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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2023

Saggi

Eccitare il lavoro. Il welfare aziendale, una trama di lungo periodo

Valerio Varini


Il welfare aziendale è tema controverso e ampiamente evocato tanto da rendere necessario, per una sua fondata comprensione, indagarne le origini e la mutazione nel tempo.

È fondamentale una iniziale premessa terminologica. Con welfare aziendale si intendono tutte le opere sociali, assistenziali e formative praticate dalle imprese in favore di una comunità, i cui limiti sono definiti dai legami con l’impresa[1].

Questa relazione nel tempo si estende arrivando a comprendere non solo i lavoratori, ma anche i loro famigliari.

Proprio le assonanze con l’istituzione famiglia caratterizzeranno l’intero percorso del welfare aziendale, al punto da essere a lungo identificato come paternalismo[2], attraverso l’analogia del rapporto tra padre /padrone e lavoratore /figlio, con tutte le ambiguità dovute alla criticità della subalternità del secondo al primo.  

Per comprenderne più a fondo la sua essenza e, fine ancor più rilevante, dar significato alla sua durata, ne ripercorriamo, almeno per tappe, l’evoluzione nel contesto italiano[3].

È quindi utile soffermarsi, in rapida sintesi, sulla sua affermazione, con l’avvertenza che questa fu ampiamente condivisa con quanto maturava nel più ampio spazio dello sviluppo economico e sociale nel quale l’Italia era inserita[4]. Seguirà la consolidata scansione del periodo tra le due guerre mondiali, il secondo dopoguerra, per concludere con i turbolenti decenni di fine secolo[5].

Molteplici sono le domande inerenti alla sua rilevanza. Quanto esso incise nel plasmare i caratteri propri del capitalismo italiano? Quanto ha contribuito alla costruzione delle diverse forme di impresa emerse nello sviluppo industriale italiano? Quali le cause della sua durata nel tempo? Come ha inciso sulla conoscenza e la cessione del sapere dei lavoratori?  E forse, la domanda più pregnante, quanto è in grado di rivelare la ‘natura’ dell’impresa?

Domande a cui è necessario rispondere con una prospettiva di lungo periodo e aprendo al ventaglio dei casi aziendali: dalle società famigliari o di capitali, alle fondazioni di impresa, dall’impresa pubblica alle cooperative.

Il modello di analisi longitudinale adottato, con accenni comparativi, permette di comprendere come il welfare aziendale sia una parte fondante dell’agire aziendale. Esso si ritrova in tutte le molteplici forme d’impresa che costituisco il caleidoscopico sistema Italia[6].

La sua persistenza nei marosi del tempo, determinati da congiunture economiche e politiche talvolta assai avverse, è un indicatore illuminate della fragilità delle letture volte a sottolineare solo gli aspetti di subalternità, ponendo in ombra le reciprocità. Dovremo invece nella trama della storia apprezzare quanto il fondamento dello scambio stia nella cessione di intelligenza e sapere, nonché sentimenti, delle maestranze che costituiscono il fondamento stesso dell’impresa la quale, nel suo governo, amministra a redistribuisce la ricchezza prodotta.

In assenza di affidabili dati quantitativi omogenei nel lungo periodo, difficili da ricostruire per la composizione articolata e cangiante del suo perimetro, si intende focalizzare l’analisi secondo una cadenza temporale ampiamente sedimentatasi nel tempo, anche alla luce delle interpretazioni sino ad ora offerte dalla storiografia, seppure una sua necessaria revisione si pone con urgenza.

In sintesi, mutamento e persistenza, nella loro apparente contraddizione, sono le chiavi di lettura adottate. La periodizzazione seguirà, come anticipato, quella convenzionale, con una più intrigante aggiunta riguardante i tempi recenti.  Si inizia con la sua origine, coincidente con il periodo della prima industrializzazione italiana fino alla Prima guerra mondiale. Seguiranno gli anni di una contesa tra il regime e l’indipendenza delle imprese. Con il secondo dopoguerra si apre la stagione della negoziazione liberale che, almeno apparentemente, si chiude con il decennio degli aspri conflitti sociali. Il suo apparente dissolversi si rivelerà essere un permanere carsico che giunse fino alla fine del XX secolo[7].

Urge pure segnalare un limite della trattazione. Gli espetti relativi alle idealità che spinsero gli imprenditori e le imprese ad agire in questo ambito sono solo accennate, anche se meriterebbero un’approfondita analisi, ancora da svolgersi compiutamente.  

L’origine del paternalismo

La prima fase di sviluppo economico italiano abbraccia la seconda metà dell’Ottocento e conosce una accelerazione a cavallo dei due secoli, quando l’avvio dell’industrializzazione pone pressanti esigenze in termini competenze lavorative, sia alla giovane imprenditoria, desiderosa di competere in mercati globali, sia alla manodopera da impiegare nelle nascenti fabbriche.

In questo avvio, a iniziare dagli anni Sessanta e Settanta prendono forma alcune delle imprese simbolo dell’industrializzazione nazionale.

A guidare il processo sono imprenditori di diversa estrazione geografica, culturale e politica, impegnati a elaborare plurime e innovative strategie d’impresa.

Utile è illustrare il doppio binario delle produzioni dai tratti più maturi, quali quelle tessili, e quelle intenzionate a sfidare la frontiera della innovazione tecnologica. Tra le prime un ruolo di indiscussa leadership, anche per la influenza pubblica ricoperta dai loro titolari, si possono annoverare, a titolo esemplificativo, le manifatture tessili Rossi, Marzotto, Crespi e Visconti di Modrone.

Significativamente le prime sorte in Veneto a segnalare una genesi regionale dell’industrializzazione nazionale, caratterizzata da tratti fortemente solidaristici di ispirazione religiosa. Alessandro Rossi fu portatore di una profonda trasformazione dell’impresa ereditata. Egli trasse ispirazione dalle manifatture belghe, per la costruzione di una coesa comunità lavorativa edificata tra il 1873 e il 1878 nei d’intorni di Schio (Piovene, Torrebelvicino, Pievebelvicino). La progressione degli interventi ben ne delinea la sua corposa organicità. Alla fondativa Società di mutuo soccorso (1861), dagli spiccati tratti identitari, seguirono molteplici opere destinate ai lavoratori e alle loro famiglie[8]. Era questa la raffigurazione più completa di un organico corpo in grado di garantire l’intera vita della comunità produttiva. Sempre nell’area veneta la Marzotto ebbe grazie all’opera di Gaetano un’analoga genesi, ma con alcuni tratti distintivi, quali una maggiore concentrazione nella “città fabbrica” di Valdagno, che giunse a compimento nel 1927, “con uno dei progetti più ambiziosi in tale ambito realizzata dall’imprenditoria veneta e non solo”[9]. Chiude la triade l’opera di Paolo Camerini a Piazzola del Brenta. Anch’egli, ereditata l’impresa paterna, attenta fin dalle origini alle opere sociali, realizzò una profonda modernizzazione del sistema produttivo: alle “fornaci, al cementificio si affiancarono fabbriche di concimi di acido solforico, iutifici, filande, seterie, stabilimenti per la conservazione di prodotti agricoli”[10], con una pari opera di edificazione urbana, senza trascurare alcun aspetto dei bisogni del lavoratore nelle sue molteplici relazioni sociali[11].

Innumerevoli furono nel tempo le “esperienze minori” che pullularono in Veneto[12] dilatando non solo il settore produttivo, dal tessile al metalmeccanico, alla chimica alla conciaria, ma pure l’arco temporale, spingendosi nella sua fase formativa agli esordi del XX secolo[13].

Dal Veneto alla confinante Lombardia dove furono soprattutto i cotonieri a caratterizzare l’intervento sociale delle imprese, il loro operare si caratterizzò per un vasto intervento sociale dagli spiccati tratti filantropici, nel sostegno a una capillare rete di istituzioni caritatevoli operanti nel territorio. Due quindi le direttrici dell’intervento sociale degli imprenditori tessili lombardi: il territorio di insediamento e la comunità d’impresa, sulle quali ci soffermeremo.

I primordi dell’industrialismo originano negli anni Venti Trenta nei pressi dei corsi d’acqua, per sfruttarne la forza motrice. Immediatamente si pose il problema del reclutamento della manodopera, della loro educazione al lavoro e della disciplina di fabbrica. Lavoro a cui era richiesta la continuità con appositi insediamenti che ne garantissero le prestazioni nel tempo. A tal fine immediate furono le costruzioni di abitazioni adibite ad accogliere dapprima una manodopera specializzata, sovente d’origine estera, che con l’espansione dell’impresa sfociava in numerosi villaggi operai sparsi lungo le rive dell’Olona, il Lambro, l’Adda, fino alle valli bresciane dell’Oglio, del Chiese, lambendo il lago di Garda.

Alla vastità del territorio corrisponde una moltitudine di iniziative differenziate per dimensione. Agli esordi nobiliari dei Visconti di Modrone, mossi da istanze morali, si affiancarono nascenti imprese che caratterizzarono l’intera parabola produttiva. Si segnalano per la rilevanza degli interventi il Cotonificio Cantoni a Bellano, dove agli insediamenti abitativi seguirono gli spacci alimentari. Altro fronte delicato riguardò la formazione di una manodopera cresciuta lontano dagli insediamenti produttivi, destinata a mutare il proprio percorso di vita con l’entrata in fabbrica. Sorsero le scuole destinate alle giovani leve che impartivano oltre alle materie elementari anche i rudimenti del disegno e della meccanica. Esemplari furono le istituzioni operanti a Legnano negli stabilimenti Krumm o a Vaprio, promosse da Dell’Acqua. Continuarono l’opera formativa le scuole operaie serali alla Ercole Luardi di Brescia, i corsi tecnici a Salbiate e tante altre disseminate nella regione[14].  

Il consolidarsi delle unità produttive e delle maestranze portò alla dilatazione delle opere, attente a soddisfare l’intera complessità del viver umano. Asili per la prole, stanze per l’allattamento, luoghi di cura e assistenza, come pure iniziative culturali, dalle filodrammatiche alle bande musicali, per lambire agli esordi del XX secolo il tempo libero dedicato alle attività sportive e alla scoperta del territorio con viaggi e sogni motoristici. Esemplari e ampiamente documentati sono le complesse progettazioni urbanistiche di alcuni noti insediamenti, come il villaggio operaio di Crespi d’Adda realizzato da Cristoforo Benigno. In esso la gerarchia di fabbrica si specchia nell’ordinamento urbanistico, destinato a educare al lavoro l’intera comunità gravitante attorno alla fabbrica.

Con l’irrompere della questione sociale e del conseguente intervento legislativo dedicato a spinose questioni, quali la regolamentazione del lavoro minorile, il mondo imprenditoriale mostrò una pluralità di orientamenti divisi tra atteggiamenti favorevoli o contrari all’ingerenza dello Stato. Il corposo dibattito sociale rivela l’affermarsi di un nascente proletariato operaio, proteso a dotarsi di proprie distinte rappresentanze scaturite dal confronto tra capitale e lavoro, con il quale il paternalismo ottocentesco dovrà confrontarsi. Confronto che, nella prospettiva delle opere sociali, incentivò un protagonismo oltre i confini della fabbrica e in direzione di una affermazione del ruolo sociale degli imprenditori provato dall’operare di innumerevoli istituzioni previdenziali, sanitarie e in genere dalle plurime finalità sociali. Noti sono gli interventi a favore dell’Ospedale Maggiore a Milano, con i lasciti della famiglia Visconti di Modrone o della famiglia cotoniera dei Ponti, come pure sono di indubbia rilevanza i contributi delle imprese alla costruzione dell’intero sistema scolastico tecnico-professionale sorto a Brescia tra Otto e Novecento[15].

L’accennata esperienza lombarda si arricchì ulteriormente nei primi decenni del secolo con la concentrazione industriale nelle immediate periferie dei centri urbani. Intere aree in precedenza considerate rurali divennero in breve tempo i poli di una incipiente modernizzazione con l’agire di nuovi protagonisti: le grandi imprese, non più solo, o non più prevalentemente tessili, ma dedite alla produzione di acciaio, meccanica, chimica.

È utile, prima di addentrarci nel Novecento, accennare all’opera delle imprese nelle altre regioni. A cominciare dal Piemonte dove si segnala per completezza l’intervento di Napoleone Leumann a Collegno. Esperienza globale per molti versi assimilabile a quella dei tessili in precedenza descritti[16]. La disamina continua nel resto d’Italia con una seppure contenuta incidenza dettata dal più lento processo di mutazione economica. Tuttavia, non mancarono anche nell’Italia centrale e, ancor più significativamente, nell’Italia meridionale interventi sociali delle imprese di notevole rilievo. Ci limitiamo a citare le esperienze consumatasi nei noti poli siderurgici di Terni[17] e Piombino[18]. A queste vanno aggiunte, forse meno conosciute, le iniziative disseminate nei siti minerari, come quella ‘organica’ promossa da Francesco Lardarel per lo sfruttamento dell’acido borico a Montecerpoli, risalente al 1835 con la costruzione di case per gli operai e relativi servizi sociali. Del medesimo tenore a Rosignano nel 1919 troviamo il villaggio operaio della Solvay[19], espressione di una multinazionale operante in molteplici siti produttivi europei nel quali replica il medesimo modello di integrazione sociale. La Montecatini con i suoi molteplici insediamenti estrattivi popola gli Appennini tra Marche e Toscana, erigendo una vera e propria rete di insediamenti progressivamente ampliati nella prima metà del Novecento. Degna di nota pure l’opera svolta della Società Metallurgica Italiana diretta dalla famiglia Orlando che con Luigi e con il successore Salvatore attuarono un “paternalismo aziendale pervasivo, esteso alla salute, all’istruzione e al tempo libero dei lavoratori”[20].

Anche in Meridione, seppure scontando un endemico ritardo, si rintraccia una significativa presenza di opere promosse dalle imprese.

Da sottolineare come furono i viaggi d’istruzione all’estero ad aprire a imprenditori tessili pugliesi le prospettive più proficue. Esemplare fu la parabola dei fratelli Saverio e Nicola De Bellis, che da Castellanza estesero un variegato complesso produttivo integrando siti cotonieri con tenute agricole, dotate di adeguate infrastrutture abitative e istituzioni sociali assistenziali (ospedale, asili, scuole per l’infanzia) dedicate alle maestranze e aperte ai bisogni del territorio[21].

Le ragioni fondanti di questo primo welfare aziendale vanno ricercate nella necessità di garantirsi una manodopera di fiducia, stabile, addestrata, dedita al lavoro, tanto da promuovere comunità incentrate sull’impresa in cui la migliore qualità della vita degli operai motivasse il loro impegno quotidiano. Le ragioni riportate nella documentazione disponibile illustrano una visione incentrata sull’esigenza primaria di garantire il funzionamento efficiente ed efficace dei nuovi nuclei produttivi, quale appunto le nascenti fabbriche. Le risorse naturali influenzarono i comportamenti. Lo ricerca di energia, ricavata dalle forze idriche, spinse a ubicare le fabbriche nei pressi dei corsi d’acqua, necessità che richiese di attrarre e stabilizzare la manodopera anche in luoghi ameni[22]. Attirare manodopera dalle valli circostanti le cadute d’acqua, con opportunità d’impiego assai povere in termini comparativi, portava a ridefinire comportamenti e culture forgiate dal tempo. Le operaie tessili dovevano essere non solo accolte, ma pure educate ai tempi della fabbrica, oltre che ad apprendere le arti della meccanica, secondo i differenti e gerarchici ruoli svolti nel complesso lavorativo.

I villaggi operai si rivelarono funzionali all’intero organismo sociale sorto per l’efficiente funzionamento degli opifici[23].

Le realizzazioni rivelano però un di più del mero fine produttivo. Soprattutto nelle motivazioni si rintracciano i desideri di alcuni imprenditori di creare soluzioni abitative che garantissero una qualità di vita elevata e potessero proporsi come modelli esemplari, in un contesto di sincera condivisione di valori e pratiche sociali con gli operai, spesso frutto del comune credo religioso. Ancor più la scelta isolata permise di creare zone franche dalla penetrazione degli ideali socialisti in cui le buone pratiche riducevano le rivendicazioni delle istanze provenienti dai richiami alla lotta di classe. Gli esempi di Campione, o di Crespi d’Adda[24] assai più famoso, sono esemplari in questa prima configurazione e trovarono molteplici attuazioni in molte delle esperienze citate.

Questo primo sviluppo del welfare aziendale avvenne in una epoca caratterizzata dalla presenza assai limitata e sicuramente non in grado di offrire una completa copertura dell’assistenza pubblica, nella diversa declinazione dal Comune allo Stato. Così le provvidenze delle imprese si sommavano a quelle delle opere pie e delle amministrazioni comunali e provinciali, contribuendo a delineare l’offerta d’aiuto alle fasce sociali più deboli.  Il sistema di sicurezza sociale di questa fase storica si incentrava su un’idea di comunità fortemente radicata nel territorio, la cui appartenenza era condizione necessaria per accedere ai servizi. Il cuore di tale sistema era il Comune che non solo rappresentava la comunità di appartenenza, ma era anche contenitore e connettore di molte altre istituzioni territoriali che spesso si intrecciavano fra loro. A questa dimensione di appartenenza, si affiancava l’impresa la quale si strutturava come una differente entità che attraverso il welfare aziendale poteva costruire la sua immagine pubblica.  Poiché molti erano i bisogni non coperti, ampio era il margine d’azione per le opere delle imprese.

Si venne così a realizzare quello che la storiografia ha definito come il “paternalismo organico” per il suo carattere fortemente inclusivo, di istituzione fortemente coesa tesa a disciplinare organicamente i tempi di vita delle comunità aziendali secondo le cadenze dettate dalla fabbrica.  Altro carattere fondante riguardava le modalità di erogazione, legate a forme d’intervento diretto dal ‘padrone’ all’operaio/a con una marcata nota personalistica, spesso con il coinvolgimento dei famigliari della proprietà che ribadivano la centralità, nonché la responsabilità, della proprietà nel governo dell’impresa.

In sintesi, l’affermazione dell’industrialismo necessitava di un incubatore capace di formare la ‘classe operaia’, dove il riconoscimento delle competenze acquisite nell’esercizio del lavoro trovava nelle opere sociali il giusto riconoscimento. Citando il giovane Giovanbattista Pirelli, il lavoratore doveva essere “eccitato” a svolgere il suo compito e la sua sapienza doveva essere retribuita anche con il riconoscere, e soddisfare, tutti i suoi bisogni[25].

La mutazione da paese eminentemente agrario e artigianale a industriale, almeno nei territori più marcatamente industriali, richiese risposte fattive alle necessità dettate dalla nuova configurazione economica, sociale e culturale. Il paternalismo organico, correttamente inteso e limitando gli aspetti del prevalere della subalternità tra erogante, il padrone, e beneficiario, il lavoratore, può essere inteso come efficace tentativo per coniugare i bisogni produttivi dell’impresa con le necessità di un proletariato di fabbrica in gestazione[26].

Il welfare: funzione aziendale

Nel periodo fra le due guerre si assistette ad una importante maturazione delle trasformazioni sociali ed economiche, accompagnate dal consolidarsi dell’apparato produttivo, pur con i suoi limiti e le sue fragilità, e dall’affermazione del regime fascista. Limitandosi agli aspetti di nostro interesse si assiste a un duplice processo: l’uno più intrinsecamente economico, che potremmo sintetizzare nell’ascesa dell’impresa moderna, quale compimento, sia pur con limiti assai noti, della seconda rivoluzione industriale; l’altro dettato dall’intento autoritario del regime di imporre il controllo dello Stato e del partito sulle molteplici istituzioni sociali “private”.

Aspetti entrambi intrecciati ma che per comodità analitica distinguiamo, focalizzandoci dapprima sull’impresa.

La Grande guerra contribuì al pieno dispiegarsi del moderno industrialismo, covato nei decenni precedenti ma giunto a pieno compimento, almeno in alcune aree del Paese, quelle simbolicamente riferite al triangolo industriale, Milano, Torino e Genova, con le contigue aree urbane.

Questo fu animato dalle grandi imprese che costruirono l’ossatura industriale dell’Italia. Esse furono protagoniste di una modernizzazione assai vasta, che nell’arco di un cinquantennio cambiò l’intera fisionomia nazionale. Nomi prestigiosi quali Fiat, Olivetti, Breda, Falck, ILVA, Montecatini, Pirelli, Snia Viscosa, per limitarsi a ricordare solo un testimone per ogni settore produttivo, a lungo hanno riempito le cronache economiche, sociali e politiche dell’Italia[27].

Esse segnarono pure un profondo cambiamento nell’organizzazione dell’impresa e del loro agire sociale. L’articolazione organizzativa attuata dalle imprese, segnate dalla affermazione del big business italiano, determinò una nuova tappa del welfare aziendale.

La imprese sorte e consolidatesi negli anni della Prima guerra mondiale dovettero affrontare nel successivo decennio, nei limiti del mercato italiano, la piena applicazione delle potenzialità produttive offerte dalle tecnologie tipiche della produzione di massa. La Fiat con il Lingotto, avviato nel 1919, ne esprime simbolicamente vizi e virtù[28]. L’esempio del fordismo era noto e la sua adozione entro i limiti di una economia dai bassi consumi ancor più vincolata dal crescente protezionismo, impose l’adozione di una versione italica, ma non meno rilevante di quanto sperimentato negli altri stati europei[29].

Le ragguardevoli dimensioni quantitative, misurate in non pochi casi nelle migliaia di lavoratori occupati, spinsero le imprese, altamente concentrate in termini territoriali, a misurarsi con le problematiche, specie organizzative, del welfare. La sua rilevanza fu tale che si tentarono i primi timidi censimenti, difficili per la mancanza di confini definitori e per l’alto grado di informalità del welfare aziendale specie nel caso delle piccole unità. La documentazione prodotta offre un sia pur timido indicatore della sua diffusione, come il semplice conteggio delle company towns elencate negli anni Venti e Trenta. In un censimento descrittivo, senza pretese di esaustività, assommavano a ben 53 nelle quali erano accolti 283.896 lavoratori con le rispettive famiglie[30].

Oltre ai flebili dati nazionali, utili sono le analisi circoscritte ad ambiti particolarmente significativi. La concentrazione operante a Sesto San Giovanni risulta essere assai emblematica e simbolicamente rappresentativa.

Si trattava di una importante concentrazione urbana nella immediata periferia di Milano. Le grandi imprese si erano insediate nell’antico borgo agricolo fuori le antiche mura del capoluogo, laddove a inizio Novecento un complesso investimento immobiliare individuò il territorio destinato ad accogliere la principale concentrazione industriale della futura metropoli. Sesto San Giovanni divenne la direttrice dello sviluppo milanese e presenta tutti i caratteri di una realtà urbana in movimento. Nel suo essere laboratorio culturale, sociale e economico troviamo i tre colossi sestesi, più uno, misurarsi con tecnologie a alta complessità e con la moltitudine degli occupati.

La Breda, la Falck, la Marelli (Ercole e Magneti), cui va aggiunta la confinante Pirelli, sono chiamate a dare una sistemazione razionale allo spontaneismo organizzativo adottato negli anni, anche in riferimento alle opere sociali. Queste, in sintesi, perdono il loro carattere prevalentemente personalistico, derivante dalla presenza fisica dei padroni, o dei più stretti famigliari nei momenti cruciali della fruizione dei servizi, per divenire una componente centrale dell’organigramma aziendale. A fianco delle funzioni tipiche, quali la produzione o la vendita, la gestione del personale acquisisce una visibilità e una centralità in precedenza affidata alla sola sensibilità padronale.

Il welfare divenne una vera e propria distinta funzione dell’impresa, alla quale applicare i medesimi criteri di razionalità adottati dalle altre direzioni aziendali. Alle pratiche informali si sostituirono regolamenti affidati a uffici incaricati della selezione ed elargizione dei benefici nei confronti della comunità d’impresa. La Falck con in suoi villaggi operai, dislocati nei pressi dei siti produttivi sestesi, provvide a stilare regolamenti articolati per l’assegnazione delle case e per la loro gestione, dove l’aspetto prevalente fu quello di amalgamare una popolazione dalle provenienze assai disparate[31]. Non siamo al cosmopolitismo degli operai Ford, tuttavia gli immigrati andavano disciplinati ai ritmi della fabbrica e alla convivenza sociale. Il fine è chiaramente quello produttivo: avere manodopera pronta a soddisfare i tempi delle calate nella acciaieria, ma sarebbe assai riduttivo limitarsi a valutare queste iniziative solo in termini di un suo asservimento funzionale. Accanto alle case sorsero asili, scuole elementari, corsi di formazione professionale e tecnica con borse di studio per l’università. Campi sportivi e luoghi culturali, dalle biblioteche ai teatri, alla musica, riempirono lo spazio sestese della Falck come delle altre imprese citate[32].

L’insieme delle opere, destinate a decine di migliaia di addetti, moltiplicati per i famigliari che ne beneficiavano, richiese la loro minuziosa formalizzazione con la creazione di istituzioni dedicate alla loro amministrazione: nacquero i dopolavori[33]. Istituzioni assai complesse e ibride, dove i segni del consenso, e della partecipazione dei lavoratori, vanno ricercati con grande sensibilità. Essi erano emanazione diretta dell’impresa[34] e risultavano nelle norme regolamentari delle mere erogazioni gerarchiche, ossia stabilite dalle dirigenze e somministrate sovente con la presenza della proprietà, non dimeno esse si basavano sulla interazione tra impresa e beneficiari. A cominciare dalla scelta delle opere. Se analizziamo il tempo libero, vera conquista della ‘classe operaia’, la selezione delle attività dipendeva dalla partecipazione dei lavoratori. Motori, sport, gite, vacanze (colonie) rispondevano alle domande dei lavoratori e ne misuravano il gradimento con il livello della partecipazione. Gli stessi corsi di formazione, ancorché assai utili alla produzione, prevedevano insegnamenti di cultura generale e permettevano ai frequentanti di perseguire carriere operaie di tutto rispetto. Inoltre, erano chiamati a gestirli quei lavoratori che, sebbene nominati dall’alto, riscuotevano il maggiore consenso nelle comunità lavorative[35].

In sintesi, il welfare divenne in queste realtà una componente istituzionalizzata con propri regolamenti e affidata per la sua gestione a una funzione non irrilevante dell’organigramma aziendale. Potremmo affermare che dalla organicità delle prime esperienze tessili, si assiste ad una formalizzazione organizzativa nella quale si fanno spazio ambiti di autonomia e partecipazione dell’intera comunità aziendale.

In questa fase storica, il regime cercò di utilizzare i dopolavori, ossia la dimensione sociale delle imprese, per estendere il governo della società, spingendosi a controllare meglio quell’insieme di attività finalizzate a generare adesione al regime. Tuttavia, essi si rilevarono “soggetti” complessi, in cui il disegno autoritario del regime non sempre trovò realizzazione e dove il senso di appartenenza aziendale, nonché l’autonomia decisionale, riuscirono spesso a sopravvivere. Ancor più significativo, per svelare la scarsa presa ottenuta dal regime sulle opere sociali delle imprese, fu l’operato delle fondazioni d’impresa che, seppure create per motivi diversi, contribuirono a sottrarre dall’ingerenza fascista la gestione delle opere sociali dalle imprese[36].

Sorte allo scopo di meglio gestire i servizi per i propri dipendenti, la loro origine va interpretata come un’espressione di indipendenza e libertà d’azione.  In esse ritroviamo, aggiornate nelle forme, le antiche pratiche della filantropia e quello stretto legame personale tra i proprietari o gli amministratori delle imprese che erogavano i servizi e gli operai e impiegati che li ricevevano. Le fondazioni operarono con ampia autonomia gestionale, difendendosi dalle interferenze di altre istituzioni, quali lo Stato o il partito fascista. Esse riuscirono ad essere indipendenti anche nel secondo dopoguerra, sottraendosi in larga misura alla negoziazione sindacale.  La loro creazione va collegata al desiderio delle dirigenze delle imprese di affermare e rafforzare alcuni valori, quali l’etica del lavoro, il senso di appartenenza identitaria, e nello stesso tempo di attivare meccanismi di redistribuzione della ricchezza, destinando una parte dei profitti dell’impresa alla soddisfazione dei bisogni sociali. Basti ricordare l’aiuto fornito durante il secondo conflitto bellico, oppure gli interventi finalizzati alla formazione e all’assistenza dei soggetti più deboli[37].

La forte identità, unita a una forma istituzionale di diritto privato, permise alle fondazioni di preservare la propria autonomia, tanto da segnalare quanto i corpi intermedi, quali appunto le imprese, eressero barriere difficili da valicare da parte del regime[38].

La verifica dell’autonomia delle imprese, anche nello spazio comunitario da esse governato, si ebbe con ampia evidenza negli anni della guerra, periodo nel quale le fabbriche permisero alle comunità ad esse riconducibili di soddisfare i bisogni primari, rafforzando ancor più lo scambio tra lavoro e fedeltà all’istituzione[39]. Basti citare come a Sesto furono disseminati negli interstizi liberi dagli edifici produttivi degli orti per la coltivazione degli ortaggi, inoltre le maggiori imprese si coordinarono per garantire la soddisfazione dei bisogni primari a tutti i membri dell’estesa comunità operaia, compresi i fanciulli inviati alle colonie per evitare i bombardamenti[40]

Il secondo dopoguerra: il welfare negoziato

Lo sviluppo economico che seguì la Seconda guerra mondiale, con il suo bisogno di operai stabili e fidati generò una nuova fase di espansione del welfare aziendale che si protrasse sino alla costruzione di uno Stato sociale dai tratti universalistici. Nel clima di ritrovata libertà, alimentato anche dalle rappresentanze sindacali, si andavano profilando nuove sfide per il welfare aziendale sottoposto alla duplice pressione delle richieste di più stringente partecipazione dei lavoratori alla sua gestione e alla non meno insidiosa estensione dell’intervento pubblico, anche sotto il profilo di una crescente pressione fiscale e contributiva.

Al boom economico contribuì anche la presenza delle multinazionali americane, che portarono nuove suggestioni e innovative pratiche in questo ambito.

Complessivamente democrazia e crescita economica contribuirono a valorizzare e preservare quanto maturato nei decenni passati. A tale espansione parteciparono tutte le forme di impresa, da quelle pubbliche - dalle municipalizzate agli enti economici come Iri, Eni, Enel - a quelle private - dai grandi nomi Fiat, Montecatini, Pirelli, Falck alle piccole e medie imprese diffuse in territori sempre più estesi fino al vasto mondo cooperativo[41]. È inoltre utile sottolineare l’apporto del ritrovato libero protagonismo dei lavoratori.

La tipologia delle opere sociali inizialmente non subì rilevanti cambiamenti.  Attività ricreative e tutela nelle situazioni di bisogno furono i cardini del welfare degli anni Cinquanta e Sessanta, un welfare che attraverso le reti della solidarietà si estendeva oltre i confini dell’istituzione.

In differente misura la parabola caratterizzò tutte le imprese, a prescindere dalle sue variegate tipologie di governance, dove il cambiamento fra il periodo fascista e il dopoguerra si espresse non tanto nella tipologia dei servizi offerti, quanto nel processo che li governava. In molte aziende la vera novità fu la nascita delle commissioni interne, in rappresentanza dei lavoratori, le quali fecero da controparte alle direzioni aziendali nelle decisioni relative ai servizi offerti. Le rappresentanze dei lavoratori intervennero nella gestione di taluni servizi, quali quelli sanitari o dedicati al tempo libero, delineando forme inedite di partecipazione[42].

Il welfare aziendale divenne così un terreno di confronto nella negoziazione sindacale, ovvero fra capitale e lavoro. È in questo contesto che gradualmente si manifestò la propensione a rendere durature le prestazioni erogate dalle imprese, includendole negli accordi aziendali, con il rischio, come paventato dagli esponenti della Confindustria, in primis Angelo Costa[43], di mutarli in diritti, dagli onerosi risvolti.

La vastità dell’intervento sociale era tale da suscitare ambivalenti necessità di analitica conoscenza, a partire dalla Confindustria che promosse accurate indagini conoscitive, senza però riuscire a censire compiutamente il fenomeno, obiettivo che non riuscì neppure allo Stato[44].

Tuttavia, alcuni dati, pur nella loro parzialità, descrivono una realtà di assoluto rilievo.

Nell’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori, condotta da una apposita commissione parlamentare a fine anni Cinquanta, la quota complessiva destinata al welfare aziendale sul totale delle retribuzioni assommava ad una media del 3,18%, con punte massime del 5,46% nel settore metallurgico e minime del 1,51% nel tessile[45].  Questi dati sono riferiti alle sole spese contabilizzate, mentre ampie erano le prestazioni parzialmente escluse o sottostimate, come i costi per le residenze destinate ai lavoratori, oppure il grande capitolo delle mutue aziendali altamente differenziate per tipologia e dimensione d’impresa[46].

Casi studiati come quelli delle municipalizzate[47], operanti nel delicato snodo tra agire imprenditoriale e intervento pubblico, nella fattispecie degli enti locali, permettono di apprezzare quanto vaste e radicate fossero le pratiche di welfare aziendale, soprattutto nel periodo d’oro per crescita economica e formazione del welfare pubblico, che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione dello Statuto dei lavoratori.

L’attenzione prestata ai lavoratori, secondo il gradiente della dimensione, mediante le varie provvidenze del welfare aziendale assumeva la funzione di legare insieme capitale e lavoro, richiamando dove possibile la simbologia della famiglia aziendale. Il welfare aziendale, così come la comunicazione interna mediante appositi house organ[48], erano entrambi proiettati a “rafforzare il senso di appartenenza dei lavoratori” che, fra le altre cose faceva anche da cardine nelle relazioni fra management e forza – lavoro. Il legame comunitario fu soggetto in talune esperienze, quali la Olivetti[49] o, altrettanto significativa, la Dalmine[50],  e non dimeno in tante altre realtà non adeguatamente studiate, caratterizzate da una puntuale negoziazione sindacale, fino a creare veri e propri affidamenti della gestione delle opere ai lavoratori.

La partecipazione al governo del welfare da parte delle rappresentanze sindacali e il suo essere oggetto di contrattazione incise sul ‘tramonto’ dell’impresa come famiglia, altrimenti detta come “nazione”[51], dove entrambi i termini sono intesi a sottolineare l’intensità e la profondità dei legami comunitari. Legami che costituivano il collante tra il lavoratore e l’impresa.

Numerose erano i segni di questa identificazione: squadre sportive, ricorrenze celebrative, gagliardetti, uniformi di rappresentanza, pratiche che andarono a dissolversi almeno nelle loro manifestazioni più appariscenti negli anni Sessanta e Settanta[52].

Plurime furono le cause di questo allentamento, tanto da indurre in tempi passati alcuni studiosi a sancire il definitivo tramonto del welfare aziendale.

Ricapitoliamo le principali cause.  L’espansione del secondo dopoguerra, come detto, portò il welfare aziendale a confrontarsi e talvolta a confliggere con le amministrazioni pubbliche impegnate nella costruzione dello stato sociale. Settore esemplare di questa conflittuale convivenza fu la sanità[53].

Ciò ridisegnò i rispettivi spazi di intervento, anche se almeno sino agli Settanta i bisogni sembrarono pressoché inesauribili tanto da distinguere i rispettivi ambiti di intervento. Si assistette così al progressivo ampliamento degli interventi aziendali, dalle mense alle colonie, ai soggiorni estivi e invernali, alle attività culturali, dal cinema alla fotografia, ai viaggi. Il tempo libero si accresceva in proporzione alla riduzione dell’orario di lavoro.

Tuttavia a partire dagli anni Sessanta l’allentarsi della crescita, e dei conseguenti margini di profitto delle imprese, accompagnata dal sempre più capillare intervento dello Stato generò una concorrenza tale da esautorare il welfare aziendale dal tradizionale compito di soddisfazione dei bisogni dei lavoratori. Il welfare state stava lentamente prendendo forma e ridefiniva gli spazi di intervento[54]. Così le amministrazioni comunali guidarono l’innovazione sociale nel campo dei servizi per le famiglie e per l’infanzia, mentre lo Stato centrale completò la costruzione di un sistema pensionistico e sanitario universali. Inoltre, la crescita della fiscalità sottraeva cospicue risorse all’intervento delle imprese. Nel nuovo contesto sovente la contrattazione sindacale preferì monetizzare il welfare aziendale[55], proprio per evitare sovrapposizioni con i servizi organizzati sul territorio dall’amministrazione pubblica, locale o centrale[56]. Da aggiungere anche la crisi organizzativa delle grandi imprese, a cominciare dal fordismo rivelatosi troppo costoso e obsoleto in termini di prodotti e di competenze. Tradotto significò la necessità di ristrutturare e modernizzare le grandi concentrazioni operaie in una prospettiva dai tratti “giapponesi”[57].

Questo sul fronte della concorrenza istituzionale e delle mutazioni economico produttive. Sono inoltre da considerarsi anche gli aspetti più strettamente culturali. L’esacerbarsi del conflitto, alimentato dalla contrapposizione ideologica, contribuì a rendere sempre più difficile il dialogo e la partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’impresa[58]. Conflitto alimentato anche dal declino di quelle organizzazioni del lavoro che furono ampiamente dibattute nelle riflessioni sul post-fordismo, nella ricerca di forme differenti dalla catena di montaggio e della esasperante, alienante, divisione del lavoro.

Iniziò così la fase che potremmo chiamare carsica[59] del welfare aziendale, in cui le vecchie pratiche vennero abbandonate mentre le nuove (vedi le mense aziendali o i buoni pasto) furono sempre più incluse nella negoziazione sindacale tanto da assumere l’identità di un diritto, più che di un beneficio[60]. Tuttavia a fronte dell’indubbio ridimensionamento quantitativo, determinato dal comprensibile aumento della contribuzione sociale e in genere fiscale, si possono rintracciare forme di persistenza, non competitive ma complementari alle offerte degli altri erogatori di servizi. Così, ad esempio, non vennero mai meno i servizi sanitari, ora non più in competizione con il pubblico, bensì a completamento, come ad esempio i servizi alla persona, dalla fisioterapia alle cure odontoiatriche, fino ad una assistenza sociale estesa oltre i confini del luogo produttivo per abbracciare le complesse relazioni sociali del lavoratore[61].

Trascorso il periodo di maggiore conflittualità ideologica nei decenni Settanta e inizio anni Ottanta, si assistette pure a una profonda ristrutturazione dell’economia e delle sue unità produttive: le imprese.

Il loro forte ridimensionamento, giunto fino all’esaurimento di alcuni dei protagonisti dell’industrializzazione, quali l’impresa pubblica almeno nella sua più estesa ramificazione, vedasi lo smantellamento dell’Iri, incise profondamene sulla visibilità delle pratiche sociali, fino a rendere impercettibile, almeno a occhi poco attenti, la continuità del welfare aziendale.

Eppure, la contemporanea crisi finanziaria delle istituzioni pubbliche, dagli enti locali allo Sato, compresi gli enti previdenziali, spinse in senso opposto, ovvero a ricorrere in misura sempre più ampia alla valorizzazione delle pratiche di “antico regime” del welfare aziendale.

Negli ultimi venti anni, il welfare aziendale ha riconquistato un ruolo importante nella mappa dei servizi alle famiglie, sia grazie ad una fiscalità che lo incentiva, sia per il ridursi della generosità dello Stato e degli enti locali nella fornitura dei servizi di welfare[62].

Il sempre più ampio spettro degli obblighi delle imprese verso gli stakeholder, ossia i portatori di interessi, ha portato a dilatarsi la responsabilità sociale delle imprese. La RSI, o CRS in inglese, tende a celare la gerarchica importanza della responsabilità verso coloro che compongono la stessa impresa, che la determinano essendo i detentori del sapere distintivo e qualificante del proprio agire[63].

 

Osservazioni conclusive

La lunga permanenza delle opere sociali delle imprese nelle trasformazioni dettate dal tempo conferma come la relazione tra welfare ed esigenze produttive sia una componente corposa e duratura, pur nel mutare delle forme di erogazione e di fruizione dei servizi, e include tutte le forme di impresa. La scansione delle differenti periodizzazioni, dall’Italia liberale a quelle repubblicana, incide sulle forme ma non esaurisce la sostanza del legame economico, funzionale, tra operatività dell’istituzione e coinvolgimento delle maestranze, tanto da rendere alquanto flebili le differenze, sul lato delle strutture e sul tipo di interventi attuati da stili assai differenti, se non opposti, di gestione, quali quelli a lungo simbolizzati nel dibattito pubblico da Fiat e Olivetti.

Il confronto fra le diverse forme di impresa proposto fa emergere un quadro complessivamente molto più ampio rispetto a quello solitamente descritto dalla storiografia. Inoltre, l’inclusione di imprese pubbliche e cooperative, tradizionalmente trascurate, rende naturale il superamento della consueta contrapposizione, dai prevalenti toni ideologici, tra capitale e lavoro, rendendo obsoleto l’uso del termine paternalismo per etichettare le pratiche sociali, previdenziali, culturali attuate nel tempo dalle imprese.

In conclusione, si è inteso offrire una base narrativa in merito al profondo e indissolubile legame tra impresa e lavoro. Le parole del giovane Giovanbattista Pirelli sono illuminanti e aiutano a comprendere appieno quanto l’impresa necessiti “che l’operaio vi si attacchi con qualche eccitamento”[64], attaccamento al quale corrisponde un suo riconoscimento come persona e la soddisfazione dei bisogni nella interezza delle sue relazioni umane. La domanda iniziale sulla natura dell’impresa, fondata sulla creazione di duraturi legami, trova risposta, in tutta la sua evidenza, nel legame costitutivo dell’impresa, ossia nella sapienza del produttore il cui riconoscimento diviene fattore di successo della comunità operante.

Il welfare aziendale nel suo perdurare ne svela proprio l’essenza ultima, l’essere la sapienza scaturita dal lavoro il fondamento dell’impresa, la quale va riconosciuta nel provvedere a soddisfare i plurimi bisogni del lavoratore.

 

DOI: 10.7425/IS.2023.02.03

 

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[1][1] Con welfare aziendale si intende l’intero universo delle prestazioni offerte dall’impresa ai lavoratori, sia nelle sue più eclatanti e complete espressioni, sia nelle più minute esperienze consumatasi nella moltitudine delle imprese che compongono l’intero sistema economico.

[2] Nel presente contributo i termini verranno utilizzati nella loro declinazione storica, pur nella consapevolezza che il paternalismo ha assunto talvolta un significato di subalternità tra il lavoratore, destinatario delle prestazioni, l’impresa erogatrice, sovente nelle vesti del padrone proprietario. Per una più approfondita trattazione terminologica, nonché sul suo utilizzo nel tempo, vedasi Patrizia Battilani, Il welfare aziendale fra economia, politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra, in Augusto Ciuffetti, Fabrizio Trisoglio, Valerio Varini (a cura di), Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze, Milano, Egea, 2017, pp. 9-12. Il termine welfare declinato in varie terminologie (company, capitalism, company town, company union, industrial village) era ampiamente utilizzato nel dibattito novecentesco statunitense, oltre ad essere conosciuto e dibattuto anche in Italia. Per l’influenza degli Stati Uniti sull’Italia: Victoria De Grazia, L'impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino, Einaudi, 2006.

[3] Il tema del welfare aziendale è ampiamente trattato dalla storiografia internazionale. In prima battuta  e per sintesi ci limitiamo a citare:  Hubert Bonin, Paul Thomes, (a cura di), Old Paternalism New Paternalism Post Paternalism (19th-21th Centuries), P.I.E. Peter Lang Brussels 2013; D. Brandes, American Welfare Capitalism 1880 – 1940, University of Chicago, Chicago 1976; Jacoby M. Sanford, Modern Manners: Welfare Capitalism since the New Deal, Princeton, Princeton University Press, 1997; Andrea Tone, The Business of Benevolence: Industrial Paternalism in Progressive America, Ithaca NY , Cornell University Press, 1997; Philip Scranton, Varieties of Paternalism: Industrial Structures and the Social Relations of production in American Textiles in American Quarterly, 36 (1984); H.M. Gitemlan, Welfare Capitalism reconsidered, in Labour History, Winter 1992; Gerald Zahavi, Workers, Managers and Welfare Capitalism: The Shoeworkers ant Tanners of Endicott Johnson, 1890-1950, Urbana, University of North Carolina Press, 1985; Robert Fitgerald, British labour management & industrial welfare, Londra, Croom Helm, 1988.

[4] A solo titolo d’esempio per la diffusione del welfare aziendale e della sua ampia adattabilità alle più eterogenee condizioni socioeconomiche, si veda: Zeynep Aycan, Birgit Schyns, Jian-Min Sun, Jorg Felfe, Norees Saher, Convergence and divergence of paternalistic leadership: A cross- cultural investigation of prototypes, in Journal of International Business Studies, 44:9, Dicembre 2013.

[5] Per la periodizzazione si rimanda a Duccio Bigazzi, Le permanenze del paternalismo. Le politiche sociali degli imprenditori in Italia tra Ottocento e Novecento, in Maria Luisa Betri e Duccio Bigazzi (a cura di), Ricerche di storia in onore di Franco Della Peruta, Milano, Franco Angeli, 1994, Elisabetta Benenati, Cento anni di paternalismo aziendale, in S. Musso (a cura di), Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, Milano, Annali Feltrinelli, 1999.

[6] Sulle forme di impresa vedasi V. Zamagni, Forme d’impresa. Una prospettiva storico-economica, Bologna, Il Mulino, 2020; Andrea Colli, Michelangelo Vasta (a cura di), Forms of Enterprises in 20th Century Italy. Boundaries, Structures and Strategies, Chelteman and Northampton, Elgar 2020.

[7] Per carsico si intende indicare non solo il suo apparente declino ma, soprattutto, quanto la ricerca storiografica debba ancora studiare le opere sociali delle imprese negli ultimi decenni del XX secolo per colmare ampie lacune e consentire una più fondata comprensione degli sviluppi più recenti.

[8] “Un primo asilo infantile (1864), la Casa Fitti (1864), il Teatro Jacquard (1869), la mansa (1871)”, e nel tempo la scuola industriale di Vicenza (1878), culminate nel Quartiere Nuovi di Schio che conteneva tutte le istanze paternalistiche dell’impresa, (David Celetti, Le opere sociali nel Veneto tra Otto e Novecento. Considerazioni storiografiche, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012, pp. 26-27).

[9] Ibid., p. 6; Sull’intera esperienza ‘sociale’ della Marzotto, e in specie sull’opera di Gaetano, vedasi Giorgio Roverato, Una casa industriale. I Marzotto, Milano, Franco Angeli, 1986.

[10] Celetti, Le opere sociali cit., p. 3; più in generale vedasi Carlo Fumiam, La città del lavoro. Un’utopia agroindustriale nel Veneto contemporaneo, Venezia, Marsilio, 2010.

[11] Oltre a fornire l’abitazione, con terreno coltivabile, “furono eretti bagni pubblici, un albergo, palestre, sale di riunione, il municipio, un dormitorio, scuole un asilo infantile, per una popolazione che salì dai 1.900 abitanti del 1890 ai 4.000 del 1914”, (Celetti, Le opere sociali cit., p. 33).

[12] Per il rilievo svolto da queste istituzioni vedasi Patrizia Battilani, I protagonisti dello Stato sociale italiano prima e dopo la legge Crispi, in Vera Zamagni (a cura di), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal medioevo ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2000.

[13] La storiografia sulle “esperienze minori” è assai ampia, si rimanda ai numerosi studi di Giovanni Luigi Fontana e Giorgio Roverato sull’industrializzazione veneta.

[14] Per una panoramica complessiva delle scuole operaie vedasi Gianpiero Fumi, Formare le maestranze in azienda. Le scuole di fabbrica nella prima metà dell’Ottocento, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012.

[15] Valerio Varini, Capitale umano e sviluppo economico a Brescia. Il sistema formativo dall’Unità al primo dopoguerra, in «Società e Storia», n. 93, 2001.

[16] G. F. Gütermann, Leumann. Storia di un imprenditore e del suo villaggio modello, Torino, Daniela Piazza Editore, 2006

[17] Paolo Raspadori, Le opere sociali della Terni: la parabola di una fabbrica totale (1884-1968), in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012

[18] Michele Lungonelli, La Magona d’Italia. Impresa, lavoro e tecnologie in un secolo di siderurgia toscana (1865-1975), Bologna, Il Mulino, 1991.

[19] Per una panoramica sull’Italia centrale si rimanda a Augusto Ciuffetti, Opere sociali e imprese nell’Italia centrale tea Otto e Novecento, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012.

[20] Ibid., p. 46.

[21] Ezio Ritrovato, L’impegno sociale degli imprenditori tessili pugliesi fra Otto e Novecento, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012.  

[22] Carlo Simoni, Oltre la strada. Compione sul Garda: vita quotidiana e conflitto sociale in un villaggio periferico, Brescia, Grafo, 1988.  

[23] Augusto Ciuffetti, Roberto Parisi (a cura di), L’archeologia industriale in Italia. Storia e storiografia (1978 – 2008), Milano, Franco Angeli, 2012;

[24] Roberto Gabetti (a cura di), Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda, Torino, Einaudi, 1981.

[25] Valerio Varini, Welfare at the Pirelli. From Its Origin to the Post-WWII, in H. Bonin, Puol Thome (eds), Old Paternalism New Paternalism Post-Paternalism (19th-21st Centuries), Brussels, P.I.E. Peter Lang, 2013.

[26] Per una equilibrata lettura del paternalismo in favore di una più solita comprensione storica si rimanda a Aldo Carera, Introduzione. Azioni produttive e responsabilità sociali, in Aldo Carera, (cura di), Opere sociali e responsabilità d’impresa. Casi e remi nel Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2009.

[27] Stefano Musso (a cura di), Il Novecento. 1896-1945. Il lavoro nell’Italia industriale, Roma, Castelvecchi, 2015.

[28] Nella vasta storiografia Fiat si rimanda per profondità d’analisi, a Duccio Bigazzi, La grande fabbrica. Organizzazione industriale e modello americano alla Fiat dal Lingotto a Mirafiori, Milano, Feltrinelli, 2000;

[29] Ampio e dai tratti originali fu la riflessione sull’organizzazione del lavoro in Italia, con ampi e puntuali riferimenti alle esperienze internazionali ampiamente conosciute specie quelle di matrice anglosassone. Per un sintetico riferimento si rimanda a Antonio Martelli, Teorie e ideologie del management. Profilo storico delle dottrine manageriali (1770-1970), Milano, Etas libri, 1979, pp. 416-428; mentre per una complessiva ricostruzione storica Giulio Sapelli, Economia, tecnologia e direzione d’impresa in Italia, Torino, Einaudi, 1994.

[30] Per uno sguardo complessivo sulle abitazioni operaie vedasi Augusto Ciuffetti, Casa e lavoro. Dal paternalismo aziendale alle “comunità globali”: villaggi e quartieri operai in Italia tra Otto e Novecento, Perugia, Crace, 2004.

[31] Laura Francesca Sudati, Tutti i dialetti in un cortile. Immigrazione a Sesto S. Giovanni nella prima metà del ‘900, Milano, Guerini e Associati, 2008.

[32] Per una analitica disanima delle opere sociali gestite dalle imprese sestesi nel periodo considerato si rimanda a Valerio Varini, Building an industrial society: welfare capitalism in the “city of factories”. Sesto San Giovanni, Italy, in «European Review of History», Vol. 23, n. 4, 2016

[33] “speciali e provvide istituzioni sono state iniziate dalle più importanti aziende industriali … (welfare work). Queste istituzioni … su prepara[no] a riconoscere finalmente il reciproco, identico interesse tra capitale e lavoro”, (M.G. [Mario Giani], Ai lettori, Il dopo-lavoro, a.1, n.1, 15 febbraio 1923, p. 1). Va sottolineato come nella citazione compaiono due termini assai rilevanti per la nostra riflessione: il riferimento al welfare, come contenitore delle opere sociali e assistenziali delle imprese, e la reciprocità per le relazioni tra il lavoro e suo riconoscimento nell’impresa.

[34] Citando il caso esemplare della Pirelli la gestione del dopolavoro, responsabile della gestione dei servizi sociali, assistenziali e ricreativi, era demandata ad un Consiglio direttivo presieduto dai fratelli Piero e Alberto Pirelli, da sei consiglieri scelti tra i direttori centrali, da altri dieci consiglieri selezionati tra il personale, da due sindaci e due ispettori, (Valerio Varini, Costruire un’impresa: il welfare alla Pirelli tra Otto e Novecento, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012, p. 126).

[35] In riferimento all’operato del dopolavoro alla Pirelli si rimanda a Valerio Varini, Welfare at the Pirelli. From Its Origin to the Post-WWII, in H. Bonin, Puol Thomes (eds), Old Paternalism New Paternalism Post-Paternalism (19th-21st Centuries), Brussels, P.I.E. Peter Lang, 2013; mentre per i dopolavori in Italia Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista: L’organizzazione del lavoro, Roma-Bari, Laterza, 1981.

[36] Sulle fondazioni d’impresa, origini e ruolo svolto nel periodo, si rimanda a Valerio Varini Welfare aziendale e Fondazioni: la filantropia al servizio dell’impresa nell’Italia del XX secolo, in Patrizia Battilani, Silvia Conca, Valerio Varini (a cura di), Il welfare aziendale in prospettiva storica fra identità e immagine pubblica dell’impresa, Bologna, Il Mulino, 2017.

[37] Per un caso significativo dell’operato delle fondazioni d’impresa, fin dall’immediato periodo post bellico vedasi Nicola Martinelli, Dipendenti, direzione aziendale e opere sociali all’Alfa Romeo: la Fondazione XXV aprile (1946-1991), in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012.

[38] Nel periodo 1900 – 1972 si contano 994 fondazioni riconducibili alle imprese, su un totale di 21.557 enti censiti.  Il perdo di più intensa costituzione è compreso tra il 1919 e il 1943, mentre l’attività maggiormente praticata attiene all’educazione, seguita dall’assistenza, (A. Mortara (a cura di), Le Fondazioni italiane, Milano, Ciriec-Franco Angeli, 1973, pp. 473-475).

[39] Sulla centralità sociale delle imprese negli anni Quaranta vedasi Duccio Bigazzi, La fabbrica nella crisi del regime fascista, in A. Ventura (a cura di), Sulla crisi del regime fascista 1938-1943, Venezia, Marsilio, 1996

[40] Si rimanda per una analitica descrizione delle opere sociali delle imprese sestesi Luigi Trezzi, Lo sviluppo della società, in Luigi Trezzi, (a cura di), Sesto San Giovanni. 1923-1952. Economia e società: la crescita, Milano, Skira, 2002.

[41] Patrizia Battilani, Il welfare cooperativo: dalle reti della solidarietà alla centralità dell’impresa, in Patrizia Battilani, Silvia Conca, Valerio Varini (a cura di), Il welfare aziendale in prospettiva storica fra identità e immagine pubblica dell’impresa, Bologna, Il Mulino, 2017.

[42] Luigi Trezzi, Operai, commissioni interne e opere sociali integrative degli imprenditori e delle imprese in Lombardia tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012.

[43] Angelo Costa, Presentazione, in Iniziative sociali dell’industria italiana, Roma, Confederazione generale dell’industria italiana, 1970.

[44] Si citano alcune indagini tra le più significative: L’industria italiana per i suoi dipendenti, Confederazione Generale Industria Italiana -CGII, Roma, 1953; F. Sainato, (a cura di), Le mense aziendali in Italia, CGII, Roma, 1968; Iniziative sociali dell’industria italiana, Roma, Confederazione generale dell’industria italiana, 1970; L’industria milanese per i suoi lavoratori, Milano, Associazione industriale lombarda, Milano, 1956

[45] La commissione parlamentare incaricata dell’indagine distinse ben 21 tipologie di opere ordinabili in assistenziali, ricreative, finanziarie e previdenziali sottoponendo a rigorose analisi 195 imprese, distinte per settore produttivo e dimensione. Sull’indagine parlamentare si rimanda a Valerio Varini, Le imprese italiane per i propri lavoratori. Le opere sociali e assistenziali nel secondo dopoguerra, in Silvia A. Conca Messina, Valerio Varini (a cura di), il Welfare in Italia tra pubblico e privato. Un percorso di lungo periodo, Milano, Franco Angeli, 2020, pp. 134-141.

[46] A solo titolo d’esempio, in un’azienda metalmeccanica, facilmente individuabile, nella sola sede centrale operavano 59.271 lavoratori con un ambulatorio centrale per le prestazioni specialistiche e una rete assistenziale domiciliare servita da “670 sanitari”, (Varini, Le imprese italiane … cit., p. 138).

[47] Vedasi i casi dell’Asm di Brescia e dell’Aem di Milano in Augusto Ciuffetti, Fabrizio Trisoglio, Valerio Varini (a cura di), Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze, Milano, Egea, 2017.

[48]  Giorgio Bigatti, Carlo Vinci (a cura di), Comunicare l’impresa. Cultura e strategie dell’immagine nell’industria italiana (1945-1970), Milano, Guerini e Associati, 2010.

[49] Sulla Olivetti, nello specifico del welfare aziendale e della sua gestione, si veda Stefano Musso, La partecipazione nell’impresa responsabile. Storia del Consiglio di gestione Olivetti, Bologna, Il Mulino, 2009.

[50] Nicola Martinelli, Il welfare aziendale nel secondo dopoguerra. La Dalmine spa (1945-1970), Milano, Vita e Pensiero, 2020.

[51] Sulle dissonanti appartenenze alla classe operaia o alla comunità d’impresa vedasi a toccante testimonianza di Giuseppe Granelli, in Giorgio Manzini, Una vita operaia, Torino, Einaudi, 1976; mentre sulla “nazione” operaia, Lorenzo Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia. 1945-1963, Roma, Ediesse, 1997.

[52] Rifacendosi ad una delle esperienze più “totali”: le acciaierie Terni, “nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, di fronte all’avanzare del welfare state nazionale e del riorganizzato movimento operaio, la fabbrica totale formatasi nel periodo delle due guerre andò gradualmente svanendo”, (Paolo Raspadori, Le opere sociali della Terni: la parabola di una fabbrica totale, in Luigi Trezzi, Valerio Varini (a cura di), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2012, p. 203). Sulla interpretazione totalizzante del welfare aziendale nel suo legame tra fabbrica e lavoratore si rimanda a L. Guiotto La fabbrica totale: paternalismo industriale e città sociali in Italia, Milano, Feltrinelli, 1979.

[53] Per una valutazione della spesa sanitaria e previdenziale nel secondo dopoguerra in Italia vedasi Patrizia Battilani, Corrado Benasi, Introduzione, in Patrizia Battilani, Corrado Benassi, (a cura di), Consumare il welfare. L’esperienza italiana del secondo Novecento, Bologna, Il Mulino, 2013.

[54] Sulla formazione e sviluppo del welfare state in Italia, si rimanda, per sintesi, a M. Ferrera, V. Fargio, M. Jessoula, Alle radici del welfare all’italiana: origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Venezia, Marsilio, 2012.

[55] Nella sua sintesi appare assai esemplificativa l’affermazione di un lavoratore sindacalizzato: “Più paga e … ‘meno carezze’, citazione in Luigi Trezzi, La Confindustria e le opere sociale delle imprese, in Alberto Cova, Michela Minesso, (a cura di), Welfare in Italia nel secondo dopoguerra. L’assistenza (1945 – 1958), in Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia. XLVIII, 1-2 gennaio -agosto 2013, p. 92

[56] Significativo il caso della Dalmine che già dagli anni Cinquanta procede a cedere parte del proprio patrimonio sociale e assistenziale nonché la mutua aziendale: Nicola, Martinelli, Il welfare aziendale nel dopoguerra. La Dalmine spa (1945-1970), Milano, Vita e Pensiero, 2020

[57] Sui modelli organizzativi dell’impresa italiana nel corso del XX secolo: Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2001; mentre per una puntuale riflessione sulle mutazioni organizzative in Italia Giuseppe Bonazzi, Il tubo di cristallo. Modello giapponese e Fabbrica integrata alla Fiat Auto, Bologna, Il Mulino, 1993.

[58] Noto anche per il suo eco simbolico fu il conflitto consumatosi alla Marzotto: Giorgio Roverato, Il 1968 a Valdagno.  La genesi di un conflitto aziendale, in Csel, Annale 2, 1988.;

[59] Significativa appare, anche nella sua specificità, l’affermazione di una dipendente Falck nei primi anni Novanta in occasione della cessazione del rapporto di lavoro seguito allo smantellamento delle fabbriche sestesi: “la nostra vita era Falck …. tutta la mia vita l’ho passata lì”, tante altre affermazioni del medesimo tenore, (Il polline e la ruggine. Memoria, lavoro, deindustrializzazione a Sesto San Giovanni (1985-2015), documentario realizzato da Roberta Garruccio, Sara Roncaglia, Sara Zanizi in collaborazione con la Fondazione ISEC e il Dipartimento di scienze della mediazione linguistica e di studi interculturali dell’Università degli studi di Milano, 2015.

[60] Il pericolo di mutare le opere sociali in diritti con i corrispettivi oneri a carico delle imprese erano ben chiari ai vertici del padronato industriale fin dagli anni dell’immediato dopoguerra: “Nulla sarebbe … tanto pericoloso quanto il confondere l’impresa economica, che economicamente deve agire, con iniziative di carattere sociale ed assistenziale”, (Confederazione generale dell’industria italiana, L’industria italiana e i suoi operai, Roma, Confindustria, 1953, p. 7).

[61] Sulle riflessioni avviate dalle discussioni sulle Human relations e al loro influenzare esperienza dai tratti inediti come la formazione di assistenti sociali di fabbrica si rimanda a Valerio Varini, Governing the Enterprise: The Transition from Welfare Capitalism to Human Relations in Post-World War Two Italian Business, in Essay in Economic and Business History, 2021, 39(1).

[62] Per una riflessione recente sul welfare aziendale: Emmanuele Pavolini, Ugo Ascoli, Maria Luisa Mirabile, Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia, Bologna, Il Mulino, 2013.

[63] Archie B. Carroll, A History of corporate social responsability. Concepts and practices, in Andrew Crane et al., The Oxford Handbook of Corporate Social Responsability, Oxford , Oxford University Press, 2008.

[64] Memoria di concorso al premio di fondazione Brambilla proposto al R. Istituto lombardo di scienze e lettere per l’anno 1867, Archivio storico Pirelli, pr. 51.

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