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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2023

Saggi

Ascesa, declino e ritorno. Alle radici del Terzo settore in Italia

Alberto Ianes


1. Introduzione

Solo di recente il legislatore italiano ha stabilito in modo organico e per legge i confini, il perimetro, i contorni di ciò che oggi è Terzo settore. Si scopre allora che esso è formato da un insieme di enti privati, senza scopo di lucro, che perseguono il bene comune, attraverso il volontariato, la mutualità e l'impresa sociale. Non solo: la riforma ha anche definito “chi fa che cosa”. Ha stabilito cioè le attività di interesse generale, le più diverse (in tutto 26), che possono essere svolte da differenti tipologie organizzative. Rientrano, tra le altre, le attività per la tutela dei diritti umani, civili, sociali; per l'assistenza ai consumatori. Vi sono le iniziative che promuovono la cultura della legalità, la pace tra i popoli, la nonviolenza, ma anche le esperienze di beneficenza, le adozioni a distanza, le azioni di carità con la cessione gratuita di cibo, prodotti o denaro. Nel terzo settore sono comprese le forme di protezione civile e logicamente i servizi sociali, le prestazioni sanitarie, l'istruzione e la formazione professionale, le azioni di contrasto dei fenomeni di povertà educativa. Sono contemplati pure i servizi finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro, quelli volti alla salvaguardia dell'ambiente, le iniziative culturali, artistiche e ricreative, quelle in grado di valorizzare il patrimonio culturale. Non sono da meno le esperienze di cooperazione allo sviluppo, di accoglienza umanitaria e di microcredito.

Tutte queste sono pratiche di azione civica che rappresentano, insieme, l'Italia della coesione sociale. Tuttavia, non si ha memoria del tragitto storico compiuto da chi ha anticipato queste iniziative; si ha scarsa conoscenza delle radici culturali di ciò che oggi è Terzo settore. Presi dal quotidiano, i volontari, gli attivisti, gli operatori e i manager del Terzo settore privilegiano – come in parte è giusto che sia – il pragmatismo delle risposte. Si concentrano su tecniche gestionali, strategie di marketing, strumenti di fundraising e business plan. E non si prendono il tempo per fare esercizio di memoria o per approfondire la storia.

Eppure, la storia e la memoria sembrano utili, almeno per due ragioni. In primo luogo, per avere consapevolezza del proprio percorso, cura della propria identità, che è bussola fondamentale per non smarrire quel patrimonio di valori che sono l'antidoto all'inaridimento del terzo settore, all'appiattimento sui desiderata del pubblico. In secondo luogo, il recupero delle proprie radici è importante perché, per parafrasare Cicerone, Historia magistra vitae. E dunque la conoscenza della storia, della propria storia, serve anche per far sì che gli errori commessi nel passato non si ripetano nel futuro. In più alcuni nodi critici, i temi e i problemi che hanno caratterizzato l'azione civica in epoche storiche diverse, tendono a riproporsi nel tempo. Per questa ragione può tornare utile un vissuto, un bagaglio di buone pratiche da cui poter utilmente prendere spunto.

Recuperare le proprie radici significa allora – e prima di tutto – guardare alle manifestazioni storicamente realizzate di quei movimenti, di quelle organizzazioni, quelle iniziative dell'azione collettiva. Ma fare memoria vuol dire anche riscoprire Figure, Testimoni, Maestri dell'agire di comunità. Coloro i quali hanno fatto proprie finalità civiche e sociali, di promozione dei diritti, di tutela dei più deboli. Che hanno promosso modelli di sviluppo basati su un'altra economia e sulla solidarietà. Che hanno reso possibile un’occupazione dignitosa a persone altrimenti escluse dal mercato del lavoro o sottoposte a condizioni lavorative avvilenti.

Si tratta di protagonisti e di realtà che, per altro, vanno tenuti ben distinti da altri soggetti e da altre esperienze: i politici e i sindacalisti, i partiti e i sindacati. Anche questi hanno perseguito obiettivi simili, ma attraverso la discesa nell’agone politico o mediante la rivendicazione collettiva, due ambiti dell’agire sociale che, allora come oggi, sono esclusi dal perimetro del Terzo settore.

Il percorso di ricognizione storica parte dalla seconda metà dell'Ottocento. In quel tempo, l'azione collettiva, specie in campo socioassistenziale, era in mano alle iniziative della solidarietà e della Chiesa: vi erano le Opere pie, le Società San Vincendo de Paoli, le casse rurali e le banche popolari. Ma l'agire sociale assumeva pure il volto delle Società di mutuo soccorso e delle cooperative tra braccianti.

Vi fu poi la fase del fascismo che coincise – semplificando un po' – con il momento dell'annichilimento, dell'irreggimentazione e della repressione delle organizzazioni sociali, culturali, sportive.

Dopo la Seconda guerra mondiale, con l'Italia liberata dal fascismo e dalla guerra civile, sorsero nuovi protagonismi, esperienze nate dal basso, ancora minoritarie, ma già in grado di ridisegnare la complessità sociale, di dare significato nuovo all'idea di cittadinanza e di senso civico. Erano iniziative fuori dal coro che non rientravano nei circuiti classici dell'aggregazione di partito. Rappresentavano, anzi, lo spaccato di una generazione animata da forti pulsioni ideali, popolata da figure di irregolari che delineavano il fronte autonomo dell'impegno civile. È il terreno su cui più avanti si innestò un'altra storia d'impegno, che assunse poi il volto del volontariato, dell'associazionismo organizzato, della cooperazione sociale e dell'impresa sociale: in altri termini del Terzo settore.

Esaminiamo ora in modo più approfondito questa sommaria ricostruzione storica.

2. Le forme della carità e del mutualismo

In continuità con una tradizione secolare, anche dopo l’unificazione politica dell’Italia del 1861, e fino alla fine dell’800, gli interventi che potremmo definire “di Terzo settore” riguardarono soprattutto il campo assistenziale, affidato quasi per intero all’iniziativa privata; alla famiglia, innanzi tutto, ma anche alle organizzazioni caritative a sfondo religioso come confraternite, società di San Vincenzo de Paoli e soprattutto Opere pie, senza dimenticare le Società di mutuo soccorso, regolate dalla solidarietà tra membri e dal meccanismo del self-help.

Un ruolo del tutto marginale, in questo contesto, fu invece ricoperto dallo Stato e più in generale dall’autorità pubblica. D’altro canto, in un clima di spiccato liberalismo e di disapprovazione nei confronti dell’intervento pubblico in economia, in linea con i principi della scuola economica prevalente, sarebbe stato difficile attribuire un ruolo preminente all’ente statale, sia nelle attività di protezione sociale che in quelle più espressamente orientate alla redistribuzione del reddito.

Al di là dell’impegno della famiglia che operava sulla base di spontanei vincoli parentali, per far fronte a temporanee crisi di liquidità operavano sin dal Quattrocento i Monti di Pietà che concedevano piccole somme di denaro in prestito su pegno a una clientela non proprio bisognosa, ma che necessitava di denaro, o ai ceti meno abbienti per l’acquisto di beni di prima necessità (Pastore 2000; Prodi 1982; Muzzarelli 1979). Le Casse di risparmio, invece, si diffusero nella seconda metà del Settecento per istituire forme di accumulazione del risparmio per la classe media, da utilizzare in caso di bisogno, senza dover ripiegare sulla carità.

Nel corso dell’Ottocento una posizione di rilievo nelle politiche sociali venne assunta da alcune organizzazioni che si connotavano come fondazioni: fin dal medioevo con un'accelerazione nell'età moderna esse avevano conosciuto uno sviluppo importante sotto il nome di Opere pie[1]. Costituite grazie a lasciti e donazioni, finanziate da filantropi[2] e controllate principalmente dalla Chiesa, le Opere pie si qualificavano come istituti capaci di amministrare patrimoni ingenti, grazie ai quali calibrare sia gli interventi elemosinieri che l’erogazione di servizi sociali e sanitari, quali la gestione di ospedali, ospizi, istituti per ciechi e sordomuti, orfanotrofi ma anche opere per l’istruzione e l’educazione. Nel 1861 sul territorio nazionale operavano poco meno di diciottomila Opere pie, ma già nel 1880 un’apposita indagine ne censiva quasi ventiduemila, presenti in trentatré ambiti diversi e in grado di sviluppare una rendita lorda di circa 81 milioni di lire (Cova, 1997). Tutte queste realtà scontavano il grosso limite di essere disomogenee, di non poter garantire prestazioni uniformi sull’intero territorio nazionale, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo: l’indagine del 1880, per esempio, evidenziò come il patrimonio complessivo delle Opere pie dislocate nella sola Lombardia uguagliasse quello a disposizione di tutte le realtà presenti nel Sud Italia, che tra l’altro risultavano più costose e meno efficienti (Battilani, 2000). Nell’ottica di uniformare la loro conduzione, il Parlamento italiano approvò la legge n. 753 del 3 agosto 1862, un primo intervento di riordino e di riorganizzazione delle Opere pie in Italia (Vinay, 2000). Si trattava di una misura favorevole alla loro autonomia amministrativa. Allo stesso tempo, però, essa cercava d’introdurre delle modalità di coordinamento tra le diverse Opere pie, attraverso l’istituzione delle Congregazioni di carità, enti a dimensione comunale con finalità di raccordo[3] (Bressan 2000; Vinay, 2000 e Doria e Rotondi, 2003). L’attività delle Opere pie, inoltre, era subordinata al controllo del Ministero dell’interno, specie per quanto riguarda i bilanci e le carte di amministrazione, ma in forma più diluita di quanto previsto dalla legge Rattazzi, applicata in Piemonte e poi anche in Lombardia nel periodo preunitario (Vinay, 2000). L’approccio era perciò rispettoso dell’autonomia e della libertà di ciascun ente, tutelato ancora di più di quanto si era saputo fare nel periodo preunitario. Si confermava, pur tuttavia, uno spettro multiforme di situazioni: istituti gestiti secondo modalità corrette, e altri, al contrario, caratterizzati da forme anomale di conduzione, frutto di corruzione e malaffare[4]. Per questo l’ipotesi che fosse necessaria una revisione della riforma del 1862 iniziò a circolare con insistenza, anche per mettere mano a una giungla composita e poco decifrabile, per semplificare il quadro e le forme dell’assistenza.

A fronte di un’esperienza che, pur passibile di revisione, si presentava sufficientemente robusta, ve n’era un’altra destinata a scemare gradualmente fino a scomparire. Si trattava delle corporazioni di origine medioevale, associazioni di mestiere funzionali a un contesto preindustriale, ma non più idonee a metà Ottocento a servire una società in trasformazione, di tipo capitalistico e improntata sul sistema di produzione di fabbrica (Zaninelli, 1996; Doria e Rotondi, 2003). Le corporazioni sarebbero state così sostituite da strumenti più adeguati, come le Società di mutuo soccorso (Alber 1986; Allio, 2000; Zaninelli, 1996; Cova 1997). Nate a partire degli anni Quaranta dell’Ottocento sulla scorta di quanto realizzato in Inghilterra già nel Settecento con le Friendly Societies, queste realtà prevedevano forme di previdenza volontaria contro l’assenza forzata dal lavoro da parte degli assicurati a causa di infortunio, malattia, invalidità o disoccupazione, ma intervenendo anche nel caso del loro decesso, per sostenere dal punto di vista finanziario la moglie e i figli orfani (Fabbri 1996; Zamagni, 1997; Ritter, 2003; Doria e Rotondi, 2003). La prima moderna società di mutuo soccorso italiana, svincolata dai lacci e lacciuoli delle corporazioni, venne costituita nel 1848 e aggregava i calzolai della piccola città piemontese di Pinerolo (Allio, 2000). Altre, in seguito, ne sorsero in Liguria: nel 1851 furono fondate le mutue di Oneglia e San Remo; a Voltri – rileva sempre Allio – nacque la “Società di mutuo soccorso Dio e umanità”. In Lombardia ne sorsero a Como, Monza, Salò e Lodi. Il mutualismo mise poi radici anche in Toscana ed Emilia. In Toscana operava la società mutualistica mazziniana “Fratellanza Artigiana”, ma c'era anche la “Società degli Operaj”, e non mancavano le mutue di categoria tra orefici, sarti, ferrai, calzolai, farmacisti. In Emilia e in Romagna le società di mutuo soccorso nacquero un po' ovunque, nei territori di competenza dei ducati di Parma e Piacenza, ma anche nella zona di Modena, Reggio, così come a Bologna. Di lì seguirono altre iniziative lungo tutta la penisola. Dopo l'unità d'Italia, poi, il mutualismo interessò anche il sud del Paese, sebbene con una presenza minore rispetto al centro-nord (Allio, 2000).

In genere, le Società di mutuo soccorso si configuravano come associazioni senza scopo di lucro, basate sull’adesione libera e volontaria dei soci, e gestite in modo democratico, in virtù del fatto che le cariche sociali erano a carattere elettivo. A ispirare questi organismi erano principi come il self-help e il mutuo aiuto, non la carità come nel caso delle Opere pie (Cherubini 1991).

Si collocavano al primo stadio dell'evoluzione del sistema di protezione sociale moderno: contenevano in nuce ciò che, con Bismarck, sarebbe diventata l'assicurazione obbligatoria e con Beveridge il welfare state. Le società di mutuo soccorso assunsero un ruolo via via minore all'inizio del Novecento, quando la previdenza diventò in misura sempre maggiore obbligatoria e la sua gestione affidata all'amministrazione pubblica. Esse presentavano caratteristiche perfettamente allineate a quelle che oggi connotano la definizione di Terzo settore: erano associazioni senza scopo di lucro, private non pubbliche, volontarie e improntate alla mutualità.

In un primo momento si configurarono come Società di categoria, assicuravano cioè i lavoratori che svolgevano una determinata professione, mentre in seguito si costituirono su base territoriale, associando tutti i lavoratori insistenti su una medesima area geografica, a prescindere dall’attività svolta (Allio, 2000). Queste seconde si sarebbero dimostrate più solide, potendo diversificare il rischio, anche perché diversa era la morbilità tra le diverse professioni.

Ogni Società di mutuo soccorso era regolamentata da un proprio statuto. Questo conteneva i diritti e i doveri degli associati, le eventuali sanzioni, ma anche le modalità per assolvere all’obbligo di versamento periodico della quota, nonché le disposizioni per accettare elargizioni da benefattori e filantropi (Fabbri, 1996). Per esempio, l'Operaia di Bologna – in base alle ricerche di Fiorenza Tarozzi (2000, p. 530) – prevedeva che “non [avevano] diritto al soccorso le malattie provenienti dall'abuso del vino, dei liquori e dal malcostume”. Allo stesso modo, la Fratellanza militare di Empoli rifiutava il sussidio agli iscritti “affetti da malattie provenienti dal mal costume, dall'ubriachezza abituale o da altre cause riprovevoli”.

Era poi prevista una distinzione tra soci effettivi (soprattutto operai e artigiani), cioè coloro i quali avrebbero beneficiato dei servizi offerti dalle Società di mutuo soccorso e i soci non effettivi, notabili e appartenenti alla classe borghese che avevano contribuito alla nascita delle Società e le sostenevano economicamente o fornendo prestazioni professionali a titolo gratuito, anche se in forma non completamente disinteressata (Doria e Rotondi, 2003; Fabbri 1996; Allio 2000).

Nel 1873 si contavano in Italia 1.447 Società di mutuo soccorso, che salirono a 2.091 nel 1878 e più che raddoppiarono nel 1885. I soci iscritti nel 1873 ammontavano a 258.125 unità. Ma anche in questo caso – così come per le Opere pie – i patrimoni di molte società erano modesti. Di conseguenza, le mutue erano distribuite in modo diseguale lungo lo stivale, così come disuguale era la loro capacità d’intervento. La maggior parte era concentrata al Nord, in Piemonte e Lombardia, ma anche in Veneto, Toscana ed Emilia: nel 1885 le realtà di questi territori detenevano il 77% del patrimonio di tutte le mutue italiane. Il fenomeno era dunque debole al sud, dove si presentava segmentato e fragile. Lamentava delle inefficienze, ma nel complesso si trattava di una soluzione efficace sia perché garantiva adeguati sussidi monetari, sia perché permetteva l’offerta di servizi sussidiari, in campo abitativo, o sul piano formativo e culturale (Allio, 2000).

Non si può dimenticare, infine, come proprio dalle Società di mutuo soccorso scaturì tutta l’esperienza della cooperazione europea, quindi italiana, in tutte le sue varianti, nell’intento di promuovere il riscatto economico e sociale delle popolazioni più umili.

Il concetto di cooperazione fu usato, forse per la prima volta, da Robert Owen, esponente di quel socialismo utopistico composto anche da altri pensatori, specie francesi, come Charles Fourier (1772-1837), Luis Blanc (1811-1882) e Charles Gide (1847-1932). Nato nel 1771, Owen iniziò la sua opera con un primo esperimento di fabbrica comunitaria a New Lanark, nelle filande inglesi dove andò a vivere nel 1799. Nel 1824 Owen si trasferì negli Stati Uniti, vi rimase per un quinquennio e organizzò una comunità socialista a New Harmony, nell’Indiana. Egli e i suoi seguaci fondarono poi anche altri villaggi comunitari, che però fecero fatica a decollare, soprattutto perché mancava un’adeguata strategia finanziaria (Pollard, 1992). Insomma, erano iniziative molto idealizzate, ma scarsamente imprenditoriali; venivano chiamate cooperative ma non lo erano, perché non erano impresa. Analoga sorte – e per le medesime ragioni – toccò anche agli ateliers sociaux e ateliers nationaux, le prime cooperative di lavoro nate in Francia per iniziativa di Luis Blanc, altro fautore del socialismo utopico. Nate dopo le rivoluzioni del 1848, gli opifici francesi furono quasi subito aboliti, soprattutto per gli elevati costi di gestione che pesavano sulla fiscalità pubblica.

Ciò che non riuscì a Owen e agli ateliers francesi, fu realizzato invece dai Probi pionieri di Rochdale, che nel 1844 avviarono la prima cooperativa “riuscita” al mondo, una bottega di consumo. Non fu la prima a chiamarsi cooperativa (lo abbiamo visto), ma fu la prima ad avere successo. L'intuizione fu di 28 operai, non tutti tessitori come vorrebbe la tradizione, anche se molti lo erano. Operavano nel Lancashire, nel principale distretto cotoniero dell'Inghilterra, nei pressi di Manchester. Misero assieme un capitale di 28 sterline, accumulando pochi pence la settimana, fino ad ottenere l'importo necessario a prendere in affitto, per 10 sterline l'anno, uno stabile periferico, nel quartiere di Toad Lane, vicolo dei rospi. Il magazzino di consumo aprì i battenti a pochi giorni di Natale, il 21 dicembre 1844, e fu registrato il 24 dicembre come società dei probi pionieri di Rochdale. Lo scopo era di facilitare l'accesso ai beni di prima necessità, garantendo buona qualità, il giusto peso, la misura equa, la trasparenza nelle operazioni di acquisto e vendita, gestite con onestà, senza frode e lamentele. Il modello funzionò bene e si diffuse: nel 1851 si contavano 130 magazzini costituiti sull'esempio della cooperativa di Rochdale, 300 nel 1862 e addirittura 1.661 con un milione di soci nel 1877. Nel 1880 la cooperativa di Rochdale contava 10.613 soci, disponeva di un capitale di 292.000 sterline e aveva un fatturato pari a 283.000 sterline. Essa fu tra l'altro la prima a coniare quei principi che ancora oggi informano l'azione delle cooperative di tutto il mondo: la porta aperta, l'adesione libera e volontaria, la gestione democratica. La società riuscì a conciliare la dimensione economica con quella dell'equità, perciò ebbe successo (Holyoake, 1995; Topham e Hough 1949).

Nel campo del credito, infine, operarono altre due tipologie cooperative, entrambe sperimentate in area tedesca. La prima fu avviata da Hermann Schulze Delitzsch, nelle zone urbane di Delitzsch, vicino a Lipsia, nella Sassonia prussiana. Nel 1852 egli avviò le Volsbanken, cioè le Banche popolari. La seconda iniziativa fu promossa da Friedrich Wilhelm Raiffeisen, nelle aree rurali della Renania, tra Colonia e Coblenza. Tra il 1864 e il 1869, per tappe successive, egli costituì a Heddesdorf la Heddesdorfer Darlehnskasse, la prima cassa sociale di credito esplicitamente rivolta alla gente delle campagne (Leonardi, 2002; Klein, 2018).

Guardate nel loro insieme, le cooperative non perseguirono un obiettivo, ma più obiettivi in base a quelli che erano i possibili proprietari, che potevano essere persone alla ricerca di credito, consumatori o lavoratori. Per questo il loro scopo era di finanziare i ceti più deboli, di calmierare i prezzi al dettaglio dei generi alimentari, tanto nelle campagne quanto nelle città. Altro fine, quello di accrescere il potere contrattuale dei contadini, impegnati ad offrire sul mercato i loro prodotti e quello di offrire un lavoro al bracciantato agrario, il più povero e il più colpito dalla grande depressione economica degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento. Prendevano così corpo le casse rurali, le cooperative di consumo, quelle agricole e tra braccianti, per difendere rispettivamente i prenditori di credito in difficoltà rispetto alle banche che glielo negavano, i consumatori alle prese con un mercato della distribuzione di tipo oligopolistico, i contadini che si confrontavano con i grossi speculatori e il bracciantato agrario che nelle cooperative bracciantili trovavano il mezzo per procurarsi un salario.

Anche nel contesto italiano l'impianto cooperativo si ispirò a vari filoni europei. La prima cooperativa nacque nel 1854 nel regno di Sardegna. A Torino una società di mutuo soccorso, l'associazione generale degli operai della città diede vita a una cooperativa di consumo (Doria e Rotondi, 2003). Seguì, di lì a poco, una cooperativa di produzione e lavoro, che nel 1856 riunì i vetrai di Altare, vicino a Savona. Nel 1864 Luigi Luzzati, esponente della destra storica e propugnatore del modello Schulze, diede impulso a Lodi alla prima Banca popolare, cui se ne aggiunsero altre: la Banca popolare di Como, sorta nel 1868 per volere di Francesco Viganò, brianzolo, di idee liberal-mazziniane, docente di materie contabili, che concepiva la cooperazione come mezzo per aspirare alla pace sociale e alla fratellanza universale. Nel 1883 fu la volta della prima cassa rurale a statuto Raiffeisen, costituita a Loreggia, nel padovano, per iniziativa di Leone Wollemborg, possidente terriero, saggista, conferenziere, figlio di commercianti, che avviò l'esperienza radunando 32 soci. Nella sua vita sarebbe entrato in Parlamento, la prima volta nel 1893, poi nominato senatore a vita (Cafaro 2001; 2012; Zangheri, 1987; Marconato, 1984; Ferri, 1978). Lo stesso anno Nullo Baldini, figlio di agricoltori di Ravenna, poi consigliere comunale di quella città e, dal 1919 al 1924, parlamentare del Partito socialista, organizzò un gruppo di braccianti nell'Associazione generale degli operai braccianti di Ravenna, la prima cooperativa tra braccianti, un'esperienza ascrivibile all'inventiva italiana perché praticata per prima proprio in Italia (Ianes, 2013).

Si concluse così un ventennio d'iniziazione che culminò con una presenza cooperativa multiforme e variegata. Le 4.896 cooperative presenti in Italia nel 1885 davano la misura di un movimento in divenire. Col tempo vennero anche a galla le diverse sensibilità di un fenomeno, che non si presentava per nulla monolitico. Emersero così i padri riconosciuti della cooperazione di matrice socialista. Tra i primi si possono ricordare Nullo Baldini, Andrea Costa, Antonio Vergnanini e Camillo Prampolini. Vi erano poi gli esponenti della scuola cattolica. I precursori furono don Luigi Sturzo, don Luigi Cerruti, Ercole Chiri, Ambrogio Portaluppi, Nicolò Rezzara e don Lorenzo Guetti, per il Trentino, che non era ancora italiano ma asburgico (Trezzi, Gallo, 1984; Farina 2022; Ianes, 2013).

3 Il declino della libera iniziativa

Tutti questi organismi – le Opere pie, le Società di mutuo soccorso, ma anche i Monti di pegno e le Casse di risparmio (insomma, il settore non profit) –, rappresentavano il tessuto connettivo principale su cui si reggeva il sistema di protezione sociale italiano durante i primi anni post-unitari. Lo Stato, invece, impegnato su altri fronti – nel tentativo di avvicinare l’economia italiana a quella delle nazioni europee più avanzate, di omogeneizzare i diversi sistemi normativi e organizzativi, di affrontare il problema dei divari regionali –, si limitava a riconoscere, legittimare e a coordinare gli interventi promossi dalla beneficenza e dal mutuo aiuto. Interventi che per altro – come osservato – non erano stati organizzati in modo razionale lungo tutta la penisola, dove anzi si ravvisavano forti disparità di trattamento tra Nord e Sud. Quest’ultimo era meno rappresentato; inoltre qui operava un minor numero di Opere pie e di Società di mutuo soccorso, spesso inefficienti, carenti dal punto di vista gestionale e condotte in modo non sempre trasparente anche dal lato gestionale e contabile.

Fu in questa temperie, in seguito anche al mutamento di clima politico, che si ebbe un cambio di paradigma nella gestione delle politiche sociali in Italia. La manifestazione più visibile di questo cambiamento si ebbe con l’amministrazione Crispi, in primo luogo con la riforma del 22 dicembre 1888, e in modo ancora più significativo con la legge 6.972 del 17 luglio 1890 che andava a riformare le Opere pie. Il primo provvedimento intervenne regolamentando la politica sanitaria, inaugurando una stagione di riforme che avrebbe portato a un maggior protagonismo dello Stato in campo sanitario, previdenziale e sociale e alla costruzione di un vero e proprio sistema pubblico di welfare. Una presenza pubblica ancora superiore si ebbe con la seconda disposizione normativa, la cosiddetta legge Crispi, che trasformava le Opere pie in Istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza. Si trattò di un primo passo che si completò con il fascismo, quando nacquero le Ipab (Woolf, 2000). La legge confermava il compito delle Opere pie nel campo dell’assistenza sanitaria e della beneficenza, ma allo stesso tempo interveniva affinché fossero meglio chiarite le finalità da perseguire, anche per ottimizzare la gestione del patrimonio. L’intervento governativo aumentò così in modo significativo e in più direzioni: i prefetti acquisirono maggiori poteri ispettivi nei confronti delle Opere pie, sui loro uffici, atti e bilanci; si incentivò inoltre una loro razionalizzazione e concentrazione, specie nel caso degli organismi più deboli e più fragili; all’interno di un determinato territorio, poi, le Opere pie furono supervisionate dalle Congregazioni di carità che nei loro confronti assunsero un ruolo di raccordo istituzionale. Ancora: tra le Istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza, gli amministratori di quelle amministrate direttamente dalle Congregazioni di carità venivano nominati direttamente dai consigli comunali[5].

Si è osservato come la legge Crispi avesse mancato l’obiettivo di rendere più omogenee sul territorio nazionale le prestazioni in campo socioassistenziale, mentre è più difficile verificare quanto essa abbia inciso positivamente sul fronte di una migliore gestione contabile e amministrativa (Battilani, 2000). Una cosa è tuttavia certa: la legge del 1890 ampliava di molto gli spazi occupati dallo Stato nel settore delle politiche sociali. Al privato sociale era ancora concessa una certa autonomia, ma aumentava e in modo significativo il controllo di tali enti da parte dell’ente pubblico.

Le ragioni sono ad un tempo culturali e politiche, legate al clima più generale che si respirava in quella fase in Europa, anche se in fondo quelle misure erano ispirate dalla volontà di migliorare la situazione delle politiche sociali in Italia, di assorbire una situazione caotica e di semplificare il quadro.

Su questa impostazione pesò dunque una certa disaffezione nei confronti del privato associativo. Il milieu culturale era quello che si era andato a definire un secolo prima, con la Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, ma anche con la legge Chapelier, che partiva dall’assunto secondo il quale fra Stato e individuo non ci sarebbe dovuto essere alcun corpo intermedio. Lo stesso ripensamento della cultura liberista, in Italia come altrove, con un maggior interventismo dello Stato in economia, indusse l’autorità governativa a rivedere il precedente indirizzo non solo in materia di politica economica, ma anche in quella sociale. Vi fu innanzitutto una condotta favorevole dello Stato nei confronti di coloro che risultavano colpiti dalla crisi agraria, ma anche verso gli industriali, sostenuti con sussidi, commesse pubbliche e sgravi fiscali. Nel 1887, l’Italia si convertì al protezionismo, una misura pensata per difendere i prodotti italiani, che scatenò per altro la “guerra commerciale” con la Francia, durata sino al 1898. Fu però soprattutto in età giolittiana, nel periodo che vide la permanenza pressoché ininterrotta, dal 1903 al 1914, di Giovanni Giolitti a capo del governo, che lo Stato intervenne in forma massiccia a sostegno della nuova borghesia imprenditoriale. Si inaugurò così una stagione di intenso e vivace sviluppo industriale.

Anche sul fronte sociale, l’intervento pubblico si manifestò soprattutto – e come visto – con una forte azione di riordino in ambito sanitario e socioassistenziale (Bartocci, 1999). Nel 1898, per esempio, il Parlamento istituì la Cassa infortuni, un’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro degli operai dell’industria[6]. Lo stesso anno venne varata – ancorché su base volontaria – la Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai, una prima, sperimentale copertura pensionistica, che sarebbe stata estesa col tempo a porzioni crescenti di popolazione[7].

Con l'amministrazione Giolitti l'intervento dello Stato nel sociale conobbe un'ulteriore accelerazione (Cherubini e Coluccia, 1988). D’altronde il clima generale a livello europeo spingeva in questa direzione. Già tra il 1883 e il 1889 il cancelliere Bismarck perfezionò in Germania un sistema di assicurazioni sociali gestito direttamente dallo Stato a copertura di diverse cause di perdita del reddito, quali malattia, invalidità, infortuni e vecchiaia. Questo modello fu sicuramente pionieristico: riconosceva al lavoratore il diritto all’assicurazione sociale e lo obbligava a sottoscriverla. Richiedeva una compartecipazione finanziaria da parte del governo, dell'assicurato e del datore di lavoro e impegnava lo Stato a garantirne il funzionamento. Da quel momento questo prototipo finì per essere ampiamente imitato dai paesi europei e rappresentò la pietra miliare sulla base della quale nella seconda metà del Novecento avrebbe preso corpo il moderno welfare state (Alber 1986). Pure l’Italia s’ispirò a questo approccio, anche se l’impostazione bismarckiana rappresentava solo una prima tappa di una costruzione che si sarebbe perfezionata solo dopo il secondo conflitto mondiale: il sistema non assicurava tutti i rischi di perdita del reddito, inoltre lasciava scoperto chi non aveva una posizione lavorativa aperta.

L’estensione della mano pubblica in campo previdenziale, sanitario e assistenziale è in parte legata al crescente peso politico assunto da alcuni movimenti sociali in forza del progressivo allargamento del suffragio elettorale, all’azione rivendicativa esercitata in misura intensa nel biennio 1901-1902 e al rafforzarsi delle strutture sindacali che nel 1906 costituirono la Confederazione generale del lavoro, intensificando la mobilitazione tesa a chiedere maggiori tutele sociali (Cherubini, 1977; Doria e Rotondi, 2003; Gaeta e Viscomi, 2003).

Il governo Giolitti fu quindi accorto nell’assecondare le istanze dell’intero corpo sociale, nell’ottica di favorire la pacificazione interna e di sedare le manifestazioni di protesta più vivaci. Si gettarono così le premesse per la costruzione di un sistema pubblico di sicurezza sociale. Nel 1902 si disciplinarono le condizioni lavorative di donne e giovani, nel 1903 fu varato l’atto sull’edilizia popolare e commerciale, nel 1904 s’istituì l’assicurazione sugli incidenti industriali e nel 1907 venne introdotto il riposo festivo settimanale. Nel 1910 s’istituì la Cassa nazionale di maternità obbligatoria, operativa dal 1912, grazie ai contributi versati da lavoratrici e datori di lavoro. In continuità con l’età giolittiana, anche nel primo dopoguerra i governi liberali fornirono ulteriore impulso alla legislazione sociale: nel 1919 vennero introdotte due nuove assicurazioni obbligatorie, una a copertura del rischio di disoccupazione e l’altra sull’invalidità e vecchiaia a favore degli operai agricoli e dell’industria, sino a quel momento realizzata su base volontaria (Bartocci, 2000; Gozzini, 2000; Preti e Venturoli, 2000).

Era evidente che di fronte all’ascesa di un sistema assicurativo pubblico vi fosse una progressiva ritirata di quello volontario basato sulle mutue private. Nel 1904 le società mutue erano ancora 6.535 e contavano un milione di soci. Il 62% di esse era concentrato al Nord. Erano meno presenti invece al sud. Anche dal lato patrimoniale c’era una certa disparità: sempre nello stesso anno, il tessuto mutualistico settentrionale deteneva il 76,1% del patrimonio complessivo. In seguito, tuttavia, esse persero d’importanza. In Italia infatti – e a differenza del declino delle Friendly Societies inglesi – la crisi delle società di mutuo soccorso era dovuta non tanto all’allungamento della vita media o alla presenza di malattie croniche non più acute e letali (tali da non rendere più sostenibili le mutue dal lato finanziario), quanto al varo – come visto – di una prima importante legislazione sociale. L’obiettivo era duplice: garantire una maggiore uniformità di prestazioni sull’intero territorio nazionale ed estendere la protezione sociale a sempre più persone obbligandole ad assicurarsi. D’altro canto, a inizio ‘900 erano stati gli stessi esponenti del mutualismo italiano, come Luigi Luzzati, a sottolineare l’importanza d’introdurre forme obbligatorie di assicurazione, considerato che le iniziative di mutualità volontaria non erano ormai più sufficienti a garantire una reale copertura previdenziale (Fabbri 1996; Doria e Rotondi, 2003). Andò dunque a scemare la spinta propulsiva che aveva caratterizzato il mutualismo italiano negli anni precedenti. Le società di mutuo soccorso cercarono così di ricalibrare gli interventi, di riposizionarsi su altri campi, per esempio relativamente all’istruzione; ma la loro stagione di crescita era tramontata definitivamente.               

4 L’inquadramento fascista

Con il fascismo il declino del privato sociale continuò in modo persistente. A una presenza sempre più marcata dello Stato nel campo della sanità, dell’assistenza e della previdenza, si accompagnò una certa riluttanza da parte del regime nei confronti di tutte le componenti frutto della libera espressione delle persone, come Opere pie e Società mutue, con il risultato di marginalizzarle, decretandone in questo modo il loro quasi totale accantonamento. Già nel 1923 il fascismo riorganizzò il settore: la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali si occupò oltre che di previdenza anche della gestione dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione. Questa misura decretò un ulteriore colpo alle espressioni del mutualismo, specie alle Società operaie, già in declino, fino a sopprimerle quasi del tutto, anche per ragioni politiche (Preti e Venturoli, 2000). Fu però soprattutto per arginare gli effetti più negativi della crisi del ’29 che s’intensificò la presenza pubblica non solo in campo economico, con l’avvio nel 1933 dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), ma anche in ambito assistenziale e previdenziale. L’azione statale agì nell’ottica tipicamente fascista di controllare ogni ambito della vita sociale e di favorire la fuoriuscita della donna dal mercato del lavoro, cercando di mitigare la durezza di questa impostazione e le forti riduzioni salariali assunte dal regime con la corresponsione di appositi assegni familiari proporzionati al numero dei figli a carico (Gaeta e Viscomi, 2003; Preti e Venturoli, 2000). Inoltre, le politiche sociali e previdenziali volute dal fascismo furono costrette dentro lo Stato corporativo. E finirono per esercitare un'azione di controllo sociale e politico della popolazione.

Di fronte a uno Stato non fondato sulla cultura dei diritti, ma sul controllo e la ricerca del consenso, era chiaro che vi sarebbe stato poco spazio per le iniziative frutto della libera espressione, dell’auto organizzazione, specie in campo associativo. Di fatto, spazi di aggregazione come il “sabato fascista”, pratiche di socializzazione quali i fasci giovanili, femminili e di combattimento, servivano per organizzare il tempo libero delle persone e per controllarle. Anche le istituzioni dedicati ai più giovani, per esempio l’Opera nazionale balilla, I Figli della lupa, la Gioventù italiana del littorio e gli avanguardisti, seguivano il medesimo cliché: fin da piccoli si veniva inquadrati dentro le strutture dello stato fascista (Galeotti, 2022).

Sul versante caritativo e beneficiale, poi, il fascismo completò il processo di trasformazione delle Opere pie avviato da Crispi istituendo nel 1923 le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (Ipab) (Preti e Venturoli, 2000). Con le Ipab i bisogni di carattere assistenziale, educativo e sanitario venivano affrontati (o si cercava di farlo) per via pubblica. Non si discostarono da questo approccio neppure gli Enti comunali di assistenza (Eca) che nel 1937 sostituirono le Congregazioni di carità. Loro compito, quello di soccorrere le famiglie più povere, gravate da temporanee necessità, seguendo però la logica accentratrice voluta dal regime (Gaeta e Viscomi, 2003; Zaninelli, 1996).

Il fascismo asservì con la coercizione pure il movimento cooperativo, ma non lo liquidò né lo marginalizzò del tutto. Lo svuotò però di senso e di significato, per lo meno per quanto riguarda la sua portata etico-valoriale. Nel novembre 1925 la Lega nazionale delle cooperative venne sciolta d’autorità e a ruota venne liquidata anche la Confederazione delle cooperative italiane di matrice cattolica. Esse furono sostituite con l’Ente nazionale della cooperazione, costituito dal Gran consiglio del fascismo l’8 ottobre 1925, diventato l’anno successivo ente di diritto pubblico e assoggettato a partire dal 1931 alla dipendenza diretta del ministero delle corporazioni (Menzani, 2009).   

Con queste misure il regime intese dare concretezza all’aspirazione di riorganizzare la società secondo un’impostazione verticistica. Molti organismi dipendevano direttamente da alti gerarchi fascisti che li gestivano in funzione del mantenimento del consenso. Inoltre, parte delle risorse venivano distratte dall’assistenza e dirottate su altri ambiti privilegiati dal regime, secondo una logica, non sempre trasparente, dei vasi comunicanti: si aveva così un travaso di denaro dai lavori pubblici alle opere di bonifica, dalla costituzione dell’Iri al sostegno della campagna coloniale in Etiopia (Gozzini, 2000; Preti e Venturoli 2000).

Ne uscì un quadro politico fortemente antidemocratico e scarsamente partecipato, impastato di burocrazia: il rapporto che spesso si stabilì fra persone e organizzazioni preposte alla cura, all’assistenza o all'attività ludico-ricreativa fu di tipo clientelare (Ascoli, 1984).   

5 Dal welfare state alla welfare society

Un cambio d’indirizzo a livello europeo nel campo delle politiche sociali e più in generale nell'ideale di civiltà si ebbe durante il secondo conflitto mondiale, mentre la guerra stava entrando nella sua fase più critica ma già si stava prefigurando il frame successivo. Ne è esempio il manifesto “Per un'Europa libera e unita”, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati sull'isola di Ventotene in quanto oppositori del regime fascista. Ritenuto uno dei testi fondanti dell'Unione Europea, in questo scritto si legge, tra l'altro, che “la caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l'avvento della libertà” (Rossi e Spinelli, 2017, p. 25), dove “regneranno amplissime libertà di parola e di associazione”; la libera associazione, appunto: quel che sarà il Terzo settore. Secondo il Manifesto di Ventotene si sarebbe dovuto creare “un nuovo ordine”, intorno al quale avrebbero dovuto ruotare “un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale” (Rossi e Spinelli, 2017, p. 38).

Fu in questo clima di speranza, e di fiducia nel futuro, che a livello europeo si avviò un consistente progetto di riordino del sistema di sicurezza sociale. Il merito principale fu della commissione di lavoro presieduta da Sir William Beveridge, che nel 1942 riformò il sistema di sicurezza sociale britannico, approvando il Piano Beveridge (Ritter, 2003; Gozzini, 2000; Ferrera, 1984). Erano due gli assunti fondanti e rilevanti che qualificavano questo modello e lo distinguevano dal preesistente basato sulle assicurazioni sociali di bismarckiana memoria. Il primo era il principio dell’universalità dell’assistenza pubblica: tutti i cittadini, nessuno escluso, aveva diritto di essere garantito di fronte al rischio di perdita del reddito. La salute e perciò i servizi sociali e l’assistenza sanitaria diventarono un diritto da garantire a ciascun cittadino. La copertura assicurativa veniva estesa a tutte le persone, non solo a coloro i quali – come era stato fino a quel momento – avevano una posizione assicurativa in quanto lavoratori. Un secondo aspetto che qualificava la proposta di riforma fu quello dell’onnicomprensività delle prestazioni: ciascun cittadino avrebbe dovuto essere tutelato da tutti i rischi di perdita del reddito, a causa di vecchiaia, malattia, infortunio e invalidità. Altri criteri ispiratori riguardavano la gratuità delle prestazioni offerte e la sostenibilità finanziaria del sistema, tramite la fiscalità generale, ispirata al principio secondo cui ciascuno contribuisce in funzione delle proprie possibilità e riceve in base al bisogno.

La manifestazione più visibile di questo programma riformatore si ebbe nel Regno Unito con la nascita nel 1948 del National Health Service – NHS, un vero e proprio Servizio Sanitario Nazionale offerto gratuitamente alla popolazione, fortemente centralizzato a livello statale (Gozzini 2000). Si transitò da un sistema privato a uno pubblico: oltre mille ospedali volontari nonprofit e altrettanti (e più) ospedali comunali, oltre l’attività dei medici di famiglia passarono sotto il diretto controllo dello Stato[8].

In Italia fu nella carta costituzionale del 1948 che trovò declinazione una variante dell’approccio beveridgiano. In più articoli della Costituzione si fece posto un approccio garantista e universalistico. Lo stesso ente pubblico doveva fornire copertura finanziaria al funzionamento del sistema di welfare, anche se – sempre secondo la costituzione – a farsene carico doveva essere non solo lo Stato bensì l’intera Repubblica, e cioè i cittadini, intesi come singoli o come gruppi, compresi gli enti privati senza scopo di lucro, in base alle indicazioni fornite dall’articolo 38 della Costituzione (Fargion, 1997). Veniva a delinearsi così un modello di welfare misto, pubblico e privato, dove accanto a una robusta presenza pubblica avrebbe dovuto esserci posto per il protagonismo della società civile e degli enti non profit (Borzaga, Ianes, 2006; Ianes 2020). Ne uscì, per dirla con Giovanni Gozzini, un “impasto storico tra iniziativa pubblica e forme di autorganizzazione della società civile” che può essere definito come “sistema di welfare”, da mantenere distinto dal più noto ma anche più riduttivo e unidirezionale “welfare state”, incentrato sul rapporto gerarchico “tra un soggetto centrale attivo (lo Stato) e un oggetto periferico passivo (la società civile)” (Gozzini, 2000, p. 587).

In realtà molti dei propositi contenuti in questo modello e nella Costituzione italiana rimasero lettera morta per un lungo tratto della vita repubblicana (Ferrera, 1984), nonostante l'impegno civile di figure come Piero Calamandrei che si spesero per la difesa e l'attuazione pratica della Costituzione Repubblicana (Calamandrei, 2000). Ai proclami non seguirono infatti le azioni concrete e durature: fino agli anni Settanta la libera espressione delle persone, le iniziative di terzo settore non furono assolutamente valorizzate, confinate a un compito residuale, al ruolo di istituzioni cuscinetto capaci d’interfacciarsi con i partiti e gli organi di governo. E questo sia sul fronte socio-assistenziale che su quello culturale, sportivo e ricreativo.

Ne sono esempio le Acli e l'Arci, associazioni culturali vicine alle due “Chiese”, rispettivamente la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Non solo: ciascuna area politica cercò di presidiare ogni categoria, ogni fascia d'età, ogni ambito sportivo, di svago e culturale. Giovani e donne, scolari e studenti, lavoratori e pensionati, per tutti vi era l'opportunità di un circolo, di un ritrovo organizzato direttamente dal partito, negli spazi che esso metteva a disposizione.

Nel contesto del Pci, per esempio, opportunità di aggregazione venivano offerte ai giovani con l'Associazione pionieri italiani (Api), alle donne grazie all'Unione donne italiane (Udi), mentre gli sportivi si aggregavano nell'Unione italiana sport popolare (Uisp). Chi, ancora, era alla ricerca di un luogo per il tempo libero frequentava le Case del popolo, ma vi erano – come già visto – anche i circoli dell'Associazione ricreativa culturale italiana (Arci), i quali operavano soprattutto in campo culturale (Marcon, 2004). Il mondo cooperativo era presidiato invece dalla Lega delle cooperative e mutue, poi Legacoop, quello sindacale dalla Cgil.

Simmetrica e parallela a quella del Pci anche la rete di iniziative riconducibili alla Chiesa e alla Democrazia cristiana. E questo sia sul fronte sindacale (Cisl), cooperativo (Confcooperative), e del lavoro, dove l'Associazione cristiana dei lavoratori italiani (Acli) offriva servizi di assistenza e patronato. Ma il presidio riguardava pure i giovani cattolici, riuniti nell'Azione cattolica, gli studenti universitari, associati alla Federazione universitari cattolici italiani (Fuci). Non mancavano opportunità di aggregazione nemmeno per le donne, legate al Centro italiano femminile (Cif), e per gli sportivi, che costituirono il Centro sportivo italiano (Csi). I ragazzini poi avevano un punto di riferimento e di svago nelle parrocchie e negli oratori.

Da una parte e dall'altra si tesseva così una rete di relazioni a maglie strette: era il fenomeno del collateralismo. Le organizzazioni si legavano a doppio filo ai partiti, diventandone cinghia di trasmissione; disponevano di finanziamenti certi, a prezzo però di una limitazione dell'autonomia e della libertà d'iniziativa, ancora più compresse di fronte al contesto di guerra fredda e a causa dello scontro ideologico fra i partiti italiani durante gli anni Cinquanta e Sessanta (Marcon, 2004).

Anche sul fronte delle politiche sociali e in difformità rispetto a quanto previsto dal dettato costituzionale, gli organismi intermedi, di tipo associativo e volontario, svolsero un ruolo residuale. Scrive, in proposito, Giulio Marcon (2004, p. 73): “Mentre i cattolici continuarono – con una serie di istituti, opere pie, servizi di carità – a praticare un intervento di natura sociale e assistenziale, in continuità con le attività di inizio Novecento, la sinistra comunista – a eccezione del movimento cooperativo, sempre più rivolto verso l'impresa e l'attività economica in senso stretto – abbandonò la pratica mutualistica, di autoaiuto e di autogestione dell'intervento sociale, per adeguarsi a quella “sussunzione del sociale nello statale” secondo la quale la gestione di tutte le attività di assistenza e di welfare spetta allo Stato e alle sue istituzioni. Ben poco rimase di quelle pratiche sperimentate nella preistoria del mutualismo e dell'autorganizzazione sociale: era ormai compito esclusivo dello Stato fornire e strutturare tutta quella serie di servizi che prima aveva come protagoniste, almeno in parte, le organizzazioni del movimento di classe”.

6 Anni Cinquanta e Sessanta: un Terzo settore di irregolari

Si è visto che nell'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, il Pci da un lato, e la Dc con la Chiesa dall'altro, cercarono il consenso organizzando iniziative di aggregazione e associazione, allo scopo di organizzare il tempo libero delle persone, e di cementare una base elettorale da poter spendere nella competizione tra schieramenti, in una lotta senza quartiere.

Al di fuori dei due schieramenti egemonici, negli stessi anni iniziò a farsi sentire una società altra, minoritaria e irregolare, fautrice di iniziative per lo più estranee ai settori consueti battuti dalla carità e dal mutualismo, e cioè estranei all'ambito socioassistenziale, sanitario e previdenziale, nel frattempo monopolizzati dallo Stato [n.d.r.: il tema è approfondito su questo numero nell’articolo di Giovanni Devastato]. Una società civile e anticonformista, un po' fuori dal coro, animata da singole personalità, testimoni capaci di lasciare il segno in vari campi, anticipatori di sperimentazioni che col tempo avrebbero dato spessore e consistenza al Terzo settore. Il pacifismo e la non violenza, l'ambito pedagogico e il meridionalismo, il lavoro sociale e l'esperienza comunitaria. Erano i cosiddetti fronti autonomi dell'impegno civile e militante, frutto di una stagione e di una generazione. Ci si riferisce a quella – per iniziare – di Aldo Capitini, don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci e don Primo Mazzolari, promotori di pace e ispiratori, più in generale, del movimento non violento. Si ricorda, in primo luogo, il perugino Aldo Capitini, filosofo, non violento, instancabile animatore politico e culturale, filosofo, convinto che la “persuasione” dovesse essere il principio in grado di caratterizzare la vita di ogni persona e la sua azione. Il suo motto “ascoltare e parlare” era improntato sulla volontà di dare la parola a tutti, favorendo la massima condivisione (Devastato, 2018). Da pacifista, Aldo Capitini fu anche inventore, nel 1961, della prima edizione della Marcia per la pace Perugia-Assisi (Capitini, 2003). L'impegno per il riconoscimento di una legge ad hoc sull'obiezione di coscienza al servizio militare fu proseguito da personaggi come don Mazzolari, padre Balducci e don Milani. Si iniziò con la difesa aperta di Balducci nei confronti dell'obiettore Giuseppe Gozzini, condannato a sei mesi di reclusione. Balducci, dopo aver sostenuto che un cattolico ha il dovere di disertare la guerra totale, venne condannato dal giudice per apologia di reato (Ferrucci, 1993). Nel 1965 toccò a don Milani, dalla sua Barbiana, rintuzzare l'ordine del giorno approvato dall'assemblea generale dei cappellani militari, che giudicava l'obiezione di coscienza un'“espressione di viltà” e “un insulto alla patria e ai suoi caduti”. Per le sue parole ferme, don Milani fu assolto nel 1966, ma fu condannato in appello nel 1967, quando però il sacerdote di Barbiana era già morto (Milani, 1996). Nel 1966, la Legge Pedini aprì la strada a un primo riconoscimento dell'obiezione di coscienza: i ragazzi in età di leva che avessero svolto due anni di volontariato nei paesi in via di sviluppo, sarebbero stati esentati dal servizio militare. Si trattò di un piccolo tassello di un mosaico che si sarebbe compiuto, però, solo nel 1972, quando venne approvata la legge sull'obiezione di coscienza (Martellini, 2006). Nel frattempo, il mondo della pace e della non violenza diede vita a varie aggregazioni, altre sigle, manifestazioni anche queste di un terzo settore minoritario e in divenire. Si trattava di iniziative che partivano dal basso, non ricadevano sotto l'ala protettiva di alcun partito, si facevano costruttrici di pace attraverso la promozione di campagne di sensibilizzazione, di programmi allo sviluppo e di iniziative di solidarietà internazionale. Aveva questa natura, per esempio, il movimento Sci, attivo dagli anni Cinquanta come sezione italiana del Service Civil International, che aveva come prerogativa quella di mescolare l'impegno per la pace e la promozione di campi di lavoro con il coinvolgimento di numerosi volontari in iniziative concrete, per ricostruire un edificio scolastico o un ospedale, per animare i bambini, per fornire aiuto alla popolazione locale in caso di bisogno a causa di una calamità naturale o un evento traumatico (Sci, 1990). In parallelo allo Sci, operavano gli Amici dei quaccheri, il Movimento cristiano per la Pace (Mcp) e il Movimento internazionale per la riconciliazione (Mir), ma nacquero, grazie anche all'influsso straniero (dalla Francia soprattutto), delle vere comunità nonviolente, per esempio la Comunità dell'Arca, dove l'impegno attivo per la non violenza e l'antimilitarismo si traduceva in uno stile di vita e in comportamenti coerenti con questa stessa impostazione.

D'altro canto, le figure dell'impegno per il pacifismo in Italia, non potevano essere incasellate unicamente in quest'ambito specifico, intersecavano piuttosto vari rami dell'impegno sociale. Don Lorenzo Milani, per esempio, lo si può considerare personaggio trasversale, impegnato a favore dell'obiezione di coscienza, ma anche in campo pedagogico se considera l'esperienza unica della scuola di Barbiana: una proposta educativa poco formalizzata, nata spontanea e dal basso, in grado di far proseguire gli studi a molti allievi che la frequentarono, stimolati dalla scritta I care, mi interessa, mi sta a cuore, che campeggiava sulla lavagna della scuola di Barbiana (Milani, 2004; Barbiana, 2017). Nella sua semplicità, l'iniziativa di don Milani può essere considerata anticipatrice di alcune iniziative di Terzo settore presenti oggi in campo educativo e scolastico. Ma prima e dopo la scuola di Barbiana, nacquero altre agenzie formative, animate da una minoranza attiva di educatori, pedagoghi, formatori, personaggi irregolari che andavano a comporre quella “strana gente”, secondo la definizione fortunata di Goffredo Fofi (1993). Le istituzioni scolastiche ereditate dall'Italia fascista erano principalmente improntate sull'autoritarismo e su metodi educativi di stampo tradizionale, cosa che spinse alcuni formatori ad intraprendere vie sperimentali di educazione.

Nei primi anni Cinquanta comparve così la Cooperativa della Tipografia a Scuola (Cts), quale costola della scuola madre francese, riconducibile al movimento Freinet (1973). Negli stessi anni Rita Fasolo, partigiana e antifascista ed educatrice, avviò sulla scorta di esperienze estere i gruppi Cemea, depositari di un metodo d'apprendimento basato sul diritto all'educazione per tutti, al suo carattere permanente, democratico e comunitario. Allo stesso tempo, l'aggiornamento degli educatori diventò centrale, perciò furono promossi i primi stages, indirizzati inizialmente agli operatori delle colonie estive. Più o meno nello stesso periodo, Margherita Zoebeli diede vita a Rimini al Centro educativo italo-svizzero, per accogliere bambini da formare secondo il metodo dell'educazione partecipata e della cooperazione (De Maria, 2015). Più noto e antecedente (addirittura alla Prima guerra mondiale) è invece il metodo di Maria Montessori, anche questo basato sul coinvolgimento attivo dei bambini. Le aule scolastiche furono attrezzate e arredate per stimolare la creatività dei bambini, e questi organizzati in piccoli gruppi per favorirne la partecipazione (De Stefano, 2020).

Dunque, dopo i movimenti nonviolenti, negli anni Cinquanta e Sessanta, operarono in Italia una serie di iniziative sul fronte pedagogico, capaci di sviluppare alcuni metodi educativi, che aprirono la strada dell'innovazione e dell'originalità fatte proprie anche dalle organizzazioni di Terzo settore che nacquero in seguito.

Si trattava comunque di iniziative e di un metodo che difficilmente potevano essere costretti dentro una classificazione specifica. In questo impasto di protagonismi trasversali e impossibili da essere irregimentati, rientra anche l'impegno di Danilo Dolci, scrittore, pacifista, attivo nel sociale e meridionalista. Il Mezzogiorno fu una palestra di azione privilegiata per figure come Dolci. Qui investirono energie nel lavoro sociale, nello sviluppo locale e di comunità, uno sforzo non comune per cercare di emancipare il meridione da una condizione di sottosviluppo e arretratezza. Egli operò in Sicilia, dove fondò il Centro per la piena occupazione, poi il Centro studi e iniziative di Partinico e altri organismi ancora (Grifo, 2021). Il suo era un approccio che andava a toccare vari ambiti, dall'appoggio ai braccianti all'attività pedagogico-educativa, dall'impegno sociale a quello politico, dalla proposta nonviolenta allo sciopero della fame, una forma di lotta e di pressione contro i poteri forti. Meridionalisti come Danilo Dolci, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi-Doria, andarono a operare su un tessuto sociale e comunitario compromesso, come quello ben descritto da Carlo Levi (1945) nel suo “Cristo si è fermato a Eboli”, un romanzo pubblicato nel 1945, nel quale l'autore offre uno spaccato dell'Italia meridionale di quegli anni, gravata da arretratezza, e appesantita dall'oppressione di piccoli e grandi potentati locali. Un quadro crudo e veritiero, ben rappresentato dal livello di sottosviluppo registrato nel vissuto di tutti i giorni all'interno dei sassi di Matera. Intellettuali, attori del sociale, scrittori, attivisti non violenti furono chiamati a confrontarsi con queste fragilità. Dovettero fare i conti con i limiti di una società in affanno, e intervennero con lo studio e la promozione di progetti con l'idea di impostare un'azione di riscatto dal basso, senza la ricerca di appoggi istituzionali o partitici. Ne è esempio l'Associazione risveglio Napoli (Arn), sorta nei primi anni Sessanta dalla proposta della scrittrice Fabrizia Ramondino e dall'esponente socialista Vera Lombardi, allo scopo di coinvolgere i bambini dei quartieri più degradati di Napoli in una scuola autogestita dell'infanzia. Tra gli obiettivi perseguiti anche l'organizzazione di una scuola serale per studenti-lavoratori. Nel campo del lavoro comunitario venne proposto nel 1953 il progetto La Martella: l'idea era di costruire un villaggio comunitario in cui accogliere circa settecento persone per sottrarle ai Sassi di Matera, luoghi insalubri dove le persone vivevano in condizioni igienico sanitarie precarie e talvolta in promiscuità con gli animali (Ochetto, 2013). La “comunità di lavoro di Matera”, così era stato definito il progetto, fu coordinato dall'Unrra Casas, nel cui organo direttivo sedeva Adriano Olivetti. Vi collaborarono diversi intellettuali come Carlo Levi, Achille Ardigò, Manlio Rossi-Doria, e vi parteciparono alcune organizzazioni come il Cepas animato da Angela Zucconi, con il compito di curare soprattutto i servizi sociali del villaggio secondo la metodologia del “lavoro per gruppi” e degli “studi di ambiente” (Devastato, 2018; Zucconi, 2000). Purtroppo, l'operazione non riuscì ad andare in porto, in parte per i limiti oggettivi riscontrati nella fase esecutiva, in parte per l'ostracismo di alcuni ambienti politici lucani che non vedevano di buon occhio questi esperimenti di lavoro di comunità, tra l'altro da organizzare – come teorizzava Felice Balbo – attraverso la formula cooperativa. Di fatto nel 1955 l'Unra Casas si defilò dal progetto La Martella, gli abitanti faticarono a liberare i Sassi di Matera, e l'intervento venne così precocemente archiviato.

Altrettanto fallimentare si rivelò un'iniziativa analoga promossa in Abruzzo nel 1958 e finanziata dall'Unesco; un progetto pilota di sviluppo locale con il coinvolgimento di dodici comuni della Regione, soprattutto paesi isolati di montagna. Si investì molto sull'alfabetizzazione dei ragazzini, altrimenti sottratti alla scuola, indirizzati ai lavori nei campi e all'allevamento. L'esito non fu eclatante, così come modesto risultò l'intervento per migliorare l'attività lattiero-casearia, l'artigianato locale e la pratica agricola, nonostante l'assistenza tecnica fornita dall'economista ed esperto in politica agraria Manlio Rossi-Doria. A far naufragare il progetto furono poi importanti frizioni da parte di politici, notabilato locale e pure da alcuni ministeri. La genuina proposta di sviluppo locale e di razionalizzazione delle campagne avanzata da meridionalisti, attivisti sociali, sviluppatori di comunità, insomma da iniziative che potremmo definire di Terzo settore, andò a sbattere contro la protervia di piccoli interessi di potere, a causa di lungaggini burocratiche, e per effetto di resistenze più o meno sotterranee. Dice in proposito Giulio Marcon (2004, p. 108): “Nonostante l'impegno di tanti operatori e gruppi, la cultura dello sviluppo locale – stretta tra il clientelismo della Cassa per il Mezzogiorno, gli interessi del Nord e l'arretratezza delle condizioni materiali e sociali – non decollò mai veramente nel Mezzogiorno e rimase patrimonio di pochi. Tutta la pratica istituzionale di intervento nel Mezzogiorno – e non solo lì – fu guidata da una filosofia centralistica, da obiettivi e priorità definiti dall'alto, lontano dalle aree interessate”. Di fronte a quest'esito modesto, rimane dunque aperto l'interrogativo di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato di quelle iniziative, del privato sociale, se solo fossero state messe nelle condizioni di poter operare liberamente, attraverso il coinvolgimento della popolazione locale, invece che affidarsi a deludenti soluzioni calate dall'alto. Una cosa sembra certa: i progetti di sviluppo per il sud Italia promossi negli anni Cinquanta e Sessanta, prima fra tutti la Cassa per il mezzogiorno, furono un'occasione mancata. Essi, infatti, disattesero il metodo dello sviluppo comunitario e della partecipazione locale e cedettero alle pressioni di potentati politici e della criminalità organizzata.

Per il vero, anche alcune iniziative avviate al nord non ebbero molto successo. Si pensi all'esperimento della cooperativa Pradaglia, una cooperativa di produzione e lavoro nata nel 1954 nel paese d'Isera, vicino a Rovereto in Trentino. Essa si era proposta come esperienza di “ricerca e lavoro” tra giovani agricoltori del paese d'Isera e alcuni studenti universitari e intellettuali che frequentavano l'ambiente culturale di “Terza Generazione”, una rivista che aveva in Felice Balbo il suo teorico principale. Felice Balbo era stato comunista del Pci, poi fuoriuscito per ricercare una via autonoma di elaborazione. Cercò di stimolare in tutta Italia una riflessione politico-culturale tra giovani, promuovendo occasioni di incontro e di crescita attraverso esperienze di lavoro e di studio del territorio, cercando di uscire dalla logica fascismo-antifascismo (Leonardi C., 2000). L'iniziativa poggiava sull'idea che si potesse essere cattolici e nel contempo laici, rifiutando la consuetudine di utilizzare la religione per fini politici come stava accadendo con la Democrazia cristiana, il “partito di raccolta” dei cattolici. Di più: nei giovani di “Terza Generazione” c'era l'idea che di fronte alla crisi dei partiti – presente, fa specie, già allora – si dovesse “rinunciare alle ideologie, a qualsiasi ideologia, e uscire dai partiti”. Per creare, come affermava Balbo, un'epoca nuova, la cui genesi non poteva muovere “dalle istituzioni statali, dall'alto, ma dalla società civile”. E la “Terza Generazione”, dopo quella fascista e antifascista, pensava Felice Balbo, era la più disposta a scommettere su questa sfida, a porsi non tanto i “problemi dello stato, ma i problemi della società civile ed in essa operasse” (Leonardi C., 2000 p. 19). La rifondazione di una società nuova doveva partire da iniziative proposte dal basso, da giovani – lo si è detto – fuori dai partiti. La cooperativa Pradaglia rappresentò un tassello di questo disegno. Prese in affitto un terreno messo a disposizione dal Comune e vi coltivarono frumento, tabacco e altre colture sperimentali. Non solo, accanto all'attività economica i soci della cooperativa avviarono un'iniziativa di tipo “culturale”, scrivendo quella che è stata chiamata l'“Inchiesta d'Isera”, un'indagine socioeconomica sui fatti e gli eventi della vita di questo paese del Trentino. Il rapporto finale venne redatto nel 1955 da Baldo Scassellati e Agostino Paci, due esponenti di spicco della rivista “Terza Generazione”. Di lì a poco, però, la cooperativa Pradaglia si sciolse. Ciascun socio intraprese un proprio percorso autonomo. La cooperativa rappresentò comunque un'interessante esperienza di ricerca-azione. Affermano alcuni suoi protagonisti, in un volume pubblicato nel 2000: “la Cooperativa era sorta non tanto per una questione economica, quanto per stare insieme […], era un modo per noi di farci carico non solo dei nostri problemi, ma dei problemi di tutta la collettività. Per questo la cooperativa è stata per noi l'inizio dell'inserimento responsabile nella comunità” (I Soci della cooperativa Pradaglia, 2000, p. 27).

Il lavoro sulla comunità era al centro del programma anche di un altro riformatore sociale, di un visionario come l'imprenditore Adriano Olivetti (Ochetto, 2013). Il proprietario della fabbrica d'Ivrea fu molte cose: antifascista, protagonista di diverse esperienze d'impegno sociale e civile, tra cui l'Unrra Casas, la Federazione internazionale dei centri sociali. Sostenne finanziariamente organizzazioni come il Cepas o l'Mcc. Fondò anche un partito politico, il Movimento di comunità, si presentò alle elezioni del 1956, ma ottenne scarso successo, risultando l'unico parlamentare eletto della sua lista. Nella città d'Ivrea, di cui fu sindaco, promosse una rete di centri comunitari e favorì la collocazione più equilibrata delle attività produttive. S'interessò di sviluppo armonico e di urbanistica, fondando l'Istituto per il rinnovamento urbano e rurale, allo scopo di incentivare la nascita di nuove imprese e di cooperative nelle aree più depresse. All'interno dell'Olivetti, poi, praticò la responsabilità sociale d'impresa prima ancora che questa fosse decifrata in chiave istituzionale e attuò forme avanzate di welfare aziendale: assecondava la richiesta di aspettativa retribuita di quei dipendenti che si impegnavano nel sociale o svolgevano un periodo di volontariato nel sud del mondo. Anticipò alcune misure, che sarebbero state riconosciute solo successivamente dai contratti nazionali: la settimana di 40 ore lavorative, la maternità retribuita per nove mesi, l'istituzione di asili nido e scuole materne per i bimbi fino ai sei anni di età, il diritto allo studio. Non mancò, infine, di contornarsi di intellettuali e personaggi di cultura come Pierpaolo Pasolini, Paolo Volponi e Luciano Gallino, di promuovere iniziative culturali e di dar vita a una casa editrice, le edizioni di Comunità. Secondo la filosofia olivettiana l'impresa avrebbe dovuto trainare la comunità; creare ricchezza, profitto, da restituire alla società con iniziative di sviluppo locale. Nella sua concezione, l'impresa non si sarebbe dovuta limitare a distribuire il surplus ai lavoratori, con una maggiorazione di salario. Ma l'idea che maggiormente caratterizzava il suo approccio riguardava il ruolo dell'impresa dentro la comunità: l'imprenditore – secondo Olivetti – avrebbe dovuto mettere a disposizione della comunità la proprietà e il profitto. E questi ultimi poter diventare – anche attraverso il sostegno di iniziative nel sociale, di tipo culturale e associativo, appunto di Terzo settore – degli autentici promotori di sviluppo.

Con la morte di Adriano Olivetti, improvvisa nel 1960, molti progetti che egli avviò, ad Ivrea e a livello nazionale, furono abbandonati al loro destino. Eppure, gli anni Cinquanta e Sessanta furono attraversati da alcune esperienze, sorte dal basso, certamente minoritarie, ancora indecifrabili per costituire un amalgama distinto da confinare dentro il perimetro di Terzo settore. Tuttavia, i progetti per il mezzogiorno, il movimento non violento e per l'obiezione di coscienza, i centri sociali per il riscatto delle aree depresse, il lavoro di comunità rappresentarono dei piccoli segnali di vivacità di un pezzo di società che alzava la testa, impossibile da inquadrare, nella sua eterodossia e singolarità, nelle pastoie tipiche dei corpi intermedi collaterali ai partiti.

Anche sul versante socioassistenziale s'era mosso qualcosa. Per esempio, la già citata Cepas, la scuola voluta da Adriano Olivetti per formare le assistenti sociali (Ochetto, 2013). Altre iniziative sociali furono l'Unione nazionale per la lotta contro l'analfabetismo (Unla), o il Movimento di collaborazione civica (Mcc), promosso nel 1948 da Angela Zucconi, per diffondere il civismo in ogni dove (Zucconi, 2000; Bolognesi, 2005). D'impronta sociale anche quei piccoli gruppi di educatori, operatori, pedagoghi del sociale, ricchi di spirito ma privi di mezzi, che s'impegnarono su vari fronti. Operarono per alleviare le dure condizioni di vita di bambini denutriti e colpiti da malattie, come fu per Goffredo Fofi a Cortile Cascino, o per don Zeno Saltini a Fossoli, dove nel 1947 avviò la comunità Nomadelfia, per offrire alloggio e cure a fanciulli abbandonati, orfani, o sbandati (Marinetti, 2006). Impegnati nel sociale che si misero a fianco dei braccianti – è il caso di Danilo Dolci in Sicilia –, portando avanti la loro lotta non violenta contro i diritti calpestati, praticando come forma di protesta lo sciopero della fame.

Queste, del sociale e del sociosanitario, erano tutte iniziative encomiabili, ma non paragonabili alla portata e alla diffusione delle espressioni che di lì a poco rinverdirono il Terzo settore, coprendo, in modo originale e innovativo, l'ambito socioassistenziale.

Ma questa della diffusione più recente del Terzo settore è tutta un'altra storia, che si è materializzata in tutt'altra fase. Dovevano ancora manifestarsi, infatti, le condizioni di contesto degli anni Settanta (sul fronte sociale, economico e di bisogno), dalle quali scaturirono le forme di impegno più varie e più diverse: nel volontariato, nel volontariato organizzato e nella cooperazione sociale (Ianes, 2020).

In conclusione: il senso di un titolo

Ascesa, declino e ritorno. È il titolo di questo saggio, ma è anche la parabola che descrive il percorso conosciuto dalle iniziative vocate al bene comune. La storia d'Italia ci restituisce infatti l'itinerario di questo agire collettivo, che oggi chiamiamo Terzo settore. C'è dunque la fase dell'“ascesa”: per secoli gran parte del problema della povertà fu “affare” del privato sociale, di iniziative legate alla Chiesa e basate sulla carità, mentre lo Stato nazionale (una volta formato) non intervenne, se non per risolvere soprattutto un problema di ordine pubblico.

Accanto alle espressioni della carità, in una società che si faceva sempre più industriale, comparvero le iniziative del self help, le società di mutuo soccorso e la cooperazione. Sul finire dell'Ottocento l'ascesa del privato sociale – del Terzo settore – raggiunse l'apice, si arrestò, e invertì la rotta.

Iniziò la fase del “declino”: l'ambito socioassistenziale, sanitario, previdenziale diventò sempre più appannaggio dell'ente pubblico e dello Stato centrale. È la fase delle assicurazioni sociali pubbliche, che accompagnò l'Italia dell'età liberale. Processo che proseguì anche durante il ventennio fascista, con toni e contorni oscuri, finalizzati al controllo sociale e politico della popolazione. Dentro questa logica ogni minima forma di libertà finì per essere schiacciata dentro le dinamiche dello Stato corporativo, che tutto controllava, ogni spazio di aggregazione e associazione, per indottrinare il corpo sociale fin dalla giovane età.

Da qui in poi la società subì un inesorabile declino: sopravanzò il binomio Stato-mercato. Negli anni Settanta del Novecento un nuovo cambio di paradigma ci dà l'immagine di un agire collettivo che ritornò a farsi vivo e vivace, assumendo forme e manifestazioni diversificate, legate al volontariato, alla mutualità e al concetto nuovo, nuovissimo di impresa sociale.

Vi è però un aspetto che merita attenzione – ed è forse questo l'elemento più innovativo dal punto di vista storico e storiografico – che riguarda lo sforzo di stabilire l'esatta datazione di quand'è avvenuto il recupero d'interesse e di presenza di ciò che oggi chiamiamo Terzo settore. Fu infatti prima degli anni Settanta che la società si mobilitò in forma libera, al di fuori dai partiti e dai sindacati: fu già all'indomani della liberazione dal nazi-fascismo, con l'approvazione della Costituzione repubblicana, che una minoranza rumorosa – “la strana gente” – si organizzò dal basso, in campo educativo, pedagogico, nell'ambito del pacifismo, del meridionalismo, per portare avanti il discorso del lavoro nel sociale e di vita comunitaria.

Le esperienze, parziali fin che si vuole, narrate in questo saggio sono materia sufficiente – a detta di chi scrive – per retrodatare la fase del “ritorno” del Terzo settore: non agli anni Settanta, ma agli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Rimane il fatto che si trattava di esperienze minoritarie e relegate a un ruolo di pura testimonianza, non in grado di scalfire la logica della dinamica Stato-mercato, né di smentire la provocazione che Perlmutter ci consegnava in un saggio del 1991: “Italy: Why No Voluntary Sector?”.

 

DOI: 10.7425/IS.2023.02.04

 

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[1] Erano organizzazioni che dopo aver retto l’apparato assistenziale di antico regime, sopravvissero all’età napoleonica, quando fu evidente il proposito di una loro radicale revisione, mentre invece si consolidarono nel periodo della restaurazione, una volta assopiti gli intenti più radicali di razionalizzazione impartiti nel clima della Rivoluzione francese (Wolf, 1986; 2000; Doria e Rotondi, 2003).

[2] Si confronti, per esempio, il caso delle Opere Pie di Bologna (Sneider, 2000).

[3] Erano esonerate dal sottostare a questo dispositivo – e dunque a questa forma di raccordo – le Opere pie rette da antiche consuetudini e regolamentate da proprie tavole di fondazione (Vinay, 2000; Cova, 1997; Doria e Rotondi, 2003).

[4] La Lombardia operò nel rispetto della legge del 1862; altre città, come Genova, Reggio Emilia e Firenze, avviarono proficue riforme; il disposto normativo fu al contrario ignorato negli ex territori dello Stato pontificio, così come in Umbria, dove il disordine fu marcato, mentre nel Mezzogiorno regnarono negligenza e in qualche caso corruzione (Vinay, 2000).

[5]                 Gli istituti che invece non erano sottoposti all’amministrazione delle Congregazioni di carità erano regolamentati dalle tavole di fondazione o dai rispettivi statuti.

[6] Ci si riferisce alla legge 17 marzo 1898. A dire il vero, già la legge 8 luglio 1883 istituiva la Cassa nazionale di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, ma essa funzionava su base volontaria (Zamagni, 1997, p. 9; Gaeta e Viscomi, 2003, pp. 234-235).

[7] Legge 17 luglio 1898 (Bartocci, 2000).

[8] Rivett, 1997.

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