Il numero 2/2023 di Impresa Sociale contiene un’ampia sezione dedicata a figure ed esperienze che, seppur lontane nel tempo, meritano interesse quali possibili anticipatori di temi oggi fatti propri dall’impresa sociale. Questa sezione è stata curata da Gianfranco Marocchi, direttore di Impresa Sociale e da Ilaria Zilli dell’Università degli Studi del Molise.
Chi sono gli antenati dell’impresa sociale? Non ci si riferisce ai movimenti che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso hanno profondamente cambiato la cultura del nostro Paese, rispetto ai quali la filiazione dell’impresa sociale è chiara, anche solo con riferimento alle biografie di tanti protagonisti della prima ora: si pensi ad esperienze di comunità di vita sperimentate in quegli anni ed evolute in luoghi di accoglienza o alla costituzione delle prime esperienze di inserimento lavorativo come frutto dei movimenti di deistituzionalizzazione in ambito psichiatrico, solo per fare due esempi. Ma se è chiara la relazione diretta tra prime cooperative sociali, organizzazioni di volontariato (e anche, per completezza, una diversa concezione del lavoro sociale nelle pubbliche amministrazioni) e i movimenti sociali, guardando indietro avvertiamo una discontinuità, conoscitiva e ideale.
Conoscitiva, perché chi oggi opera in un’impresa sociale o anche più in generale nel Terzo settore di solito non conosce – con poche eccezioni, come nel caso della recente riscoperta di Adriano Olivetti – persone e circostanze di epoche precedenti, che pure sembrano avere non poche assonanze con temi oggi al centro dell’attenzione. Certo, è nota nel nostro Paese una antica tradizione di opere sociali di ispirazione religiosa, che, talvolta senza soluzione di continuità da secoli lontani, a noi hanno rappresentato una forma importante di intervento in ambito sociale, educativo e sanitario - tema richiederebbe un approfondimento specifico, che esula dagli intenti di questo numero – ma molti altri aspetti, rimangono poco conosciuti.
Ma la distanza è anche ideale, perché si avverte un distacco storico e culturale con tutto ciò che precede l’epoca dei movimenti e l’impresa sociale di oggi, tale da farci percepire le esperienze dei decenni precedenti nel migliore dei casi come un “ramo morto” di un percorso evolutivo, estinto senza che possa avere portato discendenza tra gli antecedenti diretti dell’impresa sociale.
Insomma, se si arretra solo di qualche decennio, ogni immagine si fa sfumata, pare perdere di pregnanza per chi oggi opera, che non conosce (o riconosce) una relazione tra sé ed esperienze passate: né come modelli da cui distaccarsi criticamente, né come storie da rammemorare, come propone uno degli autori, Giovanni Devastato, cioè come ricordi in grado di ispirare l’azione nell’oggi. Semplicemente, si tratta di persone e circostanze perse in un oblio indeterminato. E questo può essere un limite per l’imprenditore sociale di oggi. Un limite culturale, perché ciò che noi siamo si definisce anche dai Pantheon che erigiamo per dare profondità alla nostra esperienza e da ciò che al contrario indichiamo come esempi negativi da cui distaccarci, affermando al tempo stesso la nostra peculiarità.
Impresa sociale in questo numero andrà dunque alla ricerca di questi antenati seguendo tre direzioni che spesso si intrecceranno tra loro.
La prima – ne scrivono Antonio Varini, Ezio Ritrovato, Gianluca Salvatori, Beniamino de’ Liguori Carino e Giusi Moriggi – è quella di imprenditori che, a partire da metà dell’Ottocento sino all’esperienza di Olivetti e oltre, hanno costruito villaggi modello per i loro operai, con giardini, asili e teatri, hanno aspirato a educare i propri lavoratori a valori e stili di vita, hanno immaginato forme di convivenza armonica dove il momento della produzione, della vita familiare, dell’educazione e delle spiritualità andassero di pari passo. Si tratta, come affermano alcuni dei nostri autori, di visionari capaci di visioni ben al di là della loro epoca o, come affermano altri, di paternalisti – filantropi ma anche padroni intransigenti – che attuano a ben vedere forme di fidelizzazione della forza lavoro e di controllo sociale?
La seconda direzione, sviluppata in particolare da Alberto Ianes, prende invece le mosse dalla nascita del mutualismo e della cooperazione. Negli stessi decenni in cui si sviluppavano le peculiari esperienze di impresa di cui sopra, nascevano forme diverse di aggregazione tra lavoratori che, accanto a quelle sindacali, operavano per migliorare le condizioni di vita di operai e contadini. Il progressivo aumento dell’intervento pubblico in ambito sociale e previdenziale e poi il fascismo hanno senz’altro creato una discontinuità, ma senza che questo movimento si sia interrotto.
La terza direzione è quella della “strana gente”, espressione di Goffredo Fofi ripresa da Giovanni Devastato che narra di italiani fuori dagli schemi che, soprattutto nel periodo della ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, immaginarono un possibile sviluppo in direzioni diverse da quelle imposte in un mondo fortemente polarizzato tra comunisti e democristiani. Questi personaggi, ricordati anche da Ianes e Moriggi, meritano di essere ricordati in questa ricerca per due motivi. Il primo, specifico e ampiamente sviluppato da Devastato, riguarda i prodromi del lavoro sociale, quello che oggi rappresenta un tratto distintivo di molte imprese sociali che non si caratterizzano come fornitori di servizio, ma come attivatori di comunità. Il secondo è una più generale sensibilità che porta ad immaginare inediti percorsi di cambiamento sociale.
Forse non è un caso che diversi tra gli autori di questo numero usino la metafora dell’andamento “carsico” per descrivere lo sviluppo di questi fenomeni, che a tratti scompaiono – il “welfare aziendale” nelle fasi di più intensa conflittualità tra capitale e lavoro negli anni Settanta del secolo scorso, il mutualismo con l’assunzione del ruolo dello Stato nei primi decenni del Novecento, il lavoro di comunità quando si afferma una visione tecnocratica del servizio sociale – e poi riemergono. Quelli che potrebbero sembrare rami estinti, sono invece fiumi di cui è possibile riscoprire il corso decenni più avanti e che, trasformati, possono dire ancora qualcosa alle imprese sociali di oggi.
Se da una parte questo suggerisce una visione orientata alla continuità, d’altra parte bisogna essere attenti nel costruire paragoni forzati tra contesti storici diversi. Gli imprenditori ottocenteschi, austeri signori con barbe e baffi prominenti, che costruivano villaggi per gli operai, scuole ed ospedali, di chi sono gli avi? Delle imprese sociali, del welfare aziendale, del movimento che vede l’impresa for profit misurarsi sul terreno della responsabilità sociale, dei filantropi come Gates o Buffet? Probabilmente la domanda posta in questi termini non ha risposta, riporta all’oggi avvenimenti di contesti difficilmente comparabili; è invece più ragionevole chiedersi in che misura – riconoscendo somiglianze o marcando differenze – la conoscenza di eventi del passato possa dare maggiore consapevolezza a chi opera ai giorni nostri. E allora si scoprono percorsi inediti di riflessione, in grado di dare nuovi spunti attuali e innovativi. Ad esempio, per imprese sociali nate in un mondo polarizzato, storicamente affiliate ad un’associazione di rappresentanza “bianca” o “rossa”, i “maestri del lavoro e del pensiero di comunità” descritti da Gianni Devastato hanno probabilmente molte cose da dire, contengono in sé un potenziale di innovazione dirompente la cui riemersione dopo la fase carsica è forse tutt’ora in corso e ad oggi solo parzialmente compiuta. Forse, almeno in alcuni casi, se discontinuità vi è stata, è perché certe esperienze erano troppo avanti rispetto ai tempi e non hanno trovato spazio in cui svilupparsi, non perché fossero lontane e arretrate.
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Nei primi due saggi Ezio Ritrovato e Valerio Varini raccolgono le storie di imprenditori che, rispettivamente nel Mezzogiorno e nel nord Italia, hanno nella seconda metà dell’Ottocento edificato villaggi operai, scuole ed ospedali. Queste figure – filantropi, ma al tempo stesso cultori della disciplina entro i propri stabilimenti - sono però da inquadrarsi, sostengono gli autori, entro un quadro di un’ideologia paternalistica che colloca le opere sociali nell’ambito di uno scambio implicito tra attenzioni verso i lavoratori contro fedeltà, consenso e quindi produttività – questa, secondo Varini, la natura del welfare aziendale nelle diverse forme in cui si è manifestato in questi 150 anni -, se non come azione di esplicito controllo sociale.
La metà dell’Ottocento è il punto di partenza anche per Alberto Ianes: è il momento in cui alle opere caritative di ispirazione religiosa si aggiungono società di mutuo soccorso e cooperative di braccianti, che si sviluppano nei decenni successivi. L’intervento dello Stato e poi il fascismo ne determinano il declino, ma dopo la fine del secondo conflitto mondiale le istanze partecipative rinascono in termini rinnovati, fino alla nascita del Terzo settore come lo conosciamo oggi. Secondo l’autore, pur trattandosi inizialmente di esperienze ampiamente minoritarie, esse portano a retrodatare la fase del “ritorno” del Terzo settore non agli anni Settanta, ma agli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.
Gli anni Cinquanta sono al centro anche dell’analisi di Giovanni Devastato, che sviluppa la terza direzione di ricerca sopra richiamata, seguendo lo sviluppo del lavoro sociale di comunità. Storie in bianco e nero, lontane nel tempo, ma così attuali nei contenuti, che testimoniano di un periodo in cui l’Italia, in ricostruzione dopo l’abisso, esplorava percorsi di sviluppo diversi da quelli che poi furono. Un’Italia costellata da grandi figure irregolari, destinate nell’immediato a soccombere nella dialettica tra DC e PCI, ma che oggi parlano a noi in modo più efficace rispetto ai contendenti di quei decenni.
Giusi Moriggi propone una galleria di biografie di imprenditori e di altri personaggi che hanno accompagnato la storia del nostro paese. Il suo punto di vista è quello di cercare gli elementi che a distanza di decenni e al di là dei “sospetti” avanzati da Varini e Ritrovato, sono ancor oggi di ispirazione per chi immagina sistemi di welfare. Accanto agli imprenditori illuminati, troviamo alcune figure anomale che tra metà Ottocento e metà Novecento, si sono impegnate nell’organizzazione delle carceri con ottiche capaci di andare oltre la concezione meramente punitiva della pena, un altro tassello della capacità di immaginare una società diversa già in epoche lontane.
Gianluca Salvatori e Beniamino de’ Liguori Carino approfondiscono la figura di Adriano Olivetti e la sua azione non solo a favore dei lavoratori, ma della comunità e più in generale per un progetto di trasformazione sociale in senso comunitario. Tra le altre cose, gli autori raccontano di un progetto incompiuto di Adriano Olivetti, che poco prima di morire si era convinto della necessità di trasformare la sua impresa in una fondazione (oggi diremo “di comunità”) avvertendo la contraddizione tra struttura proprietaria privata e volontà di configurare l’impresa come soggetto che agisce per lo sviluppo della propria comunità: in altre parole, forse forma giuridica e struttura proprietaria non sono così indifferenti, quando si vuole operare per l’interesse generale, tema di particolare rilievo in un momento in cui da più parti si sostiene, forse un po’ affrettatamente, che le imprese – benefit, b-corp o altre forme che fanno della responsabilità sociale un proprio tratto distintivo – si caratterizzino una vocazione originaria delle imprese a favore del benessere del territorio in cui operano.
Infine, Ilaria Zilli commenta e rilancia il dibattito sviluppato in questo numero di rivista, cercando di riannodare i fili provenienti dal passato verso costruzione di una economia e di una società più etiche.
In conclusione: comprendere il passato non nell’ottica di mere traslazioni tra epoche lontane e la nostra, ma per farlo parlare al presente, facendo proprie lezioni solo in parte assimilate e troppo spesso sospese tra agiografia e oblio; e, al di là di ogni valutazione, non senza sentire, da imprenditori sociali, fascino e empatia per chi ha guardato al proprio contesto sociale immaginando oltre l’immaginazione – dei propri contemporanei, e in alcuni casi anche nostra – e realizzando, in tutto o in parte, ciò che aveva immaginato. Da questo punto di vista, opere e sconfitte, visioni profetiche e limiti, fanno parte delle storie che raccontiamo come delle nostre, ricordandoci che nelle intraprese sociali, come in quelle economiche, conquiste e cambiamenti non avvengono senza confrontarsi con difficoltà e fallimenti; ma non senza lasciare segni che qualcuno, magari anni più tardi, riprenderà e svilupperà su nuovi sentieri.
DOI: 10.7425/IS.2023.02.01
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