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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2023

Saggi

Il futuro è nelle origini: un viaggio nell’“altro-novecento”

Giovanni Devastato


Strana gente

Questo saggio tratteggia, approfondisce e attualizza il tema della dimensione civile e dell’attivismo civico collegandolo ad una ricca e straordinaria tradizione di pensiero e di pratiche che hanno portato a conquiste sociali e a nuove consapevolezze costituendo la base fondativa per la configurazione del moderno Welfare Sociale.

Da questo formidabile percorso, punteggiato da eventi, persone, lotte, mobilitazioni, progetti, intuizioni, ha preso vita un insieme articolato e variegato di micro-laboratori territoriali in varie aree del Paese, che, purtroppo, non è stato sufficientemente esplorato in tutte le sue potenziali implicazioni, essendo, per molti versi, ancora considerato un settore periferico e non, come dovrebbe essere, la fonte sorgiva di una memoria attiva e generativa di un nuovo inizio.

Per questo, siamo ancora convinti che, a distanza di anni, è necessario riportare alla luce da scaffali bui e polverosi la ricca letteratura civile e sociale presente negli archivi disseminati per l’Italia, poiché trattasi di preziose testimonianze dei protagonisti del tempo: quelli che a noi piace chiamare i Maestri e i Pionieri del lavoro di comunità, in qualche modo, i classici del pensiero sociale.

A partire da questa ineludibile esigenza si propone questo articolo[1], al fine quindi di non disperdere questo eccezionale patrimonio socio-culturale, senza cedere alla tentazione di crogiolarci in un nostalgico esercizio memorialistico, ma con l’intento di disseminare questo prezioso giacimento storico-valoriale rendendolo fruibile ad un pubblico possibilmente ampio sia del circuito professionale (operatori sociali, insegnanti, educatori, ricercatori e storici impegnati nel campo della Public History, ecc.) che delle reti di cittadinanza attiva affinché diventi un’opportunità per “fare memoria civile in una dimensione pubblica”, uno spazio sperimentale di narrazione generativa perché il passato sia uno stimolo continuo per partecipare al presente e pensare al futuro. Narrando il sociale si genera sociale[2].

Ciò è particolarmente cogente nell'attuale congiuntura, contrassegnata da una serie di processi destrutturanti: dallo smantellamento dei sistemi di welfare alle espulsioni brutali del popolo degli abissi da parte del capitalismo selvaggio; dall’impatto delle politiche neoliberiste nel settore dei servizi sociali e sanitari alla tendenza, diffusa tra gli operatori, di rifugiarsi ciecamente nell’azione rivolta alla dimensione individuale del processo di aiuto perdendo di vista il più ampio contesto comunitario.

Fare memoria, pertanto, ci insegna che, a volte, il passato è in anticipo non solo cronologicamente, ma anche idealmente sul futuro, a patto di avere la chiarezza che andare alle origini non significa voler ripetere pedissequamente il passato, ma riprendere creativamente una trama preziosa da dipanare nell’oggi per fertilizzare un presente confuso ed incerto.

Il racconto che ci accingiamo a fare vede come protagonisti della “strana gente”, come li chiamerà argutamente Goffredo Fofi[3]. È questa una contro-narrazione del Novecento alternativa alla storia ufficiale, quella di “un’altra Italia”, non più il “secolo breve” delle dittature, delle atrocità indicibili, dei sommersi e dei salvati, dei conflitti bellici, dei prigionieri di guerra al confino[4] così magistralmente descritte nelle distopie letterarie (ma non tanto) di Huxley, Orwell, London, Ph. Dick, Bradbury, Saramago. Non più un viaggio al termine della notte, ma un “bordeggiare sul limitar del possibile”. Così, cammin facendo, ci siamo accorti che davanti a noi si disegnava un affresco corale, un’epica comunitaria, una sorta di biografia collettiva ricostruita attraverso le singole biografie dei tanti Maestri che incontreremo.

Una biografia della nazione “alla rovescia” in cui ad agire sono le minoranze invisibili, quelle che “determinano il trionfo dei vincitori rispetto all’indicibile dei vinti”[5] e che mitigano le distopie totalitarie del Novecento attraverso tante piccole utopie concrete che non sono qualcosa di insignificante perché impraticabile, ma sono l'energia del fare e del “ben fare” sempre tesa e mobile perché non si placa mai in nessun luogo.

Come sottolinea l’economista premio Nobel, James Edward Meade, non siamo alla ricerca del luogo perfetto, ma più semplicemente di “un buon posto dove vivere[6] per condurre una vita degna e giusta nella ricerca del bene comune.

Si tratta di un viaggio a ritroso nel tentativo inesausto di incontrare quelli che, con un termine di un giovane filosofo, troppo presto passato nella schiera dei grandi precoci, si potrebbero definire “i persuasi”, coloro che agiscono per “fare di sé stessi fiamma[7], in quanto si deve avere “il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo[8] per proseguire ostinatamente e con gioia nella propria vocazione minoritaria senza mai rinunciare ai propri valori etico-politici[9]. Il persuaso è colui che ha in sé la sua vita e di fronte alla sua irriducibile manchevolezza non ha che questa indicazione: non adattarsi alla sufficienza di ciò che t’è dato.

È la storia sociale del Paese ove il legame tra cultura e società è stato peculiare sia al Nord con la pattuglia olivettiana sia al Sud con il riformismo meridionale della scuola di Manlio Rossi Doria.

In questo labirinto di idee, suggestioni, folgorazioni, ad un certo punto, pensavamo di esserci smarriti, da qui un dubbio lacerante: c’è un nesso tra queste vicende e il lavoro sociale di comunità di cui vogliamo occuparci in queste pagine? La risposta, per quanto fulminante, è stata quasi scontata: sì, perché all’interno di queste pratiche collettive stava prendendo forma il moderno servizio sociale.

La filosofia, l’economia, l’antropologia, la letteratura, la sociologia, la politica, tutte, convergevano verso una pratica di emancipazione sociale mediante la partecipazione dal basso per costruire una democrazia matura e consapevole in cui giustizia, libertà ed uguaglianza fossero i cardini della convivenza civile. Il monito dominante era fare della democrazia un processo mediante il quale aiutare le persone ad aiutarsi, costruire autonomie, generare capacità, allestire contesti comunitari.

Angela Zucconi, una figura chiave di queste storie minori, che ritroveremo sovente nelle vicende dello sviluppo comunitario in Italia, dichiarava: “Dai convegni ai quali partecipavo come direttore della scuola, in quegli anni, soffiava un buon vento ricco di semi. Eravamo invitati dall’Istituto Nazionale di Urbanistica a parlare di assistenti sociali, perché in quel momento felice pareva certo che: case, strade, servizi sociali, verde pubblico, tutto sarebbe stato fatto a misura d’uomo, al suo servizio e con un intervento globale[10].

Sottrarre alla dura legge dell’oblio questi brani di vita vissuta, richiede la necessità di raccogliere e sistematizzare queste esperienze, rendendole fruibili a tutte le generazioni di assistenti sociali e non solo.

Questo è il motivo per cui il lettore, al qual chiediamo lo sforzo di seguirci in questo impegnativo ma affascinante itinerario, si imbatterà in molte e, a volte, lunghe citazioni, perché una distintiva finalità del testo è anche quella di familiarizzare, laddove è possibile, con dei testi e con una bibliografia misconosciuta e sotterranea che solo ultimamente si sta riscattando dal muto letargo del tempo.

Sono, in qualche modo, i classici del pensiero sociale, quelli che restano contemporanei pur con il passar del tempo, perché, come ricordava Italo Calvino, “i classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”[11].

Auspichiamo, perciò, che l’entusiasmo che ha portato gli assistenti sociali del periodo della ricostruzione post-bellica a progettare, spesso in una situazione di frammentarietà organizzativa, iniziative di lavoro su territori dilaniati dalla guerra, possa essere di grande ispirazione per tutti coloro che, su fronti differenti ma per tanti versi analoghi, stanno smarrendo, in questo tempo turbolento, senso e direzioni del lavoro sociale.

Per tornare al fervore contagioso e alla progettualità trascinante di quei tempi, data l’attuale temperie storico-culturale che stiamo vivendo, occorrerebbe seguire l’invito di Paul Goodman secondo il quale bisogna essere capaci di fare delle scelte audaci, tracciare un limite, fissare una linea oltre la quale non si è più disposti a collaborare[12]. Una miscela esplosiva che combina slancio utopico e progettualità pratica per rimodellare dal basso e in modo nonviolento la società e pensare “per utopie pratiche”. Abbiamo bisogno di “energie nove”, proprio come il titolo della testata di una delle Riviste di Piero Gobetti, giovane martire delle belve squadriste.

Dunque, tracciare il limite: questa è la nuova sfida che bisogna raccogliere pur nella disincantata consapevolezza che “oggi la situazione è peggiore rispetto al 1945, oggi c’è meno ottimismo di ieri[13].

2. Il servizio sociale di comunità in Italia: il futuro è alle spalle

Lavorare in un’ottica comunitaria richiede un nuovo equipaggiamento professionale, nuovi apparati metodologici e differenti dispositivi organizzativi. Un passaggio obbligato per andare in questa direzione, a nostro avviso, consiste nel rileggere quanto è accaduto alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso quando il servizio sociale italiano, nella necessità di rifondarsi dopo il fascismo, ebbe una chiara centratura a forte impronta comunitaria nel nostro Paese.

Questo sforzo di risalita alla fase costitutiva del moderno servizio sociale deve, però, rappresentare non un ritorno nostalgico ad un’era ideale, ma un movimento che retrocede per avanzare, nella consapevolezza che “il nostro destino dipende dalle origini[14]. Come notava J.W. Goethe, nelle sue Massime e Riflessioni “tutti i pensieri intelligenti sono già stati pensati; occorre solo tentare di ripensarli”.

La storia, in altre parole, insegna che a volte il passato è in anticipo, non solo temporalmente ma anche idealmente, sul futuro.

Il ritorno alle origini coincide con quello che ormai è considerato l’atto fondativo del moderno servizio sociale italiano: il Convegno per Studi di Assistenza Sociale di Tremezzo (CO), svoltosi dal 16 settembre al 6 ottobre del 1946[15] organizzato sotto organizzato sotto gli auspici del Ministero per l'assistenza postbellica, della Delegazione per il governo italiano per i rapporti con l'UNRRA[16].

Il programma dei lavori del convegno era intenso e toccava molti nodi dell'assistenza, per cui si può condividere in pieno quanto affermato da Angela Zucconi: “A rileggere le pagine degli Atti del Convegno stampati nel 1947 si nota una cosa straordinaria: per molti problemi c'erano allora pacchetti di proposte concrete, praticabili e aggiornate sull'esperienza di Paesi più avanzati del nostro. L'Europa era allora davvero vicina. Ogni relazione era chiaramente frutto di varie settimane dedicate alla raccolta di dati e di idee[17]. Un’altra testimonianza significativa è quella di Adriano Ossicini, il quale, non senza enfasi ma con convinzione, dichiarò che “al Convegno di Tremezzo si gettarono le basi per la trasformazione radicale dell'assistenza in Italia[18].

Ma aldilà delle diverse considerazioni, una cosa è certa: una iniziativa del genere non si è mai più ripetuta in Italia dal dopoguerra ad oggi. Al riguardo osserva amaramente la Zucconi nella sua autobiografia: “Nei tanti convegni che seguirono non si è mai più parlato del convegno di Tremezzo. La stessa sorte toccò alla grande inchiesta parlamentare sulla miseria e all’inchiesta sulla disoccupazione[19]. Quest’ultimo riferimento è all'inchiesta parlamentare “Sulla miseria e sui mezzi per combatterla” deliberata dalla Camera dei deputati il 12 ottobre 1951. Parallelamente veniva avviata anche un'inchiesta sulla disoccupazione. Per vent'anni, il regime fascista aveva abolito lo studio e il dibattito sui problemi sociali: le due inchieste segnavano il ritorno del Parlamento a una tradizione prefascista di indagini svolte dal potere legislativo sulle realtà economiche e sociali del nostro paese. Il materiale raccolto dalla Commissione parlamentare per l'inchiesta sulla miseria occupa migliaia di pagine: verbali di accertamenti, relazioni, monografie, dati statistici. Nel documento emerge, con tratti vividi e realistici, la descrizione della miseria nelle diverse realtà territoriali: “le condizioni di bisogno” a Roma, Borgata di Pietralata, Borgata Gordiani, Acquedotto Felice, la situazione di Napoli, la provincia di Matera, la depressione in Sicilia. Ne viene fuori uno spaccato delle condizioni di vita di una parte cospicua della popolazione italiana nell'immediato dopoguerra, che è insieme documento storico e di umanissima drammaticità[20].

Le questioni dell'immediato dopoguerra occuparono trasversalmente tutto il convegno: la guerra rappresentò un’autentica “formazione” per tutti coloro che l'avevano vissuta e il livello di identificazione con i problemi che venivano rappresentati era altissimo. Certamente, una delle conseguenze concrete fu l'impulso che ne scaturì per lo sviluppo delle “scuole nuove[21] di servizio sociale, così chiamate perché dovevano radicalmente superare quelle organizzate dal Partito Fascista impostate sulla figura, autoritaria e burocratica, della cosiddetta “assistente sociale di fabbrica”. Il modello che doveva emergere era quello di un’assistente sociale moderna, libera, autonoma, non un burocratico funzionario amministrativo, ma figura centrale nel promuovere i valori della democrazia, della libertà, della giustizia.

Giustamente è stato detto che Tremezzo non è stato un laboratorio asettico ove si è discusso di questioni astratte, ma è stato un luogo storicamente impregnato dalle contraddizioni e dai fermenti che attraversavano in quel momento il Paese.

In linea di massima si può dire che due furono le correnti manifestatesi nel corso dei lavori: quella che potremmo chiamare di sinistra e rappresentata in particolare dal gruppo social-comunista, e quella cattolica costituita dai rappresentanti delle organizzazioni assistenziali confessionali o comunque collegate strettamente con il concetto cattolico di assistenza e di carità. Coerentemente con questa contrapposizione, il Convegno era anche diviso tra chi auspicava le riforme e la costituzione dei servizi sociali e chi no. Purtroppo, prevalse la seconda posizione che portò anche all’abolizione del Ministero dell’Assistenza post-bellica, il cui Ministro, Emilio Sereni, era intenzionato a trasformare successivamente in Ministero degli Affari Sociali. Per molto tempo l’Assistenza Sociale è stata di competenza del Ministero degli Interni. Che è tutto dire!

Questi sono gli anni in cui si stavano mettendo le basi dello scontro ideologico tra i due blocchi dell’Ovest e dell’Est, che sfociò nella lunga guerra fredda e che paralizzò, in particolare, il quadro politico italiano su posizioni retrive e confessionali. L’epoca di Yalta saltò e con essa tutti i Fronti di Unità Nazionale che si erano formati in Europa contro i regimi nazifascisti. In Italia la situazione fu inasprita ancora di più dalla presenza del Vaticano e dalla sua politica pretestuosamente anticomunista che nel giro di pochi mesi dalla Liberazione portò allo scioglimento dei Comitati di Liberazione Nazionale e alla fine del primo governo resistenziale di Ferruccio Parri cui seguì l’inizio dell’era democristiana[22].

Tutti i successivi contrasti e il progressivo deperimento delle idee più innovative e sperimentali furono dovuti a questi frangenti storici, il cui esito fu l’affermazione dell’egemonia dell’ideologia cattolica e la marginalizzazione delle forze laiche e progressiste. Riportiamo ancora la profonda amarezza e la disincantata lucidità con cui la Zucconi ricorderà questi avvenimenti nella sua Autobiografia, quando con, dissimulata mestizia, notava: “la piantina non sarebbe cresciuta e l’utopia non sarebbe diventata la politica di domani. Prevalse la politica assistenziale demagogica del giorno dopo giorno, di cui tutt’ora paghiamo i debiti e degli Atti di Tremezzo non restò che l’odore di quelle notti passate a cantare[23].

Dell’inizio: in principio era l’azione

Nell’immediato dopoguerra il nostro Paese assisteva alla nascita di una fitta rete di piccoli gruppi, strutturati o meno[24], che erano pronti, una volta liberata l’Italia dal fascismo e dalla guerra civile, a mobilitarsi per favorire il sorgere di un nuovo concetto di cittadinanza, un nuovo – e nel nostro paese inedito - senso civico, una nuova attitudine verso il bene pubblico, la sua tutela ed il suo utilizzo dopo anni di oppressione dittatoriale e azzeramento di tutti gli istituti democratici. I principali personaggi, considerati i protagonisti di questa esaltante stagione storica, hanno dato vita a molteplici esperienze dal basso: è quella “strana gente”, già menzionata nelle righe iniziali[25], che spazia dal Sud contadino, eletto a sede di esperimenti di “comunità”, alla Torino di Raniero Panzieri e dei primi entusiasmi operaisti. È il ritratto di una generazione attraversata da forti e sincere tensioni sociali e politiche, estranea alle grandi “chiese” del tempo[26] (DC e PCI in prima battuta), popolata di personaggi come Manlio Rossi-Doria ed Ernesto De Martino, Ada Gobetti e Natalia Ginzburg, Carlo Levi ed Ernesto Rossi, Claudio Napoleoni, Gigliola e Franco Venturi, Giovanni Mottura, Angela Zucconi, Adriano Olivetti e Norberto Bobbio, Guido Calogero, Maria Comandini, Adriano Ossicini, Danilo Dolci e Aldo Capitini, Goffredo Fofi.

Non ci allontaneremmo dal vero se definissimo l’azione di questi attori, a vario titolo impegnati nel sociale, come degli organizzatori di comunità ante-litteram. Questa è stata una stagione irripetibile, segnata dalle drammatiche condizioni dell’immediato periodo post-bellico in cui “la chiamata dei migliori”[27] contribuì alla ricostruzione materiale e morale del Paese mettendo al centro della loro azione proprio il lavoro di comunità dal basso. Questa storia, come ha acutamente osservato Fofi, è stata soprattutto “storia di donne, di quelle donne, che, avendo preso parte ai pericoli della clandestinità e della Resistenza, rifiutarono di tornare ad essere fedeli esecutrici dei mandati maschili nella politica, e scelsero di conseguenza il terreno della ricostruzione del tessuto civile del Paese attraverso la pratica del cosiddetto «sociale»[28]. Anzi, come è stato giustamente evidenziato[29], è possibile stabilire, considerata la contemporaneità dei due eventi, una corrispondenza tra questi obiettivi ed i principi fondamentali della Carta costituzionale che vedevano l'Assistenza Sociale come sistema imprescindibile di attuazione dei principi costituzionali della nascente Repubblica Italiana. In tal senso vanno lette le parole della Comandini: “L’assistenza sociale è una diversa forma di esercizio e di creazione della democrazia, cioè dell’attitudine degli uomini a risolvere da sé i propri problemi e a conquistare, in un’armonia collettiva, più larghe opportunità di vita e migliori opportunità d’azione[30].

Ma se l’eccezionalità della congiuntura politica e morale che portò alla stesura della Costituzione è stata molto studiata e analizzata da ogni prospettiva, molto meno conosciuta è quella parte della ricostruzione che riguardò l’assetto sociale e civile dei territori e delle popolazioni stremate dal conflitto. A questo livello agì una minoranza di intellettuali, di gruppi, di scuole, di organizzazioni che incrociando prospettive e spinte molto diverse tra loro, per circa vent’anni (fino alla fine degli anni Sessanta) riuscirono a dare vita ad alcuni interventi che ancora oggi rappresentano un modello per chi si occupa di lavoro educativo e sociale. Infatti, la consapevolezza che cambiamenti radicali, nelle pratiche e nelle mentalità sia degli amministratori che dei cittadini, erano necessari per poter avviare una sostanziale democratizzazione dello Stato - nei suoi apparati amministrativi, nei suoi interventi assistenziali, nella sua gestione del territorio, nella sua opera di stimolo alla ripresa economica - accomunava queste realtà. Giuseppe De Rita, che ha frequentato il Cepas ed è stato operatore di comunità prima di fondare il Censis, parla di quel periodo con un entusiasmo quasi con toni messianici: “allora eravamo convinti di cambiare il Paese, di fare missione di comunità dentro un grande movimento collettivo, con dietro le grandi culture popolari, quella cattolica e quella socialista, culture che si facevano in quel momento motore di cambiamento”[31]. Pertanto la dimensione in cui esse decisero di agire era quella comunitaria, considerata come un ambito territoriale di ridotte dimensioni, o un quartiere urbano periferico, entro il quale operare con consapevolezza, cercando di capire quali fossero le esigenze avvertite come più urgenti dai suoi abitanti, cercando soluzioni condivise che facessero leva sulle inutilizzate risorse locali, sia umane che materiali, invece che attendere l’intervento pubblico che offriva prestazioni parziali, discriminanti e che, di solito, lasciava i problemi irrisolti, favorendone anzi la cronicità. La dimensione comunitaria permetteva infatti di conoscere a fondo la realtà nella quale si andava ad agire: questo favoriva una maggiore efficacia degli interventi, che potevano meglio individuare i problemi e sperare così di coinvolgere la popolazione locale nella loro soluzione.

Ma cosa facevano questi operatori di comunità? Facevano sviluppo rurale, si inerpicavano negli entroterra petrosi descritti da De Rita e si occupavano di elettrificazione, di acqua, di scuole, di rotazione agraria. Osserva, quasi empaticamente Aldo Bonomi, “gli operatori di comunità degli anni ’50 italiani non contavano nulla, erano frati scalzi laici invisibili rispetto alla potenza dell’innovazione dall’alto”[32]. E riferendosi ai Sassi di Matera, osserva che “a quel tempo la gente abitava dentro questi tumuli, queste caverne, e gli operatori di comunità si posero il problema di fare uscire questa povera gente e inserirli nella comunità dei cittadini materani. Mi pare questa una bella metafora di ciò che facevano gli operatori di comunità a quel tempo: rendere materialmente visibili persone che vivevano negli anfratti e nel sottosuolo per portarli alla luce del sole della modernità[33].

Gli anni ’50 furono quindi un grande momento da questo punto di vista. Ma nello scontro tra innovatori dall’alto e innovatori dal basso, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, i primi ebbero la meglio relegando di fatto lo sviluppo locale in una zona d’ombra, diventando culturalmente egemone e provocando l’esatto contrario di ciò che gli operatori di comunità promuovevano nel Mezzogiorno: al posto della modernizzazione delle aree deboli si optò per la migrazione di milioni di lavoratori dal sud al nord.

L’approccio comunitario era certo una novità rispetto alla tradizione amministrativa italiana, da sempre caratterizzata da un forte centralismo, incapace di leggere e capire le numerose e diverse realtà locali presenti nel Paese. Nondimeno questa caratteristica restò immutata anche dopo il passaggio dall’Italia fascista a quella repubblicana, e perfino gli interventi pubblici più lungimiranti di quel periodo, quelli che avrebbero posto le basi per l’improvvisa crescita economica degli anni del boom, erano caratterizzati da una spiccata impostazione “tecnocratica”. Giustamente è stato detto che il compromesso realizzatosi attraverso la Carta costituzionale conteneva in sé i germi di un’ambiguità che ha avuto poi in seguito la sua ricaduta nella mancata innovazione delle strutture dello Stato che non hanno mai marcato una netta discontinuità con gli apparati amministrativi del fascismo. Possiamo citare, al riguardo, Piero Calamandrei il quale notò acutamente che “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”. Questo spinse alcune minoranze etiche ed attive a concentrare i loro sforzi nei territori prepolitici del lavoro sociale, ossia della cosiddetta democrazia associativa in evidente opposizione alla democrazia formale. Si determinò, così, un paradosso che, a varie riprese, si ripete nel nostro Paese, riconducibile alla contrapposizione tra la realizzazione di cristalli di utopie concrete (l’espressione è di Goffredo Fofi) e centri di potere ostili a queste pratiche, tra movimenti riformatori e di emancipazione dal basso e apparati politici contrari a qualsiasi forma di protagonismo civico. Se è vero che in questa dialettica le forze più conservatrici s’imposero, ciò non toglie che la forza effervescente di queste esperienze continua carsicamente a muoversi nella società italiana.

Le realtà che promuovevano queste forme di sviluppo di comunità formavano un variegato arcipelago. Tra queste troviamo alcuni settori del nascente servizio sociale, che aveva come obbiettivo il superamento degli inefficaci interventi assistenziali pubblici, caratterizzati da un approccio caritatevole, burocratico e settoriale alle esigenze degli strati più poveri della popolazione. Si occuparono di interventi a livello comunitario il Centro Educazione Professionale per Assistenti Sociali (Cepas), fondato nel 1946 dai coniugi Calogero[34], attivo in numerosi progetti di sviluppo di comunità nelle aree più depresse del Mezzogiorno e le scuole dell’Ente Nazionale Scuole Italiane di Servizio Sociale (Ensiss), fondato da atipiche personalità del mondo cattolico, tra le quali Odile Vallin, pioniera del servizio sociale italiano e direttrice della prima scuola di Servizio Sociale italiana (la Scuola pratica dei servizio sociale di Milano) e Mons. Giovanni De Menasce, direttore dell’Ensiss di Roma.

Tra le molteplici relazioni tenute a Tramezzo, ci sembra particolarmente importante quella di Maria Comandini Calogero dal titolo significativo: “Necessità di una cultura storico-umanistica per la formazione dell’assistente sociale in Italia: problemi di democrazia e di collaborazione civica”. Quello della formazione era uno dei punti caldi più dibattuti a Tremezzo, se ne avvertiva l'urgenza per l'Italia di allora, dove la figura dell'assistente sociale era sconosciuta ai più, e si registrava la fretta di considerare un capitolo chiuso la passata esperienza della Scuola di Roma del Partito Nazionale Fascista.

Per molti protagonisti di allora l'impegno nel servizio sociale non fu altro che lo sbocco quasi “naturale”, del loro impegno civile e democratico. Così fu, infatti, per i coniugi Guido e Maria Calogero, attraverso il Cepas (Centro per l’educazione professionale degli assistenti sociali), esperienza per tanti aspetti originale e “unica” rispetto alle altre scuole nate nel secondo dopoguerra. Nel corpo docente della Scuola figuravano nomi illustri come Adriano Ossicini, Federico Chabod, Bruno Zevi, Cesare Musatti, perché gli imperativi del Cepas erano professionalità, approccio multidimensionale e prassi, nel senso di pratica riflessiva. È difficile separare l’impegno che i Calogero profusero nel servizio sociale da tutti gli altri aspetti della loro attività culturale, politica e civile.

Il lavoro sociale era da loro inteso come una ulteriore declinazione dell’impegno politico. In un documento privato si legge (è la Comandini che parla in terza persona): “Quando il marito fu arrestato e poi confinato in Abruzzo, ivi fece curiose esperienze sociali”. Le “curiose esperienze sociali”, cui si fa cenno, furono gli incontri che ebbe con i cittadini di Scanno, un comune abruzzese ove il Calogero era stato mandato in confino per il suo antifascismo. Da qui nacque il loro interesse per il lavoro sociale e soprattutto il ruolo che la leva formativa doveva giocare per l’acquisizione delle competenze da parte di coloro che vi si impegnavano. L’assistente sociale doveva essere una figura moderna, libera, autonoma, non un burocratico funzionario amministrativo, ma figura centrale nel promuovere i valori della democrazia, della libertà, della giustizia. Il problema era, quindi, disegnare una formazione larga, profonda che mettesse in grado questa nuova figura di operatore di ragionare con la propria testa.

Ciò che colpisce in questa vicenda è che nella nascita del CEPAS, come nel caso di altre scuole di Servizio Sociale, le figure coinvolte nello sviluppo della figura dell'assistente sociale non sono riconducibili ad un ambito tecnico ristretto di specialisti. La stessa Zucconi confesserà senza perifrasi che “nel campo dell’assistenza sociale non avevo precedenti all’infuori di una curiosa esperienza che avevo fatto a diciannove anni come “patronessa” dell’Opera Nazionale maternità e infanzia (ONMI)[35].

Così sotto la direzione di Guido Calogero, nel febbraio del 1947, il CEPAS inaugurava a Roma il primo corso, nella bella sede dell'Aventino. Seguirono poi le Direzioni della stessa Zucconi, di Paolo Volponi e anche di una cattolica dalla visione aperta e dialogante, Maria de Unterrichter Jervolino, sudtirolese, trapiantata nel Mezzogiorno d’Italia.

Per avere una precisa cognizione di quello che tutto ciò significava, riportiamo, per il suo valore dichiarativo ed esemplare, un lungo passaggio del discorso che Guido Calogero fece nella sua Prolusione di apertura: “Un assistente sociale atto non solo a diventare un funzionario di uffici assistenziali, ma anche ad operare al di fuori di tali ambienti, deve possedere non solo una sufficiente conoscenza tecnica e giuridica degli strumenti del suo lavoro, ma altresì una salda coscienza umana e sociale, capace di condurlo con sicurezza attraverso quel complicato mondo di difficoltà che in primo luogo vanno dominate dalla sicurezza dello spirito. Un buon assistente sociale deve avere serenità, pazienza, senso dell'umore: … qualità queste non solo psicologiche, ma anche che si acquistano e si consolidano attraverso un lungo itinerario. ... Questa serenità mentale, questa sicurezza dello spirito... nella storia della civiltà ha avuto i più diversi nomi: paideia, humanitas, cristianesimo, comprensione del prossimo, senso della storia, spirito della tolleranza e di libertà. Per conquistarla bisogna rendersi conto dei problemi fondamentali dell'agire umano ... ma bisogna anche essere pronti a capire il diverso altrui pensare, senza lo stato di animo intollerante di colui che è sicuro per sempre della verità propria”. [...] La finalità della scuola è quella di creare dei professionisti dell’assistenza, ma non mai dei burocrati, degli uomini pratici, ma non degli empirici, delle personalità attente e sensibili, ma insieme solidamente formate, non chiuse ad alcun problema ma non sopraffatte da alcun problema, per questo suo compito dev’essere scuola altamente formativa e scuola tecnica[36].

Ispirandosi a tali principi il CEPAS si connotò come ambito formativo non accademico nel senso che si aprì subito al territorio ideando e accompagnando Progetti Pilota di area (come il Progetto Pilota Abruzzo, quello di Avigliano e l’intervento sui Sassi di Matera attraverso l’insediamento del Borgo La Martella). Pubblicò anche una rivista periodica che fu un prezioso strumento di aggiornamento e comunicazione tra operatori, Centro Sociale, diretta da un’altra interessante figura di quei tempi, Anna Maria Levi, sorella del più famoso scrittore Primo Levi.

Di questa rivista, con malcelato compiacimento, la Zucconi annota che “un grafico illustre disegnò una copertina con due orbite una dentro l’altra, che non so bene se alludessero al centro sociale come centro di gravitazione o come ombelico della vita democratica[37].

È indubbio che la nascita della scuola inserì importanti elementi di vivacità nel dibattito del dopoguerra e si caratterizzò come una scuola “laica” e “anticoformista”, ma ebbe un percorso non facile: il disegno formativo originale ed innovativo dei suoi iniziatori ebbe difficoltà ad affermarsi. Le asprezze più dure si consumarono proprio con l'UNSAS (Unione Nazionale Scuole di Assistenza Sociale di ispirazione laica), nata nel seno della Confindustria milanese a cui inizialmente il CEPAS era stato obbligato a aderire. Ma Guido Calogero non si piegò alle sue richieste autoritarie e mantenne la sua linea in una traiettoria di rigorosa coerenza.

Osserva opportunamente Rita Cutini: “non è ancora stato descritto - e sarà necessario farlo - il lungo, e per certi aspetti interessante, contenzioso che si concluse con la separazione del CEPAS dall'UNSAS. Si tratta di una vicenda emblematica e perfettamente inquadrata nella dialettica storica tra il “vecchio” e il “nuovo” tanto presente nella società italiana del dopoguerra.” [38]

In questo modo il Cepas mantenne la sua ispirazione laica e progressista fautore di un servizio sociale ad orientamento etico-politico. Ciò permise alla Zucconi di prendere atto, in termini entusiasti, che il Cepas nacque adulto perché “reclutò tra i partigiani e i reduci la prima leva di assistenti sociali. [...] Una generazione di giovani che non erano giovani perché si erano maturati nelle esperienze della guerra e della lotta partigiana[39].

La storiografia ufficiale ha enfatizzato la componente maschile della lotta partigiana trascurando o marginalizzando il ruolo delle donne riducendole solo a staffette di montagna per le comunicazioni tra le varie postazioni, ma come ci ricorda Ada Prospero Gobetti, le cose in realtà stanno in un altro modo[40]. Sul ruolo delle donne nella Resistenza e nel lavoro sociale in generale sono in corso una serie di ricerche volte a definirne bene il ruolo e la valenza[41].

Una posizione fondamentale e imprescindibile ebbe in queste vicende anche Adriano Olivetti, che in un libro edito in Italia nel 1945, dal titolo LOrdine politico delle Comunità[42] espose la sua proposta di riforma della società in un preciso progetto costituzionale. “Un disegno illuministico di una mente illuminata”, come Norberto Bobbio definì l’opera, articolato attorno all’idea di Comunità come entità centrale per il riassetto territoriale e istituzionale del governo locale. Nella sua proposta, Olivetti descrive in modo sistematico le funzioni essenziali attraverso cui organizzare l’assetto politico di ogni Comunità, di ogni Regione e dello Stato, per la soluzione, in senso comunitario, del problema della riqualificazione della rappresentanza politica ancor oggi aperto. Significativo è il sottotitolo del libro che così recita “Le garanzie di libertà in uno Stato socialista”. Infatti, era convinzione profonda di Olivetti che “la persona ha profondo il senso e il rispetto della dignità altrui, sente i legami che la uniscono alla comunità cui appartiene, possiede un principio interiore che sostiene la sua vocazione indirizzandola verso un fine spirituale e superiore. Se il mondo vuole evitare nuove catastrofi occorre creare una società in cui la persona possa sviluppare la propria umanità e spiritualità. La società individualista ed egoista, dove il progresso economico e sociale era solo la conseguenza di spaventosi conflitti d’interessi e di una continua sopraffazione dei forti sui deboli, è distrutta. Sulle sue rovine nasce una società umana: quella di una Comunità concreta[43]. Sulla base di questo impianto programmatico, egli promosse nel Canavese una vasta azione di sviluppo economico, ma anche sociale e politico tramite la capillare azione dei centri comunitari; questi ultimi, grazie alla spinta del Movimento di Comunità, sorsero in numerosi centri abitati.

Inoltre, lo stesso Olivetti svolse un ruolo di primo piano sia negli organismi internazionali per la ricostruzione post-bellica (oltre ad essere Presidente nazionale dell’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica, fu membro della prima Giunta dell’Unrra-Casas oltre che Presidente della Federazione Internazionale dei centri Sociali), che nel sostegno anche economico al Cepas.

Un’altra iniziativa di rilievo fu la creazione del Movimento di Collaborazione Civica che vedeva gruppi di volontari realizzare colonie estive e doposcuola nelle aree più disastrate della città. Il Movimento aveva come obiettivo quello di “concorrere alla formazione di una coscienza civica negli italiani e promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita democratica del Paese”. Accanto all’azione diretta, il Movimento organizzava anche corsi per la formazione dei formatori impegnati nelle attività educative partendo dai riferimenti teorici di J. Dewey sul rapporto tra democrazia e educazione[44]. Al suo interno si costituì anche il Centro Ricerche Sociali con il contributo di un architetto del giro olivettiano, Ludovico Quaroni, che sarà attivo nel processo di risanamento dei Sassi di Matera e nella costruzione del nuovo Borgo La Martella per i contadini del posto. È stato da più parti riconosciuto che con l’introduzione dello strumento della ricerca sociale si cominciò per la prima volta a lavorare in una prospettiva interdisciplinare a partire da un concetto di “unità della cultura”. Quaroni, oltre al progetto per la Martella, prende parte ad altre due importanti inchieste dell’epoca: la prima, la Commissione di studio sulla città e sull’agro di Matera coordinata dal sociologo Frederick Friedmann; la seconda, più istituzionale, la citata Inchiesta parlamentare sulla miseria e sui mezzi per combatterla del 1952 presieduta dall’On. Vigorelli, in cui il Quaroni è particolarmente impegnato nello studio di ambiente del comune di Grassano, lo stesso dove vivrà al confino Carlo Levi.

L’esito di questi studi condusse l’architetto Quaroni a ritenere, con molto anticipo sui tempi, che la pianificazione urbanistica fosse diventata pianificazione sociale. In un suo testo sostiene che “Noi urbanisti non abbiamo vergogna a chiedere agli uomini di cultura [...] di darci quanto possono per chiarire questo rapporto ambiente-uomo-ambiente”[45]. Ne discende l’importanza del dialogo tra le scienze umane e sociali con quelle tecniche e specialistiche. In ciò consiste la multidisciplinarità a carattere interdisciplinare: “tutti coloro che partecipano all’attività di programmazione, pianificazione e progettazione dovrebbero avere [...] una completa conoscenza dei rapporti esatti tra il proprio campo di azione e quello degli altri collaboratori[46]. Questo serve a superare quella pratica maldestra nella quale i singoli progetti vengono spartiti tra i vari specialisti e ognuno procede per conto proprio senza alcun tipo di interconnessione. Un Piano non può mai essere di un singolo autore pena la mancanza di una visione unitaria e globale dei problemi e l’integrazione armonica e condivisa delle analisi e delle possibili soluzioni.

Purtroppo, il Movimento di Collaborazione civica cominciò ad avere difficoltà politico-organizzative in quanto, quasi contemporaneamente, nacquero i comitati civici organizzati dalla Democrazia Cristiana, che, con il loro integralismo e collateralismo, inquinarono il concetto di impegno civico depotenziando ogni forma di partecipazione sociale con carattere riformatore e innovativo. Ciononostante, il movimento riuscì a superare questa fase critica ed organizzò Corsi residenziali[47] in collaborazione con un altro movimento di grande rilievo come il CEMEA (Centro per l’esercitazione dei metodi di educazione attiva), che insieme al MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) si ispira ai metodi innovativi di educazione attiva del pedagogista francese Celestin Freinet.

Anche in Umbria i Centri di Orientamento Sociale (Cos) promossi da Aldo Capitini cercavano di favorire forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica ed amministrativa dei loro comuni di residenza. In questo contesto, l’aspirazione alla partecipazione era destinata a scontrarsi con un forte isolamento e la speranza di incidere profondamente sul sistema politico e amministrativo partendo “dal basso”, dalla dimensione comunitaria, dovette scontrarsi con forti resistenze. Infatti, la classe dirigente del Paese non fece proprie le istanze basate sulla consapevolezza dei profondi squilibri che la crescita economica stava portando nel Paese. L’improvvisa crescita economica italiana avvenne infatti “in ordine sparso”, senza una guida né un indirizzo preciso, con conseguenze note: il processo di crescita industriale e l’arretratezza delle aree agricole spopolarono le montagne e le campagne, provocarono impetuose ondate migratorie, causarono la caotica crescita delle periferie urbane, aumentando notevolmente il divario tra l’Italia settentrionale e quella meridionale. Inoltre, come ci ricorda Paul Ginsborg, ad un miglioramento della condizione economica non corrispose una crescita dei valori civili: “il modello di sviluppo italiano […] era carente sul piano dei valori collettivi. Lo Stato aveva svolto un ruolo importante nello stimolare il rapido sviluppo economico, ma aveva poi fallito nel gestirne le conseguenze sociali. In assenza di pianificazione, di educazione al senso civico, di servizi pubblici essenziali, la singola famiglia cercò un’alternativa nella spesa e nei consumi privati […] Il “miracolo” si rivelò così un fenomeno squisitamente privato[48].

Una significativa eccezione al quadro sopra delineato fu rappresentata da un gruppo di giovani appartenenti al mondo cattolico, formatosi intorno alla rivista “Terza Generazione[49], i quali, scontenti dell’impostazione tecnocratica che stava caratterizzando le iniziative riformiste avviate nei primi anni Cinquanta dalla Dc, diedero vita a piccoli progetti di sviluppo di comunità nell’Italia centromeridionale. Il loro atteggiamento nuovo, “non genericamente illuminista o populista” nei confronti delle masse povere, il loro tentativo di cercare nuove strade per permettere un reale sviluppo economico e sociale del paese venne fatto proprio dai dirigenti del piano Ina-Casa[50] che, per rispondere a queste istanze, diedero vita ad un ente che svolgesse, tramite l’azione di assistenti sociali, un lavoro sociale a carattere comunitario nei nuovi quartieri periferici che l’Ina-Casa andava creando in tutta Italia con l’EGSS (Ente di gestione Servizio Sociale)[51].

Una figura importante per questa stagione effervescente di iniziative diffuse a livello comunitario fu senz’altro Riccardo Catelani, che fu Segretario generale dell’EGSS (diventato poi ISSCAL) dal 1954 al 1972. Come abbiamo visto, i dirigenti del Piano INA-CASA lanciano l’idea di un intervento di servizio sociale a favore degli abitanti dei nuovi quartieri che stanno sorgendo, incardinato nei Centri Sociali, pensati, questi ultimi, come sedi di attività e di partecipazione del quartiere e delle istituzioni e come perno locale del servizio sociale territoriale. È la prima volta che si assiste ad un vasto Programma nazionale di infrastrutturazione sociale disseminata su tutto il territorio nel quadro di un servizio sociale unitario negli obiettivi e diversificato nelle azioni. Durante la gestione Catalani, sulle ali pulsanti della stagione di rinnovamento inaugurata dal Convegno di Tremezzo, il servizio sociale italiano s’incamminò verso mete difficili, a volte contrastate, ma che comunque aiutarono la popolazione ad avere una maggiore consapevolezza dei propri diritti e a fronteggiare i propri bisogni e allo stesso tempo a determinare cambiamenti non effimeri nelle Istituzioni.

Queste esperienze corrispondono ad una fase storica, quella della ricostruzione e del conseguente sviluppo del nostro Paese, in cui il servizio sociale italiano dà un contributo di grande rilievo al lavoro comunitario.

In primo luogo, questi interventi davano un’importanza centrale al momento della Ricerca di Ambiente che non si identifica direttamente con le indagini statistiche, ma era attenta all’analisi storico-antropologica del territorio, in quanto si partiva da una correlazione tra analisi storica e dati sociali, considerata come unica base conoscitiva per elaborare un piano specifico di intervento in una data comunità. Ovviamente c’era la necessità di coordinare ed armonizzare i diversi interventi, per cui nel 1953 fu approntato un Vademecum dell’Assistente INA-CASA.

Soffermiamoci, limitandoci ai titoli, su questo documento in quanto presenta alcune indicazioni interessanti.

Nella prima fase l’assistente sociale doveva curare due tipi di contatti: conoscere la zona in cui si trovava; entrare in relazione con gli assegnatari delle case popolari per presentare la propria figura e la propria funzione. Solo dopo poteva procedere ad un’analisi statistica.

Dopo questa fase esplorativa e conoscitiva, sarebbero iniziate le attività sociali; queste si articolavano in vari passaggi: un primo momento era rappresentato da una fase informativa ed orientativa, una sorta di moderno Segretariato Sociale, in quanto c’era la necessità di far conoscere ai residenti tutte le opportunità presenti ed attivarle.

Un secondo momento riguardava quella che si può definire la dimensione collettiva secondo cui non bisognava operare solo con le singole famiglie, ma cercare di rispondere ad esigenze comuni attraverso attività di gruppo, elevando, così, la possibilità di azioni collettive di tipo partecipative utili ad allestire un tessuto associativo tra estranei. Queste attività di gruppo avvenivano nel Centro Sociale ed in genere, considerato il basso livello di istruzione dei partecipanti, iniziavano con attività educative, quali corsi di educazione popolare per giovani e adulti e corsi di scuola popolare o corsi professionali[52]. A queste si affiancavano attività complementari come lo stimolo alla lettura attraverso l’allestimento di Biblioteche e centri di lettura. Dunque, il Centro Sociale, come recita una Circolare: “è la sede ordinaria per l’Assistente Sociale, che in rapporto con l’Ente ne cura l’organizzazione e ne assicura la funzionalità [...] Il centro Sociale si sviluppa in funzione dei bisogni degli assegnatari sotto l’aspetto individuale e collettivo, costituendo per essi il naturale terreno di incontro. È l’ambiente proprio per la realizzazione delle iniziative del quartiere dirette al bene comune”[53].

Negli Organi Dirigenti dell’Ente era presente in maniera perspicua la consapevolezza che non bastava risolvere solo il problema abitativo delle persone, ma che occorreva creare anche quelle condizioni sociali ed ambientali che ne permettessero l’inserimento, l’integrazione, la partecipazione, a maggior ragione trattandosi di sfollati e senza tetto sradicati da altri contesti. Si trattava, insomma, di una prima forma di politiche sociali integrate e multimodali, che, si sono poi perse per strada.

Un ulteriore aspetto, altamente qualificante, era la dimensione organizzativa: gli assistenti sociali avevano periodiche riunioni di équipe a livello nazionale, fruivano di sedute di supervisione e partecipavano a corsi di aggiornamento professionale.

Le centralità riconosciuta al fattore conoscitivo ed esplorativo dell’ambiente fece sì che si costituisse un Ufficio Studi e Inchieste per meglio indirizzare l’azione del servizio sociale verso nozioni di tipo sociologiche ed urbanistiche fondamentali per comprendere il disagio delle periferie urbane ed effettuare interventi efficaci atti a superarlo. Anche i Responsabili di questo Ufficio costituiscono figure rilevanti nel panorama della riflessione metodologica sul lavoro di comunità di quegli anni. Stiamo parlando di Ubaldo Scassellati e Carlo Trevisan[54], che furono gli animatori di questo particolare esperimento di azione comunitaria diffusa su scala nazionale. Infatti, è di Scassellati l’osservazione secondo la quale gli studi di Ambiente effettuati nell’ambito delle attività sociali dell’INA-CASA, costituiscono “le prime vere indagini di sociologia urbana applicata condotte in Italia”[55].

Volendo fare una valutazione complessiva, condividiamo quanto sostenuto da Carlo Trevisan circa l’importanza avuta da questa esperienza in particolare attraverso la costituzione del Centro Sociale, che “ha costituito un punto di riferimento per le persone, le loro aspirazioni e le loro capacità, esso si propone infatti di offrire un aiuto professionale per favorire [...] lo sviluppo delle persone, dei gruppi, e attraverso essi lo sviluppo della comunità in cui sono inseriti.[...] Quel mezzo di intervento del servizio sociale che è il Centro sociale risulta - in base alla verifica fattane in questi anni - particolarmente utile in ambienti di trasformazione o di nuova costituzione. Di fatto esso vuol essere luogo di incontro delle esperienze personali e collettive, delle comuni necessità da risolvere, dei desideri diffusi da soddisfare[56].

Una menzione, parimenti significativa, merita anche l’attività dell’UNRRA-CASAS[57], la cui filosofia di intervento ripercorre per molti versi quella dell’INA-CASA, riassumibile nel principio: “assistere e riabilitare attraverso l’edilizia”.

L’UNRRA-CASAS avvia la sua opera incrementando l’offerta abitativa in Italia attraverso la costruzione di circa 205 nuovi complessi edilizi, denominati “villaggi”. Le costruzioni sono realizzate nelle zone più colpite dalla guerra, strutturalmente antitetiche ai grandi agglomerati edilizi.

La figura dell’assistente sociale[58] è coinvolta già nella fase di progettazione dei Villaggi al fine di studiare l’ambiente in cui la sua professionalità è impiegata e per svolgere le visite domiciliari delle famiglie aspiranti all’assegnazione degli appartamenti. L’inchiesta sociale, intesa dagli assistenti sociali come l’attività di raccordo delle informazioni raccolte attraverso le ripetute visite domiciliari e quelle fornite da Parroco e Carabinieri, offre la possibilità di conoscere le situazioni approfonditamente e di controllare le informazioni pervenute alla Commissione Centrale per l’assegnazione degli alloggi da parte delle Autorità locali segnalanti. L’inchiesta ha poi l’ulteriore valenza di fornire dati sul contesto generale della popolazione residente nella zona in cui il Villaggio è collocato.

L’orientamento operativo del Servizio Centrale dell’UNRRA CASAS è caratterizzato, già nei primi stadi della sua sperimentazione, da un’evoluzione che transita dall’elargizione incontrollata, così come attivata durante l’emergenza, alla creazione delle condizioni grazie alle quali l’individuo può sviluppare la sua personalità, prendere coscienza della sua dignità di persona umana e dei suoi diritti civici. Non appena i nuclei familiari prendono possesso degli alloggi, i compiti del Servizio sociale assumono gradualmente una dimensione più vasta, in quanto cominciano ad essere presi in considerazione non solo i problemi della famiglia ma, inevitabilmente, anche quelli della comunità in cui essa è inserita. Gli assistenti sociali si rendono così conto molto presto che il disagio degli assegnatari di case UNRRA è il medesimo dell’intera comunità. L’attenzione del Servizio si sposta dunque dai singoli nuclei familiari alla comunità del villaggio e poi all’intera comunità locale, quest’ultima tipicamente di piccole dimensioni dove il senso d’appartenenza poteva essere maggiormente presente rispetto ai grandi agglomerati urbani. Questa consapevolezza porta gli assistenti sociali ad operare con nuovi strumenti basati sui corsi di educazione per gli adulti, la costruzione e la gestione di Centri sociali e la realizzazione di progetti pilota per lo sviluppo di comunità.

L’azione professionale si riferisce, in questo fertile periodo, ad una concezione del Servizio sociale intesa a reperire ed a valorizzare le risorse dell’individuo e della comunità, per guidare l’uno e l’altro all’indipendenza economica e sociale, considerando la natura economico – politico - sociale delle problematiche sociali, ma anche la richiesta, da parte delle persone, di incoraggiamento a mobilitare le risorse personali ed ambientali per risolvere i problemi contingenti. L’azione integrata su questi due orientamenti operativi, quello individuale e quello comunitario, conferma ulteriormente la convinzione che la casa sia il punto di inizio del processo di inclusione dell’individuo nella collettività.

Lo sviluppo della partecipazione dei cittadini alla vita della comunità comincia, dunque, a configurarsi come un’attività sempre più marcatamente rilevante per il Servizio sociale, prendendo il nome, secondo la classificazione di Murray Ross[59], di organizzazione di comunità.

Interessanti, a tale riguardo, sono le strutture di riferimento di questo progetto in cui il Centro Sociale svolge al tempo stesso le funzioni di Centro Assistenziale e Centro Comunitario.

Il primo, in quanto opera in zone maggiormente depresse dal punto di vista economico, culturale e sociale, svolge un lavoro sociale rivolto primariamente ai singoli casi. Il secondo, invece, collocato nei luoghi considerati più accessibili e utili all’azione rivolta alla comunità, secondo le caratteristiche rilevate della popolazione e l’organizzazione dell’Ente. L’attività assistenziale qui risulta marginale, inserendosi come sussidiaria e successiva alle proposte culturali del Centro.

Gli spazi, di conseguenza, sono dotati di attrezzatura differente: se nei centri comunitari è possibile trovare biblioteche, emeroteche, atéliers utili a dar forma alle proposte della cittadinanza e allo sviluppo della partecipazione, nel centro assistenziale, privo di obiettivi di tipo comunitario, non si dispone di tali opportunità.

Fattori diversi e fondanti accomunano l’attività dei Centri sociali e di quelli assistenziali: le strutture prevedono un lavoro di risoluzione di problemi locali propri della popolazione di un territorio ristretto e circoscritto (un quartiere urbano, una piccola comunità rurale). Si tratta di luoghi aperti a tutti gli abitanti del territorio di competenza, durante tutto il giorno, che propongono numerose attività realizzate anche simultaneamente: vengono proposti corsi di educazione popolare, momenti ricreativi, doposcuola per i bambini, corsi di qualificazione professionale e sportivi. Si svolgono riunioni con carattere principalmente informale, prive di temi preordinati ma aperte a quelli che la comunità porta liberamente. Alcune invece coinvolgono intenzionalmente capi famiglia e casalinghe, informandoli rispetto alle disposizioni amministrative dell’Ente ma anche in ordine ai problemi dell’igiene, dei buoni rapporti di vicinato, dell’educazione dei figli, della disoccupazione. Ne consegue che è necessario allacciare il sapere tradizionale (composto dalle usanze, dai costumi, dai proverbi e dai dialetti) ad una nuova cultura della cittadinanza che sappia far avvertire nella popolazione la dimensione della comunità in rapporto ai propri problemi.

La popolazione locale di fronte a questo tipo di intervento richiede servizi come asili nido, colonie, patronati, iniziando a far pressioni rispetto alla risoluzione dei problemi locali. Il Servizio assume così un ruolo di advocacy nei confronti del Comune in cui il Villaggio UNRRA-CASAS è collocato e collabora con le Autorità locali per garantire alla comunità i servizi sociali e sanitari di base, svolgendo un ruolo politico, attraverso il quale si intende sviluppare un’opera di stimolo e di organizzazione della partecipazione ed eventualmente del dissenso.

In questo processo evolutivo dell’azione professionale dell’assistente sociale che porta allo sviluppo di un’idea di comunità, imperniata sul Centro sociale, emergono due anime per questo “luogo”, quella di osservatorio sociale e quella di centro di cultura popolare, in cui svolgere diverse attività tra loro integrabili e in cui i gruppi locali possano operare insieme per cercare soluzioni ai problemi comuni. Lo strumento professionale attraverso cui avviare queste connessioni è il lavoro di gruppo svolto in un luogo dove le funzioni materiali e spirituali costituenti il tessuto della società possano incontrarsi: il Centro sociale. Il lavoro di gruppo incomincia ad inserirsi nel lavoro degli assistenti sociali contemporaneamente o successivamente all’istituzione dei corsi di educazione popolare, attraverso i quali vanno costituendosi momenti di discussione e dibattito, per promuovere nelle persone sensibilità e capacità di scelta. Nascono comitati con il fine di responsabilizzare alla programmazione delle attività e, in alcuni Centri, alla gestione condivisa del Centro sociale.

Nell’ambito dell’attività dei Centri sociali, molta importanza ha l’azione di individuazione e formazione dei leaders; l’assistente sociale, svolge in questi gruppi una funzione di “catalizzatore” delle persone più motivate ad investire tempo ed energie, al fine di riconoscere loro uno spazio di protagonismo in cui avanzare proposte e organizzare iniziative, nella convinzione che ciò sia fondante per lo sviluppo della comunità. L’azione educativa, non essendo considerata una competenza professionale dell’assistente sociale, potrebbe oggi venir contestata. I Gruppi di Assistenza, tuttavia accettano con entusiasmo la gestione dei corsi di educazione popolare perché nel corso del tempo, è divenuta tangibile la portata di questa funzione, capace di attivare processi di cambiamento all’interno di gruppi interi di popolazione al fine di governare la propria vita.

Particolare rilievo ha l’attività di gruppo con i bambini nei centri sociali: essa si rivela una risposta ai bisogni del villaggio, data la carenza di istituzioni para-scolastiche come i dopo scuola.

A tal proposito, la creazione di spazi educativi e la loro conduzione condivisa con le madri rappresenta un fattore di popolarità per il lavoro dell’Ente.

Risultati meno efficaci portano le riunioni con le figure professionali locali: medici, maestri, parroci non sempre si dimostrarono una sponda favorevole per il lavoro degli assistenti sociali, al fine di costruire sinergie e attivare progettualità condivise. Anzi, in alcune zone, gli assistenti sociali devono scontrarsi con pregiudizi e timori relativi ad “invasioni di campo” da parte dell’UNRRA CASAS.

Nel 1954, alcuni anni dopo l’avvio dei lavori da parte dell’UNRRA CASAS, Volponi delinea così l’orientamento del Servizio sociale dell’Ente: “Ormai accettato dai Gruppi di Assistenza, si articola nei punti di uno studio preliminare dell’ambiente, condotto direttamente dall’assistente sociale; di una assistenza familiare meditata, delle attività di gruppo fino al potenziamento della comunità”[60].

La formazione degli assistenti sociali, per lo svolgimento dell’attività professionale in un contesto così delicato, viene coadiuvata da uno strumento, che, come abbiamo visto, era già stato utilizzato a Matera dal sociologo Frederick Friedmann, lo studio d’ambiente[61]. Friedmann, sociologo tedesco di origine ebrea, emigrato negli USA per le discriminazioni razziali, nonché amico personale di Olivetti, con questa prima sistematica indagine conoscitiva su Matera si pone l’obiettivo di creare “comunità” nuove, in cui vengano privilegiati i momenti pedagogici e di riorganizzazione umana. Sulla scorta di Carlo Levi, egli immediatamente riconosce Matera come luogo esemplare, modello del mondo contadino.

Questo metodo d’indagine è paragonato ad un abbozzo d’un quadro o al progetto di massima per un’opera di ingegneria: si tratta di una rapida inchiesta, utilizzata quando non vi era troppo tempo e mezzi a disposizione, volta soprattutto a richiamare l’attenzione di un determinato ambiente sulla realtà di una situazione.

Tale strumento si inseriva nell’alveo di una letteratura di inchiesta o di realismo letterario che, in Europa e negli USA, si era già diffusa con le inchieste di Upton Sinclair sugli orrori dell’industria alimentare in quella periferia chiamata “la giungla di Chicago”[62], ove inizierà la sua incisiva attività di organizzatore comunitario Saul D. Alinsky; o l’indagine sul sottoproletario urbano della Londra industriale di Jack London di cui è rimasto famoso l’incipit: “Lo stomaco non mi perdonerà mai le schifezze che l'ho costretto a ingurgitare e l'anima la devastante disperazione di cui son stato testimone... Sono nauseato di quest'umana voragine infernale che ha nome East End[63]. Per finire con George Orwell[64], che scrisse un romanzo verità sullo sfruttamento e la disoccupazione esistente in una cittadina mineraria dell'Inghilterra settentrionale durante gli anni Trenta.

L’utilizzo del metodo dell’indagine ambientale dentro i Centri sociali costituì un’innovazione cruciale anche per la qualificazione degli operatori in quanto lo strumento non era solo finalizzato a raccogliere dati validi per l’individuazione di una gerarchia di problemi e per la relativa programmazione degli interventi, ma perché sostanzialmente trasformava gli operatori in narratori di realtà e quindi in soggetti in grado di conoscere per intervenire. Infatti, ai fini del lavoro di sviluppo e organizzazione della comunità, orientati da una logica che integra sviluppo socioculturale ed economico e che punta a recuperare le tradizioni culturali e professionali locali, risultava utile uno studio dello stato d’animo della gente, delle connessioni antiche che regolano le dinamiche della comunità. Insomma, si profilava un primo esperimento di studi di etnografia sociale basata sull’osservazione partecipante.

I dati desunti dallo studio d’ambiente forniscono le informazioni utili per impostare, approssimativamente, i così detti piani di lavoro che vengono stilati trimestralmente, limitando così la lungimiranza dei progetti. Una nota critica dal punto di vista metodologico proviene dalla Zucconi, che segnala la difficoltà di una piena utilizzazione pratica degli studi d’ambiente a causa di un frequente mancato aggiornamento dei dati e di un carente studio globale dei fenomeni rilevati nella zona d’interesse. In ogni caso questi primi profili di comunità avranno un certo influsso sulla metodologia dell’Inchiesta Sociale che, a partire dagli anni Sessanta, avranno una vasta diffusione nel nostro Paese. Infatti, è proprio la ricerca non accademica che darà contributi fondamentali alla conoscenza delle metamorfosi della società italiana. Basti ricordare i contributi di Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Danilo Montaldi, Danilo Dolci[65], Goffredo Fofi[66], Giovanni Mottura e tanti altri. Si studiano così i contadini, le comunità locali, gli emigranti meridionali e veneti, gli immigrati nelle grandi città industriali. Il metodo è quello dell'inchiesta, dove ricerca e pratica sociale, impegno scientifico e volontà di cambiamento si intrecciano[67]. In questo lungo processo di sviluppo della ricerca sociale e di affermazione della pratica dell'inchiesta, in particolare, Giovanni Mottura è stato uno dei protagonisti, a partire dagli anni Cinquanta, con il suo impegno e le inchieste tra i contadini siciliani presso il centro di Danilo Dolci, il lavoro di ricerca e di impegno politico nei Quaderni Rossi con Raniero Panzieri, gli studi presso il Centro di Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno di Portici, fondato da Manlio Rossi-Doria (Università di Napoli), nel sindacato con i lavori sugli immigrati per l'Ires-Cgil.

All’interno di organizzazioni diversificate (come l’INA-CASA, l’UNRRA-CASAS, il Centro Italiano Femminile, l’Unione Nazionale Lotta all’Analfabetismo, il Movimento Comunità di Olivetti, ecc.) il metodo privilegiato per creare un luogo di prossimità relazionale fu, pertanto, il Centro Sociale. Questo strumento, che già esisteva a livello internazionale, specie in Francia, ove per la verità è ancora operativo, si poneva come obiettivo programmatico il favorire la crescita umana e sociale degli individui attraverso la partecipazione democratica, consapevole e attiva, delle persone alla vita della comunità locale.

Ben presto questa miriade di iniziative disseminate per il territorio nazionale[68] sentì l’esigenza, anche su impulso dei colleghi d’oltralpe, di aggregarsi in un organismo nazionale: nacque, così, nel 1954 la Federazione Italiana dei Centri sociali, che successivamente aderì a quella su scala internazionale (IFSNC). Il primo Presidente fu la stessa Angela Zucconi. Questa fase storica è stata definita “l’età dell’oro del community work in Italia”, perché mai come allora la Penisola fu attraversata e permeata da una serie di iniziative dal basso animate da grande vitalità e vivacità in cui la dimensione locale era il punto di partenza per una reale conoscenza della realtà territoriale, dei suoi problemi e, di conseguenza, anche delle sue possibili soluzioni.

I Centri furono avviati sia in ambito urbano che rurale e dappertutto ebbero un forte ruolo di stimolo verso le istituzioni pubbliche nell’assunzione di un ruolo guida nel governo locale partecipato. In mezzo a tante difficoltà, com’è facilmente immaginabile (non si dimentichi che i detrattori di queste esperienze accusavano i loro attivatori di populismo), i Centri diedero il loro contributo allo sviluppo della zona sollecitando l’attivazione di azioni coordinate con i pubblici poteri, facilitando da parte dei cittadini l’utilizzo delle risorse locali, promuovendo forme di vita comunitaria e educando ad una vita civile e democratica. È sempre la Zucconi che, tirando un po’ le somme di queste pratiche dal basso, confessa con semplicità: “mi sorprende, a distanza di tanti anni, l’importanza che si dava allora ai centri sociali e le speranze che si fondavano su questi centri nei nuovi quartieri per lo più periferici, dove si voleva insegnare con i fatti a vivere da bravi cittadini, aiutandosi a vicenda e dove, quasi sempre, il seme della convivenza civile era dato dalla biblioteca e dalle attività culturali[69].

Questo fermento brulicante di attività inaugurò anche una nuova fase nella coscienza meridionalista del Paese, al punto che si realizzò una robusta saldatura tra nuovo meridionalismo avanzato e comunitarismo su base democratica e civile come vedremo nella presentazione di alcune delle più significative pratiche comunitarie per lo più localizzate al Sud (Abruzzo, Basilicata, Campania, Sicilia, Sardegna). Si venne a determinare un fecondo incontro tra politiche di sviluppo territoriale e crescita di cultura democratica e popolare, fenomeno che non si è mai più verificato, dando vita all’annosa, irrisolta “Questione meridionale”. Si deve soprattutto alle figure di Gaetano Salvemini e di Umberto Zanotti Bianco questo spirito riformatore che riteneva primo compito delle politiche di piano la mobilitazione dal basso delle coscienze popolari combattendo l’atteggiamento servile e familistico che era all’origine del trasformismo meridionale.

Nota è rimasta l'espressione “familismo amorale”, coniata da Banfield per spiegare l'arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all'arretratezza, di “Montegrano” (paese meglio identificato come Chiaromonte in provincia di Potenza), con cui si intende etichettare una molteplicità di fenomeni, ma soprattutto per individuare un presunto “difetto” fondamentale della società italiana[70]: avverso allo spirito di comunità, disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, il “familista amorale” si comporta secondo la seguente “regola aurea” (la regola degli amorali): massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare e supporre che tutti gli altri agiscano allo stesso modo. Una chiave interpretativa assai discussa, che si è dimostrata tuttavia di irriducibile efficacia nell'indicare i guasti provocati dalla cronica carenza di senso civico in particolare nel Mezzogiorno. Per Banfield, l'estrema arretratezza di Chiaromonte era dovuta all' incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune, limitando l'interesse materiale esclusivamente al proprio “ristretto” nucleo familiare.

Un ruolo fondamentale giocò la cosiddetta “Scuola di Portici” guidata dall’economista agrario Manlio Rossi Doria che promosse il dialogo tra l’economia dello sviluppo e le scienze sociali. In particolare, fu il sociologo rurale Gilberto Marselli ad applicare la metodologia degli studi di comunità al mondo contadino del Sud. È in questi anni che vide la sua pubblicazione l’opera più famosa di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli.

Si sperimentò così quella che venne definita la metodologia comunitaria dell’intervento sociale applicata alle politiche di pianificazione economica. Purtroppo, anche questo laboratorio di grande innovazione andò progressivamente spegnendosi sotto i colpi dell’ideologia dell’intervento straordinario rappresentato dalla Cassa per il Mezzogiorno. Da quel momento, se prima il contributo degli assistenti sociali era stato valorizzato ed integrato nelle politiche di sviluppo locale, con il nuovo corso si fece sempre più a meno del loro apporto fino a relegare il compito degli operatori in un ruolo subalterno di erogazione monetaria e prestazioni individuali.

L’esperienza dei Centri Sociali Ina-casa durò quattordici anni (1949-1963), fu senz’altro un’esperienza esaltante ed innovativa in quanto per la prima volta gli assistenti sociali avevano un ruolo riconosciuto all’interno di programmi di sviluppo locale a carattere istituzionale. Con il concetto di centro, “superando la sola funzione assistenziale, il servizio sociale è pensato come un vero e proprio lavoro di ricerca territoriale, volto ad indagare la realtà sociale dei quartieri, le abitudini e le preferenze degli assegnatari e a mediare tra gli abitanti e le amministrazioni locali e gli uffici tecnici preposti allo sviluppo e all’implementazione del piano”[71].

A ben pensarci sono le dimensioni che oggi si intendono indagare attraverso lo strumento del Profilo Muldimensionale di Comunità, in cui è compreso anche il profilo storico e antropologico-culturale[72].

Sotto questo aspetto gli operatori sociali sono assimilabili a dei progettisti indiretti in campo urbanistico perché producono informazioni sull’uso e la sistemazione degli spazi aperti, degli ambiti comuni, ecc. Una volta arrivati fisicamente nei quartieri gli assistenti sociali svolgono un ruolo di osservatorio permanente per lo studio e la diagnosi dell’ambiente dove lavorano non solo per la popolazione dei residenti ma con essa. Il Centro diventa, così, un luogo di relazioni sociali in grado di ospitare anche altre attività e servizi come biblioteche, consultori, scuole materne, corsi di doposcuola, corsi di addestramento lavorativo[73]. In termini moderni diremmo un “Centro servizi polivalente per l’attivazione comunitaria”.

Con questa impostazione si diede corpo e si sviluppò, per la prima volta in Italia su scala nazionale, un Servizio sociale, unitario negli obiettivi anche se diversificato nella attività nel rispetto delle specificità territoriali, delle differenze socioculturali e delle tradizioni amministrative locali.

Bisognerà aspettare gli anni 2000 per tornare ad una visione analoga, con l’istituzione di un Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociali, previsto dell’art. 18, comma 2 della legge 8 novembre 2000, n° 328. Com’è noto di questo Piano si è avuta solo la prima versione del triennio 2001-2003, seguita da un lungo periodo di vuoto, solo recentemente colmato con il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021 – 2023. È proprio vero che la storia ha dei pessimi alunni!

Del seguito: nostalgia dell’avvenire

Purtroppo, nel corso degli anni, questa originaria ispirazione andò smarrendosi e il servizio sociale acquisì sempre più una configurazione a prevalente matrice clinica in cui la dimensione individuale del lavoro sul singolo caso prevalse. Si affermò, così, sempre più un’impostazione riparatoria centrata sui deficit delle persone da parte di un servizio sociale contenitivo e prestazionale. Insomma, si smarrì quella vitale contaminazione che aveva alimentato tante speranze liberatrici.

Natalia Ginzburg in una raccolta di saggi autobiografici, densi di vaga malinconia, affronta i temi della nostalgia, dei rapporti umani, degli affetti e, più in generale, della mesta disillusione di quegli anni. Ad un certo punto, con struggente commozione, ricordando la vicenda straziante della morte per tortura del suo caro e indimenticabile marito, Leone Ginzburg, si chiede: “Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so[74]. Inverno in Abruzzo racconta del confino a Pizzoli (AQ), di quando era la giovane moglie del grande uomo di azione e intransigente combattente per la Resistenza, Leone, e madre di bambini piccoli, esiliati in un mondo antico indecifrabile nei suoi paesaggi e nelle sue voci, dove “tutti i volti mi parevano uguali, tutte le donne si rassomigliavano, ricche e povere, giovani e vecchie”. Eppure, a distanza di tempo, quell’esilio fatto anche di stenti, paure, smarrimenti, si rivela come il tempo migliore della vita perché aperto, pieno di promesse che non importa se poi la vita non le mantiene, importa covarle, nutrirle giorno per giorno. Questa è la nostalgia dell’avvenire: il ritorno a una lontananza nel tempo che ha per meta le piccole illusioni, la fede nell’avvenire. E quanto è vera questa nostalgia che cresce con l’età, diventa compagna sempre più assidua, prova a farsi surrogato delle energie vitali, della fede in un orizzonte futuro sempre più vicino, angusto. Se “nostalgia” significa guardare in faccia il passato in cui si poteva ancora pensare al futuro come a un luogo di libertà, di esperienze da attraversare, allora molti dei personaggi cha abbiamo avvicinato in queste pagine avvertivano intimamente questo sentimento. Erano tutti nostalgici di un avvenire migliore.

Uno di questi fu certamente il marito di Natalia Levi, Leone Ginzburg, una figura, che, per molti che lo hanno conosciuto o studiato, rappresenta un’esperienza unica nel panorama della lotta al fascismo, sia per il profondo rigore morale, sia per l’inesausta tensione intellettuale.

Vogliamo soffermarci un momento su questa negletta figura di uomo di azione, maestro di vita civile, esemplare per tanti personaggi dimenticati della storia del Novecento italiano. Questo indugio è giustificato perché la sua vicenda esistenziale rappresenta il crogiuolo etico-culturale dentro il quale si formarono molti operatori sociali del tempo.

Cofondatore, insieme a Giulio Einaudi e a Cesare Pavese, della Casa Editrice Einaudi a Torino[75], Ginzburg percorreva la strada aperta da Piero Gobetti, in una direzione che sarà una delle componenti storiche del Partito d’azione: quella per cui la resistenza al fascismo era un fatto morale prima che politico, un valore culturale oltre che politico. Coi fascisti non era possibile alcun compromesso; la lotta era lotta, e non si poteva essere che vincitori o vinti. Era un antifascismo fatto di disdegno, di fierezza d’essere dalla parte giusta, ricco della tradizione risorgimentale[76] e della lunga pratica delle civili libertà che al Risorgimento era seguita.

Fu risvegliatore di coscienze, stimolatore di energie, animatore instancabile ed ascoltatore, scrutatore di anime, moralista senza debolezze, letterato sino al midollo, ma insieme uomo vivo a contatto con altri uomini vivi.

Vogliamo chiudere questa breve ma intensa presentazione con una lunga testimonianza, colma di pacata mestizia ma al contempo di appassionata speranza, di un suo compagno di scuola eccellente, che lo ha conosciuto e frequentato, Norberto Bobbio: “la sua morte ha lasciato un vuoto, che questo vuoto non è stato più colmato e, dopo, non siamo stati più come prima. [...] La sua morte ci ha fatto apparire ancor più forsennato il furore degli uomini, ancor più abiette le ideologie di sangue e di strage che lhanno scatenato, ancor più truci i volti dei fanatici incontrati sulla nostra strada, ancor più orrendi e inespiabili i massacri senza fine e senza scopo. E nulla, nulla abbiamo fatto di fronte al male che è stato compiuto. [...] Le nobili vite, come quella di Leone, sono stati inghiottiti dal mare della storia, sempre in burrasca; un relitto si erge per un attimo sulla cresta dell’onda, e poi è sommerso; ricomparirà per un altro attimo più avanti, ma tra un’onda e l’altra c’è solo furia, squallore, paura e impotenza. E non possiamo chiedere conto a nessuno. A chi chiedere conto della morte di Leone? Parole grandi come Dio, Storia, Spirito del mondo, o Natura (la Natura di Leopardi, che egli amava), ci sembrano parole troppo grosse per un fatto in fondo così piccolo, quotidiano, come la morte di un uomo; concetti troppo alti, astratti e astrusi, per un evento così terra terra, che si ripete ogni giorno tra l’indifferenza o il fastidio degli spettatori. Ma Leone è morto senza dire la sua ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci; né perdonare. È morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E invece il suo discorso era appena cominciato. Gli siamo grati della lezione di umanità, di nobiltà, di coraggio, di serenità, di fiducia nella vita, di fermezza nella tragedia, che egli ci ha lasciata. Ma avremmo voluto averlo ancora con noi. Son passati ormai molti anni, ma il timbro della sua voce, il suo sguardo, il suo modo di parlare e di ridere sono rimasti vivi nella mia memoria, come se l’avessi salutato ieri per l’ultima volta. Se lo richiamo alla mente, mi sorprendo di sentirlo così vicino, così presente, così accanto a me, dentro di me, come se fosse diventato parte di me stesso. Lo ritrovo in ogni passo della mia vita, nella mia continua sorpresa di essere ancora vivo e di aver fatto tante cose, buone e cattive, dopo di lui e senza di lui. La vita mi è apparsa sempre non come un tutto continuo, ma come un insieme di attimi staccati, emergenti dallo spessore opaco e indifferente del tempo: non so come dire, scintille che nascono, sì, dallo stesso ceppo, ma indipendenti le une dalle altre, senza alcun rapporto tra loro, ciascuna con la sua luce, più o meno fioca. La mia vita non è altro che tre o quattro di queste scintille: una di queste è stata accesa da Leone, e, per quel poco lume che ha dato, la luce era anche la sua[77].

Non credo si possa aggiungere di più.

Ci siamo intenzionalmente dilungati su questa traiettoria esistenziale, per cercare di rendere tangibile il clima di terrore e violenza in cui si consumavano atrocità indicibili: eppure erano gli stessi anni in cui i servizi sociali cercavano di riorganizzarsi.

Come ricorda puntualmente Luigi Gui[78], erano il tempo in cui andavano introducendosi anche in Italia le “tecniche” di servizio sociale di importazione statunitense: social casework (trattamento dei casi individuali), social groupwork (lavoro sociale con i gruppi), community development o community work (lavoro sociale di comunità). Tale influsso sul servizio sociale italiano, specie negli anni 50/60, aveva portato ad un’adozione talvolta acritica delle teorie parsonsiane, e conseguentemente dell’impegno del servizio sociale nella funzione di “adattamento e abilitazione funzionale di ruolo” per i soggetti meno integrati.

Bisogna sostanzialmente attendere la L. 328/2000 per assistere ad un significativo viraggio delle politiche sociali quando temi come programmazione, partecipazione, territorio, ecc. saranno di nuovo centrali nei quadri teorico-metodologici degli operatori sociali[79].

Viene risottolineata la multidimensionalità e la multifocalità del lavoro sociale in quanto si riconosce che il servizio sociale contiene al suo interno istanze plurime: operative, politiche, etiche, tecnico-scientifiche, professionali. “Esso, di fatto, ha portato gli assistenti sociali ad una continua staffetta cognitiva tra l’esercizio di una professione immediatamente “agita”, la necessità di una professione “pensata” e la caratterizzazione di una professione “sentita”, integrando costantemente le competenze intellettuali e comunicative con le componenti etiche e valoriali[80].

L’egemonia della cultura anglosassone, sul piano contenutistico e metodologico, determinò un ripiegamento sugli aspetti adattivi dell’intervento sociale e sull’impostazione diadica a carattere psicodinamico della relazione di aiuto.

Solo in alcuni ambiti circoscritti continuò la riflessione sugli aspetti comunitari come cercheremo di documentare qui di seguito riferendoci ad alcune elaborazioni originali presenti in letteratura.

Partiamo dalla copiosa riflessione di Giuliano Giorio, uno studioso di fenomeni associativi, che ha dedicato gran parte delle sue riflessioni al tema del rapporto tra sviluppo di comunità e servizio sociale.

Proprio nel servizio sociale, infatti, il sociologo triestino ha intravisto lo spazio disciplinare da sviluppare per abilitare operatori sociali, assistenti sociali, promotori del benessere materiale e relazionale delle persone nelle loro comunità: professionisti che sappiano assumere un ruolo di “guida che aiuta la comunità a fissare e a trovare i mezzi di raggiungimento dei propri obiettivi”[81].

Dalle sue analisi emerge un chiaro concetto di servizio sociale di comunità, inteso come l’azione professionale che, mediante la collaborazione e la partecipazione attiva di tutti i membri, gruppi ed enti interessati, tende a soddisfare uno stato di bisogno psico-sociale che si verifica a livello della comunità, al fine di migliorare la qualità della vita dei singoli e della collettività stessa. Questa prospettiva metodologica non si occupa del problema sociale come fine a sé stesso, ma lo considera alla luce della sua capacità di favorire la crescita sociale e culturale della comunità interessata[82].

In tale prospettiva l’assistente sociale si pone come soggetto privilegiato di ponte fra mondi vitali quotidiani e istituzioni sistemiche, e, appartenendo sia all’uno che all’altro polo, svolge compiti di continua mediazione fra i due per instaurare forme di cooperazione e comunicazione vitale fra essi. In conclusione, per Giorio la comunità è soprattutto espressione della società civile, contesto privilegiato di scambi relazionali con qualificanti valenze di solidarietà.

Accanto a queste riflessioni più sistematiche, sono presenti anche altri riferimenti teorici dei quali offriamo solo rapidi accenni definitori. Tra questi evidenziamo la concezione di Salvatore Cafiero, secondo il quale “lo sviluppo di comunità è concepito come un’attività capace di colmare la frattura tra potere politico e bisogni collettivi[83], mentre quella di Ferrario e Gottardi considera lo sviluppo di comunità come “l’insieme di interventi a favore di una collettività di persone che cerca di risolvere i problemi, utilizzando le energie disponibili e stimolando la partecipazione delle persone[84].

Da un punto di vista metodologico-operativo sono interessanti ed utili le indicazioni che provengono dalle riflessioni di Raffaello Martini, il quale sostiene che “le strategie di sviluppo di comunità rispondono ad una duplice esigenza: risolvere i problemi di specifiche comunità e, più in generale, migliorare la qualità della vita dei singoli e delle collettività; ma al tempo stesso, permettere ai membri della comunità di accrescere le proprie competenze e il proprio potere come risorse da spendere attivamente nel gioco sociale[85].

Più in generale, sul piano delle dinamiche urbane sono interessanti i contributi di Emanuele Sgroi[86], mentre sui temi della partecipazione molto accurate sono le osservazioni di Ennio Ripamonti[87].

Infine, in relazione ai fondamenti teorici e metodologici specifici per il servizio sociale di comunità, un utile riferimento è al saggio di Elena Allegri secondo la quale questa tipologia di servizio rappresenta un “approccio complesso [...] per concorrere allo sviluppo della comunità locale, utilizzando le conoscenze, il metodo, gli strumenti e le tecniche specifici della professione e adattando le proprie funzioni alle esigenze del territorio (s)oggetto di intervento. In tal senso, il servizio sociale di comunità, attraverso l’analisi, la progettazione, l’intervento e la valutazione, promuove iniziative con la collettività e collega persone e gruppi tra loro perché intraprendano azioni utili a fronteggiare problemi e conflitti comuni[88].

Ma qual è lo scenario attuale? Certo la lunga crisi che stiamo attraversando non aiuta l’esplorazione di nuove vie e percorsi di innovazione sperimentale anche se ha riacceso un certo interesse nei confronti del community work. In particolare, nei Servizi sociali assistiamo più ad un atteggiamento difensivo e di arretramento in cui la tendenza è quella di farsi riconoscere anziché affermarsi, di limitare anziché espandere il raggio d’azione.

È tempo di ritrovare quella carica innovativa dei progetti di comunità portati avanti in un periodo storico in cui le energie di cambiamento erano canalizzate in percorsi di sperimentazione sociale e politica.

Occorre una ricerca permanente di strategie finalizzate a promuovere un autentico empowerment per le comunità, nella convinzione che apportare un contributo allo sviluppo della vita democratica del paese, quello che qualcuno oggi chiamerebbe la democratizzazione della democrazia in un’epoca post-democratica, sia un preciso compito professionale, da svolgere attraverso specifici strumenti metodologici, il cui sviluppo e la cui ottimizzazione è una diretta responsabilità personale e della comunità professionale.

Innegabilmente, la ripetibilità di queste esperienze incontra oggi ostacoli di diversa natura e richiederebbero un indispensabile adattamento all’attuale struttura socio-economica, ma si registrano discrete sperimentazioni che tendono a seguirne le orme, rintracciando i legami con l’essenza profonda del Servizio sociale di comunità, il cui retaggio più rilevante, a nostro avviso, è quello di affiancare le figure del geografo e del sociologo, dell’assistente sociale e del pedagogista a quella dell’urbanista-architetto in cui il pianificatore è inteso sempre più come intreccio originale tra urbanistica, sociologia, pedagogia e lavoro sociale[89].

In tal modo, come sostiene Silvia Fargion, “la questione si trasforma da una ricerca dei confini della professione all’affermazione che il servizio sociale è la professione dei confini”[90].

Si torna, così, all’inizio di questa narrazione del Novecento, allorquando risuonava in modo vibrante il monito di Maria Comandini per la quale l’intervento sociale significava “aiutare gli altri perché si aiutino da soli” nel duplice senso dell’individuo e della collettività.

Secondo Luca Lambertini queste esperienze, definite come “terza via” di ispirazione laica ed azionista, sono uscite sconfitte, sia da un punto di vista politico che sul piano della cultura professionale degli operatori sociali. “Nel volgere di pochi anni, alla fine degli anni ’60, gran parte di queste esperienze e queste sperimentazioni erano andate perse. Molti degli assistenti sociali attivi in quegli anni raccontano che l’esaurimento di quelle iniziative iniziò con la burocratizzazione del lavoro sociale, in particolare con l’istituzione delle regioni, cinghia di trasmissione su scala locale della burocrazia dello Stato. Anche nello sviluppo della professione tutto questo bagaglio si è consumato molto velocemente. La piega che ha preso lo sviluppo economico italiano negli anni del boom è andata in una direzione diversa che ha lasciato spiazzati molti degli attori delle esperienze sopra descritte[91].

L’attuale situazione è molto simile a quella di allora: operatori e assistenti sociali si trovano di nuovo ad agire in un sistema di servizi sclerotizzato, burocratico e poco efficiente, privi di strumenti, di immaginazione, di un bagaglio operativo adeguato ai tempi e necessario a un agire “comunitario”. Il tratto che differenzia la fase critica che stiamo attraversando da quella che l’Italia sperimentò alla fine della guerra è che il fermento culturale e la tensione di allora sono per ora soffocati dallo smarrimento, dalla confusione e dal senso di impotenza. Ma inventarsi un nuovo modo di fare intervento e ricerca sociale è necessario oggi come allora, per ritrovare un’intelligenza che derivi dalla pratica, dalla conoscenza e aderenza alle questioni sociali, per immaginarsi nuove e più eque forme di economia, per riscoprire il senso di impegno militante che richiede il lavoro territoriale, il lavoro di comunità.

Vichianamente si potrebbe parlare di corsi e ricorsi storici, ma come ha detto Mark Twain, “la storia non si ripete, anche se fa rima”, e la rima di oggi è quella che Rita Cutini evidenzia quando afferma che “ciò che è accaduto in passato (circa la contrapposizione di correnti conflittuali tra loro) si ripete oggi: un lavoro professionale per noi e tra noi, autoreferenziale, tentato dalla burocratizzazione, che usa un linguaggio tecnicistico e che dietro i tecnicismi si trincera e si difende dalla realtà e dalle sue convulsioni oppure una figura professionale aperta al cambiamento e preparata, culturalmente avvertita circa le trasformazioni sociali, consapevole del proprio ruolo, promotrice di valori”[92].

Con felice metafora Alice Bellotti descrive queste figure “come falene nel buio su una fonte luminosa.” Essi hanno agito in momenti critici e difficili quando la libertà dall’oppressione sprigionava energie di cambiamento, la voglia di imprese nuove e nuovi orizzonti. “Questa spinta pionieristica, è vero, - continua la Belotti - è rimasta appannaggio di pochi. Non ha trovato il terreno in cui attecchire e fare presa. Al contrario, ha dovuto scontrarsi con una sordità istituzionale e un’ottusità politica in un certo senso inaspettate, e senza dubbio frustranti. Ciò non toglie, tuttavia, che l’ostinazione dei pionieri abbia sparso semi, e dato i suoi frutti”[93].

Sono stati tanti a partecipare alle battaglie civili del loro tempo e che nei territori della pre-politica, cioè dell'intervento sociale, hanno vissuto in prima persona la fatica dei giorni e delle opere dell'organizzazione e dell’azione comunitaria e collettiva, dando vita, come ricorda Goffredo Fofi, ai “progetti di riforma verificati nel “basso” delle situazioni concrete, le resistenze e le denunce e le proteste che si sono consolidate, a volte solo per breve tempo, in azioni pubbliche di grande risonanza, dal Ceis (meglio noto come l'asilo italo-svizzero) di Rimini alla scuola di Barbiana, da Agape a Nomadelfia, da Dolci agli anarchici, dall'obiezione di coscienza dei nonviolenti alla disobbedienza civile dei senza lavoro…”[94].

Di questa storia ad alta intensità, ma a bassa visibilità, solo di recente gli storici hanno cominciato ad occuparsi[95]. Si sta colmando, così, un enorme vuoto di memoria riparando alla mancata considerazione che queste figure giustamente meritavano. Infatti, non si può parlare di storia minore, anche se è stata storia di piccoli gruppi, a volte anche di organizzazioni strutturate, di singoli che hanno saputo raggruppare attorno a sé quelli che ancora non si chiamavano né volontari né operatori del non profit; e non furono dei semplici testimoni, che si limitarono a giocare un ruolo puramente ideale sul piano dei riferimenti valoriali. Insomma, erano gruppi minoritari, ma non marginali.

Come più volte è stato detto, l’azione e il riferimento all’azione diretta era il loro principale scopo così come erano protesi a rilanciare il lavoro di comunità per ricostruire un Paese dilaniato dopo i molti anni della guerra, se non da immaginare ex novo. Fu davvero un momento eccezionale, come dirà Natalia Ginzburg: “Era quella, d’altronde, un’epoca in cui ogni giorno si conoscevano persone nuove o accadevano dei fatti, ed era un’epoca, nonostante il singolo dolore in cui poteva essere immerso il destino di ognuno, di universale gioia e sete di conoscere le persone e stare in mezzo ai fatti[96].

Riprendere in mano il patrimonio di pensiero e di pratiche di questi pionieri permette, anche, di fare una riflessione sull’oggi, in quanto “rappresentano quel tempo antico che non è il passato, ma il tempo originario [...] non l’antecedente del presente ma la sua fonte[97]. Non si tratta pedissequamente di operare una ripetizione imitativa di ciò che è stato, ma di inverare una ripresa creativa di intuizioni e ispirazioni che possono essere una forza mobilitante per il presente sapendo che reminiscenza non è reviviscenza.

Essi, perciò, rappresentano degli esempi di intervento convincenti, nella consapevolezza che anche oggi “vi sono centinaia di esperienze e gruppi attivi nel nostro paese, che devono ritrovare il loro spirito originario e ideare e costruire forme organizzative autonome dalle grandi organizzazioni e semmai in rapporto dialettico e se necessario conflittuale con esse. Che devono coordinarsi intrecciando reti nuove e attive, democratiche, eticamente motivate e non solo socialmente motivate. Oggi, da dentro una crisi che si annuncia devastante, e dopo anni, per l'Italia, non di dittatura e di guerra, ma di pace senza veri conflitti all'interno né con l'esterno e di piena e trionfante manipolazione mediatica delle coscienze, di una “dittatura delle maggioranze manipolate” come qualcuno l'ha efficacemente definita, è indispensabile ritornare a parlare di “partecipazione democratica” pensando però a un'idea nuova di sviluppo sostenibile, o di freno a quel modello di sviluppo che ha comportato e comporta la distruzione della natura e delle menti. È indispensabile, è fondamentale. E allo stesso modo è fondamentale ripensare la figura dell'operatore sociale o social worker in una direzione che torni a non distinguere tra l'operatore e le persone con cui e per cui lavora, ugualmente partecipi di uno stesso rifiuto e di uno stesso progetto, e che leghi questa figura a quella, che si amerebbe vedere integrata nella prima, dell'attivista, come dicono negli Usa, del sollecitatore, come amano dire alcuni gruppi attuali, del militante dei valori come si dice efficacemente in certe aree di pensiero e di intervento, e del persuaso come lo intendeva Capitini[98].

La necessità di abbozzare una biografia collettiva del “ventennio” alternativo del dopoguerra in Italia, risponde, dunque, all’esigenza di approfondire la storia di un periodo — e di un'azione civile e sociale — tuttora considerata secondaria dal punto di vista storiografico, nell'ambito degli studi sulla Ricostruzione nel secondo dopoguerra. L'analisi di questo periodo è infatti ancora prevalentemente orientata a privilegiare il ruolo dei partiti e delle istituzioni politiche ed economiche. Le forme che dettero vita al processo di ricostruzione, qui affrontato dal punto di vista della società civile, dei suoi attori individuali ed istituzionali, delle reti di relazione e delle progettualità incompiute, non si esauriscono nella sfera circoscritta delle singole microesperienze, ma implica appunto la valorizzazione di una progettualità che riguarda principalmente le politiche dell'agire civile e gli sforzi tesi alla costruzione di nuove forme di convivenza.

Molti di questi personaggi non tutti sono assistenti sociali, ma più in generale si tratta di intellettuali, donne e uomini coinvolti nell’azione collettiva come agenti di comunità a conferma che il community work è un dispositivo di intervento che riguarda più professionalità e diverse aree disciplinari e pertanto deve essere realizzato secondo un’ottica multiprofessionale e interdisciplinare. In questo senso, per un efficace lavoro di comunità, è più proficuo riferirsi estensivamente all’ambito operativo del lavoro sociale che non specificamente alla sfera ristretta del servizio sociale professionale.

Ed è proprio ciò che conferisce al presente lavoro il carattere di racconto polifonico in cui da una prospettiva molteplice si condivide la medesima tensione: cercare e, possibilmente, allestire un “buon posto dove vivere”.

 

DOI: 10.7425/IS.2023.02.05

Bibliografia

Si riproduce di seguito una bibliografia essenziale, da integrare, per il lettore alla ricerca di ulteriori piste di approfondimento, con i riferimenti presenti nelle note.

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Cutini R., Il ruolo dell'AAI nella formazione delle scuole di servizio sociale (1947-1953), in La Rivista di Servizio Sociale, n.4/2000.

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Devastato G., Nel nuovo welfare. Agire riflessivo e produzione di beni comuni, Maggioli Editore, Rimini 2009.

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Zucconi A., Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Castelvecchi, Roma 2015.

[1] Questi temi sono stati trattati in modo più esteso in Devastato G., Lavoro sociale e azioni di comunità, Maggioli, 2016.

[2] Mancini E., Facciamo... i conti. La narrazione come modello per trasformare il sociale, Milano, FrancoAngeli, 2016.

[3] Fofi G., Strana gente. Un diario tra Sud e Nord nell’Italia del 1960, Roma, Donzelli, 2012.

[4] Molti dei nostri personaggi hanno assaporato il frutto amaro del confino politico durante l’orrendo ventennio fascista.

[5] Ingrao P., Il dubbio dei vincitori, Milano, Mondatori, 1986.

[6] Meade J. E., Agathotopia. L’economia della partnership, Milano, Feltrinelli, 1990, p.7.

[7] Michelstaedter C., Rettorica e persuasione, Milano, Adelphi, 1999.

[8] Frase suggestiva della danzatrice e cantante Josephine Baker impegnata nella Francia libera e antinazista da cui Giovanni Laino ha tratto ispirazione per il titolo di un saggio, denso e appassionato, citato in seguito.

[9] Fofi G., La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze, Bari-Roma, Laterza, 2009.

[10] Zucconi A., Cinquan’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p.130.

[11] Calvino I., Perché leggere i classici, Milano, Oscar Mondadori, 1995, p.14.

[12] Goodman P., Individuo e comunità, Scritti politici, Milano, Eleuthera, 2014.

[13] Nota conclusiva di Goffredo Fofi in Giovanna Caleffi Berneri, Un seme sotto la neve. Carteggi e scritti. Dall'antifascismo in esilio alla sinistra eretica del dopoguerra (1937-1962), Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, 2010, p. LXIX, 609.

[14] Certomà G., Il Servizio sociale. In principio era l’azione. Critica del metodo e origine della storia,Carrù, Sensibili alle foglie, 2011.

[15] La pubblicazione, a nostro avviso, più completa ed esauriente edita negli ultimi anni a tale riguardo è quella di Stefani M. (a cura di), Le origini del servizio sociale italiano. Tremezzo: un evento fondativo del 1946. Saggi e Testimonianze, Roma, Viella, 2012.

[16] L’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) è stata un’organizzazione delle Nazioni Unite istituita nel 1943 con l’intento di attuare progetti di assistenza economica ai Paesi gravemente danneggiati dalla Seconda guerra mondiale. L'Italia venne ammessa tra i paesi beneficiari nel 1946 a seguito degli Accordi di Roma. A seguito della sua soppressione, avvenuta nello stesso anno, fu sostituita dall’ Amministrazione per gli aiuti internazionali (AAI). Le sintesi dei profili istituzionali (Amministrazione per le attività assistenziali italiane ed internazionali - AAI, 1945 – 1977; United Nations Relief and Rehabilitation Administration, UNRRA, 1943 -1947) sono consultabili sul Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche, www. siusa.archivi.beniculturali.it.

[17] Zucconi A., Cinquan’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p.100.

[18] Ossicini A., Un’isola sul Tevere, il fascismo al di là del ponte, Roma, 1999, pag. 319.

[19] Zucconi A., Cinquan’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p.100.

[20] Braghin P. Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-1952), Torino, Einaudi, 1978.

[21] Cutini R., Il ruolo dell'AAI nella formazione delle scuole di servizio sociale (1947-1953), La Rivista di Servizio Sociale, n.4/2000.

[22] Questa fase storica che ha avuto una ricaduta involutiva sulla formazione del quadro politico italiano nel periodo post-bellico è magistralmente e suggestivamente raccontata da Carlo Levi in uno dei suoi migliori saggi-romanzi, L’orologio, edito da Einaudi, prima edizione 1950.

[23] Zucconi A., Cinquan’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p. 101.

[24] Si trattava di minoranze etiche e creative per larga parte appartenenti alla tradizione liberalsocialista del movimento resistenziale antifascista denominato “Movimento d’Azione Giustizia e Libertà” i cui principali esponenti furono i fratelli Rosselli, Leone Ginzburg, Ferruccio Parri, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Vittorio Foa, Emilio Lussu, Ernesto Rossi e che, in parte, si richiamavano alle riflessioni politiche di Gaetano Salvemini e Piero Gobetti. Un movimento composto da intellettuali, che diede vita a quella che fu chiamata la cospirazione degli intellettuali, il cui motto era: “insorgere per risorgere”. Da questa esperienza nacque, poi, il Partito d’Azione.

[25] Fofi G., La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze, Bari-Roma, Laterza, 2009.

 

 

[26] Si pensi alla nota frase di Ignazio Silone che amava definirsi: “Sono un socialista senza partito e un cristiano senza Chiesa”.

[27] Riferendosi alla Zucconi, la figlia dei coniugi Calogero, Laura Sasso Calogero, così si esprimeva: “Al lavoro sociale era arrivata lasciando da parte i suoi interessi storici peraltro coltivati con grande rigore, perché una persona della sua tempra non avrebbe potuto rimanere estranea a quel fenomeno straordinario di chiamata dei migliori che fu la ricostruzione del Paese nel dopoguerra e la fondazione della democrazia italiana”.

[28] Fofi G., Prefazione a Zucconi A., Cinquan’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p. 6.

[29] Seregotti C., Le coincidenze non esistono: uno sguardo bifocale sul Convegno di Tremezzo e sulla nascita della Costituzione, Salerno, paper presentato alla Conferenza Espanet, 2015.

[30] Maria Calogero Comandini, Necessità di una cultura storico umanistica per la formazione dell’assistente sociale in Italia: problemi di democrazia e di collaborazione civica in Atti del Convegno per studi di Assistenza sociale, Tremezzo (Como), 16 settembre – 6 ottobre 1946, Milano, Marzorati, 1947, p. 612.

[31] De Rita G.- Bonomi A., Manifesto per lo sviluppo locale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 32.

[32] Bonomi A., Le quattro fasi dello sviluppo italiano, Communitas n. 45.

[33] Bonomi A., Le quattro fasi dello sviluppo italiano, Communitas n. 45.

[34] Si tratta del filosofo del dialogo Guido Calogero e di Maria Comandini, attivista politica del Partito d’Azione nonché funzionaria del Ministero per l’Assistenza post-bellica, guidato da Emilio Sereni. Entrambi furono i Fondatori del Cepas, scuola diretta fin dagli inizi da Guido Calogero e successivamente vide come reggente Angela Zucconi.

 

 

[35] Zucconi A., Cinquan’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p.120.

[36] Passo del discorso di Guido Calogero all’inaugurazione del CEPAS citato da Rosa Bernocchi Nisi, Le Scuole di Servizio Sociale in Italia, in Materiali per una Ricerca storica sulle Scuole di Servizio Sociale, Padova, Fondazione Zancan, 1980, pp. 31/32.

[37] Zucconi A., Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, pp.147/148.

[38] Cutini R., La nascita del Centro di Educazione per Assistenti Sociali (CEPAS) di Roma, La Rivista di Servizio Sociale, n.3/2001.

[39] Zucconi A., Una scuola per assistenti sociali: il Cepas, Notizie Olivetti, n.74, 1962.

[40] Gobetti A., Diario partigiano, Torino, Einaudi, 2014 con Prefazione di Goffredo Fofi.

[41] Dellavalle M., Le radici del servizio sociale in Italia. L’azione delle donne: dalla filantropia politica all’impegno nella Resistenza, Torino, Celid, 2008.

[42] Olivetti A. (a cura di Cadeddu D.), L’ordine politico delle Comunità, Irvea-Roma, Edizioni di Comunità, 2014.

[43] Olivetti A. (a cura di Cadeddu D.), L’ordine politico delle Comunità, Irvea-Roma, Edizioni di Comunità, 2014, p.46.

[44] Dewey J., Democrazie e educazione, Firenze, Sansoni, 2004.

[45] Quaroni L., La pianificazione urbanistica e le scienze sociali, in Casabella-Continuità, n. 231/1959.

[46] Quaroni L., La pianificazione urbanistica e le scienze sociali, in Casabella-Continuità, n. 231/1959.

[47] La sede del MCC è il Castello di Sermoneta (LT) ove anche oggi si tengono iniziative formative.

[48] Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica (1943-1988), Torino, Einaudi, 1989, p. 326.

 

 

[49] Una rivista della sinistra cattolica fondata dal filosofo Felice Balbo nel 1953 e che raccoglieva un gruppo di giovani estranei sia al mondo comunista che a quello democristiano.

[50] Il Piano INA-CASA fu lanciato dal Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Amintore Fanfani, nel 1949 ed aveva come scopo quello di coniugare due esigenze: costruire case per gli sfollati e offrire opportunità di lavoro per i tanti disoccupati. Il Piano Fanfani, che promosse un massiccio intervento per la costruzione dell’edilizia popolare, fu considerato da alcuni come espressione di una politica Keynesiana e coerente con i principi del Welfare State enunciati dal Piano Beveridge in Inghilterra nel pieno del secondo conflitto mondiale (1942).

[51]Lambertini L., Community work nelle periferie urbane: l'Ente Gestione Servizio Sociale-Case per Lavoratori in www.storicamente.org.

[52] C’è da osservare che le attività educative non miravano tanto a formare l’uomo come soggetto produttivo, ma come persona cosciente della propria condizione in un percorso di crescita nella propria vita quotidiana.

[53] Testo Unico delle Circolari dal n.1 al n. 91 (30/09/1954) consultabile ivi.

[54] Trevisan C., Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica. Sei anni di attività dell’EGSS, Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori, Roma, 1961, 21-23.

[55] A. Scassellati, Intervista a Ubaldo Scassellati, in De Rita G.- Bonomi A., Manifesto per lo sviluppo locale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 32., p.162.

[56] Trevisan C., Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica. Sei anni di attività dell’EGSS, Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori, Roma, 1961, 21-23.

[57] CASAS (Comitato Amministrativo Soccorso Ai Senzatetto), emanazione tecnica creata nel 1945 come organo esecutivo del programma di aiuto edilizio coi fondi UNRRA. Il CASAS, ente pubblico senza fini di lucro, si dedicò ad un complesso quadro di promozione sociale ed economica di comunità depresse. Tra le aree interessate si annoverano quelle di Matera, Caltanissetta e il quartiere San Basilio a Roma in cui è ancora presente.

[58] Per la comprensione analitica e un preciso inquadramento metodologico di queste pratiche un utile riferimento è rappresentato dalle analisi di Paolo Volponi, noto scrittore e poeta, che fu prima responsabile dell’area inchieste sociali dell’UNRRA-CASAS e poi, Direttore del Servizi sociali della Fabbrica Olivetti di Ivrea nonché anche Direttore del Cepas. Questa sua errabonda e versatile esistenza è ironicamente espressa in sua dichiarazione in cui afferma: “Mi piace chiamarmi Volponi e penso all’eroismo della volpe che, presa in trappola, si morde la zampa pur di scappare. Io sono così, non riesco a rimanere chiuso in trappola e mi strappo la gamba pur di scappare”. Per i nostri scopi, invece, si consulti: Volponi P., L’UNRRA CASAS e i Centri Sociali, Centro Sociale n.1-2-3, 1954.

[59] Murray Ross G., Organizzazione di comunità: teoria e principi, ONARMO, 1963.

[60] Volponi P., L’UNRRA CASAS e i Centri Sociali, Centro Sociale n.1-2-3, 1954.

[61] Friedmann F., Isnardi G. et al., Matera 55. Radiografia di una città del Sud tra antico e moderno, Matera, Edizioni Giannattelli, 1996.

[62] Sinclair U., La giungla, Net.

[63] London J., Il popolo degli abissi, Milano Mondadori, 2014, p.4.

[64] Orwell G., La strada di Wigan Pier, Milano, Mondadori, 1960.

[65] Dolci D., Inchiesta a Palermo, Palermo, Sellerio, 1957.

[66] Fofi G., L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1975.

[67] Pugliese E. (a cura di), L’inchiesta sociale in Italia, Roma, Carocci, 2009.

[68] In una ricerca promossa dalla Federazione italiana dei Centri Sociali, nel 1965 questi ultimi ammontavano a 353.

[69] Zucconi A., Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Roma, Castelvecchi, 2015, p. 148.

[70] Banfield E.C., Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 2010.

 

 

[71] Sotgia A., Forme urbane e politiche sociali nei quartieri del Piano Ina-Casa in Munarin S., Martelliano V. (a cura di), Spazi, storie e soggetti del welfare, Roma, Gangemi, 2012, p.114.

[72] Devastato G., Oltre la crisi. Quali sfide per il welfare dei soggetti, Maggioli, 2012, p.59.

[73] Appetecchia E., Idee e movimenti comunitari. Servizio sociale di comunità in Italia nel secondo dopoguerra, Viella Editrice, Roma 2015, pag. 142.

[74] Ginzburg N, “Inverno in Abruzzo” in Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 2015.

[75] Una biografia ricca di spunti e informazioni dettagliate è quella di Mauro F., La vita di Leone Ginzburg. Intransigenza e passione civile, Roma, Donzelli, 2013.

[76] Ginzburg L., La tradizione del Risorgimento, Roma, Castelvecchi, 2014.

[77] Bobbio N., Introduzione a Scritti di Leone Ginzburg, Torino, Einaudi, 1964.

[78] Gui L., “Servizio sociale e partecipazione comunitaria autentica: un riferimento al contributo teorico di Guliano Giorio” in Lazzari F.- Merler A., La sociologia della solidarietà. Scritti in onore di Giuliano Giorio, Milano, FrancoAngeli, 2004.

[79] Devastato G., Nel nuovo welfare. Agire riflessivo e produzione di beni comuni, Rimini, Maggioli editore, 2009.

[80] Gui L., “Servizio sociale e partecipazione comunitaria autentica: un riferimento al contributo teorico di Guliano Giorio” in Lazzari F.- Merler A., La sociologia della solidarietà. Scritti in onore di Giuliano Giorio, Milano, FrancoAngeli, 2004.

[81] Giorio G., Lineamenti per una metodologia dell’organizzazione e della partecipazione sociale, Vicenza, Centro Studi Rezzara,1975, p.86.

[82] Giorio G., Comunità e oltre, in Giorio G., Lazzari F., Merler A. (a cura di), Dal micro al macro. Percorsi socio-comunitari e processi di socializzazione, Padova, CEDAM,1999, p.30.

 

 

[83] Cafiero S., Il Mezzogiorno nelle politiche nazionali e comunitarie, Milano, Giuffrè editore, 1982, p. 45.

 

 

[84] Ferrario F., e Gottardi G., Territorio e servizio sociale, Unicopli, 1987, p. 74.

 

 

[85] Martini E.R. - Torti A., Fare lavoro di comunità, Roma, CarocciFaber, 2003, p. 15.

 

 

[86] Sgroi E., Aspetti teorici e pratici dello sviluppo di comunità, Assistenza oggi, n.4 1961

 

 

[87] Ripamonti E., Collaborare. Metodi partecipativi per il sociale, Carocci, 2011.

 

 

[88] Allegri E., Servizio sociale di comunità, Roma, CarocciFaber, 2015, p. 47.

 

 

[89] Lanzani A., Immagini di territorio e idee di piano (1943-1963), Milano, FrancoAngeli,1966.

[90] Fargion S., Il metodo del servizio sociale. Riflessioni, casi, ricerche, Roma, CarocciFaber, 2013, p. 93.

[91] Lambertini L., “Ricerca sociale e lavoro di comunità” in Gli Asini, giugno/settembre 2013, n. 16-17, p. 106.

[92] Cutini R., Teoria della Comunità e del Servizio sociale nel Convegno AAI di Frascati del 1964, in Appetecchia E., (a cura di), op. cit., p.152.

[93] Belotti A., in www.doppiozero.com/materiali/che-fare/angela-zucconi.

[94] Fofi G., Prefazione in Belotti A., La comunità democratica. Partecipazione, educazione e potere nel lavoro di comunità di Saul Alinsky e Angela Zucconi, Irvea-Roma, Fondazione Adriano Olivetti, 2011, p.18.

[95] Crainz G., Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003.

[96] Ginzburg N., Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 2005, p. XXII.

[97] Galimberti U., Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 2001, p.43.

[98] Fofi G., Strana gente. Un diario tra Sud e Nord nell’Italia del 1960, Donzelli, Roma 2012.

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