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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-1-2023-si-vive-una-volta-sola-l-impresa-sociale-alla-prova-della-great-resignation

Numero 1 / 2023

Saggi

"Si vive una volta sola". L'impresa sociale alla prova della Great Resignation

Roberto Santoro

Abstract[1]

Il paper presenta i risultati di un lavoro di ricerca teorica che prende avvio dalla definizione istituzionale di impresa sociale proposta da recenti lavori in letteratura e intende far dialogare il tema delle culture organizzative con la recente propensione di lavoratrici e lavoratori a lasciare esperienze professionali che non vengono più riconosciute come “dotate di senso”. La riflessione muove dalla constatazione che è rilevante il numero di coloro che abbandonano le organizzazioni di lavoro anche in presenza di contratti di assunzione a tempo indeterminato. È il fenomeno della Great Resignation, la cui onda raggiunge in questo periodo il nostro Paese. La ricerca sulle motivazioni che guidano queste decisioni colloca al primo posto tra i fattori una “cultura d’impresa tossica”, articolata in una profonda mancanza di promozione della diversità, dell’equità e dell’inclusione, una mancanza di rispetto dei lavoratori e delle lavoratrici dell’impresa e comportamenti non etici. Sono aspetti che contribuiscono alla “mancanza di senso” nel proprio lavoro. La letteratura scientifica ha individuato nel tempo alcuni costrutti fondamentali nelle organizzazioni di lavoro: tra questi risulta centrale il concetto di sensemaking, a cui oggi lavoratrici e lavoratori sembrano non voler rinunciare anche a costo del posto fisso.

Proprio istanze di ricerca di senso sembrano trovare nell’impresa sociale una forma imprenditoriale predisposta a costruirle, un terreno, almeno dal punto di vista istituzionale, adatto per costruire quella mindfulness di cui sono alla ricerca lavoratrici e lavoratori oggi. Focus fondamentale è la dimensione del governo dell’impresa sociale: mai come oggi, dentro l’esperienza della pandemia, diviene fondamentale la costruzione di imprese come comunità, costituite da donne e uomini ingaggiati in un lavoro che attribuisce in qualche modo senso alla loro esistenza. E ancora una volta l’impresa sociale sembra presentarsi, almeno a livello teorico, come l’ecosistema imprenditoriale privilegiato per la capacità di includere ciascuna lavoratrice e lavoratore nelle scelte strategiche e produrre quella dimensione di “work life balance”, oggi fortemente ricercata da chi si affaccia al mondo del lavoro.

Keywords: great resignation, cultura aziendale, sensemaking, governance, work life balance

DOI: 10.7425/IS.2023.01.07

Introduzione

Questo lavoro di ricerca teorica si sviluppa a partire dall’analisi di un recente fenomeno che caratterizza il mercato del lavoro e che, originandosi negli Stati Uniti ad inizio del 2021, è progressivamente giunto nel nostro Paese, assumendo tratti in parte simili, ma presentando allo stesso tempo specificità legate a caratteristiche proprie del nostro ecosistema imprenditoriale: il tema prende il nome di Great Resignation, meno frequentemente di Great Attrition.

La ricerca scientifica ha iniziato di recente ad affrontare il tema, almeno in parte connesso con la condizione emergenziale che si è diffusa a partire dal marzo 2020 a causa della pandemia da COVID-19: si tratta di un numero ancora non elevato di ricerche che appartengono però a differenti campi di studio, rendendo il tema un interessante terreno di possibile confronto interdisciplinare.

Questo paper presenta le caratteristiche salienti del fenomeno come emergono dalla letteratura e le pone in dialogo con gli elementi costitutivi fondamentali dell’impresa sociale in quanto istituto specifico, al fine di comprendere come questa particolare forma di impresa possa rappresentare, almeno a livello teorico, partendo dalla sua stessa natura, un potenziale argine a salvaguardia di un solido rapporto tra l’impresa e lavoratrici e lavoratori. In particolare, viene affrontato il tema delle caratteristiche del governo dell’impresa sociale come strumento privilegiato per un costruttivo lavoro di “sensemaking”, di cui oggi donne e uomini al lavoro sembrano essere alla disperata ricerca.

Il fenomeno della Great Resignation

Un recente articolo comparso sul sito di una autorevole rivista di management del Massachusetts Institute of Technology constata che all’inizio del 2021 “oltre il 40% di tutti i dipendenti stanno pensando di lasciare il proprio lavoro[2]. Secondo un’indagine riportata dagli autori e riconducibile al U.S. Bureau of Labor Statistics, tra i mesi di aprile e settembre dello stesso anno quel pensiero fu portato a compimento da oltre 24 milioni di dipendenti americani, dato segnalato come record, mai realizzato in passato. Rilevante risulta il numero di lavoratrici e lavoratori che abbandonano le organizzazioni datoriali anche in presenza di contratti di assunzione a tempo indeterminato. Gli autori del paper denominano il fenomeno Great Resignation e lo analizzano in relazione alla tipologia di azienda e di prodotto. È interessante, ai fini del nostro studio, sottolineare quattro elementi che emergono dall’indagine e che riconoscono altrettante possibili cause di questo abbandono.

Un primo elemento evidenzia che aziende dotate di una reputazione che attribuisce loro una “sana cultura aziendale” hanno registrato nel periodo indicato un turnover di personale inferiore alla media del complessivo campione studiato. Gli autori della ricerca definiscono d’altra parte in modo esplicito gli elementi di una cultura aziendale tossica: mancata promozione della diversità, dell'equità e dell'inclusione, una sensazione di mancanza di rispetto verso i lavoratori e un comportamento non etico.

Un secondo elemento evidenzia dati in contro tendenza rispetto a percezioni di senso comune: indicatori che collegano soddisfazione/insoddisfazione dei dipendenti al valore economico dei salari compaiono piuttosto in basso, non prima del sedicesimo posto, nella scala dei predittori di logoramento dei rapporti tra gli stessi dipendenti e le aziende. Molto interessante risulta il fattore moltiplicativo che lega cultura aziendale e salari: la prima risulta 10,4 volte più predittiva nell’evidenziare rischio di turnover rispetto alla condizione salariale.

Un terzo elemento è ricondotto alla scarsa capacità che hanno le organizzazioni di lavoro nel riconoscere le prestazioni dei propri dipendenti e nel premiarle, non necessariamente attraverso compensi monetari, ma in ogni forma in grado di distinguere fra dipendenti performanti e non.

Infine, i dipendenti coinvolti nei processi di abbandono dell’azienda evidenziano in modo significativo i temi della safety e della security: a partire dalla reazione delle diverse organizzazioni alla pandemia da Covid-19, i lavoratori si allontanano maggiormente dalle aziende che hanno insufficienti politiche per tutelare sicurezza del lavoro, salute e benessere.

Il fenomeno delle grandi dimissioni in Italia ha numeri proporzionalmente rilevanti. Una recentissima indagine della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro del Consiglio Nazionale dell’ordine, elaborata a partire dai dati delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha quantificato per i primi nove mesi del 2021 in “1 milione e 81 mila i lavoratori interessati da almeno una cessazione volontaria del rapporto di lavoro, per cause diverse dal pensionamento: un valore cresciuto del 13,8% rispetto al 2019, quando il dato si attestava a quota 950 mila[3]. Il fenomeno deve e dovrà essere indagato con elevata attenzione perché contiene in sé elementi ciclici del mercato del lavoro, come la crescita di mobilità legata al rapido sviluppo di alcuni settori (in questo periodo l’edilizia in primis, come reazione alle politiche di incentivazione in atto). Due elementi sono però rilevanti se interpretati nel quadro di un mercato del lavoro italiano che è storicamente rigido, non favorisce la mobilità occupazionale, anche a causa di una offerta non alta e di dinamiche salariali poco interessanti: quasi la metà dei dipendenti dimessisi nel periodo indicato non risulta avere una nuova occupazione a fine del 2021, escludendo dunque in prima battuta dimissioni legate alla ricerca di un miglioramento delle condizioni occupazionali; inoltre l’analisi in dettaglio delle categorie maggiormente coinvolte nel fenomeno evidenzia che si tratta di quelle più difficilmente reimpiegabili in lavori a tempo indeterminato: professioni non qualificate, lavoratori che hanno oltre 55 anni di età, dipendenti donne; i dati riportano una permanenza in una condizioni di non occupazione lunga nel tempo dopo le dimissioni, confermando che non si tratta di un atto strettamente legate al cambio del proprio lavoro. Anche nel nostro Paese, almeno in parte, la scelta sembra essere collegata a quel fenomeno che negli Stati Uniti ha preso il nome di “Yolo Economy”: You only live once[4]. I dipendenti, giovani e meno giovani, cercano un nuovo equilibrio tra vita lavorativa e vita personale che al momento non sembrano trovare nelle organizzazioni di lavoro più tradizionali, in particolare in quelle meno attente alle molteplici facce della conciliazione.

Un’altra recentissima ricerca condotta dall’area studi Legacoop insieme alla società di ricerca economica Prometeia conferma che anche il nostro Paese è caratterizzato dal fenomeno[5]. Occupandosi di descrivere il mercato del lavoro italiano durante le fasi acute della pandemia e nei mesi successivi all’allentamento delle misure di distanziamento sociale e di ripresa delle attività, i ricercatori ritraggono diversi fenomeni che hanno caratterizzato molte economie, tra cui quella italiana: emerge “un aumento delle dimissioni, cui non sembra corrispondere un passaggio ad altra occupazione, quanto piuttosto un allontanamento permanente dal mercato del lavoro[6]. Le dimissioni volontarie, secondo le elaborazioni di Prometeia a partire da dati INPS passano nei primi mesi del 2021 ad una media del 29,8% sulle cessazioni totali dei rapporti di lavoro, rispetto al 24% che era il dato stabile degli anni 2019 e 2020. Analizzando il solo dato delle dimissioni volontarie in periodi omogenei il report sintetico della ricerca evidenzia che nei mesi gennaio-settembre 2020 le dimissioni sono diminuite del 19,1% rispetto allo stesso intervallo del 2019, mentre nel periodo gennaio-settembre 2021 l’aumento rispetto allo stesso periodo del 2020 è stato del 31,6%: questi dati confermano che siamo in presenza di un numero di “dimissioni comunque superiori ai livelli medi pre-crisi”[7], dopo che il periodo di lockdown aveva ridotto significativamente la decisione di lasciare il lavoro.

È fondamentale, prima di procedere oltre, prevenire il più possibile errori di generalizzazione sul fenomeno descritto: in particolare occorre affiancare un paio di coordinate che legano le trasformazioni più recenti del mercato del lavoro all’emergenza sanitaria e ai conseguenti forti restringimenti nelle attività produttive sia manifatturiere che dei servizi. Un approfondito e recente lavoro presente in letteratura può aiutare in questo percorso[8]. L’impatto della crisi pandemica nel nostro Paese non è stato uniforme rispetto alle categorie di dipendenti e neppure in relazione alle aree geografiche: attraverso un’approfondita ricerca quantitativa, gli autori documentano l’incremento di uscita dal mercato del lavoro e lo spostamento in una condizione di inattività sulla base di parametri specifici come genere, gruppi di età e posizione geografica. I ricercatori riscontrano che il cambio di stato tra lavoro e inattività è consistente nel Nord e nel Centro Italia per donne intorno ai 30 anni con bambini piccoli. “Per valutare l'entità dello shock, nel terzo trimestre del 2020 le donne di età compresa tra i 30 e i 39 anni (40-49 anni) avevano una probabilità di transizione trimestrale dal lavoro temporaneo al NEET di circa il 25% (19%) rispetto al 10% previsto (12%) in assenza dello shock pandemico[9]. In valore assoluto significa che sono transitate da una condizione lavorativa ad una di inoccupazione circa 40.000 donne nella coorte 30-39 anni e circa 25.000 nella coorte 40-49 anni.

Seguendo un’ulteriore ricerca statunitense[10], che rielabora dati del Current Population Survey (CPS), possiamo riconoscere ulteriori aree di fragilità, su cui lockdown e pandemia hanno agito in modo più consistente rispetto alla complessiva popolazione dipendente: innanzitutto le “riduzioni dell'occupazione indotte dalla pandemia e i relativi aumenti dei tassi di uscita dall'occupazione e delle diminuzioni dei tassi di assunzione [sono] sproporzionatamente concentrati in posti di lavoro a basso salario[11]. Ancora, più nello specifico, gli autori identificano nei lavoratori più giovani, in quelli con meno istruzione, nelle minoranze razziali ed etniche (giovani lavoratori ispanici, nello specifico del contesto della ricerca) e nelle donne le categorie maggiormente colpite dalla trasformazione del mercato del lavoro intra e post pandemia. Anche in questo caso la ricerca conferma un dato intuitivo: la pandemia ha avuto l'effetto di esacerbare le disuguaglianze preesistenti.

Alla ricerca di un nuovo senso del lavoro

Queste note evidenziano come la pandemia abbia trasformato il mercato del lavoro, ma in realtà essa ha agito più in profondità, nella vita quotidiana di ciascuno ribaltando i comportamenti, le priorità, gli obiettivi, gli stessi modelli di produzione e consumo. Soprattutto, il periodo vissuto e non ancora completamente trascorso ha portato in primo piano per gli individui elementi quali la qualità della propria vita e del lavoro svolto e alcuni bisogni centrali che proprio attraverso il lavoro si aspettano possano essere realizzati: soddisfazione, autorealizzazione, crescita sociale e personale. Oggi sembra non essere più sufficiente l’impiego in un lavoro salariato a tempo pieno e indeterminato: piuttosto riemerge il tema del senso del lavoro, ovvero della ‘mancanza di senso’ che troppo spesso è attribuita ad attività che lavoratrici e lavoratori svolgono per una parte consistente del loro tempo di vita.

La società contemporanea globalizzata presenta una elevata complessità che coinvolge inevitabilmente la dimensione del lavorare. La scomposizione del lavoro in unità molto frammentate, la discontinuità nel tempo dei luoghi e delle esperienze lavorative, il legame con le organizzazioni di lavoro sempre più debole, la crisi della rappresentanza dei lavoratori, la frequente insostenibilità verso l’ecosistema complessivo, per citare solo alcune tra le più evidenti caratteristiche del lavorare oggi, rende la ricerca del senso del lavoro e del lavorare sempre più difficile e ambivalente. Inoltre, dopo il biennio appena trascorso, il lavoro appare sempre meno riconducibile a puro e semplice mezzo di sostentamento, a termine di un’inevitabile circuito ormai attivo senza soluzione di continuità: lavoro-salario-consumo. Donne e uomini di età differente non accettano più di ricondurre la propria esperienza lavorativa ad una pura azione di trasformazione di tempo in moneta da ributtare sul mercato nella forma dei consumi. È richiesta una più articolata e profonda attribuzione di significato: i soggetti al lavoro chiedono a gran voce di essere ingaggiati in organizzazioni che supportino, invece di ostacolarla, la loro ricerca di senso.

La pratica della “attribuire senso” all’esperienza che si sta vivendo, in particolare nel contesto della vita lavorativa e professionale è tutt’alto che estranea alla letteratura scientifica che si occupa di organizzazioni di lavoro. Individuato da diversi anni[12], il costrutto concettuale di “sensemaking” è ripreso di recente[13] in un contesto di ricerca solo apparentemente diverso e risulta sempre più centrale oggi. Secondo la definizione proposta dagli autori, l’azione concreta “indica la possibilità/necessità di attivare spazi di riflessione funzionali alla ricognizione ed elaborazione delle opacità, delle oscurità e dei chiaro-scuri connessi ai processi del concreto fare in azione. L’azione di costruzione di senso nel lavoro è proposta in contrasto alla stupidità organizzativa che, ricondotta al lavoro di Alvessone e Spicer[14], “ritrae la diffusa mancanza di riflessività, di giustificazione e di ragionamento sostanziale” tipica di molte organizzazioni di lavoro contemporanee, in specifico di quelle che lavoratrici e lavoratori lasciano consapevolmente.

L’impresa sociale: organizzazione “sense maker”?

Proprio istanze di ricerca di senso sembrano trovare nell’impresa sociale una forma imprenditoriale predisposta a realizzarle, un terreno istituzionalmente adatto per costruire quella mindfulness di cui sono alla ricerca lavoratrici e lavoratori oggi: questo concetto fa riferimento alla capacità di attingere a risorse individuali e collettive per fronteggiare la complessità dei contesti in cui si vive e si lavora e all’attivazione delle competenze di ciascuno e di tutti per operare in scenari mutevoli che possono essere un minimo governati solo con l’apporto di conoscenze e competenze di ogni lavoratrice e lavoratore coinvolto[15].

Il riferimento specifico che interessa evidenziare è alla dimensione dell’impresa sociale che ne definisce le forme proprietarie e le modalità di governo[16]: questa forma imprenditoriale si caratterizza come un’azione collettiva e condivisa, promossa da cittadini, in un contesto almeno inizialmente circoscritto. Gli organi di governo dell’impresa sociale coinvolgono diversi “portatori di interesse”, tra cui, non unici, si collocano certamente lavoratici e lavoratori dell’impresa: insieme i differenti stakeholders indirizzano l’azione imprenditoriale attraverso processi di negoziazione e co-costruzione di strategie. Un primo elemento fondamentale in questa direzione emerge dalla letteratura scientifica che a partire dai primi anni 2000 ha analizzato la centralità della lavoratrice e del lavoratore nell’impresa sociale. Seguendo gli studi di Borzaga, ricordiamo che la figura del lavoratore nell’impresa sociale è centrale almeno per quattro motivi: “garantisce la qualità dell’output organizzativo, garantisce la continuità della produzione, è produttore di capitale sociale ed è produttore di beni relazionali[17]. Queste dimensioni sono strettamente connesse con il profilo sociale della stessa impresa sociale, differenziandola dall’impresa for-profit, e richiamano la necessità per la stessa di ancorare la propria azione alla motivazione intrinseca del personale che in essa opera: motivazione, per altro, che si costruisce in modo più articolato rispetto ad altre organizzazioni di lavoro, superando quelle che sono legate esclusivamente al proprio benessere e alla propria persona e tenendo in conto il benessere di altri soggetti e motivazioni di processo. Nel momento in cui si trattano beni relazioni, l’attenzione alla qualità della vita di chi si adopera quotidianamente per produrli diventa un vero e proprio vantaggio competitivo.

Un ulteriore elemento verso la dimensione di “sense making” dell’impresa sociale, operante nella direzione di una maggiore “equità percepita” dalle lavoratrici e dai lavoratori è rappresentato dal vincolo costitutivo della limitata distribuibilità degli utili dell’attività. Riconnettendo il governo di questa forma di azione imprenditoriale alla sua dimensione sociale, ovvero alla realizzazione di prodotti e servizi riconosciuti come di interesse generale per la comunità in cui è collocata l’impresa, il vincolo espresso impedisce che il profitto diventi l’obiettivo centrale della proprietà e offuschi con il tempo proprio la ricerca del maggiore interesse generale. Come riportato dagli autori dello studio citato poco sopra, l’attenzione al contenimento della distribuzione degli utili, ‘sia durante la vita delle organizzazioni che in caso di scioglimento, è contemperata dalla forte dimensione inclusiva, che si sostanzia nel coinvolgimento dei diversi portatori di interesse e in una gestione rigorosamente democratica dei processi decisionali’[18].

Questi aspetti costitutivi dell’impresa sociale ci paiono dirompenti nel quadro dell’economia del capitalismo tecno-nichilista contemporaneo[19] e, almeno a livello di istituto teorico, fondamentali per arginare proprio quegli elementi che sembrano essere alla base delle grandi dimissioni, operando ex ante sui fattori maggiormente predittivi dell’abbandono di lavoratrici e lavoratori.

L’impresa sociale rappresenta innanzitutto un eccellente argine alla “cultura organizzativa tossica”. Come già esplicitato, questa si esprime come mancata promozione della diversità, dell'equità e dell'inclusione, mancanza di rispetto verso i lavoratori e comportamento non etico. Proprio l’opposto di questi elementi è ciò che definisce questo tipo di organizzazione, fin dalla sua istituzione giuridica ed economica. Molto prima dell’ingresso nelle aziende profit di figure come il diversity manager, la dimensione multistakeholder permette alle imprese sociali di organizzarsi attorno alla diversità e all’inclusione: degli utenti, dei lavoratori che sono spesso soci dell’impresa e di altri portatori di interesse più o meno diversificati. Si avvicinano all’impresa sociale soggetti diversi che concorrono a costituire una complessiva figura di imprenditore focalizzato sull’interesse generale e non sulla massimizzazione del proprio profitto, quindi non interessato ad operazioni di dumping sociale o ambientale, quanto piuttosto a costruire un ecosistema locale sano e capace di sostenere l’attività dell’impresa. I lavoratori poi, nella loro veste giuridica di dipendenti o di soci dell’impresa, partecipano direttamente alla costruzione della cultura organizzativa, che si sviluppa negli organi di governo attraverso il confronto, anche il conflitto a volte, che viene però ricomposto proprio nel nome del maggiore interesse generale che sancisce l’esistenza stessa delle attività dell’impresa. L’eticità e la coerenza della vita dell’impresa sociale è, infine, ciò che ne determina l’esistenza stessa. L’ecosistema locale esercita un costante controllo sull’impresa sociale. Si pensi ad esempio alla presenza di volontari o alla rete dei fornitori spesso ‘a chilometro zero’: ogni comportamento non etico verrebbe conosciuto e sanzionato con rapidità, estromettendo l’impresa dal suo contesto e decretandone in qualche modo la probabile fine.

Il secondo aspetto concerne la dimensione retributiva, che, come descritto sopra, contro intuitivamente non è considerata dagli stessi lavoratori come causa principale dell’allontanamento dall’impresa. Le politiche retributive e la contrattualizzazione nelle imprese sociali sono spesso fragili, legate alla bassa marginalità che hanno servizi e prodotti erogati. Molto interessanti a questo proposito, anche per complessificare un ragionamento diffuso, ma spesso non supportato da dati empirici, risulta essere il confronto con il working paper preparatorio al testo di Borzaga (2000)[20]: un’ampia analisi dei livelli salariali di chi lavora nell’impresa sociale evidenzia trattamenti certamente inferiori rispetto alle lavoratrici e ai lavoratori degli enti pubblici, ma piuttosto in linea con enti privati e altre organizzazioni pubbliche. La consapevolezza della fragilità salariale ha in ogni caso permesso di istituire nel tempo forme di compensazione, che, pur non negando la necessità di rafforzare contratti e salari, hanno in qualche modo sostenuto lavoratrici e lavoratori: si pensi alla formazione continua, ben sostenuta dalle imprese sociali e fondamentale in un mondo come quello contemporaneo, in cui le conoscenze hanno rapida obsolescenza; si considerino inoltre gli stessi meccanismi partecipativi di governo dell’impresa, che la rendono entità che lavoratrici e lavoratori sentono propria e non estranea. A questo proposito, le ricerche quantitative svolte nella cooperazione sociale hanno evidenziato nel tempo che nonostante un quadro contrattuale e salariale non floridissimo, la soddisfazione percepita e riportata dalle lavoratrici e dai lavoratori per il lavoro svolto è nella maggior parte dei casi elevata. Un buon clima di lavoro, costruito su relazioni di vicinanza e spesso di amicizia con i colleghi e la possibilità di organizzare il proprio lavoro con un discreto margine di autonomia compensano, almeno in parte e per qualcuno, i limiti nei salari[21].

La stessa trasparenza gestionale che si realizza in primis con la condivisione e l’approvazione assembleare del bilancio di esercizio, almeno per quella parte di lavoratori che diventano soci, permette di avere coscienza della natura e dell’impiego delle risorse e colloca l’impresa sociale ben lontana dalle aziende profit, votate al contenimento dei costi, tra cui quello del personale, in vista del maggior utile possibile. L’impresa sociale sembra ancora una volta essere l’istituto economico che “in potenza” meglio può realizzare quella visione di azienda in cui il personale non sia sacrificabile come costo fra i costi. Il confronto con la dimensione di mercato richiede a questo proposito una precisazione: alla base dell’attività non può che esserci un criterio di efficienza interna, riscontrabile innanzitutto nel rispetto del criterio di economicità dell’attività, volta a garantirne la durata nel tempo. Una struttura economico-finanziaria fragile è priva di qualsiasi attrattiva per nuovi soci lavoratori o per dipendenti, anche per quelli disponibili a sacrificare parte del salario a favore di un lavoro dalle motivazioni pregnanti. La questione diventa molto significativa soprattutto quando l’impresa sociale vuole trattenere lavoratici e lavoratori professionalmente maturi, con impegni familiari in atto o in progetto, che non possono reggere salari sotto una soglia minima.

Un terzo elemento concerne la valorizzazione dei singoli lavoratori, attraverso processi di differenziazione e di premialità, non necessariamente economica. Pur non escludendo a priori processi di gestione attraverso obiettivi il cui raggiungimento può portare a specifici riconoscimenti di natura economica o ad una qualche forma di carriera professionale, è la stessa natura partecipativa dell’impresa sociale a costituire una interessante forma per la valorizzazione degli individui. Ancora, le ricerche evidenziano una pluralità di significati relativi all’incentivazione dei lavoratori nei contesti non profit[22]. La modalità di ingaggio nell’attività e nel governo dell’impresa può essere varia, può coinvolgere in modo molto differente il lavoratore, che in qualche forma può riconoscersi anche solo come dipendente, svolgere con correttezza il proprio incarico nel proprio orario di lavoro e nulla più. Molto più frequentemente però, soprattutto con la permanenza nel tempo, organizzazioni di questo tipo realizzano davvero il proprio mandato formale, divenendo sempre più organizzazioni di “proprietà collettiva” dei portatori di interesse. Questo permette ai lavoratori stessi di differenziarsi e riconoscersi attraverso molteplici gradi di appartenenza all’impresa: quest’ultima, pur non negando l’appartenenza “debole” tende a costruirsi attorno ad un nucleo forte, maggiormente propenso ad incarnare la storia e la cultura organizzativa.

Infine anche considerando il rapporto tra pandemia e grandi dimissioni, l’impresa sociale si distingue come modello virtuoso. I dati che emergono da una recente e ampia ricerca qualitativa mostrano come queste imprese abbiano saputo fronteggiare proattivamente l’emergenza pandemica, non solo resistendo passivamente, ma riuscendo a trasformare attività e servizi[23]. Il primo passo evidenziato è stato quello di riprogrammare in sicurezza le attività svolte. Questa attenzione ha tenuto insieme le esigenze degli utenti dei servizi, in primis quelli più fragili, e del personale dell’impresa, che ha potuto continuare, nel limite del possibile, le attività in sicurezza, contenendo la perdita del proprio reddito. Inoltre, il forte radicamento territoriale di questa tipologia di attività imprenditoriali ha permesso l’individuazione di nuovi bisogni collegati all’emergenza sanitaria e la rapidità di reazione organizzativa che le caratterizza ha consentito la realizzazione di nuovi servizi, fondamentali durante il lockdown e in tutto il periodo pandemico soprattutto per le aree più fragili della popolazione: anziani, bambini e adolescenti, disabili. Fattore non meno importante è stata la capacità di sostenere il proprio personale anche dal punto di vista economico-finanziario: la solidità patrimoniale delle imprese sociali ha consentito l’anticipo delle integrazioni salariali statali, permettendo al personale di ricevere subito il salario completo anche durante l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, agendo così sulla motivazione a sull’adesione alla propria impresa.

Governance inclusiva

Un focus fondamentale nel quadro delineato è rappresentato dalla dimensione della governance dell’impresa sociale: l’esperienza della pandemia accompagnata dal fenomeno ancora opaco e contradditorio dello smartworking ha assestato un colpo decisivo alla già da tempo teorizzata crisi dell’impresa come insieme organizzato di risorse umane guidata da gerarchie individuali ed “eroiche”. Si conferma all’opposto fondamentale la costruzione di imprese come comunità[24], costituite da donne e uomini ingaggiati in esperienze professionali che attribuiscono in qualche modo senso alla loro esistenza. Si tratta di contesti organizzati in cui chi si assume un compito di guida esercita un “buon potere aziendale”, quello in grado di portare l’impresa verso uno sviluppo integrale “ovvero nell’armoniosa combinazione fra innovazione nei processi di produzione, sostenibilità nell’uso delle risorse naturali a fini economici e rispetto della persona considerata sia promotore di iniziative economiche che utilizzatore di beni e servizi per il soddisfacimento dei propri bisogni biologici e spirituali[25]. E per procedere in questa direzione è necessario trovare un adeguato equilibrio fra libertà e responsabilità, sia a livello del singolo individuo che in riferimento all’impresa come collettività organizzata: la libertà dell’intraprendere, anche seguendo vie inedite di fronte a situazioni sconosciute e non codificate e la responsabilità di co-costruire il significato di quanto avviene, in condivisione con gli altri attori dell’impresa. A coloro i quali è affidato prioritariamente il governo dell’impresa spetta in primis questa azione di equilibrio, che non può però essere esercitata, metaforicamente, nella stanza dei bottoni, ma nell’agorà multistakeholder rappresentata dall’impresa.

L’impresa sociale sembra presentarsi come l’ecosistema imprenditoriale privilegiato per la capacità di includere ciascuna lavoratrice e lavoratore nelle scelte strategiche e nel produrre quella dimensione di work life balance, oggi fortemente ricercata da chi si affaccia al mondo del lavoro. Questo concetto viene accostato al tema più complessivo della sostenibilità, declinato, per quanto concerne il mondo del lavoro, attraverso il tema del rispetto della persona e del riconoscimento delle unicità, del rispetto dell’equilibrio fra produzione di beni e servizi ed ecocompatibilità, della conciliazione dei tempi della vita quotidiana.

Emerge con forza dalla letteratura scientifica che si occupa di governance d’impresa che è intenso il legame tra i meccanismi di governo adottati e i risultati raggiunti e nello specifico quanto sia “importante adottare forme di governance inclusiva in particolare proprio quando si affrontano problemi complessi e situazioni di asimmetria informativa[26]. Non solo: gli studiosi sottolineano l’insufficienza di una governance inclusiva se non viene tradotta in processi organizzativi ed effettivi dispositivi di partecipazione e di empowerment di tutti i soci e i lavoratori dell’impresa sociale. Un primo livello concerne direttamente la composizione degli organi dove si prendono le decisioni strategiche, di indirizzo e di controllo; i documenti fondativi dell’impresa sociale, statuto e regolamenti per citarne tra i principali, devono prevedere effettivamente una governance multistakeholder, permettendo l’accesso agli organi di diversi soggetti: soci, lavoratrici e lavoratori, utenti e loro famiglie, comunità locali in senso lato. Ma più nello specifico, seguendo ancora la ricca letteratura di settore e i ricercatori che l’hanno sistematizzata[27], è fondamentale recuperare il concetto di approccio umanistico all’impresa, come modalità che pone al centro le profonde relazioni tra le donne e gli uomini che popolano l’ecosistema imprenditoriale sociale. Lavoratrici e lavoratori non sono necessariamente e aprioristicamente controparte dell’imprenditore, come avviene nelle interpretazioni più classiche dell’attività di impresa profit: crescono in relazione costante tra loro e contestualmente concorrono alla crescita dell’impresa sociale e della comunità di riferimento. Soprattutto essi stessi partecipano collettivamente alla ricerca di soluzioni ai problemi che di volta in volta l’impresa deve affrontare: modalità privilegiata, come già detto, se non forse unica, per poter affrontare problemi complessi in società complesse.

Se guardiamo con realismo al contesto economico attuale, può risultare piuttosto evidente la presenza di una componente utopica nella piena realizzazione dell’impresa sociale come descritta precedentemente. Innanzitutto, rimandiamo ancora alla importante ricerca citata per l’analisi di esperienze che realizzano concretamente, “nel mercato”, quanto su enunciato. In secondo luogo, in qualità a nostra volta di umanisti che lavorano nel – e studiano il – Terzo Settore, assumiamo appieno questa dimensione utopistica nell’accezione proposta dallo studioso di organizzazioni Bruno Rossi, nel momento in cui afferma che: “All’utopia è […] da guardare come alla forza generatrice e alimentatrice di ogni serio progetto di innovazione organizzativa dal chiaro quanto marcato contrassegno pedagogico, il quale non può […] non configurare un’esistenza professionale diversa in nome di ideali forti degni di essere perseguiti per la riumanizzazione dell’uomo […] in nome di valori e significati in grado di renderla non tanto sopportabile quanto desiderabile e apprezzabile[28].

Conclusioni

Le imprese sociali sembrano essere per loro stessa definizione giuridica e natura istituzionale entità imprenditoriali potenzialmente capaci di sostenere, attraverso culture organizzative “sane”, il desiderio di riempire di senso il lavoro: questa sembra essere la via principale per arginare la tendenza in atto da parte di lavoratrici e lavoratori di abbandonare l’azienda anche in assenza di altra prospettiva lavorativa. Contribuire individualmente alla co-costruzione della cultura aziendale, nel rispetto dei ruoli e delle specificità tecnico-professionali, ma con una reale “agentività” ben armonizzata nel governo complessivo, avvicina lavoratrici e lavoratori all’impresa; alimentare la relazione quotidiana tra i lavoratori e con altri portatori di interesse motivati in luoghi e contesti ben strutturati (assemblee, gruppi di studio e ricerca, team di progetti innovativi, a titolo di esempio) attribuisce senso ad una attività che assorbe un tempo e energie molto significative nella vita degli individui. E, come si è cercato di attestare attraverso il percorso fatto, i recenti avvenimenti globali sembrano aver radicalmente riposizionato bisogni e aspettative delle persone anche e forse soprattutto nei contesti lavorativi: una sfida questa che l’impresa sociale ha potenzialmente tutte le carte in regola per cogliere e affrontare positivamente.

I fondamenti istituzionali che contribuiscono a costruire il quadro culturale delle imprese sociali rappresentano una potenzialità: i contesti reali costituiscono allo stesso tempo un terreno di prova fondamentale per abbandonare la “forma” di una istituzione sociale e lasciarsi ingaggiare da come questa si incarna in esperienze reali di impresa, alle prese con lavoratrici e lavoratori concreti e in ambienti molteplici e ambivalenti. Chi agisce ruoli di responsabilità all’interno delle imprese sociali, almeno in quelle che operano in ambito assistenziale ed educativo, ha oggi chiara consapevolezza di alcune rilevanti criticità, prima fra tutte quella di reperire e trattenere personale qualificato, soprattutto tra le nuove coorti. Informalmente, i dirigenti delle imprese sociali evidenziano la scarsità di candidature per ricoprire ruoli professionali per cui oggi la domanda è elevata, in particolare educatrici ed educatori professionali. E anche quando i ruoli sono ricoperti, il turn over è elevato e le dimissioni avvengono spesso nel primo anno di contratto. Inoltre permane la difficoltà a costruire “carriere” professionali che accompagnino la lavoratrice e il lavoratore lungo tutto l’arco della vita lavorativa, ormai molto prolungata negli anni: conseguentemente nella realtà appare piuttosto difficile trattenere nel tempo professionalità mature e in crescita.

Emerge dunque la necessità di sottoporre i tratti teorici sopra evidenziati a percorsi di ricerca empirica sia di natura qualitativa, attraverso le storie di vita di chi nell’impresa sociale ha lavorato e lavora, sia quantitativa, misurando la reale capacità delle imprese sociali italiane di operare in controtendenza rispetto al fenomeno della Great Resignation, agendo “in situazione” la capacità di trattenere e motivare il proprio personale anche nel tempo.

Bibliografia

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Note

  1. ^ Una prima versione del presente lavoro è stata presentata al XVI Colloquio Scientifico sull’Impresa sociale e discussa all’interno della sessione ‘I tratti peculiari dell’essere impresa sociale’. Ringrazio i partecipanti alla sessione per il confronto e le riflessioni critiche, di cui ho cercato di far tesoro per questa successiva stesura.
  2. ^ Sull D., Sull C., Zweig B., (2022), Toxic Culture Is Driving the Great Resignation, “MIT Sloan Management Review”, 11 gennaio 2022, https://sloanreview.mit.edu/article/toxic-culture-is-driving-the-great-resignation/, ultimo accesso 19/12/2022.<
  3. ^ Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo approccio al lavoro, 18 febbraio 2022: https://www.consulentidellavoro.it/files/PDF/2022/FS/Indagine_dimissioni_volontarie.pdf
  4. ^ Roose K. (2021), After lockdown, A Yolo Economy, The New York Time, 2021-04-22.
  5. ^ Area Studi Legacoop e Prometeia (2022), Assunzioni e cessazioni: qualcosa si muove nel mercato del lavoro italiano, report realizzato nell’ambito del progetto di ricerca Monitor Fase 3, 13 gennaio 2022, https://www.legacoopemiliaromagna.coop/2022/notizie/report-area-studi-legacoop-prometeia/
  6. ^ Cit., p.2.
  7. ^ Cit., p.7.
  8. ^ Fiaschi D., Tealdi C., (2022), Scarring effects of the COVID-19 pandemic on the Italian labour market, arXiv:2202.13317v1, https://doi.org/10.48550/arXiv.2202.13317.
  9. ^ Cit., p. 20, trad. di chi scrive.
  10. ^ Cortes, G. M., Forsythe E. C., (2020), The Heterogeneous Labor Market Impacts of the COVID-19 Pandemic, Upjohn Institute Working Paper 20-327. Kalamazoo, MI: W.E. Upjohn Institute for Employment Research. https://doi.org/10.17848/wp20-327.
  11. ^ Cit., p. 3, trad. di chi scrive.
  12. ^ Weick K. (1997), Senso e significato nelle organizzazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  13. ^ Scaratti G., Poy S., (2021), Sviluppo delle competenze e politiche per l’occupabilità dei giovani. Buone pratiche da un caso studio, “Impresa Sociale”, 1/2021, pp. 82-91.
  14. ^ Alvesson M., Spicer A. (2017), Il paradosso della stupidità. Il potere e le trappole della stupidità nel mondo del lavoro, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  15. ^ Cfr. Scaratti G., Poy S., cit.
  16. ^ Galera G., Chiomento S., (2022), L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy, “Impresa Sociale”, 1/2022, pp. 82-91.
  17. ^ Borzaga C., (2006), Il mercato del lavoro nell’impresa sociale: motivazione e professionalità, relazione al Convegno di Forlì del 24 marzo 2006, materiale AICCON, http://95.110.164.5/elenazanella/wp-content/uploads/2014/09/il-mercato-del-lavoro-borzaga-aiccon-2006-1.pdf
  18. ^ Galera G., Chiomento S., (2022), cit., p. 29.
  19. ^ Magatti M. (2009), Libertà Immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano.
  20. ^ Borzaga (2000), Capitale umano e qualità del lavoro nei servizi sociali: un'analisi comparata tra modelli di gestione, Fondazione italiana per il volontariato, Roma, pp.9-11.
  21. ^ Depedri S., (2009), “Risorse umane e lavoratori: contrapposizioni e allinemento di obiettivi”, in Borzaga C., Zandonai F., Istituto di ricerche e interventi sociali, L’impresa sociale in Italia: economia e istituzioni dei beni comuni, Donzelli, Roma; Borzaga, Depedri, Tortia, (2011), “Organizational Variety in Market Economies and the Role of Co-operative and Social Enterprises: A Plea for Economic Pluralism”, Journal of Co-operative Studies n. 44, april, p. 19-30.
  22. ^ Borzaga C., Musella M., (2003), Produttività ed efficienza nelle organizzazioni non profit: il ruolo dei lavoratori e delle relazioni di lavoro, Edizioni 31, Trento.
  23. ^ Borzaga C., Tallarini G., (2021), Imprese sociali e Covid-19. Tra difficoltà e resilienza, “Impresa Sociale”, 1/2021, pp.37-42.
  24. ^ Mintzberg H., (2009), Rebuilding Companies as Communities, “Harvard Business Review”, July–August 2009, pp. 140-144.
  25. ^ Catturi G., (2021), Potere Aziendale, pandemia e Smart Working, “Management Control”, 2/2021, pp.15-38.
  26. ^ Pasinetti M., Rocca E., Sacchetti S., Bodini R., (2021), Partecipazione e coinvolgimento nell’impresa. Tra esperienza, fattibilità e strumenti, “Impresa Sociale”, 4/2021, p. 43.
  27. ^ Cit., pp. 44 e seguenti.
  28. ^ Rossi B., (2008), Pedagogia delle organizzazioni. Il lavoro come formazione, Guerini Scientifica, Milano, p. 73.
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