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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2023

Saggi

Ritratti di italiani fuori dagli schemi

Giusy Moriggi


Introduzione

Dal 2001 la sussidiarietà è un principio costituzionale e dall’inizio degli anni Novanta – con le leggi istitutive del volontariato e della cooperazione sociale - il nostro Paese ha iniziato a riconoscere in sede normativa quanto nei decenni immediatamente precedenti, anche a seguito di una stagione di mobilitazione che aveva cambiato profondamente il volto del paese, era diventato chiaro: vi sono, all’interno della società civile, forze positive, in grado di agire per un interesse più ampio rispetto a quello individuale il benessere della nostra società deriva, oltre che dalle istituzioni, da come tali forze sono riconosciute, legittimate e messe in grado di operare.

La presenza di una società civile con queste caratteristiche non è certamente un aspetto nuovo, e comprende manifestazioni molto diverse, di ispirazione sia religiosa che laica, la cui opera si perde indietro nei secoli e una ricostruzione anche sintetica di questi aspetti rappresenta un’impresa troppo ampia.

All’interno di questo universo, ci sono però persone che hanno esercitato questo ruolo – diremmo oggi noi, di interesse generale – con una specificità in più: hanno portato, con la loro opera, a rivedere istituzioni consolidate – in primo luogo ci occuperemo dell’impresa, anche se concedendoci qualche escursione altrove –, a mettere in luce delle possibilità che esse rivestano ruoli diversi da quelli tradizionalmente loro assegnati. In particolare, appunto, hanno reso evidente che anche l’impresa – l’istituzione per eccellenza considerata sede di interesse particolaristico – può svolgere una funzione sociale.

Non ci sfugge, ovviamente, la complessità di queste figure; alcune di esse emergono come profetiche anche ad occhi contemporanei, altre suscitano reazioni meno positive e il loro “prendersi cura” dei lavoratori e della comunità appare “paternalistico” quando non un’aperta strategia di controllo sociale. Se questa complessità non va negata, ciò non toglie l’interesse per figure che comunque si sono poste controcorrente, stimolando riflessioni che possono essere di stimolo anche ai giorni nostri.

Questa galleria non ha pretese di sistematicità e sicuramente i nomi tralasciati sono di più di quelli qui tratteggiati; senza dubbio, chi si è dedicato a ricostruire nel dettaglio una delle figure qui ricordate, non potrà che ravvisare l’incompletezza dei profili appena abbozzati. Ma l’operazione qui proposta è diversa: è quella di fare emergere un filo rosso che lega persone e epoche diverse, precedenti a quelle in cui sono emerse le nuove consapevolezze che hanno dato vita alle esperienze attuali di impresa sociale, ma che presentano spunti in grado, pur con le parzialità prima richiamate, di parlare all’imprenditore sociale di oggi.

Alle origini

Intuizioni dal passato

Antonio Muratori, classe 1672, protagonista dell’Illuminismo italiano, fu uno degli artisti che sul finire del 1700 delinearono i contorni del progetto di edificazione di una “società di felici”, quando felicità era sinonimo di progresso. L’essenza del pensiero che fu poi coltivato e portato a maturazione nella prima metà del secolo successivo era costituita dal presupposto del valore positivo delle passioni umane, dell’impossibilità di scindere in maniera netta il destino dei singoli da quello delle comunità di appartenenza e della conseguente necessità di impiegare le capacità di ognuno per realizzare società del benessere e isole di alta civiltà. Decenni dopo, queste stesse riflessioni furono riformulate da alcuni altri intellettuali e imprenditori, che aggiunsero nuovi contributi; tra questi Owen, Morris e Fourier.

Owen fu il direttore di un cotonificio non distante da Manchester negli anni della prima grave crisi dell’industria, alla fine del XIX secolo. In quel periodo difficile e convulso, di continua e febbrile corsa all’aumento della produzione, grandi masse di persone continuavano ad abbandonare la campagna per riversarsi in città, alla ricerca di un lavoro che potesse consentirgli di sfuggire alla fame. Ciò che li aspettava era però un lavoro malpagato e una vita spesa in luoghi che non volevano garantire la benché minima attenzione alla salvaguardia della salute. Robert Owen fu uno dei pochi a saper superare la miope filosofia del grande e immediato guadagno, convinto che ogni politica aziendale non potesse prescindere dall’uomo e dal rispetto per la vita. Favorì comunque il successo della sua azienda, ma lo fece scegliendo un diverso tipo di relazione con gli operai. Protesse il diritto al lavoro di tutti i suoi operai anche dinanzi alla grave crisi produttiva connessa all’embargo degli Stati Uniti agli inizi del XIX secolo; mitigò gli effetti dei livelli salariali bassi con l’offerta di una serie di azioni volte a favorire il benessere per tutti i lavoratori a diverso titolo coinvolti nella sua organizzazione d’impresa: di fatto introdusse quello che noi oggi definiremmo welfare aziendale. Intuì i peggiori effetti dell’ingresso precoce nella vita adulta di chi non aveva ricevuto una formazione adeguata e di conseguenza scelse di non assumere i bambini al di sotto dei dieci anni e di formare i giovani apprendisti. Vivendo gli anni delle proteste degli operai contro un sistema incapace di riconoscere loro la dignità di esseri umani, si impegnò pubblicamente in difesa dell’idea che la classe operaia era una parte essenziale della moderna comunità e che era fondamentale che imparasse a fondare il suo equilibrio sulla capacità cooperativa e collaborativa[1]. Investì tempo ed energie nella progettazione di ambienti di vita e di lavoro dove tutte le allora conosciute norme igieniche fossero rispettate e dove trovasse spazio l’armonia e la bellezza.

Lungo la stessa linea di pensiero si muoveva Fourier, il quale partiva dal presupposto che gli uomini siano attratti dal piacere e dalla ricchezza e dunque che la costruzione di una società civile non possa che basarsi anzitutto sulla realizzazione di questi due obiettivi. Applicando queste considerazioni al mondo del lavoro, sia Fourier che Owen realizzarono una nuova urbanistica, considerando sia gli spazi lavorativi, sia gli ambienti residenziali nell’ottica di generare piacere e senso di appartenenza e favorirono le esperienze di produzione del bello da parte dei suoi operai. Rispetto, dignità, lavoro, collaborazione, autostima, educazione e formazione furono gli ingredienti essenziali per la costruzione di comunità “felici”. Tornavano alla ribalta i principi propri dell’umanesimo civile, che vedeva in ogni uomo una naturale e forte capacità critica generatrice di utilità sociale e che dava alla differenza tra individui un valore positivo, se inserito in un contesto di società capace di collaborare per rigenerarsi continuamente.

Molti intellettuali investirono nella medesima direzione e delinearono le coordinate di una cultura a servizio del progetto della vita felice per tutti. Puntarono la loro attenzione sulla formazione, perché “la conoscenza potesse muovere gli animi”. Presero vita iniziative editoriali volte a favorire la lettura e lo sviluppo della capacità di avvicinare il sapere ai propri bisogni, così da rendere la conoscenza lo strumento migliore per la conquista del proprio benessere. Si impegnò, tra gli altri, in questo senso Gian Pietro Vieusseux, un ricco mercante che realizzò un giornale dove l’economia, la scienza e la storia potessero trovare maggior spazio rispetto alla letteratura[2] e che consentisse ai suoi lettori di tenersi aggiornati sulle ultime acquisizioni del progresso scientifico e della ricerca sociale.

Contribuirono a questo progetto di emancipazione attraverso la cultura anche altri attori, con iniziative diverse, spesso con finalità pedagogico-educative, come scriveva Pietro Dazzi, (1838-1896), intellettuale e Accademico della Crusca, fondatore delle Scuole del popolo nel 1867, con cui intendeva offrire un’istruzione e una formazione professionale anche ai meno abbienti. Per Dazzi la lettura e il libro rappresentavano una conquista ed era con grande orgoglio che li proponeva ai propri allievi e agli amici con i quali condivideva lo spirito di “elevazione” del popolo. Fu promotore di scuole popolari a Firenze per “fare guerra all’ignoranza e al vizio […] per ricondurre alla dignità e alla virtù il popolo “affinché possano le crescenti generazioni riconquistare il primato perduto a cagione della servitù e della corruzione […] per fondare anime generose, buoni cittadini” [3].

In Italia, fra ‘800 e ‘900, si impegnarono in questo senso anche alcuni editori quali Felice Le Monnier, Felice Paggi, Enrico Bemporand, che scelsero nelle loro pubblicazioni di usare immagini, fantasia e cronaca per arricchire i testi e rispondere meglio alla sete di sapere di un più diversificato gruppo di lettori. Qualsiasi tentativo di elencare i pionieri dell’imprenditoria editoriale che aderirono a questo progetto rischierebbe di essere incompleto. Ma solo a titolo esemplificativo vogliamo citare Giuseppe La Farina, direttore del trisettimanale “Alba” (che pubblicava articoli impegnati, preoccupandosi di temi diversi, di forte attualità, orientati all’impegno civile, trattando spesso anche dei diritti dei lavoratori in toni che strizzano l’occhio alle istanze rivoluzionarie sostenute da Marx) e Filippo De Boni, che con il suo “Così la penso”, invitava alla “conquista del mondo con la sapienza “e che dichiarava raggiunto l’obiettivo della collettiva felicità nel momento stesso in cui tutti, anche l’ultimo dei contadini avesse avuto la possibilità di pensare autonomamente”[4]. Sono questi gli anni in cui anche in Italia si diffondono le Società di Mutuo Soccorso, le biblioteche circolanti e le scuole per il popolo, tutte nate “per liberare il popolo dall’ignoranza”.

Sono questi anche gli anni in cui la cultura divenne un’attività economica (di lì a poco anche in Italia si renderà anche un’attività imprenditoriale a tutti gli effetti) e fu in molti casi esempio di quella che oggi definiremmo un’impresa sociale; tutto ciò in un contesto in cui su questi temi la sensibilità politica della neonata Italia – dove il diritto di voto era riservato ad una piccola quota di cittadini maschi più ricchi - era ancora assai poco sviluppata. Sono le contraddizioni di un periodo in cui l’inchiesta di Franchetti e Sonnino apriva il dibattito sulla questione meridionale (1876), la legge Coppino del 1877 istituiva l’obbligo scolastico sino alla terza elementare, venivano disciplinate per la prima volta le Società Operaie di Mutuo Soccorso (1886); ma in cui al tempo stesso si considerava un pericolo il riunirsi di numerosi di lavoratori in un unico ambiente.

Alessandro Rossi

In questo stesso periodo, alcuni imprenditori italiani, sulla scia del progetto di Owen, concepivano accanto alle fabbriche case e servizi per i propri dipendenti. Alcuni, tra i quali Alessandro Rossi, lo fecero guidati dall’idea che fosse compito dell’imprenditore dirigere anche la comunità degli operai, per trasformare masse senza cultura in maestranze per fabbriche grandi e moderne, fabbriche dove venivano accentrate tutte le fasi di lavorazione. Rossi costruì a Schio un quartiere per i propri operai con case a riscatto con orto e giardino e i principali servizi – vendita alimentari, ristorante, luogo per esercizio fisico, asilo, teatro, ecc. - nel quartiere stesso o nelle vicinanze. Nella sua “Socialismo e fraternato” (1888), mettendo a frutto sia l’esperienza di direttore della “più potente struttura industriale italiana”[5], sia di deputato spesso protagonista degli intensi dibattiti parlamentari del periodo, egli sosteneva che l’imprenditore disponesse dei metodi e delle conoscenze per garantire la felicità dei suoi operai; a suo dire, una solida organizzazione del lavoro basata sulla rigidità gerarchica e sulla disciplina avrebbe reso prospera l’azienda e dunque certo e duraturo il lavoro, mentre il sostegno dello Stato allo sviluppo di grandi complessi industriali avrebbe eliminato le “sacche di arretratezza e migliorato le condizioni di vita degli operai”[6]. Se queste ci paiono importanti realizzazioni sociali, non deve sfuggire la visione paternalistica del ruolo dell’imprenditore. Incentrata su una precisa gerarchia di fabbrica, questa visione prevedeva la sottomissione dei lavoratori all’imprenditore (e alla sua famiglia) e la disciplina della vita operaia nei villaggi, che dovevano essere vicini al luogo di lavoro e lontani dai vizi che la città offriva; tale filosofia collegava il progresso della società all’obbedienza incondizionata.

Ma furono anche molti altri gli imprenditori che scelsero di far sorgere accanto alle loro fabbriche, quartieri operai che, pur con tutte le ambiguità di fondo sopra richiamate, contribuirono ad aumentare il benessere dei lavoratori. La l diffusione dei villaggi che si realizzarono allora ancora oggi si rinviene nell’urbanistica delle nostre città. Villaggi che includevano, oltre alle abitazioni, luoghi – dal teatro all’asilo – per rispondere ai bisogni materiali e spirituali delle comunità in cui l’impresa sorgeva.

Cristoforo Benigno Crespi

Cristoforo Benigno Crespi, di origini bustocche, è un altro imprenditore che, come Rossi, interpreta il suo ruolo come quello del “buon padre di famiglia” che cura le esigenze materiali e immateriali dei suoi operai e accanto alla sua fabbrica, nata tra il 1877 e il 1878 nel territorio allora appartenente a Canonica d’Adda, costruisce anche un villaggio operaio.

Cristoforo era figlio di un mercante imprenditore, attivo nella tessitura del cotone principalmente nella città natale e a Lodi; doveva parte della sua formazione professionale dall’esperienza vissuta in qualità di collaboratore di Francesco Turati. Crespi aveva iniziato la sua attività imprenditoriale in una delle aree più depresse della Lombardia, da forestiero tra gente diffidente, costretto a combattere anche con il limite della differenza linguistica, poiché si rivolgeva per lo più a individui che non avevano avuto l’opportunità di ricevere un’adeguata istruzione e dunque parlavano esclusivamente il dialetto locale e difficilmente riuscivano a distinguere le lettere e i numeri. Crespi scelse la formula dell’accentramento produttivo perché gli consentiva di controllare la produzione direttamente, senza spreco di tempo e denaro in continui spostamenti. Costruì gli alloggi per gli operai nel rispetto delle norme di igiene pubblica seguendo l’esempio di altri imprenditori suoi contemporanei, collocandosi in pieno nel quadro proprio del paternalismo di fabbrica, “in quel complesso di mezzi materiali, orientamenti ideologici e indirizzi politici che contribuivano a regolare la vita lavorativa allo scopo di rendere efficiente il processo produttivo”[7]. In linea con questa filosofia, anche Cristoforo Benigno Crespi e, dopo di lui, il figlio Silvio Benigno, progettarono un grande complesso industriale imponendo da subito ferree regole, ma contemporaneamente mettendo a disposizione servizi, strutture e abitazioni che servivano a garantire un maggiore sottomissione da parte degli operai, un maggior controllo sulla loro condotta, ma che contemporaneamente portarono anche a un notevole processo di innovazione sociale, aumentata dal fatto che l’imprenditore non fece mancare, soprattutto nei primi anni, la sua presenza fisica tra quei lavoratori che stavano diventando i primi operai e, soprattutto, una nuova comunità.

La letteratura sul paternalismo di fabbrica[8] ricorda come fosse importante agire perché il lavoratore associasse la figura dell’imprenditore a quella del buon padre di famiglia. I medesimi studi sull’argomento affermano la necessità di rendere evidente la condivisione dei medesimi valori, così da favorire il dialogo e quindi aprire la strada per la trasmissione verticale del pensiero: strategia che tanta parte ebbe nella capacità dell’Inghilterra di progredire a ritmi assai più veloci rispetto al resto del mondo. Al tempo stesso non mancano gli studiosi che evidenziano come questo movimento rappresentasse una certa forma di opportunismo da parte dell’imprenditore, che riteneva di poter meglio manipolare i suoi lavoratori; Valerio Varini ha proposto l’interpretazione secondo la quale i servizi sociali in azienda favoriscono il senso di appartenenza alla comunità produttiva, in modo funzionale alle esigenze produttive; Guido Baglioni ha condotto un’indagine che lo ha portato a definire l’immagine dell’industria tessile italiana di quegli anni[9] e dalle sue ricerche non è emersa una propensione all’impegno sociale in generale da parte degli imprenditori. Di Cristoforo e Silvio Crespi si può senz’altro proporre anche questo tipo di lettura, ma ciò non toglie che il loro progetto si inserì in un contesto di gravi difficoltà, di fame e di miseria. La realizzazione di questa nuova realtà di fatto rappresentò l’opportunità di scegliere una vita diversa, non tanto per quanto riguarda l’aspetto lavorativo, ma anche e soprattutto per quanto attiene il rispetto e la cura per se stessi; un medico sempre a disposizione, la possibilità di farsi il bagno regolarmente, una casa in muratura sono solo alcuni esempi della distanza tra chi sceglieva questa proposta e quanti invece proseguivano nel solo della tradizione. La bellezza e l’armonia si mettevano a disposizione dei lavoratori e generavano la concreta occasione per raggiungere la serenità. Il villaggio operaio Crespi, dal 1995 sito UNESCO, consentì, al di là delle aspettative e delle istanze del suo fondatore, la possibilità, a molti agricoltori e artigiani del posto, di ottenere un diverso livello di benessere e una crescita culturale altrimenti impensabile; trasmise l’idea che il lavoro poteva essere uno strumento per mettere a frutto i propri talenti e non solo per sopravvivere. Questa nuova realtà produttiva divenne anche una nuova comunità, fondata sulla cooperazione, sull’ordine e l’armonia anche con l’ambiente circostante, affinché fosse più facile, per i suoi abitanti, sentirsi a casa. Con l’obiettivo di formare i suoi lavoratori, dopo aver loro fornito tutti i presupposti per sentirsi al riparo dal rischio di non avere di che vivere e dalla necessità di dover impiegare tutte le braccia disponibili in famiglia nel lavoro assiduo, Crespi costruì le scuole per i loro figli, adottando di fatto il modello sociale sostenuto anche altri imprenditori del suo tempo, e spinse i lavoratori a sperimentarsi in progetti da compiere in autonomia, così che si misurassero con l’esperienza dell’errore e dell’autogratificazione[10]. Materializzò le teorie espresse da Owen, Furier, De Simon circa la bellezza razionale e realizzò un paesaggio dove la luce aveva ampio spazio, dove gli spazi vuoti si alternavano ai pieni e dove la scelta dei colori e dei materiali aiutasse a creare armonia con l’ambiente naturale.

Pietro Gavazzi

Un altro esempio di questa tipologia di imprenditore è Pietro Gavazzi, imprenditore attivo a Valmadera negli anni immediatamente seguenti all’unificazione italiana: Gavazzi seppe sviluppare attorno al suo setificio una vera e propria comunità fondata sui valori della giustizia, dell’equità e del rispetto[11]. Realizzò questo interessante progetto di sviluppo del patrimonio sociale attraverso la costruzione di un filatoio, un orfanatrofio (l’abbandono dei bambini e dei ragazzi era uno dei fenomeni più preoccupati del periodo), un dormitorio e uno spazio verde, per interrompere la continuità delle costruzioni alte e opprimenti e lasciare entrare luce e colore in uno spazio che altrimenti avrebbe rinchiuso e mortificato centinaia di persone. Fu grazie alla famiglia Gavazzi che la località di Valmadera poté beneficiare della presenza di una caserma dei carabinieri e, quando i tempi furono pronti per l’ingresso continuativo in fabbrica della manodopera femminile, un asilo infantile.

La povertà che affliggeva molte famiglie del luogo, in un sistema ancora incapace di preoccuparsi delle fragilità; su questi aspetti agì l’imprenditore, che si attivò in una serie di attività caritatevoli e nella costruzione di una casa per i poveri all’interno del paese. Rendendosi protagonista delle azioni in favore dei lavoratori che, come si è visto, erano presenti tra gli imprenditori del nostro Paese, Pietro Gavazzi seppe avere un occhio di riguardo anche per il territorio in cui sorgeva la sua attività e interpretò il proprio ruolo non soltanto rispetto al bene materiale, ma anche con l’aspirazione a dare forma ai valori della propria comunità. Si rese l’ideatore di una strategia per sconfiggere la fame e rese possibile a persone in condizioni umili e marginali accedere ad una situazione nuova di comodità, che generò un senso di gratitudine e di appartenenza a questa comunità.

Napoleone Leumann

Nato in Italia in una famiglia di agricoltori svizzeri poi convertiti alla tessitura, collaborò sin da giovane nella fabbrica di cui il padre era diventato proprietario nel 1857, nel vogherese. Quando l’attività crebbe al punto da sentire i limiti del contesto locale, la sua famiglia si trasferì a Collegno, nei pressi di Torino, con al seguito le migliori rappresentanze e continuò la sua attività, riscuotendo grande successo. Napoleone subentrò al padre alla sua morte: allora (era il 1887) l’impianto godeva di ottima salute e si presentava sul mercato come uno dei più moderni del tempo. Visse gli anni della prima grande industrializzazione del nostro Paese, in un contesto di profonda arretratezza e dove nella maggior parte dei casi non vi era alcun rispetto dei diritti dei lavoratori, in un’Italia che non aveva investito se non marginalmente nella creazione di condizioni sociali della classe operaia, che spesso si trovava in condizioni di miseria, ignoranza e povertà. L’aumento del ritmo di lavoro a fronte di salari così bassi da impedire di sfamare la propria famiglia esasperò i lavoratori, portandola a manifestazioni violente e alla prima forma di associazionismo, grazie al sostegno offerto dalla Chiesa e dal neonato partito socialista. Fu allora che Napoleone Leumann pensò che la continua crescita della produzione non potesse essere l’unico suo obiettivo e che gli operai che avevano contribuito alla creazione della ricchezza meritavano di poter vivere in condizioni dignitose e sicure. Quindi affidò la costruzione di un villaggio operaio a Pietro Fenoglio, che realizzò abitazioni decorose, confortevoli, facili da arieggiare. Oltre alle abitazioni nel tempo furono costruiti l’asilo nido, l’ufficio postale, la scuola elementare, un convitto. Oltre alla costruzione di una comunità produttiva autonoma, Leumann si interessò alla vita della comunità in cui la sua impresa era sorta e fu tra i membri del consiglio di amministrazione della Società Torinese per le abitazioni popolari; si impegnò in prima persona nell’organizzazione del sistema scolastico cittadino, costruì un acquedotto per Collegno e una colonia per ospitare fino a 75 bambini, allo scopo di contribuire alla cura della tubercolosi. Quindi si fece promotore di numerose associazioni impegnate nell’assistenza agli orfani e dei ragazzi privi della “sorveglianza paterna e dell’amorevole guida della madre”. Era questa la strada scelta per sensibilizzare la comunità, perché i valori della giustizia e della collaborazione si radicassero in loro, assumendo la dimensione tale da essere la struttura forte e coesa che ne determina la sopravvivenza anche nei momenti più difficili parte inevitabile della vita. Negli anni in cui la maggior parte della classe dirigente considerava le masse operaie come agglomerati incapaci di razionalità, sui quali quindi era inutile investire in un processo di formazione diversa da quella professionale e ai quali l’imprenditore doveva offrire un rigido sistema di regole e una guida costante, Giovanni Napoleone scelse una strada diversa. Morì nel 1930, dopo aver assistito ai limiti di una società troppo poco attenta a investire nell’allargamento della partecipazione alla politica, ma non senza aver lasciato il proprio segno nel progettare e realizzare una comunità unita e solidale, capace di continuare, anche senza di lui, anche senza il cotonificio quella strada.

Leopoldo Ponticelli

Diversa, ma contemporanea a quella di Cristoforo Benigno Crespi e di Napoleone Leumann, è l’esperienza di Leopoldo Ponticelli, direttore nell’isola di Pianosa prima colonia penale agricola italiana, nata nel 1858[12] e figlia del progressista sistema penale del Granducato di Toscano. La realizzazione della colonia previde anzitutto una diffusione delle coltivazioni allora ancora localizzate in poche zone, quindi la costruzione di singoli poderi disseminati in parte dell’isola e affiancati dai dormitori per i detenuti. A questi edifici si aggiunsero nei decenni successivi il macello, il pollaio, il frantoio e altri edifici connessi all’attività agricola. Quindi fu edificato il paese per i civili che lavoravano sull’isola; ed è in questa parte del progetto che la personalità e il pensiero di Ponticelli si esprime in modo più forte[13]. A lui si deve l’impegno nell’applicazione del concetto di educazione attraverso l’etica del lavoro; fu il protagonista dell’inizio di quell’opera che vide in una particolare cura nelle scelte estetiche e nell’individuazione degli strumenti volti a far emergere attraverso il senso di appartenenza la via per l’armonia sociale, grazie alla possibilità offerta di vivere nell’ordine, gratificati dalla bellezza architettonica che si fonde con quella della natura; gli abitanti costruivano e decoravano essi stessi ogni singolo edificio – oggi parleremo di “autocostruzione” – a partire dall’idea che, malgrado la fatica che ciò comportava per persone già impegnate nei lavori agricoli, ciò avrebbe portato ad un soddisfazione per il lavoro compiuto, e per essere riusciti a realizzarlo. A lui si deve la scelta dello stile italico per la costruzione degli edifici civili, così da rendere omaggio al neonato Stato e di “rendere il bello e il passato vie per educare le nuove generazioni”[14]. Richiami al gotico e al classicismo; elementi propri del romanico e del barocco; riflessi del rinascimento in architettura: tutti questi singoli caratteri di stili così distanti nel tempo ed altri ancora convivono in perfetta armonia e ricordano il pensiero di chi credeva in un nuovo ordine sociale, non più segnato dalla netta distinzione tra tiranni e schiavi, ma da una collaborazione possibile grazie alla condivisione del concetto di pari dignità e dunque alla trasmissione degli strumenti per l’autoaffermazione anche ai soggetti esclusi dalla partecipazione attiva nella vita sociale. Tra gli strumenti più indicati proprio la possibilità di vivere circondati dal “bello” forgiato con le proprie mani e da un ambiente naturale non tanto addomesticato, quanto reso ancora più bello dall’opera dell’uomo[15].

Il segno della continuità

L’Italia che rinasce dalle ceneri della Seconda guerra mondiale e dal periodo buio del fascismo si trova di fronte a sfide di grande portata su più fronti. Deve riconquistare credibilità nei confronti della comunità internazionale, riscattando il ventennio fascista e le responsabilità nello scatenare un distruttivo conflitto mondiale; è tra gli Stati che promuovono il progetto di costituzione della Comunità Europea, un’idea nata nelle celle del carcere di Ventotene nel 1941 dalla visione profetica di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, in cui si proponeva una “unità internazionale”, nel pieno rispetto delle peculiarità di ogni stato e con l’obiettivo primario di emancipare “le classi lavoratrici e realizzare per esse condizioni più umane di vita”[16].

Deve ricostruire un paese distrutto, sia da un punto di vista materiale, sia da rifondare moralmente a partire dai valori che vengono condivisi nella Carta costituzionale: una Costituzione che ribadiva il valore positivo del pluralismo, del diritto inviolabile alle libertà di pensiero, parola e confessione religiosa, che impegnava la repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitavano l’uguaglianza dei cittadini, che si fondava sul lavoro e che riconosceva la cooperazione come strumento fondamentale di crescita sociale.

L’Italia investì nello sviluppo industriale, con un paesaggio che cambiava volto con il progressivo ampliamento dei complessi industriali a discapito delle aree agricole e il forte aumento della popolazione attiva nel settore secondario, costruendo nel corso degli anni Cinquanta il boom economico del decennio successivo.

La valutazione di questa fase economica non è priva di elementi di complessità. Certamente contribuì ad allontanare una vasta fascia di popolazione dalla fame, ma al tempo stesso comportò la compressione delle richieste di migliori condizioni lavorative da parte degli operai; gli industriali impegnati nella corsa verso il profitto videro i propri operai come mero strumenti di produzione, peraltro con la convinzione che potessero essere, nel giro di poco, sostituiti dalle macchine sempre più efficienti.

Ma, anche in questa nuova e decisiva fase di industrializzazione del paese, fortemente orientata alla crescita economica, non mancarono persone che seppero immaginare forme di sviluppo diverse e l’impresa come fattore di crescita per i lavoratori e per la comunità in cui opera. Anche in questo caso si sono scelti solo tre dei possibili esempi di imprenditori “illuminato” di questi anni[17]. Tre figure tra loro diverse[18], ciascuna con una caratterizzazione che la rende meritevole di attenzione. Adriano Olivetti e Gian Lupo Osti, separati temporalmente da un ventennio, definiscono un arco di tempo in cui si ripropose il progetto – o l’utopia – di una fabbrica diversa, impegnata nel benessere della comunità che la ospita; e, insieme a loro, Eugenio Perucatti, che da direttore di un carcere nell’Italia degli anni Cinquanta sembra far rivivere la lezione di Leopoldo Ponticelli.

Adriano Olivetti

In questa Italia degli anni Cinquanta opera Adriano Olivetti, imprenditore impegnato nella gestione di un’azienda ereditata dal padre dedita alla produzione di macchine da scrivere e poi dei primi calcolatori elettronici.

Come si può ricostruire anche dalla lettera con cui nel 1955 accompagnò gli auguri di Natale ai lavoratori, un punto di snodo della vicenda di Olivetti fu la scelta di come affrontare un momento di forte crisi della sua impresa: nel 1952 l’Olivetti – come altre industrie italiane – si trovava in forte difficoltà, le commesse erano scarse e la soluzione più semplice sarebbe stata quella tipicamente adottata dagli imprenditori in frangenti di questo tipo: licenziamenti e riduzione degli orari di lavoro per diminuire i costi. Ma l’Olivetti scelse invece una strada “difficile e pericolosa”, con l’investimento di ingenti somme di denaro e una radicale riorganizzazione dell’impresa.

Negli anni in cui il processo di razionalizzazione delle fabbriche si faceva sempre più evidente, in cui la ricerca di efficienza portava ogni operaio a ripetere lo stesso gesto per centinaia di volte nelle otto ore di lavoro e in cui, d’altra parte, aumentava la disaffezione al lavoro e l’assenteismo, Olivetti lavorava per garantire ai suoi lavoratori benessere, libertà e sicurezza e l’orgoglio di essere i co-protagonisti di un grande progetto di trasformazione e chiedeva al tempo stesso spirito di appartenenza e impegno. Nella sua visione, gli imprenditori e i lavoratori dovevano sentirsi membri della stessa comunità, riconoscendosi nei medesimi valori; per questo ogni lavoratore era considerato importante, senza distinzione di età e grado di istruzione e non era un semplice ingranaggio del processo produttivo. Le azioni di Olivetti interessarono più fronti.

Da un punto di vista economico, agì come si è visto per preservare l’occupazione e per assicurare ai lavoratori condizioni economiche dignitose, ad esempio con il raddoppio degli assegni familiari. Si occupò di ambiente di lavoro, lo ristrutturò per renderlo più luminoso, introdusse ambienti per la socializzazione, la lettura, le pause lavorative, rinnovò la mensa, diminuì il tempo di lavoro che ciascun operaio passava attaccato alla macchina. Gli operai furono coinvolti nel ripensamento e nella costruzione dei nuovi spazi, ritenendo che ciò avrebbe contribuito a far apprezzare la bellezza che avevano contribuito a creare.

Costruì case a riscatto per le famiglie degli operai, istituì borse di studio e il Centro di Formazione Meccanici, prevedendo corsi che, oltre a insegnare una professione, garantissero ampio spazio alla formazione del carattere e del comportamento, con la volontà di affermare i valori della socievolezza, della vita attiva. Introdusse nella fabbrica delle figure di assistenti sociali. Si spese nel dialogo e nell’ascolto dei sindacati e con gli operai provenienti dalle regioni del Mezzogiorno.

Istituì un nuovo centro studi, attribuendo un particolare significato alla cultura, non sinonimo di erudizione, ma strumento per la formazione di capacità critica e di consapevolezza del dovere civico che ogni essere deve avvertire nei confronti della comunità in cui opera e in cui vive. Così fondò la casa editrice Edizioni Comunità, avvicinando architettura, storia, psicologia, filosofia e sociologia e proponendo saggi di alta qualità, con costante attenzione, oltre alla costruzione di un’Europa federale e solidale, al liberismo corretto da un’economia di piano.

Tutto questo non deve portare a pensare che trascurasse gli aspetti imprenditoriali; al contrario, propose numerosi prodotti innovativi tra cui, nel 1958, la macchina per scrivere Lettera 22 che fu un vero capolavoro di design e un successo commerciale di grandi proporzioni, di cui furono vendute 200 mila unità all’anno[19].

Gian Lupo Osti

Gian Lupo Osti comparve sulla scena politica mentre ancora erano in corso le ultime fasi del secondo conflitto mondiale, nelle sale dove si riuniva il Comitato Interministeriale per la Ricostruzione[20]. Un’Italia dalle molte povertà[21] di che cosa ha anzitutto bisogno? Come era fattivamente possibile ricostruire una nazione?

Nato a Napoli nel 1920, figlio di un ingegnere che aveva combattuto in entrambe le guerre, giovane profondamente provato dal fascismo, Osti era distante dalle concezioni che cercavano risposte in un capo carismatico. Guardò alla miseria italiana e fu tra coloro che lavorarono alla nuova ripartenza; fu a fianco di Oscar Sinigaglia per aggiornare la tecnologia della nostra industria siderurgica, completando nella Conegliano Spa un progetto di rinnovamento e automazione degli impianti.

Osti sosteneva l’importanza dell’intervento pubblico nell’economia, ma riteneva che fosse necessario non fermarsi alla creazione di lavoro e reddito, ma che si dovesse costruire un dialogo costruttivo con i lavoratori, creando empatia con una popolazione che si sentiva tradita dalla politica, costruendo processi di decisione sulla base delle esigenze dei lavoratori. Il dialogo era anche il primo passo per instillare nelle menti di ognuno l’idea che forse fosse finito il tempo della passività e che un nuovo corso potesse avere inizio solo se si fosse messo in gioco in prima persona. Questa sua visione lo accompagnò negli anni in cui fu segretario generale della Cornigliano Spa, in Finsider e quando, nel 1965, divenne amministratore delegato dello stabilimento di Terni.

Sul fronte imprenditoriale, sostenne significativi investimenti sugli impianti produttivi; per il resto, Osti pensava che industria e cultura dovessero procedere di pari passo e la cultura dovesse spogliarsi del gusto per l’erudizione fine a sé stessa. L’ufficio del personale fu incaricato di lavorare sulla formazione dei lavoratori su una pluralità di aspetti, compresi quelli relativi alla coltivazione delle proprie passioni personali. Fu istituito il programma di analisi e valutazione del lavoro, si investì nella formazione permanente e furono messe in pratica articolate politiche di incentivazione alla carriera, che premiavano il serio e attivo coinvolgimento del lavoratore nel progresso dell’azienda.

Nel 1965, l’anno in cui Osti arrivò a Terni, l’industria era già diventata l’approdo sicuro per molti italiani, grazie anche agli effetti del Piano Marshall e degli accordi di Bretton Woods, portando lavoro e una qualche sicurezza economica, ma, d’altra parte molti aspetti relativi alla dignità del lavoro erano poco considerati. Osti fu tra i pochi che in quegli anni invece continuò a considerare l’uomo il vero protagonista di tutto il sistema: il lavoro doveva essere anzitutto uno strumento di crescita dell’individuo, perché solo uomini consapevoli delle proprie capacità potevano contribuire al progresso e solo progetti inclusivi, ampiamente partecipati potevano fare davvero generare progresso. Così a Terni aprì le porte a laureati in scienze umanistiche e sociali. Sviluppò inoltre l’esperienza intrapresa a Conegliano coinvolgendo i lavoratori nella progettazione delle case a loro dedicate e prevedendo incontri per rendere gli operai protagonisti di un progetto di rilancio economico e sociale. Questi incontri si unirono ai molti corsi e alle diverse iniziative culturali (tra le quali lo spazio dato alla coltivazione di hobby, la biblioteca, il circolo dei lavoratori).

Eugenio Perucatti

Questa – sicuramente incompleta - galleria di italiani fuori dagli schemi si chiude con una figura estranea al mondo imprenditoriale. Eugenio Perucatti nacque a Napoli nel 1910 e nel 1952 fu inviato sullo scoglio di Santo Stefano, per dirigere il carcere costruito in età borbonica e gestito secondo l’allora ancora vigente regolamento carcerario di epoca fascista. Vi si trasferì con la moglie e i suoi dieci figli, uno dei quali ha scritto e tramandato la sua azione.

Perucatti denunciò con forza i limiti di un sistema di detenzione esclusivamente punitivo, riportando l’attenzione sul dovere educativo, la necessità di formare i giovani, l’impegno per garantire una vita sostenibile a tutti i membri della comunità e perché chiunque avesse possibilità di mettere a frutto le proprie potenzialità. Era solito ricordare ai suoi collaboratori l’art. 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e ricordare che “il rispetto, che non può derivare da nessun obbligo, ma solo da se stesso, dalla sua esperienza diretta: solo chi lo riceve lo può poi dare[22]”.

Così individuò tutto quanto mancava sull’isola per renderla un posto decoroso dove vivere; strappò i carcerati alla noia e affidò loro l’esecuzione delle opere necessarie, nella convinzione che il lavoro educasse alla relazione e al dialogo. La suddivisione dei compiti e la varietà delle mansioni fu occasione per sperimentare competenze e individuare attitudini e capacità.

Coinvolse gli abitanti della vicina Ventotene in un progetto di formazione all’attività agricola, creando così un primo ponte con la comunità dei civili e sfondando una breccia nel muro della diffidenza: rese possibile il confronto tra differenze e l’esperienza della collaborazione. Fece costruire edifici per lo svago e il tempo libero, che furono messi a disposizione anche degli abitanti dell’isola vicina, perché si creassero i presupposti per costruire relazioni sociali. Lottò nelle sedi più opportune perché anche il mondo degli istituti di pena ricevesse le attenzioni che meritava. Lo fece con l’animo dell’educatore e con adeguata formazione in materie giuridiche e il suo contributo tese a sottolineare come la pena detentiva non potesse essere una forma di velata vendetta, ma un’occasione per la riabilitazione e dunque fosse essenziale valutare l’intero percorso, dal processo alla detenzione, considerando anzitutto la dignità e la capacità critica di ogni individuo. Suggeriva di condurre il carcerato in un processo di autodeterminazione, di riflessione e di esperienza del suo essere in relazione con l’altro; chiedeva di verificare gli atteggiamenti e le competenze via via dimostrate, per registrare le resistenze e i segni di cambiamento e quindi stabilire l’eventuale rientro nella società civile. Come i già citati padri del socialismo utopistico, era fortemente convinto che qualsiasi essere umano, se messo nelle condizioni di vivere in un contesto ordinato e armonioso, poteva sentirsi gratificato, accolto, apprezzato e dunque poteva restituire in termini di atteggiamenti positivi la sua gratitudine.[23]

Quando, dopo otto anni di lavoro, nel 1960 due detenuti evadono viene colta l’occasione per chiederne le dimissioni.

Conclusioni

Alla fine di questi ritratti di italiani fuori dagli schemi, restano molte domande.

In che misura questi uomini furono dei precursori delle nuove sensibilità che si sarebbero affermate nel corso degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e in che misura le loro istanze di cambiamento altro non erano che tentativi “conservativi” di mitigare e tenere in vita sistemi palesemente ingiusti?

E, con gli occhi di oggi: in che misura questi uomini riescono a parlare a chi oggi immagina un modo di fare impresa orientato all’interesse generale, come nel caso delle imprese sociali, o a quell’ampio mondo di imprese for profit che cercano strade diverse dalla mera ricerca del profitto degli azionisti, richiamandosi a vario titolo a forme di responsabilità sociale, come nel caso delle imprese benefit?

In che misura l’attuale welfare aziendale rappresenta una versione aggiornata delle visioni che avevano ispirato i protagonisti di questi ritratti e in che misura è invece un fenomeno nuovo e del tutto diverso?

Le loro idee, le loro realizzazioni rappresentano mero oggetto di studio per gli storici, essendo le loro proposte del tutto superate dagli eventi che sono seguiti, o offrono ancora spunti – come l’attenzione alla centralità della persona, la capacità di vedere nell’altro un altro elemento unico e inscindibile della stessa unità di cui facciamo parte, la fiducia negli esseri umani, la ricerca della valorialità, la consapevolezza, la reale percezione della molteplicità di vite che ci circonda per un’azione generatrice, una visione olistica del benessere e tanto altro - che oggi vale la pena di recuperare nella cultura e nella politica?

Si tratta di domande cui è difficile dare una risposta definitiva, che comunque non può che derivare da inclinazioni e riferimenti culturali di ciascuno di noi, ma una cosa è certa. Quale che sia la risposta, è importante che di queste esperienze non si perda memoria. Cosa che invece, con qualche eccezione – la figura di Adriano Olivetti ha catalizzato ad esempio un crescente interesse in questi ultimi anni – è avvenuto. Si è voluto ricordarle non tanto per gli studiosi, ma per gli imprenditori sociali che leggono questa rivista, e che sono più di altri in grado di dare, a partire dalla propria esperienza, delle risposte concrete a questi interrogativi.

 

DOI: 10.7425/IS.2023.02.06

 

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[1] J. Clayton, Robert Owen: Pioneer of Social Reforms, 1908, p. 24

[2] Ci riferiamo all’ “Antologia, giornale di scienze, lettere ed arti”. Il Gabinetto Viessieux diventò un luogo dove poter leggere senza acquistare libri, giornali, biografie, dizionari, atlanti consentendo una più ampia disseminazione della cultura scientifica e non.

[3] P. Dazzi, Società delle scuole del popolo di Firenze, pp 26-27.

[4] Per un approfondimento circa le testate giornalistiche nate nella prima metà del 1800 con l’intento pedagogico di evidenziare l'assoluto valore dei principi dell’umanesimo civile e di formare cittadini consapevoli si rimanda alla lettura di F. Della Peruta, Il giornalismo italiano del Risorgimento, Milano, Franco Angeli, 2011.

[5] G. Maifreda, L’organizzazione del lavoro, Milano-Torino, Pearson, 2022, p.5.

[6] G. Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, pp. 265-280.

[7] S. Conca Messina, Alle origini del Welfare aziendale, 3 sociali degli impren­ditori nell’Italia dell’Ottocento, in Il Welfare aziendale in Italia fra identità e immagine pubblica dell’impresa. Una prospettiva storica, a cura di P. Battilani, S. A. Conca Messina, V. Varini Bologna, Il Mulino, 2017.

[8] Tra le letture che possono offrire un approfondimento sul tema del paternalismo italiano segnalo E. Benenati, Cento anni di paternalismo aziendale, in S. Musso (a cura di) Tra fabbrica e societò. Mondi operai nell’Italia del ‘900, Milano Annalidella Fondazione G. Feltrinelli, vol. 23/1997; A. Ciuffetti, Casa e lavoro. Dal paternalismo aziendale alle “comunità globali”: villaggi e quartieri operai in Italia tra Otto e Novecento, Perugia, Crace, 2004; L. Trezzi, L. Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e associati, 2012

[9] G. Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974

[10] Sull’esperienza Crespi vedi anche G. L. Fontana (a cura di) Comunità del lavoro. Città e villaggi operai nel mondo. Venezia, Marsilio collana Ricerche, 2019.

[11] La peculiarità dell’esperienza del setificio Gavazzi è ricordata in S. A. Conca Messina, Alle Origini del Welfare aziendale. Industria, manodopera e opere, https://air.unimi.it/retrieve/dfa8b999-c65e-748b-e053-3a05fe0a3a96/2017_CONCA%20MESSINA_WELFARE%20POST%20PRINT.pdf.

[12] Il 1858 è l’anno in cui vengono inviati nella colonia i primi detenuti e un primo dissodamento dell’isola risale ai primi decenni dell’800. Si rimanda agli studi del progetto PLANASIA (www.toscana.beniculturali.it/index.php?it/292/progetto-planasia) e alle ricerche pubblicate dall’Associazione per la Difesa dell’Isola di Pianosa. È, inoltre, in corso di pubblicazione il catalogo della biblioteca e l’indice dell’archivio della citata associazione, nata dall’iniziativa di ex pianosini.

[13] Cfr. La Pianosa: Lettere del comm. dott. Leopoldo Ponticelli alla direzione della Rivista di discipline carcerarie, Civitavecchia, Tip. Del Bagno penale 1880.

[14] Si veda a tal proposito R. Owen, L’armonia sociale. Saggi sull’educazione, Scandici (FI), La nuova Italia, 1994

[15] Il romanzo utopistico Notizie da nessun luogo di William Morris costituisce una buona esperienza di lettura per avvicinare la profondità e la forza di questo pensiero, nella società ottocentesca, dipendente e vittima da una delle prime forme di urbanizzazione selvaggia.

[16] Il testo completo del Manifesto di Ventotene è disponibile al sito https://novara.anpi.it. Un’interessante analisi del testo, tesa a far emergere lo spirito umanitario che animava i suoi autori è offerto da Pier Virgilio D’Astoli, La montagna, la palude e la democrazia internazionale nel Manifesto di Ventotene, 1000-1003, 2009, visualizzabile all’indirizzo torrossa.com. U.a. 10/01/2023.

[17] Il precedente articolo di Giovanni Devastato amplia la galleria di figure di questo periodo storico tratteggiate in questo numero di rivista [ndr].

[18] Cfr. S. Colarizzi, Storia del Novecento Italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranze, Milano, Rizzoli, 2000.

[19] S. Colarizzi, Storia del Novecento italiano, cit.

[20] Cfr. Gian Lupo Osti, di Ruggero Ranieri - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 79 (2013)

[21] Cfr. E. Felice, G. Vecchi, Italy’s modern economic growth (1861-2011), in “Enterprise & Society”, Vol. 16, No. 2 (JUNE 2015), pp. 225-248).

[22] Cfr. A Perucatti, Quel “criminale” di mio padre. Eugenio Perucatti e la riforma del carcere di Santo Stefano. Una storia di umana redenzione, Ultima Spiaggia, 2014.

[23] Un contributo sintetico è offerto dall’intervento Ergastolo e carcere, la lezione di Perucatti: la condanna va regolata con la condotta del detenuto, disponibile on-line al sito ilriformista.it. Per quanto riguarda l’opera di ammodernamento compiuta da Eugenio Perucatti durante la sua lunga permanenza sull’isola di Santo Stefano sono stati analizzati principalmente i contributi delle riviste carcerarie.

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