Il termine “impresa sociale” nella sua attuale eccezione è stato utilizzato per la prima volta in Italia alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso per indicare alcune iniziative, spesso avviate e gestite inizialmente da volontari, impegnate non tanto, come le tradizionali organizzazioni senza scopo di lucro, nella promozione dei diritti attraverso l’advocacy, bensì direttamente nella gestione di servizi sociali e in attività produttive volte a favorire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. In assenza, nel nostro paese, di una normativa in materia, chi le voleva realizzare scelse la forma giuridica della cooperativa, cui la stessa Costituzione italiana e una radicata tradizione, soprattutto in alcune aree della nostra penisola, attribuivano una importante funzione sociale. L’espandersi di queste esperienze e il diversificarsi degli obiettivi che esse vennero ponendosi nel corso dei decenni successivi spinsero il legislatore a due successivi interventi, il primo nel 2006 (d.lgs. 155/2006), il secondo nel 2017 (d.lgs. 112/2017), volti a far chiarezza sull’impresa sociale, anche qualora non realizzata in forma di cooperativa sociale, e a fornire strumenti più adeguati ad agevolarne il funzionamento.
Oggi “possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del codice civile, che […], esercitano in via stabile e principale un'attività d'impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività”. È dunque stato chiaramente definito e codificato dal legislatore italiano un diverso modo di pensare l’impresa e il suo ruolo nella società. Una definizione che probabilmente subirà ulteriori evoluzioni in futuro, ma che tuttavia non è solo il frutto della nuova sensibilità maturata all’interno delle società occidentali nell’ultimo mezzo secolo, ma forse è anche espressione di un approccio solidale al lavoro che affonda le sue radici nel passato, soprattutto se si prova a dare dell’impresa sociale una lettura più ampia. Una lettura che, soprattutto da parte di alcuni storici, viene solitamente declinata descrivendo la crescente attenzione posta dall’impresa e dagli imprenditori al perseguimento del “welfare aziendale”, con riferimento alle azioni che l’impresa rivolge ai lavoratori e alle loro famiglie. Come ci ricordano gli autori che hanno contribuito a questo numero della Rivista, si tratta di un’attenzione che ha avuto ambizioni, obiettivi e risultati molto diversificati a secondo dei tempi e dei luoghi che consideriamo. In questa prospettiva è altresì chiaro che in ogni caso il punto da cui partire è comunque connesso all’emergere del sistema di fabbrica e quindi all’avvio dell’industrializzazione e questo, nel nostro Paese, significa andare indietro alla seconda metà dell’800. L’ancora lento affermarsi di una manifattura accentrata, che costringeva gli operai e le operaie a lunghi e faticosi orari di lavoro all’interno di locali affollati, rumorosi e non sempre salubri, stimolò infatti una riflessione all’interno e all’esterno dell’impresa su come alleviare queste controindicazioni dell’affermarsi del progresso industriale.
Se oggi l’idea di una cultura d’impresa, che assume il benessere dei lavoratori come risorsa fondamentale e strategica per la competitività e la produttività non solo delle aziende, ma anche dei territori e delle comunità locali in cui le aziende operano, sembra essere abbastanza diffusa (ma purtroppo non sempre è così), in passato essa era condivisa solo da pochi, pochissimi, illuminati imprenditori e comunque non sempre, o non solo, per motivi etici. Rispetto alle letture tendenzialmente critiche dei primi studi dedicati, negli anni Settanta del Novecento, al cd. “paternalismo di fabbrica”, tipico delle fasi iniziali dell’industrializzazione, la più recente riflessione storiografica, forse sollecitata anche dalla nuova evoluzione della normativa in materia di “impresa sociale” e soprattutto dal diffondersi nelle imprese più grandi, sia pubbliche che private, di una diversa attenzione verso il benessere dei loro dipendenti, ha portato a rivalutare anche il significato di alcune di queste esperienze precoci, delineandole in tutte le loro sfaccettature.
I curatori del bel volume che raccoglieva gli atti di un Convegno organizzato a Milano nel maggio 2016 da Fondazione Aem Gruppo-A2A e da Fondazione Asm–Gruppo A2A sul Welfare aziendale nell’Italia del dopoguerra, osservavano nella loro introduzione che il benessere dei lavoratori, mediato a partire dagli anni Sessanta da un non sempre morbido confronto sindacale, pur essendo ancora segnato da forti permanenze ereditate dal passato (non ultima l’interpretazione data dal regime fascista al tema), sembrava finalmente essere divenuto centrale nelle politiche aziendali delle imprese italiane del Miracolo economico. Le casistiche esaminate in quel volume si riferivano prevalentemente a grandi imprese pubbliche e private e alle Municipalizzate delle grandi città del nord, che di certo avevano, prima delle piccole e medie imprese che caratterizzavano il nostro panorama industriale, maturato la consapevolezza che il consenso da parte della comunità era un elemento fondamentale per l’impresa, così come lo era costruire il senso di appartenenza da parte dei loro lavoratori. Ma, in realtà, esempi seppur non così strutturati di una attenzione alle esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie si possono ritrovare già nell’Italia delle prime fasi dell’industrializzazione, come emerge dai contributi di Gianluca Salvatori, Beniamino de’ Liguori, Giovanni Devastato, Giusy Moriggi, Ezio Ritrovato e Valerio Varini. È vero che nei decenni a cavallo fra ‘800 e ‘900 gli esempi, alcuni dei quali per altro ben noti, si contano ancora sulle dita di due mani, ma probabilmente altri ne potrebbero emergere con ulteriori ricerche, sebbene non sempre le fonti di archivio, soprattutto per le imprese più piccole e per il Mezzogiorno, ci consentono di farlo. Imprenditori come Rossi, Marzotto, Crespi o come i Visconti di Modrone, per citare solo alcuni nomi fra i più noti e studiati, erano comunque un’eccezione rispetto alla regola. Imprenditori illuminati in grado di pensare le loro aziende come una comunità che non si limitava alle mura della fabbrica, ma includeva case, scuole, biblioteche, strutture sanitarie e dopolavoristiche.
La maggior parte di questi primi straordinari esempi di sensibilità sociale si ritrovano in area padana, in Veneto, Lombardia e Piemonte, ma non mancano neanche nelle regioni dell’Italia centrale e nel Mezzogiorno, sebbene gli studi siano ancora pochi per le ragioni accennate in precedenza. Nelle regioni della nostra penisola dove più diffusa era, già al volgere dell’800, l’affermazione delle manifatture accentrate di più grandi dimensioni e con un maggior numero di lavoratori, ovviamente il problema di un welfare aziendale emerse prima e con maggiore forza. Come osserva Valerio Varini nel suo contributo in questa rivista, le ragioni fondanti di questo primo welfare aziendale vanno tuttavia “principalmente ricercate nella necessità di garantirsi una manodopera di fiducia, stabile, addestrata, dedita al lavoro tanto da spingere gli imprenditori a promuovere comunità incentrate sull’impresa in cui una migliore qualità della vita degli operai facesse da contraltare al loro impegno quotidiano”. E anche Giusy Moriggi nei suoi sintetici ma incisivi medaglioni di “Italiani fuori dagli schemi”, pur enfatizzando l’attenzione degli imprenditori nei confronti del benessere dei lavoratori e i loro non pochi slanci idealistici verso una maggiore equità sociale, ammette che non sempre la loro azione era totalmente disinteressata.
La nostra valutazione dell’impegno sociale degli imprenditori in prospettiva storica è complicata, tra l’altro, dal fatto che il tema ha ricevuto minore attenzione rispetto ad altri aspetti della storia dell’impresa (quali ad esempio le sue performance, il cambiamento tecnologico, l’organizzazione del lavoro, etc.). Nell’ultimo decennio, tuttavia, gli studi e le riflessioni si sono moltiplicati, nonostante l’approfondimento di questi temi sia reso difficile per i periodi più lontani dalla scarsità di archivi aziendali e, più in generale, di fonti “quantitative”, che ci possano aiutare a ricostruire queste vicende e, aldilà delle dichiarazioni di intenti, valutarne l’effettivo impatto sulla qualità della vita dei lavoratori, e soprattutto se si vogliono indagare le realtà industriali di più ridotte dimensioni. L’impegno sociale dell’impresa nel passato finisce così per coincidere con l’impegno sociale degli imprenditori che l’hanno animata e diretta. Dato che molte delle imprese italiane erano - e sono - di proprietà familiare, studiare gli “atti di liberalità” dell’imprenditore verso i suoi lavoratori, come osserva Ezio Ritrovato per il caso pugliese, è comunque una valida alternativa, anche se ha rischiato di condizionare il nostro giudizio in materia. Da questa prospettiva è quasi inevitabilmente cogliere un “paternalismo” aziendale, che rischia di evidenziare solo quegli aspetti, non sempre virtuosi, dell’azione di questi precursori. Ma è comunque nelle storie di questi uomini, delle loro famiglie, delle loro “avventure” imprenditoriali avviate alla fine dell’Ottocento e continuate nei decenni successivi, che vanno inquadrate, una buona parte delle iniziative di welfare aziendale raccontate in questo numero della rivista. Molte di esse riguardano l’industria tessile, che fu la prima a svilupparsi in grandi fabbriche meccanizzate, ma anche l’industria meccanica (il caso di Olivetti ne è indubbiamente l’esempio più alto, ma la stessa FIAT fu molto attenta al welfare dei suoi lavoratori e delle loro famiglie) e gli altri settori moderni del nostro panorama industriale contribuiscono con esempi significativi di imprenditori illuminati. Emergono dalle ricostruzioni qui proposte personaggi umanamente, prima ancora che professionalmente, fuori dal coro, caratterizzati molto spesso da un percorso di crescita formativa arricchito da esperienze all’estero (si pensi al caso di Giovan Battista Pirelli o di Adriano Olivetti) e che manifestano una consapevolezza, seppur embrionale soprattutto se pensiamo a quelli ottocenteschi, del ruolo sociale dell’impresa.
In che misura questi imprenditori siano stati dei precursori della nuova sensibilità sociale che si sarebbe affermata, a seconda dei casi che consideriamo, quasi un secolo dopo rispetto a quando essi cercavano di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei loro dipendenti o di coloro che erano stati loro affidati (due dei personaggi scelti dalla Moriggi erano direttori di carceri), è più difficile da capire. Nei fatti si trattava di uomini che cercavano di perseguire il risultato di impresa coniugandolo, più o meno consapevolmente, con il benessere delle comunità in cui operavano e dei loro operai, richiamandosi nel farlo a forme di responsabilità sociale ma anche alla loro fede religiosa.
E le realizzazioni di case, centri ricreativi, ospedali, colonie estive restano oggi a ricordarci l’attenzione posta alla centralità della persona, e a volte descrivono meglio delle parole l’evolversi del concetto stesso di welfare nel nostro paese. Chi studia i manufatti che sono espressione del sorgere e consolidarsi nell’arco del secolo scorso del welfare aziendale e che caratterizzano ancora oggi tanta parte del paesaggio urbano delle nostre città, ci ricorda infatti come la stessa progettazione della fabbrica cambi nel tempo, assecondando e in alcuni casi anticipando questa presa di coscienza dell’importanza del benessere dei lavoratori. Se a fine ‘800 gli architetti sono ancora soprattutto attenti agli aspetti igienico-sanitari degli ambienti di lavoro, riflettendo nella fabbrica la lettura prevalente su quelle che in quel periodo dovevano essere le caratteristiche della città ideale, progressivamente la loro attenzione si sposta all’esterno delle strutture produttive, iniziando a recepire istanze più ampie, sollecitati probabilmente proprio dalle richieste degli imprenditori loro committenti. Negli anni Trenta del secolo scorso i manuali di progettazione iniziano a proporre agli industriali italiani delle precise regole da seguire nella costruzione delle loro fabbriche. Come ben ricostruisce Roberto Parisi in un suo saggio di alcuni anni fa, l’architettura industriale doveva utilizzare i principi dell’organizzazione scientifica e razionale del lavoro per plasmare l’ambiente fisico e culturale di una comunità. Felicità e benessere erano perseguibili applicando i concetti di standard, lavorazione in serie e funzionalità non più solo allo spazio della fabbrica, ma alla casa dell’operaio e dell’impiegato, alla loro educazione e al loro divertimento. Per infondere «l’orgoglio di appartenere a una famiglia industriale» era necessario costruire un’immagine «totalitaria» dell’azienda ed «esteticamente inconfondibile, dalla fabbrica all’ufficio di vendita, dal prodotto alla casa degli operai, dal banco di lavoro alla vetrina pubblicitaria» (Parisi, 2017, pp. 21-22)
E questo modo di pensare la fabbrica, l’impresa, il ruolo civile dell’imprenditore ci porta inevitabilmente ad Adriano Olivetti e alla sua concezione della fabbrica non solo come investimento produttivo, ma come progetto culturale e sociale. Ad Olivetti, che più di altri incarna il precursore dell’impresa sociale come progetto ideale di azione comunitaria, non a caso è dedicato in questo numero il contributo di Gianluca Salvatori e Beniamino de’ Liguori Carino, ma all’imprenditore canavese fanno inevitabilmente riferimento anche tutti gli altri autori. L’ideale olivettiano con il suo innovativo mutamento dei modelli di produzione, ma anche e soprattutto con l’introduzione di meccanismi di tutela e sostegno (non solo materiale) dei lavoratori, delle lavoratrici e delle loro famiglie veniva a configurarsi, ben prima dello sviluppo del Welfare State come l’avremmo conosciuto nei decenni successivi, come un modello di azione imprenditoriale difficilmente riscontrabile in quegli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale. Un modello che partiva dall’innovazione industriale (di prodotto, di sistema, di organizzazione) per costruire una fruizione culturale dedicata ai lavoratori; che riteneva che una rete di relazioni sociali fossero indispensabili per la preparazione di una nuova classe dirigente e che nella sua visione di comunità integrata includeva la pianificazione urbanistica, la cura del design e dell’estetica delle sue fabbriche e delle realtà in cui esse erano inserite.
Per chiudere queste brevi note voglio perciò utilizzare una frase di Olivetti che mi pare ben esprima in sintesi non solo il file rouge di questo numero della rivista, ma anche il progetto che è alle spalle de “L’Impresa sociale”. Scriveva Olivetti nel 1946: «La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall'importanza, dall'adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in cui è esaltato e protetto tutto ciò che serve alla cultura e in una parola all'elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi. La marcia inesorabile verso il massimo profitto, salvo poche eccezioni, è ancora la regola più evidente della nostra economia». Questa riflessione vale ancora a distanza di più di mezzo secolo, e in un momento in cui la crisi del Welfare State mette in discussione molte delle garanzie a cui ci eravamo abituati, l’affermarsi di un sistema di imprese sociali potrebbe almeno in parte fornirci soluzioni alternative nella costruzione di una economia e di una società più etiche.
DOI: 10.7425/IS.2023.02.08
BIBLIOGRAFIA
Battilani P., Conca Messina S.; Varini V., a cura di (2017), Il welfare aziendale in Italia fra identità e immagine pubblica dell’impresa. Una prospettiva storica, Bologna, Il Mulino 2017.
Ciuffetti A., Trisoglio, F., Varini V., a cura di (2017), Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze, Milano Egea.
Olivetti A. (2013), Il mondo che nasce. Dieci scritti per la cultura, la politica, la società, a cura di A. Saibene, Roma, Edizioni di Comunità.
Parisi, R. (2017), Architettura e welfare aziendale nell’Italia della prima Repubblica (1946-1992), in Ciuffetti A., Trisoglio, F., Varini V. (a cura di), Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze, Milano Egea.
Trezzi L., Varini V., a cura di (2012), Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori fra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati.
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