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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2023

Saggi

Prove di futuro: le intuizioni di Adriano Olivetti

Beniamino de' Liguori Carino, Gianluca Salvatori


A più di mezzo secolo dalla sua morte, ma forse adesso più di allora, la figura di Adriano Olivetti produce ancora un’irresistibile voglia di conoscerne la storia, di indagarne l’enigmatica personalità, di far emergere con chiarezza gli elementi di modernità e originalità di quella vicenda. Siamo spinti a riconoscere nell’esperienza olivettiana un modello, e questo è ancora più vero per le ultime generazioni, che s’interrogano sul proprio futuro.

L’interesse per Adriano Olivetti non si è mai spento del tutto, ma per decenni è rimasto in quella sorta di limbo in cui spesso sostano le vicende umane più complesse, quasi fossero in attesa di un giudizio che possa finalmente consegnare al mondo la loro chiave di lettura. Una chiave di lettura univoca per tutto ciò che Adriano Olivetti è stato e ha rappresentato non c’è, e difficilmente ci sarà anche in futuro. C’è però, e si fa sempre più pressante e diffusa, un’esigenza di rinnovamento, e soprattutto di ridefinizione dell’idea di progresso, di finalità dell’impresa, di funzione dell’attività economica, che Olivetti fu forse tra i primi a cogliere, in anticipo sui suoi tempi e forse anche sui nostri. È per questo che anche a distanza di così tanti anni, in molti trovano nelle idee e nell’azione di Adriano Olivetti la visione suggestiva di un mondo nuovo, costruito attorno all’identità tra progresso materiale, efficienza tecnica, primato della cultura ed etica della responsabilità.

L’attenzione per la sua figura travalica un interesse puramente biografico e nasce dall’esigenza di una riflessione critica sulle strade percorse dallo sviluppo delle nostre società in questi decenni. A quella vicenda si guarda, in particolare, come alternativa al determinismo che ha dominato il concetto di impresa nella lunga stagione in cui è prevalso l’interesse esclusivo per una componente – la ricerca del massimo profitto – rispetto a ogni altro scopo. È il richiamo esercitato da una visione che è stata emarginata e tuttavia oggi torna come esigenza incomprimibile, riassunta bene da una delle citazioni più icastiche di Adriano Olivetti: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”

Parole pronunciate all’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, nel 1955. Dove il riferimento alla fabbrica in termini di “destinazione, vocazione” lasciava intendere molto non solo del modo in cui un imprenditore del Canavese concepiva lo sviluppo industriale in una regione meridionale, ma più in generale di come concepisse la fabbrica non solo come investimento produttivo ma come progetto culturale e sociale. Pensato come elemento di un disegno rivolto a trasmettere ad una comunità il messaggio di un futuro possibile, inteso come progresso civile e non solo economico. Secondo una visione integrale da cui dipendeva una coerenza tra tutte le componenti dell’iniziativa imprenditoriale: dal contenuto tecnologico alla formazione dei tecnici, dalla politica salariale alla qualità dei servizi per i dipendenti e le loro famiglie. Fino, aspetto per nulla secondario, alla progettazione degli ambienti di lavoro, alla quale Adriano Olivetti ha dedicato un’attenzione non comune per quei tempi. Lo stabilimento di Pozzuoli nasce di fronte al golfo come esempio di architettura moderna integrata nel panorama naturale. L’intenzione esplicita è quella di rendere “la bellezza di conforto nel lavoro di ogni giorno”. La fabbrica è concepita “alla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza”.

Lo stabilimento di Pozzuoli non è un caso isolato. Nel 2018 l’intero complesso industriale di Ivrea è stato riconosciuto dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Non per sancire la necessità di tutelare un bene di archeologia industriale, quanto piuttosto per sottolineare l’unicità di un sito che esprime insieme valori materiali e valori immateriali. Infatti, l'Unesco ha riconosciuto che le architetture olivettiane di Ivrea, ovvero il complesso di edifici destinati alla produzione, ai servizi sociali e alle residenze, sono di fatto la testimonianza, ancora oggi visibile, di un'idea nuova di società, una società che per Adriano Olivetti andava “al di là del capitalismo e del socialismo”. Cogliendo così l’essenza di una visione in cui l’impresa è legata costitutivamente alla sua funzione sociale, e la responsabilità sociale non è un’appendice compensativa ma la ragione stessa che ne motiva l’attività. In questo senso, l'esperienza di Adriano Olivetti ha un valore politico e sociale che è capace di parlare anche ai nostri giorni perché va dritta al nucleo di questioni che restano in gran parte irrisolte (ed anzi ritornano, ancor più aggravate, dopo un lungo predominio dell’idea che l’impresa fosse responsabile prevalentemente, se non esclusivamente, nei confronti dell’investitore).

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Quella di Olivetti è la storia di un grande successo industriale che ha saputo andare oltre la dimensione aziendale e puramente commerciale, proprio perché fin dall’inizio ha avuto l’ambizione di essere qualcosa di più grande. Alle questioni che il realizzarsi della civiltà industriale imponeva, alla domanda su come fare a essere tecnicamente progrediti senza per questo essere interiormente imbarbariti, la via olivettiana affermava, infatti, la convergenza tra interesse morale e interesse materiale.

È un’ambizione che esisteva già nel padre di Adriano Olivetti, Camillo, che fonda nel 1908 la “Prima fabbrica italiana macchine per scrivere”, nota ancora oggi a Ivrea come “la Fabbrica di mattoni rossi”. Camillo era un ingegnere elettrico ed era stato assistente di Galileo Ferraris all'università, con lui era andato in America, aveva visitato l'Esposizione universale di Chicago, poi aveva studiato ed era rimasto a insegnare a Stanford. Rientrato in Italia fonda la sua fabbrica e compra alle spalle dell’edificio un convento dove andrà ad abitare con la sua famiglia. Il convento ancora oggi è al centro del paesaggio industriale riconosciuto come patrimonio dell'umanità. E questa dimensione, il presidio del mondo spirituale e religioso all'interno di uno dei progetti più straordinari di modernizzazione industriale, è fondamentale per capire la continua ricerca di Adriano Olivetti di conciliare il mondo spirituale con il mondo materiale. La radice di questa conciliazione – difficile ma possibile, e per tutti necessaria – si intravede chiaramente già negli insegnamenti di Camillo Olivetti al figlio Adriano. Personalità fortemente laica, Camillo trasmette però fin da piccolo ad Adriano l’idea della sacralità del lavoro. A tredici anni lo manda a fare una prima esperienza in fabbrica, come operaio semplice, e gli propone costantemente come esempio il suo stretto rapporto con gli operai, che formava personalmente sulle questioni tecniche e di progettazione. Nel 1932 Camillo lascia la fabbrica ad Adriano, conservando per sé solo un piccolo laboratorio per costruire gli strumenti con cui si realizzavano le macchine per scrivere, e dà al figlio un solo imperativo, una sola raccomandazione: “Adriano fai qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per l'introduzione dei nuovi metodi. La disoccupazione involontaria è la peggiore disgrazia che possa capitare a un essere umano”.

È a partire da questa radice che la storia industriale e la storia culturale di Olivetti si trasformano in una visione comunitaria della quale ancora oggi è possibile, per contrapposizione, avvertire l’urgente necessità. Adriano, infatti, avrà una diversa idea di fabbrica e di impresa – più grande, più ambiziosa, più rivolta al futuro – ma sarà anche sempre cosciente dell’imprescindibile necessità di non perdere la dimensione umana del lavoro, ovvero la dimensione che rende un’impresa davvero sostenibile, e nel suo caso anche l’elemento che ne determina il successo.

Tutto questo si riflette nelle architetture di Ivrea. È bene ribadirlo, per chiarire come la visione olivettiana non fosse solo un innovativo manifesto intellettuale, ma il motore di una azione trasformativa che permeava ogni dimensione della vita aziendale, arrivando a plasmarne persino l’apparenza materiale. Un aspetto che ancora oggi colpisce chi per la prima volta arriva a visitare questo complesso industriale, è che gli edifici non hanno quasi mai recinzioni, sono completamente integrati nel territorio, e così anche i servizi sociali messi a disposizione dalla Olivetti e destinati a tutta la comunità degli abitanti del territorio. In particolare, dal punto di vista sanitario, la Olivetti negli anni Cinquanta offriva una qualità molto più elevata rispetto a quella che era in grado di offrire il settore pubblico, ma a rendere unici i servizi sociali dell’azienda era l’attenzione rivolta a ogni aspetto della vita di operai e dipendenti, come nel caso del congedo di maternità, che Adriano Olivetti introduce nel 1945 a parità di salario, per nove mesi. Questa la motivazione: «Nessuna lavoratrice che sia madre deve mai vedere con invidia e con dolore quelle madri che hanno la gioia di tenere in casa i primi mesi di vita il loro bambino» (Adriano Olivetti, Città dell’Uomo).

Accanto al lavoro inteso come attività elevata e sacra dell’uomo, e accanto all’attenzione per la persona umana, di grande importanza è anche la parola “comunità”, cui Olivetti si premurava quasi sempre di accostare l’aggettivo “concreta”. L’ideale comunitario è fondamentale per comprendere la prospettiva più ampia nella quale si sono sempre collocate le decisioni che Adriano Olivetti ha preso come imprenditore, politico, urbanista, editore o scrittore. Scrive:

La nostra Comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una Comunità né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori. Una comunità troppo piccola è incapace di permettere uno sviluppo sufficiente dell’uomo e della comunità stessa; all’opposto, le grandi metropoli nelle forme concentrate e monopolistiche atomizzano l’uomo e lo depersonalizzano: fra le due si trova l’optimum (Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità).

Impossibile non vedere qui, sullo sfondo, l’eco della stagione del personalismo comunitario che tra le due guerre – a partire soprattutto dagli scritti del pensatore francese Emmanuel Mounier, tradotto in Italia proprio da Olivetti con le sue Edizioni di Comunità già nel 1949 – aveva innervato la riflessione sulle forme di un impegno politico e culturale che prendeva le mosse dal riconoscimento della centralità della persona nella sua dimensione sociale. In quanto soggetto che, essendo appunto “persona” e non “individuo”, è destinato a esprimersi in una dimensione comunitaria senza però dissolversi in essa. Il personalismo comunitario nacque su radici che combinavano elementi del pensiero cattolico e del pensiero laico, da una reazione alla polarizzazione tra liberalismo individualistico, che già aveva cominciato a mostrare la sua azione erosiva nei confronti delle fondamenta delle forme tradizionali di socialità, e i collettivismi dei regimi autoritari allora in pieno sviluppo. Questa posizione rimase minoritaria, in una condizione di resistenza intellettuale e testimonianza, fino a quando i suoi semi poterono germogliare al ritorno della democrazia nei paesi vittime del totalitarismo. Fu il caso dell’Italia, dove le tracce di quella filosofia sono ben visibili nei lavori dell’assemblea costituzionale. Ma nel caso di Olivetti il personalismo comunitario non resta a livello di principi del pensiero politico. L’originalità della sua esperienza sta nel trasferirla dentro l’impresa, nei concetti e nelle pratiche della vita aziendale, e da qui farla rifluire verso l’ambiente esterno, nella comunità e tra i soggetti del territorio, senza soluzioni di continuità. L’approccio olivettiano nasce dalla fabbrica e solo successivamente diventa programma politico – anche proprio nel senso della fondazione di un partito, il “Movimento Comunità”, che tuttavia finirà per scontrarsi con un contesto nazionale ancora troppo polarizzato per lasciare spazio ad una proposta difficilmente collocabile all’interno degli opposti schieramenti. Si può anzi dire che la proiezione nell’agone politico fu la parte più debole del progetto olivettiano. Per quanto animato da una passione politica che lo aveva visto, più giovane, impegnarsi attivamente come oppositore del regime fascista (con Rosselli, Parri e Pertini contribuì alla liberazione di Filippo Turati, e la sua posizione antifascista gli valse un periodo di esilio in Svizzera) non fu nelle istituzioni politiche che riuscì ad esprimere la sua visione comunitaria. Da outsider della “politique politicienne”, il suo contributo più originale fu quello di concepire l’azione politica come tutt’uno con l’azione economico-imprenditoriale, entrambe collocate in una dimensione territoriale la cui unità di base era identificata con comunità culturalmente omogenee ed economicamente autonome, come scrisse nel 1945 nel suo L'ordine politico delle Comunità. Alla base c’è un’idea forte di sussidiarietà: il governo politico deve poggiare sull’autonomia dei territori e sulle risorse, anche imprenditoriali, che questi contengono. L’impresa agisce sempre dentro una comunità, ed è la comunità l’attore dell’iniziativa politica.

La vicenda olivettiana e, in particolare, l’insieme delle iniziative sociali, culturali e politiche suscitate e coordinate da Adriano, sono state oggetto di un processo di espulsione prima e rimozione poi dall’orizzonte della narrazione del Paese, abbastanza incredibile se si pensa alla dimensione e all’importanza raggiunta dall’azienda Olivetti nella seconda metà del Novecento e al ruolo avuto da Olivetti, Adriano, nella cultura italiana del dopoguerra, un ruolo che finalmente, grazie alla letteratura che si sta raccogliendo, appare sempre più chiaro nella dimensione, assai trasversale (dall’urbanistica alle scienze sociali, dalla lettere alle arti visive), e nella qualità. Tra i più grandi equivoci attraverso i quali si è neutralizzata la natura terza dell’esperienza olivettiana rispetto il dualismo conflittuale capitale – lavoro degli anni Cinquanta, ci sono stati quello della filantropia e quello del paternalismo. Ovvero che, nel migliore dei casi, Olivetti fosse un nuovo San Francesco il quale, con una certa dose di ingenuità peraltro, decideva di diminuire i profitti e spogliarsi dei propri beni, determinando negativamente la tenuta finanziaria della sua stessa azienda; e nel più deteriore, che la forma di dominio esercitata da Olivetti sulle masse operaie fosse paradossalmente più subdola di quelle esplicitamente espresse, come alla FIAT per intenderci, perché con il miglioramento delle condizioni generali del lavoro, di fatto, si eliminava qualunque forma di conflitto necessario al sovvertimento del sistema.  Ora, è possibile che all’epoca fosse assai complicato districarsi da questa logica binaria, ma oggi, che questo equivoco talvolta ancora abita alcuni osservatori distratti, sarebbe opportuno utilizzare la parola sintesi, che è quella che meglio descrive il tentativo olivettiano di costruire una terza via efficace.  Ma è l’orizzonte politico che sottende tutta l’opera di Olivetti, il progetto di riforma integrale della società, a partire ovviamente dalle fabbriche, che dovrebbe indurre a smarcare la sua vicenda dal paternalismo o da altri mimetismi. Soprattutto, basterebbe studiare le opere di Olivetti (L’Ordine politico delle Comunità, 1946; Società, Stato, Comunità, 1952; Città dell’uomo, 1959) per capire quanto questo equivoco sia smentito non solo dalla storiografia recente, ma soprattutto dalle parole dello stesso Olivetti, se questi venisse letto almeno quanto viene citato.

Pensare la fabbrica - e di conseguenza il ruolo all’interno di essa di tutte le sue componenti, dal capitale al lavoro, dalla competenza manageriale a quella tecnologica - come parte integrante di qualcosa di più ampio – di una comunità appunto, che deve esprimere valori spirituali prima ancora che profitti materiali e permettere così un pieno sviluppo di tutte le persone che ne fanno parte – è sempre rimasto il primo e più importante principio che ha animato l’esperienza storica e imprenditoriale della Olivetti, e che si è poi sviluppata seguendo alcune direttrici individuabili nei concetti di progresso, competenza, formazione, cultura.

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Per parlare di progresso è utile ricordare gli anni dello sviluppo dell’elettronica, ovvero quella che è stata forse l’ultima grande stagione della Olivetti (e non solo, nel panorama tecnologico italiano). La realizzazione nel 1959 dell’Elea 9003, il primo calcolatore italiano, e nel 1965 del primo personal computer, la famosa P101, sono stati infatti due momenti simbolo animati da una chiara idea di progresso sia tecnologico sia umano. La persona rimane infatti sempre al centro per Olivetti, anche e soprattutto quando si occupa di questioni relative alla tecnica e alla tecnologia, che possono essere tanto a servizio dell’umanità, quanto determinarne la distruzione. Nel 1965 – cinque anni dopo la morte di Adriano – la Olivetti lancia sul mercato americano la P101, il primo calcolatore da tavolo al mondo, che tra i suoi tanti utilizzi fu adoperato anche dalla NASA per andare sulla Luna, dimostrando nei fatti che progettare a misura d’uomo è ciò che permette all’umanità di giungere a mete prima ritenute inarrivabili. È, di nuovo, l’approccio “umanista” allo sviluppo tecnologico a rendere differente la traiettoria aziendale dell’Olivetti negli anni di Adriano. In una spinta a far convergere gli obiettivi e i ritmi della modernizzazione, appresi attraverso la familiarità con il modello imprenditoriale americano, con l’esigenza di non rinunciare allo spirito di una civiltà accumulatasi nel tempo e radicata nel senso esperienziale di luoghi abitati da comunità di persone.  

È importante notare infatti come dietro questi due grandi progetti, l’Elea e la P101, ci sia stato un gruppo di persone che avevano interiorizzato, con modi e sensibilità differenti, la prospettiva “comunitaria” nella quale dovevano collocarsi i risultati del proprio lavoro. È su questa impostazione che si innesta il valore aggiunto della competenza, altra parola alla quale Adriano Olivetti ha saputo dare un significato tutt’altro che retorico o scontato. Anche in questo caso la sua riflessione, tradotta poi in azione, nasce dall’esperienza paterna, per poi discostarsene. I primi operai della fabbrica di Camillo Olivetti erano stati in larga parte istruiti da Camillo stesso, e avevano poi dimostrato, e in molti casi saputo approfondire, le proprie competenze sul campo. Adriano descrive così la situazione della fabbrica nel cruciale momento in cui comincia a immaginarne una nuova gestione:

L’ambiente in cui mi trovai, a 25 anni, ad affrontare il problema difficile e complesso di trasformare una industria fondata su sistemi semi-artigianali in una impresa di più grandi dimensioni e modernamente intesa, era largamente dominato dalla figura originalissima di mio padre e della piccola città dove eravamo nati (…) Molti dei capi alla cui coraggiosa iniziativa si deve il nascere dell’industria moderna furono del suo tipo: dominatore, accentratore, scarsamente capace di utilizzare le altrui esperienze. (…) In quel tempo regnava nella fabbrica una atmosfera di pace e di armonia fra capi e personale. Molti anni più tardi, compresi quanto era difficile riprodurre quell’atmosfera in mutate circostanze storiche e in dimensioni dieci volte più grandi. (Adriano Olivetti, Il mondo che nasce)

È una riflessione che ha il coraggio di evidenziare i difetti dell’impostazione paterna, che pure aveva raggiunto risultati straordinari, ma anche quello di osare immaginare qualcosa di più. E come sempre trapelano anche parole come “pace” o “armonia”, che apparentemente non hanno nulla a che fare con i problemi di gestione o con le considerazioni sulla produttività, ma entrano quasi naturalmente nel discorso, a delimitare l’ideale confine entro il quale qualsiasi possibile evoluzione della fabbrica deve avere luogo.

L’evoluzione che Adriano ha in mente passa necessariamente per un diverso tipo di competenza, quella dei laureati con “cento e lode” che comincia a introdurre in azienda. La prospettiva però non è tanto quella di una sostituzione, quanto di una fondamentale integrazione. Uno dei grandi punti di forza della Olivetti è stata infatti la capacità di comprendere e valorizzare competenze di origine differente, cercando un’armonia tra di esse. Ne è un esempio la vicenda di Natale Capellaro, giovane operaio assunto da Camillo Olivetti e assegnato alla catena di montaggio, divenuto poi con Adriano responsabile dell’Ufficio Progetti. Dal suo talento naturale, e dalla capacità di Adriano Olivetti di riconoscerlo, nascerà uno dei più grandi successi dell’azienda, la calcolatrice Divisumma. Alla base di tutto questo c’è quindi un’idea di competenza priva di pregiudizi, dinamica e aperta, che permetterà a Olivetti di dire in un’intervista, senza alcuna remora né timore di contraddizione – e ancora una volta con grande coraggio – che “il nostro migliore progettista è uno che ha fatto la terza elementare”.

La storia di Natale Capellaro potrebbe erroneamente far credere che Adriano Olivetti privilegiasse il talento naturale a discapito della formazione. Non è così, perché sebbene la Olivetti fosse un’azienda capace di riconoscere e valorizzare le capacità del singolo, era anche un ambiente che promuoveva e incoraggiava la formazione a tutti i livelli. Dall’introduzione delle biblioteche di fabbrica all’istituzione di vere e proprie scuole, per operai e per dirigenti, Adriano ha sempre dimostrato di credere nella formazione come strumento fondamentale di sviluppo e miglioramento, umano ancora prima che aziendale. L’aspetto più notevole sotto questo punto di vista è che la categoria che a suo parere aveva più bisogno di una formazione attenta e specifica fosse quella dei dirigenti. In diverse occasioni Olivetti ha lamentato l’assenza in Italia di una “cultura dei manager” paragonabile a quella che aveva potuto conoscere negli Stati Uniti o in altri paesi europei, e nelle sue parole si intravede in controluce l’idea tutta moderna della “formazione continua”, anche e soprattutto per chi in un’azienda ricopre ruoli apicali. Ma l’introduzione del principio della formazione dei dirigenti non prese mai le forme stereotipate di una business administration svincolata dal senso di complessità e flessibilità che l’idea di un’“impresa umanista” comportava. La Olivetti fu una vera e propria scuola di management senza l’uniformità del modello MBA. Dalle sue fila uscì una classe dirigente che finì per fertilizzare non solo molte altre aziende, ma anche settori diversi da quello industriale. La fabbrica fu il luogo in cui si incontrarono personalità del mondo della cultura, dell’arte, del design, con una contaminazione vera tra formazioni e approcci diversi. Basti ricordare che in Olivetti lavorarono sociologi, architetti, scrittori, scienziati della politica e dell'organizzazione industriale, psicologi del lavoro. Tra questi: Franco Momigliano, Paolo Volponi, Geno Pampaloni, Luciano Gallino, Franco Fortini, Bruno Zevi, Ottiero Ottieri, Luciano Foà, Furio Colombo, Franco Ferrarotti, Tiziano Terzani. Non ci sono altri esempi nella storia delle imprese italiane che possano anche lontanamente essere accostati alla fertilità culturale della Olivetti nei suoi anni d’oro.

Per restare nell’ambito dell’attivismo intellettuale, una tra le tante traiettorie dell’azione di Olivetti, ancora non del tutto percorsa è quella che porta nel Sud Italia dove Olivetti, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, opera attraverso molteplici ruoli: quello di imprenditore, con l’apertura della fabbrica Olivetti a Pozzuoli nel 1955; quello di vice Presidente dell’UNRRA Casas e di Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica con la realizzazione del progetto del Borgo La Martella, a Matera; quello di editore, con le inchieste pubblicate sulla rivista «Comunità», su tutte quelle di Ignazio Silone, Carlo Doglio, Riccardo Musatti, e il filone di studi meridionalisti che trovano ospitalità sulla stessa rivista e nel catalogo della casa editrice omonima, oltre che nell’edizione della rivista «Basilicata» e di «Internationa Community Development»; e infine, quello di imprenditore culturale, diremmo così, con la creazione del CEPAS, la scuola di assistenti sociali diretta da Angela Zucconi che parte da Ivrea per arrivare a Matera, attraversando il Lazio (le comunità dei Pescatori di Terracina), la Sardegna e soprattutto l’Abruzzo, dove nel 1958 viene avviato un progetto pilota di sviluppo comunitario patrocinato dall’Unesco.  L’azione di Olivetti nel Mezzogiorno replica il complesso schema organico tra impresa, urbanistica, cultura, politica attuato parallelamente avanti in quello che può essere definito come il laboratorio eletto, ovvero Ivrea.  Ed è proprio sulle pagine di «Comunità», nel 1955, che Olivetti postula la sua idea per lo sviluppo del Sud Italia negli interventi Un piano organico per l’industrializzazione del Mezzogiorno e Per una pianificazione democratica del Mezzogiorno dove in dividua le cause dell’arretratezza dei piani di sviluppo prevalentemente in ragioni elettorali, e definendo l’idea che l’innesto in alcune aree del mezzogiorno di sacche di alti salari e scuole di pianificazione per dirigenti locali, oltre che l’implementazione di istituti professionali e d’arte, possa guidare il Sud verso uno sviluppo autentico. Insomma, Olivetti ritiene che il problema non è semplicemente quello di una redistribuzione della ricchezza trasferendo nel Mezzogiorno capitali del Nord, né è semplicemente quello di «provvedere a uomini, borghi e paesi troppo a lungo dimenticati»; il problema del Sud è quello di una visione politica originale e moderna che «postuli organismi e metodi di tipo nuovo, nell’impostazione di un’articolata politica di insediamenti urbanistici, nella progettazione e istituzione di strumenti democratici di controllo e propulsione delle iniziative economicamente produttive».  Senza dimenticare, coerentemente con tutta l’esperienza di pensiero e di azione di Olivetti, e del suo lessico, che l’industrializzazione è da considerarsi un mezzo «senza dimenticare il fine: la promozione di una civiltà fondata sull’armonia dei valori, sul rispetto delle libertà democratiche, sull’autonomia della persona».                                 

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Adriano Olivetti muore nel 1960, quando la Olivetti aveva più di 36 mila dipendenti, di cui oltre la metà all’estero, e poteva contare su una leadership riconosciuta in un settore industriale di punta. Fu una morte improvvisa, che interruppe all’istante il progetto di riforma imprenditoriale, sociale, politica di Adriano. La sua scomparsa fu talmente inattesa che non erano stati previsti o organizzati dei piani per la successione. E la sua impegnativa eredità cominciò presto ad andare dispersa, perché non trovò chi potesse farsene carico replicandone la stessa ampiezza e profondità di vedute. La storia successiva non sarà qui trattata, ma è difficile negare che gli anni di Adriano furono unici e irripetibili. Dopo di lui le vicende dell’azienda finirono progressivamente per perdere la loro originalità e vennero ricondotte nell’ambito della più comune storia industriale italiana, con gli esiti che conosciamo. Oggi di quella Olivetti non esiste più nulla, se non la memoria di un sistema di valori e di una cultura radicata, e profondamente condivisa, che ne permeava tutte le decisioni e le azioni.

Il rischio che questa memoria cada nella commemorazione nostalgica è concreto. Eppure, la vicenda di Olivetti dovrebbe fornire lo spunto per una riflessione rivolta al presente e al futuro, più che al passato. La ricostruzione storica dovrebbe stimolare un pensiero vivo sugli elementi che oggi possono aiutarci ad affrontare la contemporaneità e i suoi problemi. Se parliamo ancora di Olivetti è perché sentiamo che nella sua esperienza c’è una lezione che può ancora guidarci.

Intanto, sulla funzione dell’impresa. L’idea innaturale che l’impresa debba servire (e remunerare) solo un tipo di interesse, quello di chi rischia le proprie risorse finanziarie, sta tornando in discussione dopo aver attraversato vittoriosa buona parte degli ultimi cinquant’anni. Torna – sia pure con la pretesa di essere un’idea nuova di zecca – la questione dello scopo dell’impresa, anche se ora viene declinato in purpose, altrimenti non sembra abbastanza originale. E con essa, la teoria secondo cui l’impresa debba servire una pluralità di stakeholder. La critica del dominio incontrastato dello shareholder, e delle sue conseguenze in termini di sviamento neoliberista del ruolo dell’impresa, e la tesi per cui la dimensione sociale non può essere marginalizzata all’interno delle pratiche della corporate social responsibility non è più la stravaganza eterodossa di qualche studioso progressista. Adriano Olivetti si sentirebbe in sintonia con questa presa di distanza da una visione monodimensionale dell’impresa come orientata solo al profitto e si potrebbe prendere qualche soddisfazione nel vedere il declino della dottrina Friedman, secondo il quale: ‘the social responsibility of business is to increase its profits’.

Così come probabilmente sarebbe a suo agio con l’osservazione che il rapporto tra impresa e società non può essere risolto con la mitizzazione del giving back. Olivetti non era un filantropo quanto piuttosto un riformatore sociale. Intendeva agire sulle strutture causali e non solo sugli effetti. Il suo scopo era cambiare il modo di fare impresa, di concepire il lavoro, di operare al servizio della comunità. La sua era una visione olistica, che concepiva il miglioramento delle condizioni di vita delle persone come un obiettivo da affrontare con soluzioni integrate (e quindi anche politico-istituzionali). La logica non era quella di una filantropia della restituzione, che si guarda dall’intervenire sui meccanismi che alimentano la disuguaglianza. Al centro dell’azione c’è la comunità, non l’imprenditore illuminato. E questo tratto del pensiero olivettiano è tanto più significativo in quanto egli conosceva bene il modello americano dell’accumulo di grandi ricchezze, considerate come il risultato di un eccezionale merito individuale, seguito da una restituzione filantropica su base puramente volontaria e guidata dal generoso intuito del singolo imprenditore. Lo conosceva e lo evitava. E la sobrietà del suo stile di vita era solo un ulteriore tassello di una propensione a considerare la ricchezza non un fine bensì un mezzo, che doveva servire a realizzare gli obiettivi umanistici dell’impresa anziché essere riservato ad elargizioni successive per “compensare” delle pratiche imprenditoriali assai poco sostenibili e responsabili.

Perché, appunto, al centro del suo pensiero stava la comunità e non l’individuo. E questo è un altro elemento d’attualità della visione olivettiana. In quanto si pone in sintonia con il nuovo bisogno di relazioni che emerge dalla consapevolezza che occorre rimediare agli effetti della stagione dell’individualizzazione estrema e della frammentazione disgregatrice del corpo sociale. Per quanto oggi il concetto di comunità sia da usare con delle attenzioni sconosciute ad Adriano, per evitarne possibili declinazioni difensive e sovraniste, è evidente infatti come si ponga la questione di rifondare un nuovo senso di socialità. L’incrocio tra le molte componenti che animano la visione di Olivetti – funzione sociale dell’impresa, centralità della persona, ruolo della comunità, valore della formazione e della cultura, impegno per la solidarietà – indicano una prospettiva ancora piena di potenzialità e significato per i nostri tempi. Anche questa è una lezione che merita di essere ripresa.

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C’è infine un ultimo aspetto che vale la pena menzionare in questa breve riflessione sull’attualizzazione dell’eredità olivettiana. Il giorno della sua morte, sul treno che lo conduceva da Milano a Losanna, Adriano Olivetti aveva con sé tra i documenti su cui stava lavorando un progetto per il trasferimento della proprietà della Olivetti. L’idea era di costituire una fondazione e intestarle il controllo della società, così da garantire la continuità tanto della gestione aziendale quanto del sistema valoriale e della visione culturale. Si sarebbe trattato di una soluzione del tutto innovativa per l’Italia. Se il progetto fosse andato in porto probabilmente avrebbe sottratto l’azienda alle vicissitudini che negli anni successivi ne avrebbero provocato il declino e la fine. La forma fondazionale - presente solo in pochissimi paesi, tra cui soprattutto la Germania del modello renano di un’economia sociale di mercato – ha infatti il fine di preservare nel tempo la missione e di mettere al riparo la proprietà dell’impresa dalle incertezze della contendibilità di mercato, riconoscendone al tempo stesso la funzione sociale.

Il progetto di trasformazione proprietaria della Olivetti è tra quelli che meglio possono aiutare a costruire una visione solida della distanza tra Olivetti e la sgradevole accusa di paternalismo. La Fondazione Proprietaria, ovvero la trasformazione della natura giuridica e della proprietà della Olivetti è il progetto più visionario di Olivetti, quello non realizzato perché stroncato dalla morte improvvisa di Adriano nel 1960.

Già nel 1952, nello scritto L’Industria nell’ordine delle Comunità antologizzato in Società, Stato, Comunità, Olivetti aveva iniziato a prefigurare il progetto che lo impegnò in modo più maturo e strutturato nell’ultimo biennio della sua vita. In quell’occasione scrive che «il bene comune nell’industria è una funzione complessa di: interessi individuali e diretti dei partecipanti al lavoro; interessi spirituali solidaristici e sociali indiretti dei medesimi; interessi dell’ambiente immediatamente vicino, che trae ragion di vita e di sviluppo dal progredire dell’industria; interessi del territorio immediatamente limitrofo». Olivetti, infatti, intendeva la fabbrica non solo come un luogo produttivo ma come il luogo essenziale per la vita della comunità che attorno alla fabbrica gravitava grazie ai servizi che questa distribuiva, da quelli assistenziali a quelli culturali, gli assegnava la funzione di organizzatore sociale.

Da qui la proposta di socializzazione dell’impresa, nella quale sia rappresentata la Comunità, ovvero quell’organismo di sintesi dove vivono tutte le forze che compongono la società: «La Comunità possiede una parte del capitale azionario delle grandi e medie fabbriche, ne nomina taluni dei dirigenti principali, provvede al trasferimento di azioni industriali, compra e vende terreni e proprietà̀ in relazione alle necessità di sviluppo tecnico o perfezionamento sociale della Comunità, provvede all’istruzione elementare e professionale, assiste lo sviluppo dell’artigianato e del turismo. Feconda di trasformazioni sociali ed economiche importanti e capace di flessibili applicazioni, appare l’introduzione del concetto di Comunità concreta nel dominio dell’agricoltura. Qui la Comunità potrà esercitare infatti una diretta influenza nella creazione di una multiforme struttura cooperativa dell’economia agricola, dove ciascun elemento potrà essere federato in autonome organizzazioni regionali». Come scritto, a questa prefigurazione Olivetti lavora in un incessante meccanismo di ipotesi e sperimentazioni, lungo tutti gli anni Cinquanta, fino ad arrivare al 1959 a una bozza di Statuto di Fondazione Proprietaria, con l’aiuto del giurista Alberto Carocci, forse l’unico amico vero insieme a Gino Martinoli avuto da Olivetti, e di Franco Ferrarotti.

Come ha ricostruito Gustavo Zagrebelsky nell’introdurre lo scritto di Olivetti per Edizioni di Comunità, «il capitale della Olivetti avrebbe dovuto gradualmente passare nel patrimonio dell’istituenda fondazione, fino all’acquisizione del controllo e della gestione, affidata a rappresentanti dei lavoratori, degli enti locali e d’istituzioni culturali e universitarie. I profitti, oltre alla naturale destinazione ai salari e agli stipendi, all’innovazione tecnologica e all’espansione dell’impresa, sarebbero stati investiti in opere e iniziative di pubblica utilità a vantaggio del territorio della Comunità. Nell’ipotizzata fondazione sociale d’impresa si sarebbero così rispecchiati i caratteri fondamentali della Comunità e si sarebbe superata la trasmissione ereditaria del potere economico, la quale, oltre a rappresentare un’ingiustizia sociale evidente, non garantisce affatto la gestione efficiente delle risorse dell’impresa.

Il tema dell’efficienza e della competenza è centrale nelle preoccupazioni di Olivetti e ritorna continuamente. “Ogni soluzione che non desse esclusiva autorità e responsabilità a uomini di altissima preparazione è da considerarsi un inganno. L’operaio direttore di fabbrica è un romantico ma anacronistico ricordo dei primi tempi della rivoluzione sovietica, mentre l’operaio membro di un consiglio d’amministrazione è una tragica finzione retorica della repubblica sociale fascista”. A ciascuno il suo, dunque; senza che da ciò derivino gradazioni nella dignità del lavoro prestato nell’opera comune. Ciò che conta, e che Olivetti poteva permettersi d’immaginare, era l’uscita dal governo dell’azienda della proprietà̀ fondata sul diritto ereditario (cioè̀ di lui stesso e dei suoi familiari), per rientrare eventualmente (nel suo caso, sicuramente) come dirigente per meriti imprenditoriali».

Sappiamo come oggi alcuni imprenditori visionari abbiano adottato un tale modello per tutelare nel tempo la visione e l’identità caratteristica della propria impresa. Il caso recente che ha fatto più notizia è quello di Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, la multinazionale dell’abbigliamento sportivo, che ha trasferito ad un trust e ad una entità non profit il 100 per cento dei diritti di voto della propria azienda per assicurarsi che questa mantenga nel tempo il suo impegno in favore della sostenibilità ambientale, destinando alla propria missione i profitti dell’attività di impresa. Fatto ancor più significativo in quanto Patagonia era stata tra le prime società ad adottare la certificazione B-Corp, trasformandosi in impresa benefit; una soluzione che tuttavia non dava sufficienti garanzie di irreversibilità in quanto non interveniva sul modello proprietario, modificandone strutturalmente la natura for profit.

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L’arco che idealmente unisce Adriano Olivetti e Yvon Chouinard, due imprenditori visionari convinti che il profitto non sia un fine in se stesso, è quello che abbraccia il corso di una storia in cui lo scopo sociale dell’impresa è stato smarrito per tornare ad essere riscoperto solo a sessant’anni di distanza. Nel mezzo sono trascorsi decenni in cui – con poche eccezioni - è prevalsa un’ideologia riduzionista che negava che l’impresa avesse qualcosa da dire nella costruzione di una società più solidale, capace di avvicinare le persone invece di dividerle, una società accogliente capace di darsi degli obiettivi in senso comunitario. Il riduzionismo ha dimostrato i suoi limiti e all’impresa si torna ad assegnare un ruolo socialmente più impegnato. I modelli del resto non mancano, malgrado spesso abbiano vissuto dentro una storia minoritaria e ai margini del corso principale degli eventi. Tra questi, senza andare troppo lontano, vanno contate le esperienze delle imprese sociali, che questa testata meritoriamente documenta e promuove. Esperienze che idealmente si possono collocare in una linea di continuità con quella idea di impresa come soggetto che, scriveva Olivetti, contribuisce a costruire luoghi in cui: “tolleranza e bellezza siano nomi e non voci prive di senso”.

Alla domanda sull’eredità di Olivetti ai nostri giorni non è facile trovare una risposta definitiva. Per un verso, è plausibile constatare che quell’esperienza è stata così articolata e complessa, e così storicamente connotata, da renderne impossibile la riproducibilità ai nostri temp. Tempi in cui nella cultura d’impresa prevale la divisione funzionale figlia dell’unbundling e della specializzazione produttiva, da cui è stato contrassegnato il passaggio al modello post-fordista. L’approccio umanista di un imprenditore che spazia a tutto campo tra industria, cultura, urbanistica e animazione territoriale, creando continuamente connessioni e sincronie, si scontra con la segmentazione di pratiche imprenditoriali che predicano il primato della focalizzazione sul core aziendale rispetto ad una visione sistemica e ampia. Quindi, si potrebbe dire, i nostri sono tempi che ostacolano strutturalmente una visione alla Olivetti.

Per altro verso, la linea di continuità con la visione olivettiana non può certo essere rintracciata nella “scoperta” del sociale da parte dei teorici della CSR o, più recentemente, della narrazione ESG. Per Adriano la dimensione sociale dell’impresa è strutturale e non si aggiunge come complemento secondario; tanto che nelle sue riflessioni più tardi finisce inevitabilmente per approdare ad un progetto di radicale revisione, addirittura, della stessa struttura proprietaria. Non c’è corporate social responsibility o qualifica benefit che oggi si ponga con questa radicalità. La distanza rispetto a queste pratiche odierne nasce proprio da ciò che l’impresa intende essere, dalla sua natura profonda, dalla funzione che è chiamata ad assolvere. Il suo ruolo di motore del progresso - in senso ampio, anche sociale – richiede di essere conseguenti in termini giuridici, con scelte non reversibili e non condizionate da strategie puramente comunicative. Perciò non è in quella direzione che vanno cercati gli eredi. A maggior ragione, seguendo questa prospettiva, è arduo individuare una continuità dell’esperienza di Olivetti all’interno del filone della filantropia di impresa o degli imprenditori filantropi. La logica dei due tempi (prima accumulo, poi restituisco) è quanto di più lontano si possa immaginare dalla sua visione. Così come anche l’idea che gestione aziendale e azione filantropica siano due sfere indipendenti, e non comunicanti, che seguono regole diverse secondo cui il business è business e per la “restituzione alla società” valgono tempi e principi a parte. Neppure qui, dunque, vanno cercate le attualizzazioni contemporanee.

Quindi si potrebbe concludere che le maggiori similarità con l’approccio di Olivetti oggi vanno rintracciate sul versante dell’economia sociale. Qui si ritrovano affinità forti sul fronte della centralità della persona, della finalizzazione del profitto al perseguimento di interessi generali, della valorizzazione della dimensione comunitaria nella sua concezione più ampia e plurale. Temi sostanziali e non episodici, che caratterizzano la stagione olivettiana in modo originale e controcorrente, per i tempi in cui sono stati sviluppati. Se l’azienda Olivetti avesse completato la sua trasformazione in “fondazione proprietaria” non c’è dubbio che si sarebbe potuta considerare una forma esemplare di organizzazione dell’economia sociale. Del resto, anche i frequenti riferimenti di Adriano ai temi della cultura cooperativa e alle imprese comunitarie rafforzano questa convinzione.  Se una linea di continuità può essere tracciata, oggi è quella che porta ad una visione dell’economia come strumento di sviluppo sociale e ai suoi interpreti, nelle diverse forme che prendono all’interno della famiglia dell’economia sociale.

Tuttavia, detto questo, la questione dell’eredità non è risolta del tutto. Per un aspetto, in particolare. Il pensiero e l’azione di Olivetti contengono un elemento che nessuno oggi è in grado di intestarsi: neppure i protagonisti dell’economia sociale. Ci riferiamo all’intima connessione tra un progetto di progresso sociale e la visione politica del ruolo dell’impresa. Poche volte nella storia del nostro Paese è accaduto che azione politica e idea di impresa fossero intrecciate così strettamente. Men che meno in una prospettiva orientata al progresso sociale anziché alla difesa di interessi particolari. Come si è detto, l’avventura politica di Adriano si è scontrata con la resistenza di un clima di forte polarizzazione, non solo a livello nazionale. Si è trattato di una esperienza di insuccesso. Tuttavia, l’intuizione secondo cui, per essere efficace su tutto il corpo sociale, una nuova visione economica deve porsi in continuità con l’azione politica, continua ad essere valida e a porre un tema fondamentale. In una stagione, come la nostra, in cui il potere delle istituzioni politiche è stato spodestato dal potere degli attori economici, una visione come quella che sostiene l’economia sociale   non può sottrarsi da una riflessione sulle sue implicazioni rispetto alla sfera politica. Il compito di ripopolare il deserto che separa istituzioni e cittadini non può essere estraneo a chi è impegnato nella costruzione di esperienze di impresa sociale. Adriano Olivetti definiva “comunità” questo spazio, in una stagione in cui ancora non si era spopolato.  E vedeva l’urgenza di prendersene cura, come imprenditore e come intellettuale impegnato. Quella è forse la parte della sua eredità che più attende ancora qualcuno che ne riprenda lo spirito.

 

DOI: 10.7425/IS.2023.02.07

 

Bibliografia

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