputazione dell’organizzazione per renderla attrattiva, oggi i ragazzi dicono in sostanza “ok bella organizzazione, ma cosa mi offrite, in termini di qualità di vita e carriera?”; vi è la percezione che i giovani desiderino più tempo per l’amicizia, l’amore, i viaggi, gli hobby.
  2. Difficoltà di accettare le regole: le regole ledono la nostra dignità. Una mancanza di riconoscimento che arriva persino a mettere in discussione il regolamento (che prima era stato accettato e controfirmato) di corsi di prestigiose università o a promuovere azioni contro i coordinatori didattici che riprendono gli studenti per i ritardi. A questo proposito, nel Career Development Service della Social Change School, abbiamo analizzato con attenzione e confermato alcuni ulteriori atteggiamenti che rischiano di “non essere adatti” al mercato del lavoro, su una popolazione internazionale (a prevalenza occidentale) di qualche centinaio di studenti, peraltro tra i più motivati del mondo all’intervento sociale e rappresentativi di chi si approccia al terzo settore per lavoro[3].
  3. Volere tutto e subito, confondere il piano dei sogni professionali – a medio e lungo termine - con quello dell’ingresso nel mercato. Questo porta, ad esempio, a rifiutare posizioni perché non sono “abbastanza in linea” o abbastanza elevate rispetto al proprio profilo, senza la pazienza di entrare e crescere utilizzando esperienze anche non perfettamente allineate.
  4. Scarsa tenuta psicologica, minore resistenza alla frustrazione: si verifica ad esempio quando un giovane sente di non trovarsi bene all’inizio del lavoro in una nuova posizione e abbandona dopo solo due settimane, senza accettare di considerare due o tre mesi iniziali “frustranti” per vedere se si riesce a adattarsi, se cambia qualcosa. Anche la capacità di confrontarsi con l’ansia appare notevolmente diminuita. Mi è capitato, in una recente lezione di public speaking, tenuta secondo un format sperimentato da anni, di essere stato accusato da alcuni di “esporre all’ansia gli studenti”. Ora, se consideriamo che parlare in pubblico è per sua natura potenzialmente ansiogeno e che la preparazione consiste anche nell’esporsi per gestire l’ansia, capiamo che il bisogno di “essere protetti” è piuttosto discutibile: è un po’ come se uno studente di chirurgia chiedesse di non vedere il sangue perché gli fa impressione.
  5. Scarso riconoscimento e coordinamento con l’autorità: che si evidenzia anche semplicemente nel non rispondere a mail di saluto ed introduttive del responsabile del servizio ai nuovi studenti, dove la risposta non è solo un fatto di cortesia, ma un dovere ed un vantaggio relazionale.
  6. Scarsa capacità relazionale e strategica: in altre parole, difficoltà nel curare le relazioni importanti e nell’essere in grado di esprimere pareri e valutazioni equilibrate sulle persone.

Un fattore di aggravamento di questo quadro è dato dal fatto che alcuni giovani più problematici, anche in termini di tenuta psicologica, si rivolgono al terzo settore con l’aspettativa di un’accoglienza migliore, rispetto alla competitività del settore profit.

Ma, possiamo chiederci: queste percezioni nascono dal consueto “pregiudizio generazionale” che porta i post quarantenni di qualsiasi generazione a giudicare criticamente i giovani[4]? Analisi scientifiche ci dicono che invece, purtroppo, queste percezioni hanno un fondamento più solido.

Quali sono le caratteristiche e fragilità della Generazione Z (under 30, occidentali)?

Partiamo prima da una definizione più articolata di cosa voglia dire “giovani”: qui parliamo di giovani under 30, occidentali (Europa ed USA), considerando che altri continenti hanno antropologie in parte diverse (anche se accomunati dalla piaga dei social e degli smartphone). Ma ad es. i ragazzi cinesi ricevono un tipo di educazione quasi militare.

Per la nostra analisi delle fragilità, lasciamo ora le percezioni e procediamo invece in modo scientifico: ci basiamo uno degli autori che ha studiato più a fondo la generazione Z. In La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli[5], un saggio che ha già fatto storia,  Jonathan Haidt, Psicologo Sociale sperimentale americano, analizza l’aumento dei disturbi d’ansia, depressione, suicidi, e altri problemi di salute mentale a partire dal 2010, tra i giovani nati dopo il 1995, ovvero la Generazione Z. Haidt cita dati che mostrano come, negli Stati Uniti e nel mondo occidentale, i tassi di depressione e ansia siano cresciuti di oltre il 50% tra il 2010 e il 2019, mentre il tasso di suicidi tra i giovani di età compresa tra 10 e 19 anni sia aumentato del 48%, con un incremento ancora più drammatico tra le ragazze tra i 10 e i 14 anni, dove il tasso di suicidi è più che raddoppiato (+131%) nello stesso periodo. Mostra anche come tale “debilitazione di massa” sia strettamente correlata con:

  • la massima diffusione dello smartphone (uscito nel 2007);
  • l’iperviralità dei social media con l’introduzione dei “like” e “retweet” o “share” (2009);
  • l’adozione delle fotocamere frontali (2010), coniugato con l’affermarsi di Instagram, che favoriscono il confronto costante, la paura di essere esclusi – FOMO, Fear of Missing Out - e che ha portato soprattutto le femmine alla ricerca di affermazione della propria popolarità e ad un’ansia di esposizione.

L’autore è in grado di escludere con precisione che i fattori “debilitanti” siano dovuti a preoccupazioni relative al cambiamento climatico, guerre, situazioni di crisi economica (es. 2008) o pandemia (che comunque è fattore aggravante del senso di fragilità). Ogni generazione peraltro ha avuto le sue preoccupazioni e drammi. Dimostra in modo chiaro che i problemi psicologici come ansia ed una profonda trasformazione della coscienza e delle relazioni umane, si siano letteralmente impennati dopo il 2010. Ecco alcuni grafici con i dati molto evidenti portati a sostegno dall'autore.

Il primo si riferisce alla depressione maggiore – il quadro clinico più grave, che può portare al suicidio e che, prima del periodo considerato, era più diffusa tra i maschi - nei teenager statunitensi

Riprodotto da Haidt (2024).

Riprodotto da Haidt (2024).

Si nota come, a parità di condizioni esterne come quelle citate (guerre, pandemia ecc.), sia la depressione, sia l’ansia colpiscono in misura maggiore con l'abbassamento dell'età ed in modo significativamente diverso i ventenni.

Grafico pubblicato da Haidt su X il 31/7/2021.

 

Senza entrare qui troppo nella psicopatologia giovanile, quella che Massimo Recalcati ha definito “la depressione giovanile di massa”, credo abbiamo avuto abbastanza dati per capire le cause di quelle che sono le principali fragilità, che si riflettono poi nelle difficoltà lavorative. Ed ecco che tali aree di debolezza e fragilità che caratterizzano la Generazione Z, rilevate nell'osservazione scientifica di Haidt, coincidono alla fine con le percezioni di dirigenti e responsabili delle risorse umane, ovviamente non solo del terzo settore; infatti, secondo Haidt, si tratta di:

  • difficoltà nella gestione dell’ansia e dell’incertezza: l’esposizione costante ai social media aumenta il confronto sociale, la pressione a mostrarsi sempre “perfetti” ha creato una base di insicurezza e stress (vedi l’esempio prima proposto del public speaking; e si pensi a chi debba lavorare nella cooperazione internazionale o nel front office con le tante utenze impegnative);
  • isolamento sociale e scarse competenze relazionali: l’interazione digitale sostituisce quella reale, rendendo più difficile sviluppare empatia, capacità di dialogo e gestione dei conflitti reali. Il ghosting, chiudere le relazioni scomparendo e bloccando l’altro sui social, fenomeno sempre più diffuso tra i giovani e non solo, ne è un esempio lampante, che porta molti a diffidare e non coinvolgersi nelle relazioni;
  • dipendenza dalla famiglia e scarsa autonomia: molti giovani fanno fatica a prendere decisioni in modo indipendente e tendono a coinvolgere i genitori anche nelle scelte lavorative, segno di una fiducia in sé stessi non ancora pienamente sviluppata.
  • difficoltà di adattamento al mondo del lavoro: le aziende segnalano carenze nelle competenze comunicative, nel problem solving, nella capacità di lavorare in gruppo e nell’accettare feedback. Spesso i giovani hanno aspettative irrealistiche e poca esperienza pratica;
  • mancanza di resilienza: l’iperprotezione genitoriale e la riduzione delle esperienze di rischio e autonomia rendono più difficile per i giovani affrontare le difficoltà e gli insuccessi.

Haidt individua, oltre all’ubiquità degli smartphone e dei social media, alcuni altri fattori chiave che avrebbero contribuito a questa situazione:

  • stili genitoriali iperprotettivi che limitano le esperienze di autonomia e resilienza dei ragazzi;
  • pressioni crescenti e competitività nel sistema educativo;
  • diminuzione delle opportunità di sviluppare indipendenza e competenze sociali.

L’autore sottolinea come la tecnologia digitale, progettata per massimizzare l’engagement, abbia creato una condizione di iperconnessione e dipendenza dalla validazione sociale, con effetti negativi sulla salute mentale e sulla capacità di affrontare le sfide della vita adulta. Haidt propone poi - per quanto possa interessarci qui, ma ci sembra comunque utile riportarlo, anche per il nostro impegno educativo e di advocacy come Terzo Settore - alcune (per niente) semplici soluzioni, tra cui “niente smartphone prima delle scuole superiori, niente social media prima dei 16 anni, a scuola senza cellulare, molto più gioco libero e sfidante, e maggiore indipendenza”.

Di quanta fiducia ed attrattività gode il Terzo settore oggi?

Sul versante opposto, nella percezione grezza dei pubblici, il Terzo Settore, quando non è guardato con sospetto, è oggi meno appealing rispetto ad altri attori sociali. Secondo la ricerca di La Polis - Università di Urbino, Osservatorio delle Opinioni dei Cittadini pubblicata a dicembre 2024, le ONG sono al decimo posto nella fiducia degli italiani tra le istituzioni (dalla presidenza della Repubblica alla Scuola, dalla Magistratura alla Chiesa), addirittura meno gradite dell’Unione Europea, che, come sappiamo, non gode certo di grande popolarità.

Da Ilvo Diamanti, La democrazia malata, in Repubblica, 29/12/2024.

 

Dall’Eledelman Trust Barometer[6] emerge poi un dato internazionale impensabile fino a pochi anni fa: il terzo settore gode di meno fiducia rispetto alle imprese. In alcuni con l’idea che “chissà dove vanno a finire i soldi che ricevono”; o che, come per le cooperative, “bisogna ammazzarsi di lavoro per quattro soldi”, o che è un settore vecchio, con una dirigenza ancora troppo maschile[7], che parla all’antica (es. plurale maschile sovraesteso), paternalista, che non offre percorsi di carriera adeguati, meno sicuro e remunerativo del settore pubblico (vedi ad esempio per quanto riguarda gli educatori professionali). Tutte cose in parte anche vere, purtroppo. Un settore, per molti, magari buono per fare volontariato, ma non per farci carriera. Ed infatti, non a caso, l’importanza attribuita ai valori e l’impegno civile volontario dei giovani rimangono comunque alti.

Come si spiega questa perdita progressiva di fiducia? In parte hanno pesato fattori esterni, come le campagne politiche di discredito (dai “taxi del mare” in poi), il fastidio generalizzato (e in parte  montato ad arte) verso i migranti; per quanto riguarda le cooperative sociali, grandi e piccoli scandali con molto scalpore (da Mafia Capitale al caso dell’arresto dei parenti dell’ex parlamentare Aboubakar Soumahoro), la riduzione del Terzo Settore a “volontariato” (fatto, forse in modo protettivo, anche dal Presidente Mattarella) che ne deprime il valore anche economico ed allontana i giovani più ambiziosi di carriera.

E poi c’è il tema della comunicazione. Recentemente una ingenua foto di una nota e combattiva organizzazione ambientalista spagnola ha scatenato nei giovani l’ilarità perché mostrava i suoi dirigenti in una foto di gruppo informale con l’aria felice, inconsapevole del fatto che avrebbero avuto un boomerang negativo di immagine, essendo 4 su 5 uomini, tutti bianchi e nessuno giovane. La comunicazione e la giusta “rappresentazione di sé” è proprio un problema che riguarda tutto il terzo settore, e non certo solo nei confronti dei giovani. Più in generale, le grandi ONG fanno una comunicazione di massa molto schiacciata sul fundraising e quindi meno suggestiva ed attrattiva per i giovani, che capiscono che il primo obiettivo della comunicazione è la raccolta fondi.

Le Associazioni e le Cooperative, invece, di fatto non fanno una comunicazione esterna di livello, pur avendo molto valore prodotto da comunicare e gli operatori sociali diffondono la percezione che “si lavora troppo e si guadagna poco” (ancora una volta lo vivo da vicino: una delle mie figlie, ventenne, lavora con grande motivazione in una associazione per gli homeless in UK, lavoro molto impegnativo e con grande turnover e la domanda “quanto vale la pena” aleggia inevasa in lei e colleghi). Se pensiamo, ad esempio, al potenziale comunicativo di Agesci, per rimanere sui giovani, per l’immenso valore di quello che fa rapportato a quello che comunica, il gap è evidente. E mentre le organizzazioni spesso crescono nei numeri (come Agesci) la loro conoscenza e reputazione verso il grande pubblico, non segue di conseguenza.

Nel caso delle cooperative sociali, quanti davvero conoscono il valore prodotto per il territorio o per l’utenza, quello che fanno, le loro storie belle? A volte basterebbe poco, ma lo schiacciamento, da sempre, è sulla gestione dei servizi, più che sulla relazione con il territorio e la comunità locale. Ed ancora poche hanno una “mission” da comunicare, al di là dell'importante gestione dei servizi.

Queste percezioni reciproche, per quanto grezze e non riguardanti la totalità dei due ambiti (tutti i giovani ventenni o tutte le organizzazioni), colgono quindi molti punti di sostanza e reali, e sono alla base di un mismatch che rischia di minare l’ingresso di giovani di valore, impedire il ricambio generazionale, togliere energia fresca ed innovazione al terzo settore. Ecco, quindi, che i ventenni entrano nel mondo del lavoro del Terzo Settore con le loro fragilità, i loro dubbi, i loro desiderata molto diversi dalle precedenti generazioni, ricevuti in ambienti ricchi di contraddizioni anche valoriali e con una percezione parzialmente negativa o quantomeno molto prudente.

Come è cambiato l’approccio dei ventenni al lavoro e perché questo comporta dei forti rischi per noi[8]?

Considerato quanto sopra, sia in termini di fragilità, ma anche della voglia di un sano diverso stile di vita più centrato su un equilibrato life balance, salari più alti (Rapporto Almalaurea 2024), ed evitare lo stress eccessivo, possiamo meglio comprendere che per i ventenni ci sia una difficoltà di inserimento e di tenuta nel mercato del lavoro.

Anche per questi motivi, in fase di ricerca del personale è sempre più evidente una crescente difficoltà delle imprese (anche profit) a reperire i profili di cui necessita: secondo quanto riportato dall’osservatorio Excelsior di novembre 2021, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro è pari a quasi il 40%, 8 punti percentuali in più rispetto a novembre 2019, e la sensazione è che stia crescendo ulteriormente. Nel for profit le imprese faticano a trovare quattro profili su 10. E si tratta di un fenomeno in crescita. In questo contesto risulta chiaro che le imprese che ricercano giovani collaboratori di valore sono di fronte ad un mercato molto ristretto, considerando anche che molti giovani ambiziosi e con spirito di iniziativa, in forte prevalenza nel centro nord, emigrano in cerca di migliori opportunità e di sistemi più onesti e che riconoscano più il merito e diano migliori e più chiare opportunità.

Una indagine svolta da Euricse e pubblicata nel 2024[9], mostra nella cooperazione sociale un turnover elevatissimo tra i giovani se comparato con gli over 35. Ecco alcuni grafici presentati di ricercatori.

Lavoratori totali e usciti (valore assoluto e percentuale)

Riprodotto da Depedri, Bonazza, Lattari (2024).

Il dato, che prende in considerazione gli under 35, evidenzierebbe probabilmente differenze ancora maggiori se rilevato rispetto agli under 30, oggetto di queste riflessioni.

Prospettiva di permanenza / significato della presenza in cooperativa

Riprodotto da Depedri, Bonazza, Lattari (2024).

L’aspetto del life balance e del sentirsi curati è essenziale. Se nella seconda metà del XX secolo, in un mondo occidentale influenzato dalla cultura capitalista era dominante il mantra “il tempo è denaro”, ora assistiamo ad un cambio di paradigma che scuote il mercato del lavoro. Alcuni millennials (1981-1996), ma soprattutto la generazione Z (1997–2012), al contrario pongono al centro del dibattito la necessità del diritto al tempo libero per vivere appieno le diverse dimensioni della vita e un equilibrio vitale che preservi la salute mentale, messa a dura prova dalla pandemia del Covid-19. E quindi, ad esempio, ne consegue il rifiuto degli straordinari, non per pigrizia, ma per conflitto sui valori. Lavorare sì, ma in condizioni adeguate che permettano di fiorire di tutti gli altri aspetti della vita, rifiutando lo stakanovismo, l’eccessiva ambizione di carriera, il bisogno di essere e sentirsi produttivi a tutti i costi e volendo invece disporre di un tempo adeguato per coltivare i rapporti umani, la famiglia, gli hobby, i viaggi la lettura: tutte cose legittime e di valore, ma che spesso confliggono con l’impegno richiesto dalla nostra “buona causa” e dall’essere “sotto-staffati”, situazione che caratterizza molte organizzazioni di Terzo settore. Il Terzo Settore, per essere ancora attrattivo a livello occupazionale, deve gestire la mutazione antropologica e una nuova narrativa del lavoro rispetto ai ventenni. Che non vuol dire però appiattirsi sulle loro esigenze “qui ed ora”.

Come ricreare un “talent matching” positivo tra giovani e Terzo settore, sia in fase di selezione, sia di gestione e sviluppo?

Per le organizzazioni quindi si pone non solo un tema di “accoglienza” e gestione “compatibile”, ma anche uno, pragmatico e non ideologico, di cercare i giovani giusti ed abbastanza solidi per perseguire la propria missione e crescere come manager e leaders. È il tema della Talent Intelligence ed Acquisition. Se il terzo settore vuole continuare ad esistere, attraverso un ricambio generazionale efficace, deve applicare strategie di talent intelligence, acquistion & management che vadano dall’employer branding (comunicare in modo attraente), alla talent retention (la fidelizzazione dei migliori) e più in generale ad un patto intergenerazionale per la crescita dei leaders del futuro.

La domanda che dobbiamo farci - la cui risposta prima davamo per scontata e che ora non lo è più - è “perché dovrebbero venire a lavorare da noi (e rimanerci)”? Raramente le nostre organizzazioni sono in grado di presentarsi in modo davvero attraente e di esprimere la loro “proposta di valore” per i candidati. Ora si inizia a farlo, ma schiacciandola molto sul presente e su aspetti materiali (parlando quindi di flessibilità, bonus, welfare etc.). Ma l’ipotesi alternativa, di chiedere alle persone cosa vogliono e di raccogliere questa sfida, a onta della sua semplicità, comporta una conseguenza sfidante ma non priva di problematicità: tende a portare il confronto sul tema degli aspetti immateriali del rapporto di lavoro che sono in cima ai pensieri dei candidati e dei selezionatori in quel momento.

Le offerte materiali, economiche e di flessibilità sono le leve più facili da azionare e vengono apprezzate immediatamente, ma sono anche facilmente imitabili dai concorrenti e il loro impatto sulla fidelizzazione dei dipendenti è meno duraturo. Ma c’è invece un approccio molto più efficace, che migliora l’acquisizione e la ritenzione di collaboratori professionali e sposta l’attenzione da ciò che vogliono in quel momento a ciò di cui hanno bisogno per costruire un futuro sereno e sostenibile per l’organizzazione per sé stessi. Esempi di aspetti a più lunga scadenza da inserire nella proposta di valore possono essere:

  • l’importanza del lavoro in oggetto per i beneficiari e la comunità;
  • la rilevanza del lavoro dell’organizzazione nei decenni;
  • la qualità dei colleghi e del gruppo di lavoro;
  • la formazione e il coaching;
  • le policy circa Diversità&Inclusione;
  • lo sviluppo della managerialità femminile;
  • possibilità di esperienze internazionali.

 L’obiezione che “Sarebbe bello, ma non ci sono le risorse economiche” è comprensibile, ma poco ragionata: si può ottenere molto con poco, mentre d’altro canto i costi del turnover sono pesantissimi, e si può risparmiare molto in efficienza nella gestione degli uffici Risorse Umane.

Conclusioni

Va ricordato che, oltre all’aspetto generazionale, il Terzo settore si trova a gestire quello di genere, con una sperequazione di fondo nel rapporto tra sessi e dirigenti, come si è visto totalmente sproporzionato a favore degli uomini. C’è poi un terzo fattore, quello anagrafico. Le organizzazioni sono invecchiate, ed in particolare è invecchiato il management: in stragrande misura maschio, bianco e anagraficamente over 50.

Se il Terzo settore vuole continuare - non dico a crescere -, ma anche semplicemente ad esistere attraverso un ricambio generazionale efficace, deve mettersi profondamente in discussione ed applicare strategie adeguate di talent intelligence, acquistion e management che vanno dall’employer branding – comunicarsi in modo attraente - alla talent retention - la fidelizzazione dei migliori, ad un patto intergenerazionale per la crescita dei leaders del futuro.

È necessario, in conclusione, dare vita ad un “ecosistema generativo del talento e di nuovi leaders”, da cui attingere le nostre persone e da sviluppare con cura. Si tratta di una grande sfida operativa, strategica e culturale che, se persa, ci condanna all’irrilevanza, se vinta ad un impatto più innovativo e forte per la società civile in un rinnovato patto intergenerazionale con i giovani.

DOI: 10.7425/IS.2025.02.04

 

Bibliografia

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Crescenzi M., (1998), Il Manager del Non Profit, Sperling&Kupfer-Mondadori.

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LaPolis, Demos&Pi, Università degli Studi di Urbino, (2024), Rapporto annuale gli italiani e lo Stato, sintesi online disponibile all’indirizzo https://www.avvisopubblico.it/home/wp-content/uploads/2024/12/Rapporto-Gli-italiani-e-lo-Stato-Repubblica-29dic2024.pdf

Potter K., Kramer M., (2011), Creating Shared Value, Harvard Business Review, Febbraio 2011.

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[1] Ho già trattato sinteticamente il tema su Il fatto Quotidiano l’1 Settembre 2024, https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/09/01/lavorare-si-ma-in-condizioni-adeguate-per-attrarre-i-giovani-il-terzo-settore-deve-ascoltarli/7669271/

[2] Nell’analisi mi baso, oltre che su ricerche e dati citati, sulla mia esperienza dal 1997 anni di relazione con i giovani fatto con Social Change School, che ha visto passare due generazioni, ragazzi che avevano poco più di vent’anni nel 1997 ora ne hanno oltre 50; e su quella di psicoterapeuta con molti giovani 18-25, con cui ho potuto approfondire la loro visione del mondo; e, ancora, quella di padre, avendo tre figli ventenni pienamente Z Gen. In un apposito ritiro di Leaders4Future, la rete dei dirigenti del Terzo Settore italiano, abbiamo avuto modo di approfondire il tema in modo più scientifico, il 26 giugno 2024, con la direzione scientifica di Diego Battistessa e del sottoscritto. Da qui nasce anche la creazione di Space T, il laboratorio di Talent Intelligence & Acquisition Lab specializzato per il supporto al Terzo Settore.

[3] Ringrazio il Direttore del CDS, Bruno Clerici, per le tante osservazioni sistematiche registrate e per i vari confronti intercorsi.

[4] Questo fenomeno ha (aveva) in realtà una facile spiegazione: ci si dimentica come si era a 20 anni! Ma questa volta, come vedremo, siamo davanti ad un vero mutamento antropologico.

[5] Haidt (2024).

[6] https://www.edelman.it/trust/2024/trust-barometer

[7] Leading Together-Women Leadership Programme promosso da Social Change School e leaders4future.

[8] Il tema è sviluppato anche nel già citato articolo pubblicato su Il fatto Quotidiano l’1 Settembre 2024, https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/09/01/lavorare-si-ma-in-condizioni-adeguate-per-attrarre-i-giovani-il-terzo-settore-deve-ascoltarli/7669271/

[9] Depedri, Bonazza, Lattari (2024).

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