Il Margine è una storica cooperativa torinese, nata nel 1979, che oggi conta circa 700 soci lavoratori e una governance marcatamente femminile. È stato tra i soggetti protagonisti della deistituzionalizzazione nell’area della salute mentale ed è oggi un attore di rilievo in molti ambiti di intervento nel welfare del territorio. Pubblica M. Margine Magazine, con cui partecipa al dibattito sulle tematiche sociali. Ha intrapreso nel 2023 un percorso formativo e di partecipazione – una “vision factory” - rivolto a 26 giovani soci per prepararli ad assumere responsabilità nella cooperativa. Questo articolo, elaborato da un gruppo di partecipanti, costituisce una riflessione a partire da tale percorso.
«Intergenerazionale», «partecipazione», «comunità», «impegno», «generatività» e «cooperazione» sono alcune delle parole che scegliamo di utilizzare per descrivere il percorso della vision factory a cui partecipiamo da circa due anni. Il noi a cui si fa riferimento sono i ventisei soci della cooperativa Il Margine a cui è stato proposto di partecipare ad un percorso di formazione per fare cooperazione: per imparare a fare impresa, o, meglio, per pensare e guardare insieme al futuro della nostra Cooperativa, da ogni punto vista.
Noi, che quotidianamente lavoriamo con e per le persone e la loro complessità, abbiamo iniziato a maneggiare un bilancio di esercizio, a parlare di stato patrimoniale e flussi di cassa, per poi attraversare le tecniche di facilitazione della partecipazione, arrivando ai minutaggi, al CCNL e al Sistema di Gestione. E ancora, a prendere contatto con il calo della desiderabilità del Terzo Settore, le politiche sociali e gli adeguamenti di rette e contratti. Guidati da docenti esperti delle tematiche citate, siamo entrati a fare parte di un vero e proprio succession plan. Un processo pensato e costruito, finalizzato ad individuare e formare le persone che un giorno subentreranno alla governance di oggi, in modo tale da garantire continuità, per i soci, per il territorio e per tutte le persone beneficiarie dei servizi. Una strategia che non riguarda solo il trasferimento di ruoli, ma che implica una transizione intergenerazionale, nel quale risulta fondamentale garantire un trasferimento anche di valori, missione e visione, all’interno di un mondo in continuo cambiamento. Ci è stato proposto di costruire insieme il passaggio intergenerazionale, abbiamo accettato.
“Partecipazione: Il fatto di concorrere insieme con altri alla costituzione e allo svolgimento delle attività di un istituto, di un ente, di un’azienda, contribuendo alla formazione del suo capitale” (https://www.treccani.it/vocabolario/partecipazione/)
Se guardiamo all’oggi, possiamo osservare numerosi cambiamenti nella società e nelle persone, nei bisogni e nelle richieste. Allo stesso tempo possiamo notare quanto i sistemi preposti ad accoglierle ed accoglierci siano rimasti ancorati al passato e rappresentino oggi un limite, che si tratti dei servizi alla persona o delle organizzazioni lavorative in cui siamo inseriti. Da qui il bisogno di alcuni di noi di acquisire maggior consapevolezza della realtà lavorativa e sociale, di alimentare una costante ricerca di senso che possa aiutarci a confermare la scelta di continuare ad essere cooperatori, di mettersi alla prova. Allo stesso tempo, il desiderio di trovare un posto all’interno della Cooperativa così da poter partecipare attivamente alla sua crescita ed evoluzione, sia verso l’interno che verso l’esterno. Di acquisire nuove competenze, responsabilità e una maggior comprensione dei processi che stanno dietro alle scelte che ci riguardano in quanto soci. Di entrare in relazione con i colleghi alla ricerca di scambi e confronti. Il tutto, per poter esercitare l’elemento comune a tutte le generazioni di cooperatori e cooperatrici che si affacciano a questo mondo: fare il nostro, tradotto nei dati di una ricerca[1] che citeremo spesso, esercitare l’importanza del proprio lavoro per la comunità, o con le parole di una collega, per lasciare la nostra orma. Ancora più in grande, tentare di far parte di un processo di trasformazione, doveroso e tanto più necessario, di un settore che oggi ha perso attrattività e che si trova a dover fare i conti con le esigenze della nuova generazione. Aspetti che quotidianamente respiriamo nei servizi, dove mancano colleghi o colleghe, e nei nostri spazi personali, dove la professione dell’educatore e dell’educatrice resta ancora un grande interrogativo.
“La modalità di ingaggio nell’attività e nel governo dell’impresa può essere varia, può coinvolgere in modo differente il lavoratore, che in qualche forma può riconoscersi anche solo come dipendente, svolgere con correttezza il proprio incarico nel proprio orario di lavoro e nulla più. Molto più frequentemente però, soprattutto con la permanenza nel tempo, organizzazioni di questo tipo realizzano davvero il proprio mandato formale, divenendo sempre più organizzazioni di "proprietà collettiva" dei portatori di interesse. Questo permette ai lavoratori stessi di differenziarsi e riconoscersi attraverso molteplici gradi di appartenenza all’impresa: quest’ultima, pur non negando l’appartenenza - debole - tende a costruirsi attorno a un nucleo forte, maggiormente propenso ad incarnare la storia e la cultura organizzativa.” [2]
Si è generata così l’aula, costituita da giovani educatori ed educatrici, OSS, Trp, assistenti sociali e amministrative; nell’aula vi erano alcuni coordinatori e coordinatrici, altri referenti di servizi, altri ancora operatori o operatrici. Dalla generazione Y alla X. Una forbice di esperienze e di voci con persone nate dal 1978 al 1999. A riprova di una sempre maggior necessaria attitudine dell’impresa ad interagire efficacemente con le esigenze del cambiamento, durante il corso dei mesi sono state chiamate nuove persone a partecipare al percorso formativo.
Sin dal suo esordio, il metodo della Vision è stato contraddistinto da una non troppo rigida scansione degli incontri e della proposta. Con un inizio e senza una fine. Cucito ad hoc, passo dopo passo, ci ha fornito la possibilità di acquisire nuovi strumenti e sperimentarli, confrontarci e crescere insieme in una dimensione di gruppo. Tale proposta si può, in un certo senso, sovrapporre alle fasi delineate dall’analisi di Weick[3], per cui l’ideologia organizzativa, come qualsiasi altra realtà esterna, prende senso solo attraverso i processi cognitivi di chi ne fa parte. L’essere umano, infatti, mette in atto processi cognitivi che ordinano i flussi dell’esperienza, traendo da essi mappe causali utili per i comportamenti futuri. Il processo del sensemaking non può aver una fine prestabilita, perché eventuali “emergenze” di eventi inattesi portano a riconsiderare il senso delle esperienze pregresse, già dotate, nella mente di chi le ha vissute, di un senso diverso.
Una prima parte degli incontri è stata dedicata all’analisi dell’esperienza e all’elaborazione delle necessarie mappe causali per costruire un futuro di senso, nonché un senso di futuro. Immersi nel verde, abbiamo trascorso insieme un fine settimana dove ci siamo visti, conosciuti e parlati. Il primo anno formativo, si è concretizzato in un’opera di “immaginazione” del futuro della Cooperativa. Uno sforzo intellettivo, volto a dare vita, non ad una personale visione de il Margine da qui ai prossimi vent’anni, ma ad un progetto comune.
Dal secondo anno, invece, ci siamo dedicati alla comprensione del bilancio di esercizio. Una scelta coraggiosa per un mondo che non “mastica” i numeri con scioltezza e non detiene la necessaria competenza nel proprio iter accademico. Anche in questo caso, una prima parte degli incontri è stata dedicata alla trasmissione delle necessarie competenze. In seguito, l’opera di sensemaking ha avuto la possibilità di dipanarsi mediante la restituzione di una vera e propria mappa concettuale, in sede di assemblea dei soci, diventando così essa stessa uno strumento di costruzione del futuro e transizione verso un modo altro di partecipare e di comunicare.
Da sottolineare l’importanza dei numeri e del fatto che, probabilmente, essi costituiscono la porta di accesso a significati altri: Ci tengo a precisare che, i numeri non sono mai stati miei fedeli amici ma, in questo percorso mi ci sono trovata a stretto contatto! Ma... c'è un essenziale “ma”! Questo percorso non è solo fatto di numeri...è fatto di valori, impegno, contributo, competenze, collaborazione, condivisione e tanta volontà! La consapevolezza, il sapere, le differenti esperienze, l'empatia, il supporto e la condivisione ne sono i protagonisti![4].
“Intergenerazionale: Che mette in relazione generazioni diverse” (https://www.treccani.it/vocabolario/intergenerazionale/)
Fin dai primi confronti fatti tra la governance della cooperativa e noi, è emerso il desiderio di trovare un terreno comune su cui costruire il domani, facendo interagire l’oggi delle generazioni più giovani, maggiormente attente ai diritti, alla diversità, ma anche tutelante verso di sé e il proprio tempo libero, con l’esperienza di chi, ieri, ha costruito le solide basi di quella che oggi è un’Impresa sociale a tutti gli effetti. Uno scambio di know how tra chi oggi lavora nei servizi e chi ieri quei servizi li ha pensati, progettati e aperti. Un confronto doveroso e necessario, soprattutto alla luce degli esiti della ricerca “Le cooperative alla prova del ricambio generazionale. Una ricerca di Confcooperative Federsolidarietà Veneto condotta da Riccardo Frigo[5], che offre uno spaccato dettagliato di quelle che sono le differenze tra i fondatori delle cooperative e la nuova generazione. Di quanto i valori cardine di ieri, oggi abbiano perso alcune posizioni nella scala, lasciando maggior spazio ad altri. Resta costante il tema della remunerazione, ma anche se oggi non rappresenta una priorità per chi desidera essere un cooperatore, per quanto ciò sarà ancora sostenibile?
Emerge una significativa differenza rispetto alla concezione della partecipazione. È possibile, oggi, essere parte di un contesto collettivo in cui poter esprimere i propri valori, non dovendo ricercare necessariamente tale dimensione nel contesto lavorativo? diventare quindi dei prestatori di professionalità? Si può quindi essere cooperatori senza essere di ieri o di oggi?
L’incontro tra generazioni consente di costruire un rapporto dialogico, che conduce ad una prospettiva bidirezionale dove a cambiare non siamo solo noi o solo loro, ma che insieme si prenda parte ad un comune processo di trasformazione che lasci spazio al prossimo.
“Cooperare: Il cooperare, l’atto o il fatto di cooperare; opera prestata ad altri o insieme ad altri per la realizzazione di un’impresa o il conseguimento di un fine.” (https://www.treccani.it/vocabolario/cooperazione/)
Gli esiti sopra citati, ovvero che il fattore economico è risultato essere meno rilevante se confrontato con la qualità delle relazioni coi colleghi e il significato della propria attività lavorativa[6], ci pongono di fronte ad un’ulteriore riflessione: forse quello di cui abbiamo bisogno noi giovani cooperatori è di dare l’avvio ad un’opera profonda di sensemaking del nostro agire quotidiano. Portiamo quindi le riflessioni di un collega:
“Il Covid, si sa, non ha lasciato solo reliquati sui nostri corpi, ma ha anche profondamente inciso sulle nostre menti, sui nostri vissuti, sul modo in cui ci rapportiamo alle evenienze dell’esistenza. Se penso alla mia esperienza, la pandemia ha messo in luce tutte le mie fragilità e le mie debolezze caratteriali. Mi ha costretto a scendere a patti con un io che non conoscevo e che, devo dire, mi spaventava anche. La possibilità, fornitami dalla Cooperativa, di potermi mettere in gioco in un modo altro rispetto all’atto educativo, mi ha dischiuso orizzonti prima impensabili; mi ha permesso, inoltre, di accedere ad una “sovra-visione” di processi e dinamiche fino ad allora sconosciute. D’altra parte, però, lasciare l’habitus da educatore mi ha richiesto nuovi apprendimenti e, soprattutto, l’esigenza di rivedere le modalità con le quali guardavo (e guardo) al mio lavoro; passare da un lavoro “sul campo” ad uno di “backoffice” implica, infatti, rivoluzionare le proprie abitudini, vuol dire chiedersi se, in fin dei conti, non si sia tradito ciò che la vita ti ha chiamato ad essere. In questo pressoché continuo flusso di coscienza, si è imposta, quindi, una nuova ricerca del Senso del lavoro svolto, un bisogno così prorompente, che ha, fortunatamente, incontrato la proposta di partecipare al corso di formazione, destinato alla futura dirigenza dell’organizzazione e denominato Vision Factory.”[7]
La ricerca di senso diventa la ricerca, proprio a partire da quello che si è stati, di un nuovo modo di essere operatore sociale. Il percorso della Vision, ci ha permesso di ridare fiato ad un lavoro sociale che sconta le fatiche di una lunga storia dove “Il fare cooperativa richiede tempo, presenza, disponibilità, sacrifici e in qualche caso contributi di carattere volontario in aggiunta agli impegni lavorativi”[8]. A ciò, possiamo aggiungere la difficoltà, da parte delle grandi organizzazioni, di “mantenere vivi i valori e le competenze della cooperativa”[9] trasmesse dai fondatori. Siamo, probabilmente, davanti ad un bivio epocale, con una connotazione storica, filosofica e antropologica. Abbiamo individuato il fattore della retribuzione come non determinante di una scelta (e questo corrisponde alla posizione del 45,3% del campione intervistato nella ricerca di Federsolidarietà Veneto[10]), ma rimangono impellenti, nelle nuove generazioni, la ricerca del bilanciamento vita personale-tempo lavorativo, come evidenziato nella citazione precedente, e l’abbandono, non solo del “circuito ormai attivo senza soluzione di continuità: lavoro-salario-consumo”[11], appartenente all’immaginario novecentesco, ma anche l’evitamento del canto delle sirene, da cui il mondo cooperativo si crede erroneamente esente, rappresentato dall’hustle culture[12], l’atteggiamento che porta ad enfatizzare la centralità del lavoro, della produttività e del successo, anche a discapito del proprio benessere e di un equilibrio tra lavoro e spazi personali.
Si rende quindi necessario l’avvio di una riflessione, il cui risultato finale non potrà che essere una nuova ridefinizione di senso del lavoro cooperativo. Un’azione generativa che conduca ad una nuova forma di spazio/tempo che possa conciliare realizzazione ed autorealizzazione, vita personale e vita sociale, uno spazio di innovazione in cui essere e poter comunicare, che non si esaurisca in mezzo di sostentamento. Tale riflessione non può che trovare accoglienza all’interno di una impresa sociale il cui DNA parla da sempre di costruzione di senso, di significato e i cui lavoratori, siano essi soci o dipendenti dell’impresa, diventano parte attiva e fondante del successo dell’impresa stessa. Essi, vigilano perché la deriva mercantilistica non diventi prassi, connotando questo “controllo” di un affilato etico senza precedenti. La cooperativa, insomma, si presenta come
“un terreno istituzionalmente adatto per costruire quella mindfulness di cui sono alla ricerca lavoratrici e lavoratori oggi: questo concetto fa riferimento alla capacità di attingere a risorse individuali e collettive per fronteggiare la complessità dei contesti in cui si vive e si lavora e all’attivazione delle competenze di ciascuno e di tutti per operare in scenari mutevoli che possono essere un minimo governati solo con l’apporto di conoscenze e competenze di ogni lavoratrice e di ogni lavoratore coinvolto”[13].
Le imprese sociali, inoltre, portano avanti da anni una battaglia, di principio e sostanziale, volta a garantire a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori pari opportunità di crescita e pari equità salariale. La crescita non è intesa solo come “formazione professionale, ma anche crescita personale e relazionale”[14]. I lavoratori, infine,
“nella loro veste giuridica di dipendenti o soci dell’impresa, partecipano direttamente alla costruzione della cultura organizzativa, che si sviluppa negli organi di governo attraverso il confronto, anche il conflitto a volte, che però viene ricomposto proprio nel nome del maggior interesse generale che sancisce l’esistenza stessa delle attività dell’impresa. L’eticità e la coerenza della vita dell’impresa sociale è ciò che ne determina l’esistenza stessa. L’ecosistema locale esercita un costante controllo sull’impresa sociale. Si pensi ad esempio alla presenza di volontari o alla rete di fornitori spesso a km0: ogni comportamento non etico verrebbe conosciuto e sanzionato con rapidità, estromettendo l’impresa dal suo contesto e decretandone in qualche modo la probabile fine”[15].
“Generatività: è la preoccupazione di creare e dirigere una nuova generazione” (https://www.benecomune.net/rivista/rubriche/parole/generativita-sociale/)
Il concetto di generatività si fonda sulla necessità di "prendersi cura di ciò che va oltre sé stessi", un principio che si traduce nella formazione di chi, nel prossimo futuro, sarà capace di affrontare le sfide con consapevolezza e competenza.
Il progetto Vision Factory rappresenta un esempio concreto di generatività applicata all’ambito cooperativo e sociale: un processo in cui si trasmettono saperi, valori e visioni, per garantire la continuità e l’innovazione della cooperativa, ma allo stesso tempo un processo che implica la capacità di creare nuove possibilità e trasformare l’esistente con responsabilità, creatività e il coinvolgimento attivo delle risorse umane presenti al suo interno. Oggi, nell'organizzazione del lavoro sociale, questo significa saper coinvolgere i giovani operatori della cooperativa nella costruzione del "futuro", affidare loro un ruolo attivo nella progettazione significa riconoscerne il potenziale, motivarli e renderli partecipi di una visione condivisa. In questo modo, la crescita individuale e quella collettiva si intrecciano, creando un’organizzazione capace di evolvere e generare valore nel tempo.
La generatività, si traduce così in un percorso formativo e relazionale che ci prepara, futuri dirigenti o meno, a custodire e trasmettere un sapere condiviso. Ogni socio diventa così portatore di una visione, che prende forma nei servizi, negli uffici, nelle pratiche quotidiane, contribuendo alla qualità, alla continuità, alla coesione e alla crescita collettiva. In questo senso, chi partecipa alla Vision Factory si fa ponte tra esperienza e innovazione, tra passato e futuro. Questo processo non avviene in maniera individuale, ma si radica nel lavoro di gruppo e nella dimensione comunitaria dell’impresa sociale. La crescita individuale si intreccia con quella collettiva, dando forma a una comunità professionale che evolve grazie alla collaborazione, allo scambio continuo e al riconoscimento reciproco. Il gruppo diventa spazio di apprendimento e generazione di senso, in cui ciascuno contribuisce con la propria esperienza e le proprie competenze alla costruzione di un progetto comune.
“Comunità: dal latino commùnitas ‘società, partecipazione’, derivato di commùnis ‘che compie il suo incarico insieme’, derivato di munus ‘obbligo’, ma anche ‘dono’, col prefisso cum-” (https://unaparolaalgiorno.it/significato/comunita)
Nelle intenzioni di chi l'aula l’ha voluta e pensata, prima di tutto, c’era quella di investire nel capitale umano e sociale di una comunità. Seppur con una forma non consueta, poiché priva di un territorio di riferimento e forse non ancora in essere, possiamo intende il gruppo di lavoro costituto come una comunità in essere e in divenire: composta non solo da quella che potrebbe essere la governance del futuro, ma da tutti i soci della cooperativa. Accanto a ciò, si è dispiegata – per usare le parole di Andrea Volterrani - la consapevolezza della “capacità moltiplicativa di risorse che i processi partecipativi, reali e non meramente figurati, possono dispiegare”[16]. Proseguendo con questo ragionamento, il nuovo approccio a questa “comunità” si è basato su tre pilastri.
Il primo è consistito nel riconoscere la complessità e la forte differenziazione dei partecipanti, mediante l’implementazione di un modo di lavorare che potesse dirsi “olistico, includente e aperto all’inaspettato, che abbia come obiettivi l’incremento [...] della fiducia, delle relazioni e [...] della densità delle relazioni”[17]. Il secondo, ha messo al centro le persone e le relazioni. In tal senso, Volterrani sottolinea come sia importante facilitare una partecipazione reale e il racconto continuo e affascinante sugli sviluppi della comunità. Relativamente alla prima situazione, la facilitazione della partecipazione è stata arricchita dalla presenza di docenti rinomati che hanno reso l’aula protagonista attiva delle proprie azioni e non solo spettatrice. Il racconto, in questo caso condivisione con i soci, si è avvalso di momenti strutturati, quali l’assemblea di bilancio o di approfondimenti rispetto al succession plan all’interno del magazine della Cooperativa, a favore di una partecipazione condivisa alla transizione, una naturale evoluzione in grado di rafforzare la comunità e l’impresa stessa e non un’imposizione. Il terzo pilastro, garantire un empowerment della capacità di “lavorare sulla comunità immaginata attuale e sull’idea di futuro della comunità”, possiamo considerarlo il più pregnante poiché costituisce l’essenza del pensiero della Vision factory. Ogni step formativo dei due anni di corso ha visto dipanarsi un’analisi precisa e puntuale dell’as-is e, di conseguenza, un lavoro sul to be, che in questo caso non è soltanto il to be del futuro, quanto il to be della Cooperativa stessa.
Il lavoro di costruzione di questa comunità che vive nel già e non ancora è proseguito all’esterno dell’aula, dove si è reso facilitatore di relazioni e levatrice di partecipazione dei soci. Sono stati quindi organizzati tre incontri aperti ai lavoratori della Cooperativa, su base territoriale, finalizzati a incentivare una partecipazione “dal basso” nella costruzione dell’identità de Il Margine oggi. Gli appuntamenti sono stati condotti dai partecipanti al percorso formativo, con l’utilizzo di tecniche di facilitazione della partecipazione, ed alla presenza dei membri del Consiglio di amministrazione. Abbiamo così iniziato la costruzione dei ponti, costituendoci anello tra chi siamo tutti i giorni e chi siamo chiamati a diventare all’interno dell’aula della Vision.
“É bene ricordare che siamo sempre all’interno di processi sociali e non di obiettivi/progetti dove non possiamo/vogliamo/dobbiamo sapere gli esiti finali e le tempistiche. Processi che, come suggeriva Freire, partono dal basso per creare consapevolezza e coscientizzazione nelle comunità che poi, se vorranno, potranno prendere il proprio destino nelle loro mani”[18].
Ci interroghiamo costantemente se tutto ciò ci allontani da quel senso che tanto cerchiamo. Se allontanarsi dai servizi e dalle persone, se passare dal con al per, faccia perdere di valore e di intensità il nostro lavoro. Se rispondere alle logiche del mercato richieda necessariamente tendere ad una struttura aziendale, con un succession plan, a discapito della prossimità e della partecipazione. Se una trasformazione è possibile. Se saremo in grado. Perché noi? Ci chiediamo se sia davvero possibile crescere senza perdere la nostra natura. Se l’innovazione organizzativa possa convivere con l’accento sulla persona. Se la nuova generazione saprà portare avanti ciò che è stato costruito, se avremo il coraggio, e il diritto, di immaginare qualcosa di molto diverso. Se la governance può essere davvero condivisa o se rischia di restare parola. Se riusciremo ad essere attenti e sostenibili senza diventare performativi. Se il linguaggio dell’economia può veramente includere il linguaggio delle relazioni.
Ci domandiamo come custodire la cultura cooperativa, come fare spazio al dubbio e alla complessità in un tempo che chiede risposte veloci. Come tenere insieme l’identità e l’adattamento. Come non perdere il senso del noi, mentre cambiano i ruoli, le strutture, le relazioni.
Forse il nostro compito oggi non è trovare risposte definitive, ma abitare le domande, collettivamente. Interrogarci, lasciando che sia il dialogo tra le generazioni e tra le persone a costruire il futuro della nostra impresa sociale e a trovare un nuovo equilibrio.
Se sino a qui è stato descritto il percorso della Vision Factory, il successivo passaggio consiste nel ragionare su quali effetti sull’organizzazione esso sta producendo, pur nella consapevolezza che definire gli effetti di un percorso in atto e che implica la costruzione di piani trasformativi è, probabilmente, prematuro forse fuorviante o estremamente pionieristico.
Quanto descritto fino a ora ci ha portato a identificare con facilità nella nostra cooperativa non solo una realtà pronta alla sperimentazione per il proprio miglioramento, ma anche un contesto ideale per la prototipazione di nuove modalità utili a definire percorsi di crescita e di formazione da poter replicare e/o sperimentare nell’ambito cooperativo. Tale aspetto è diventato, infatti, tanto più importante in un momento in cui le cooperative sono chiamate a contribuire alle nuove sfide e opportunità che si stanno delineando all’orizzonte. Il dialogo costante e il processo di riflessività aziendale messo in atto, hanno permesso di identificare alcune aree di miglioramento della formazione, perché potesse fornire a socie e soci strumenti sempre più efficaci per sostenere un ruolo significativo nell’azione della cooperativa:
I cambiamenti seguono strani percorsi. Focalizzare quando iniziano non è semplice e molte volte non pare necessario. Sappiamo che ad un certo punto tante delle nostre parole stavano nel “Dopo di Noi” e che era importante cogliere questa istanza. Il bisogno di darle una forma è diventato così urgente per l’organizzazione (e per Noi) che ha attivato un processo interno, trasformandolo in delineazione di percorsi. L’inizio, quindi, è diventato una riflessione consapevole sulla necessità di offrire autenticamente e con fiducia ai soci e alle socie la possibilità di arrivare e accedere a tutti i luoghi della nostra cooperativa. E appropriarsene in un altro modo, anche per discuterli e cambiarli. Abbiamo raccontato il nostro modo di intendere il nostro lavoro; lo abbiamo anche difeso. Ma la nostra forza è la possibilità di pensare che possa essere diverso.
Ci siamo dette che per riflettere, però, sulla nostra organizzazione e permettere ad altri e ad altre di farlo non potessimo che affidarci anche a professionisti esterni all’organizzazione. Ci siamo confrontate con il mondo della cooperazione per raccogliere ulteriori spunti. Abbiamo provato a individuare obiettivi comuni, flessibili, formazioni partecipate; abbiamo definito un budget.
Questo ha degli effetti. Quando ci si mette nella condizione reale di ipotizzare cambiamenti poi questi arrivano. Dentro al Cda. Nell’Aula. In Cooperativa. E questo è stato l’inizio. Dirsi quello che volevamo tenere, concordare su quello che avremmo potuto lasciare. Decidere di rimanere nel luogo dove tutte le risposte non riuscivamo ad averle.
Il quadro metodologico che abbiamo utilizzato (nella fase iniziale solo il CdA, poi esteso all’Aula) risponde a uno specifico tipo di progettazione: il Systemic Design Framework lanciato dal Design Council di Londra nell'aprile 2021, sviluppato con l’obiettivo di aiutare i progettisti che lavorano su grandi sfide complesse la cui risposta implica il coinvolgimento di competenze e settori differenti. Tale framework pone le persone e il pianeta al centro della progettazione ed è facilmente applicabile alla progettazione non solo di servizi, ma anche di nuovi elementi, come le politiche. Parte da un approccio chiamato design thinking – ragionare da designer - perché offre strumenti utili a ragionare in maniera funzionale alle esigenze delle persone e della generazione di soluzioni che possano essere migliorate a partire da sperimentazioni veloci. E si evolve alla luce del design sistemico, andando a indagare relazioni e connessioni dei sistemi in cui le soluzioni si inseriscono per generare una trasformazione.
Il design thinking è un approccio interattivo (che si può ripetere anche richiedendo di passare da una fase all’altra in un ordine non sequenziale, ma funzionale al processo) e partecipativo (che coinvolge direttamente le persone per cui si progetta e le persone che portano le diverse competenze necessarie). Offre un quadro che sviluppa soluzioni adottando la prospettiva umana (valori, punti dolenti e opportunità offerte dall'evoluzione dei comportamenti) in ogni fase del processo. Il design sistemico pone il problema di come acquisire un punto di vista capace di trascendere la dimensione umano-centrica per progettare per un intero sistema, comprendendo come attivare le relazioni progettuali al suo interno e orchestrarne l'azione. Questo ampliamento di visione implica non solo la relazione tra i soggetti coinvolti ma anche quella con il tempo, portando la necessità di una visione di lungo periodo che possa rispondere ai tempi delle trasformazioni. Come suggerisce il sostantivo plurale, uno degli assiomi di base di questo approccio è che il futuro è ontologicamente multiplo e, soprattutto, non è ancora accaduto mentre viene studiato e può essere influenzato dalle azioni che compiamo nel presente. Moltiplicare i futuri implica la costruzione di strategie non semplicemente basate su una sequenza di azioni da compiere, ma aperte all'ascolto costante delle evoluzioni del contesto e pronte a cambiare rapidamente direzione in base alle necessità. Questo porta a dare un nuovo valore nei processi decisionali, al “rumore” e alle divergenze derivanti dalla pluralità (rispetto a parametri come il genere, l'età, l'etnia, l'istruzione). Questo approccio sperimentale nello sviluppo dei servizi e delle politiche mira a renderli sufficientemente flessibili per “cambiare facendo”, cioè per adattarsi continuamente in base agli stimoli raccolti mentre si agisce, superando così una certa rigidità di alcune architetture attuali che impediscono la rapidità degli interventi, un fattore sempre più decisivo per rispondere alle sfide in corso. Ciò che è solido, tuttavia, è la visione da perseguire. Abbiamo faticato a stare in questo modo di pensare.
Sono stati scelti, pensati, valutati, messi insieme. Abbiamo dovuto spiegare, condividere un percorso neanche ancora a noi chiarissimo; abbiamo dovuto escludere e ragionare sulla partecipazione degli esclusi. Lo abbiamo fatto con colloqui individuali in step diversi, provando a immaginarci degli scenari e invitando loro a farlo. L’obiettivo è stato dare forma a un gruppo di lavoro preparato a cogliere possibilità di crescita professionale e ricoprire ruoli di responsabilità, anche apicali, all'interno de Il Margine.
Consapevoli che ai cooperatori e cooperatrici che assumono il ruolo di manager nella propria organizzazione oggi è chiesto un salto di qualità che li conducano a unire la passione e lo slancio ideale a capacità gestionali e manageriali, abbiamo strutturato un percorso di formazione. Tale percorso si è modificato spesso. Abbiamo sostenuto reali spazi di condivisione con i docenti e le docenti. La partecipazione comporta un altro modo di controllare e monitorare cosa succede. Abbiamo dovuto impararlo. Il CdA prima di tutti. Poi la Direzione.
Abbiamo sostenuto la creazione di un gruppo numeroso che ha una prossimità rispetto alla cooperativa (anche nella occupazione degli ambienti fisici), cosa che è inusuale e attrattiva e che li rende vicini (la conoscenza non nasce perché si lavora negli stessi servizi, ma si sviluppa perché si riflette sulla comune cooperativa).
L’obiettivo: un gruppo maggiormente preparato che costruisce un ambiente abilitante dilatato, uno spazio di apprendimento innovativo, nel quale potersi sperimentare e strutturare. Gli “spazi” dei loro interventi sono cambiati espandendosi nei luoghi esistenti, ma anche in quelli futuri (dal concreto del loro servizio alla sfida di progettare servizi, ad ora inesistenti, in territori diversi).
A questo ha fatto riscontro anche il ruolo attribuito ai partecipanti alla Vision Factory nelle assemblee della cooperativa. Nell’assemblea del 2024 i partecipanti hanno illustrato il bilancio, nell’Assemblea 2025 presenteranno una riflessione sul bilancio e lo esporranno con un’analisi che si completerà con la restituzione del lavoro che gli incontri territoriali con i soci hanno fatto emergere.
Come si può pensare che con queste premesse ci potesse essere una parte del Margine che non sentisse l’effetto potente dell’Aula? I Visionari (perché così mi piace definire i componenti /e in aula) che interloquiscono con gli uffici amministrativi e del personale, non per ragionare su dati di servizi specifici, ma di tutta la cooperativa. Ricerche di linguaggi nuovi per costruire assemblee partecipate. Curiosità per rivestire cariche che richiedono di imparare mestieri diversi (forse).
L’obiettivo è di costruire (le cooperative hanno tante nascite) un civic center in grado di fare da volano alle esigenze della cooperativa e di dare impulso e sviluppo a istanze culturali, formative e sociali (l’uso dello spazio dell’Aula, i legami, le relazioni ma poi, anche il fuori, il ritorno nei servizi).
A fronte di bisogni organizzativi importanti in un momento nel quale il personale è mancante, abbiamo deciso di incaricare alcuni soci dell’aula di un ruolo formale. Perché includere i giovani nei ruoli decisionali può aumentare il senso di appartenenza e l’engagement, incentivando la partecipazione attiva alla vita cooperativa.
È quindi iniziata una riorganizzazione profonda, impegnativa, con resistenze interne in particolare dalle generazioni precedenti; ci siamo rese conto che il nostro tempo attuale e le nostre scelte richiedevano di “rifare le promesse” alla luce di questo momento dove le differenze nei valori, nelle aspettative e negli stili comunicativi tra generazioni possono generare incomprensioni e conflitti all’interno del gruppo dirigente.
E poi le preoccupazioni dell’Aula e la paura di andare a gestire e prendersi responsabilità diverse con le aspettative che l’istituzione della Vision ha creato. Dichiarare noi tutto questo. O provarci. E poi lavorarci quotidianamente con i colleghi. Mentre il welfare traballa, alla ricerca di nuovi equilibri.
Sostenere una cooperativa è possibile solo se le persone sanno fidarsi.
E La fiducia, come bene sociale, rappresentato dalla circolazione di fiducia nelle parole altrui, ricolloca in un orizzonte più ampio la dimensione degli incontri e dei legami. La fiducia reciproca è il fondamento della cooperazione sociale: perderebbe senso la promessa, l’idea stessa di patto; nessuna delle interazioni umane, o almeno nessuna delle più importanti e di quelle che fanno da sostegno a tutte le altre, potrebbe realizzarsi.
Fiducia, competenza, lavoro comune. Le persone della vision sanno riconoscersi perché rinnovano ogni momento di incontro il patto iniziale. Dove si può anche decidere di non stare più proprio per rispettare quel patto.
La fine del percorso di Vision il CDA non l’ha mai definita. L’Aula non l’ha mai chiesta. La Cooperativa non ha bisogno di deciderla: oggi pensa solo a tanti inizi.
Frigo R., (2024), Le cooperative alla prova del ricambio generazionale. Una ricerca di Confcooperative Federsolidarietà Veneto, in Impresa Sociale, 2/2024. https://rivistaimpresasociale.s3.amazonaws.com/uploads/magazine_article/attachment/405/06-2024-2.pdf
Santoro R., (2023), “Si vive una volta sola”. L’impresa sociale alla prova della “Great Resignation”, in Impresa Sociale, 1/2023. https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/si-vive-una-volta-sola-l-impresa-sociale-alla-prova-della-great-resignation
Venturi P., Baldazzini A., (2022), Il lavoro come opera, Aiccon Short paper, 25/2022. https://www.aiccon.it/wp-content/uploads/2022/07/Short-Paper-25.pdf
Volterrani A. (2021), Il ruolo del terzo settore nel futuro delle comunità, pubblicato online il 25 agosto 2021 https://fqts.org/2021/08/25/il-ruolo-del-terzo-settore-nel-futuro-delle-comunita/
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Weick K.E., (1997), Senso e significato nell'organizzazione. Alla ricerca delle ambiguità e delle contraddizioni nei processi organizzativi, Raffaello Cortina Editore, Milano.
[2] Santoro (2023), pagina 105
[3] Weick (1997)
[4] Contributo di Alessia M., partecipante della Vision Factory
[5] Frigo (2024).
[6] Venturi e Baldazzini (2022). https://www.aiccon.it/wp-content/uploads/2022/07/Short-Paper-25.pdf
[7] Contributo di Emiliano P., partecipante della Vision Factory.
[8] Frigo (2024), pagina 40.
[9] Contributo di Chiara R., partecipante della Vision Factory.
[10] Frigo (2024), pagina 39.
[11] Santoro (2023), pagina 103.
[12] Suggestione di Marco M., partecipante della Vision Factory
[13] Santoro (2023), pagina 104.
[14] Contributo di Simone P., partecipante della Vision Factory.
[15] Santoro (2023), pagina 104.
[16] Volterrani (2021).
[17] Volterrani (2021).
[18] Volterrani (2021).
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