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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2023

Saggi

Osservatorio sulla prossimità in Italia. Terza edizione

Laura Bongiovanni, Carlo Andorlini

Introduzione

Le risposte naturali e immediate sorte in tutto il Paese nella primavera 2020, nell’Italia in lockdown per l’emergenza sanitaria, hanno determinato una decisa accelerazione dell’attenzione verso il tema della prossimità, nelle sue varie forme: tra le persone, nelle organizzazioni, nei sistemi territoriali (paesi, quartieri, città, ecc.). Ma, pur rappresentando un richiamo potente di memoria collettiva, la pandemia non è stato certo il solo elemento che ha contribuito ad accendere i riflettori sulla prossimità: sono infatti assai numerose le occasioni, soprattutto in ambito sociosanitario, in cui l'accento sulla prossimità si è andato man mano consolidando. Ciò ha rappresentato una opportunità per dare valore al tema e alle pratiche di prossimità; inoltre, inevitabilmente ha portato a considerare in modo estensivo il termine “prossimità” e ad allargare le aree di pertinenza di questo fenomeno. Alla luce di questa cornice, in questo articolo si cerca non restringere il significato di questo termine, ma di mantenere una visione aperta che consenta di individuare ulteriori punti di osservazione sul tema e sulle pratiche che mettono al centro la prossimità.

Questo articolo rappresenta il proseguimento di un’analisi intrapresa dall'Area Ricerca della Biennale della Prossimità già dal 2019 che, a sua volta, raccoglieva una riflessione già presente da alcuni anni nell’ambito di questa manifestazione. Si parte da una definizione, per quanto aperta e provvisoria, di prossimità, per poi descrivere i motivi che hanno ispirato questa ricerca all’interno della Biennale della Prossimità (sono anche presentati alcuni riferimenti alle precedenti edizioni della ricerca). Si affronta e descrive quindi l'indagine realizzata nel 2022 per la IV Edizione di Biennale della prossimità tenutasi a Brescia, prima descrivendone la metodologia, poi l'analisi di 20 case studies relativi a esperienze di prossimità realizzate in varie aree del territorio nazionale. All'interno di questa analisi, ci si soffermerà soprattutto sui “tratti caratteristici”, ovvero gli elementi, le forme e in alcuni casi le scelte che si ritrovano nella quasi totalità delle esperienze studiate. Una sorta di “lista” di elementi che rafforzano e quasi qualificano la prossimità di queste pratiche. Il tutto infine è corredato da riflessioni sul tema prossimità, pratiche e welfare di prossimità supportando il ragionamento con visioni e studi e teorie sul tema, anche nell’ottica di porre questioni e stimoli che possano costituire il punto di partenza per ulteriori sviluppi. Questo ha richiesto tra l’altro di ricercare un equilibrio tra rigore scientifico e intento divulgativo indirizzato ad un pubblico ampio.

Prossimità: una definizione provvisoria

In via provvisoria e con la consapevolezza che si tratta di una definizione operativa utile ad iniziare ad identificare un fenomeno ancora magmatico ed emergente, si è definita la prossimità come propensione e capacità, da parte di persone che appartengono ad una comunità definita territorialmente o su altre basi, di agire collettivamente per obiettivi condivisi di benessere – sia rispondendo a bisogni più o meno fondamentali, sia ad aspirazioni di miglioramento della qualità della vita – con forme di attivazione che comprendono l’impegno in prima persona e che dunque non si identificano nella sola advocacy presso le istituzioni; e che, così facendo, costruiscono e sviluppano un capitale di relazioni che diventa presupposto per azioni ulteriori.

La definizione pone il fenomeno della prossimità su terreni limitrofi ad altri concetti, ma al tempo stesso ne individua un’area di autonomia. Il tema della prossimità è sicuramente in relazione con quello della comunità, nel senso che in una comunità – nell’accezione weberiana di aggregazione fondata su una comune appartenenza soggettivamente avvertita da parte degli individui che vi partecipano – vi sono i presupposti naturali affinché si sviluppi prossimità, mentre in contesti ove i legami comunitari sono più deboli è più difficile che ciò avvenga.

Il tema della prossimità è anche limitrofo ad altri incentrati sull’azione volontaria, anche se questi ultimi generalmente enfatizzano la componente oblativa e solidaristica, che non è esclusa nella prossimità, ma non è concetto costitutivo. Il volontario opera per il benessere altrui, mentre l’azione di prossimità è in genere più orizzontale, tanto che, come si vedrà, in molti casi non è chiaro “chi dà e chi riceve” o, meglio, tutti danno e tutti ricevono. Gli abitanti di un piccolo paese che auto-organizzano con un videoproiettore un cinema di prossimità non stanno facendo un’azione solidaristica verso altri, stanno realizzando una propria aspirazione ad un miglioramento della propria quotidianità (che diventa poi a disposizione di tutti, ma che non è nata da un orientamento di per sé oblativo).

Certamente la tematica della prossimità si intreccia con altre che traggono origine dalle riflessioni sulla vicinanza spaziale, ma enfatizza l’aspetto relazione (e consapevole). Non è prossimo ciò che è “vicino”, ma la vicinanza può essere tra i presupposti che facilitano l’insorgere di relazioni e quindi la consapevolezza di poter realizzare collettivamente una certa risposta ad un bisogno o ad una aspirazione. Deve però essere chiaro che la vicinanza in quanto tale non è condizione sufficiente per parlare di prossimità: un’azione di un soggetto pubblico o di terzo settore che scelga di decentrarsi sul territorio e quindi sia resa disponibili in contesti spazialmente prossimi al cittadino non è “di prossimità” nel senso qui utilizzato se non stimola l’attivazione diretta delle persone e ancor più se ad esempio mantiene un approccio burocratico e distaccato.

Sul tema della prossimità così provvisoriamente definito, fin dalla seconda edizione della Biennale della Prossimità (www.biennaleprossimita.it) svoltasi a Bologna nel 2017, si è costituito un gruppo di lavoro guidato dagli autori, dedicato alla conoscenza e all’analisi delle caratteristiche e della evoluzione della prossimità. La Biennale si posiziona così non solo come momento di animazione, sensibilizzazione e confronto, ma anche come luogo di riflessione e conoscenza oltre la durata dell’evento; a tal fine il gruppo di lavoro ha costituito un Osservatorio permanente sul tema della prossimità e una banca dati di indicatori quantitativi e qualitativi per la lettura del fenomeno.

Verso un ‘welfare di prossimità’

Gli interventi oggetto di analisi in molti casi rappresentano un’avanguardia nella sperimentazione di modelli innovativi di welfare di prossimità che spesso si sviluppano a fianco e in sinergia con gli interventi consolidati del cosiddetto welfare istituzionale. Va chiarita a questo proposito l’accezione e i motivi che ci spingono a utilizzare il termine welfare di prossimità per indicare interventi che riguardano ambiti molto diversi e non certo ristretti alla cura socioassistenziale e sociosanitaria della persona: ci si riferisce infatti ad azioni di cohousing, in ambito culturale, di benessere ambientale, alla cura di beni comuni, ecc., insomma ad ambiti che ci paiono molto più ampi rispetto alla tradizionale definizione di welfare.

Il motivo per cui si è scelto di qualificare queste azioni come welfare di prossimità è che vi si riconosce come elemento fondativo un’intenzionalità al benessere proprio e delle altre persone a cui ci si relazione entro dinamiche di prossimità. Un’azione culturale, ad esempio, potrebbe nascere da presupposti diversi: è cultura l’opera di un artista che dipinge nella sua bottega, di un ricercatore che elabora una teoria economica, di chi produce un film e così via; ma tutto ciò può non avere a che fare con la ricerca di costruzione di un benessere collettivo da parte di una comunità e non è quindi incluso in una categoria, per quanto ampia, di welfare. Ma se un artista individua dei muri in un quartiere degradato e insieme ai ragazzi del territorio produce murales artistici che li abbelliscono e così facendo coinvolge i cittadini nel rilancio del quartiere che supera lo stigma di luogo della città da evitare, sta lavorando insieme ad altri ad un progetto che mira al benessere, costruendo tra l’altro un capitale di relazioni e di fiducia tra i cittadini; in questo caso anche il dipingere dei muri è un atto “di welfare di prossimità”: l’artista non mirava alla fama o alla propria espressività, ma utilizza l’arte per un progetto di rilancio di un territorio degradato. Ed è proprio questo che avviene nelle pratiche di prossimità osservate e che nel presente documento si intende argomentare: si tratta di pratiche di welfare di prossimità perché si genera valore sociale.

Questo tipo di interventi realizzano un welfare di prossimità che non si sovrappone al welfare istituzionale, indispensabile per rispondere a certi bisogni; ma sicuramente persegue taluni aspetti di benessere che spesso rimangono privi di risposta negli interventi di welfare consolidato, ancor più quando, come spesso accade, esso assume le caratteristiche di un “welfare di distanza”, in quanto fonda costitutivamente sul marcare una separazione tra chi eroga il servizio e chi lo riceve. È una separazione funzionale ad alcune esigenze, garantisce la professionalità e l’imparzialità nonché l’esigibilità del diritto, caratteristiche fondamentali del modello di welfare istituzionale in cui l’utente del servizio si pone in un atteggiamento di “richiesta” rispetto al bisogno oggetto dell’intervento; l’intervento presenta generalmente alti livelli di strutturazione e almeno in parte ha caratteristiche standardizzate. Al contrario, il welfare di prossimità si fonda su una relazione in cui anche chi esprime un bisogno è a tutti gli effetti un soggetto attivo nella realizzazione dell’intervento: chi esprime il bisogno, da “beneficiario” / “destinatario” di un servizio, diventa esso stesso co-protagonista nel contribuire alla risposta, nell’ambito di un’azione che coinvolge una molteplicità di attori (enti di terzo settore e altre espressioni, anche informali, della società civile, enti pubblici, imprese, cittadini, famiglie, ecc.). La vicinanza garantisce capacità di ascolto e diventa generatrice di prossimità, con la creazione di scambi ad alta intensità relazionale tra tutti gli attori coinvolti. L’elevata personalizzazione, d’altro canto, poco si accorda con la possibilità di standardizzazione e replicabilità: mentre il welfare istituzionale è riproducibile su larga scala in forme simili (una RSA è fatta in un certo modo, con determinati criteri organizzativi e di prestazione, in molti luoghi diversi), il welfare di prossimità è sempre frutto di storie specifiche e da tali peculiarità tra tanto gli elementi di forza quanto i limiti.

Ovviamente questa descrizione, che marca le differenze tra welfare istituzionale e welfare di prossimità, va letta in modo dinamico: può avvenire che il welfare istituzionale scelga di inserire elementi di prossimità e che un intervento nata con le dinamiche del welfare di prossimità assuma nel corso del tempo talune caratteristiche istituzionali; entrambe queste evoluzioni sono presenti e sono frutto delle interazioni e delle contaminazioni tra persone, organizzazioni e istituzioni frutto del confronto quotidiano.

Tabella 1. Elementi caratteristici del welfare istituzionale e di prossimità. Fonte: Elaborazione degli autori

Quella attuale è una fase di cambiamento e ridefinizione: si stanno affermando nuove modalità di risposta ai bisogni, sempre più caratterizzati da un tasso crescente di imprevedibilità e incertezza connessa alle continue crisi globali (pandemia, guerra in Ucraina, crisi energetica, immigrazione, ecc.); è utile pertanto interrogarsi sullo spazio che, in tale contesto, può essere assunto da un welfare di prossimità: se sia destinato a restare residuale, un insieme di buone prassi prive di capacità di modellizzazione, o se possa contribuire a plasmare un nuovo e diverso stile di intervento sociale basato sull’erodere la divisione tra operatori e utente rendendo tutti gli attori co-protagonisti.

Prossimità e cambiamenti

La prima edizione dell’Osservatorio aveva restituito nel 2017 l’immagine di un fenomeno fluido a grande capacità di innovazione, ma con forti limiti alla strutturazione. Gli interventi studiati erano frutto di circostanze molto particolari e rischiano di esaurirsi in tempi relativamente brevi, disperdendo il patrimonio di conoscenza ed esperienza generato. La seconda indagine nel 2019 aveva approfondito il tema della “fragilità-antifragile” come cifra caratteristica degli interventi, evidenziando la capacità di stare di fronte al rischio di eventi e processi inaspettati cercando di imparare dalla volatilità e dal disordine, persino dagli errori, essendo quindi “antifragili” (Nassim, 2013) e attivando processi interconnessi e in evoluzione[1].

L’analisi del 2022 indaga ulteriormente questi aspetti, alla ricerca dei tratti caratteristici degli interventi, interrogandosi sulle possibilità di una modellizzazione utile ad ispirare processi trasformativi dei sistemi di welfare. Una capacità trasformatrice emersa fin dalla prima indagine, vera forza propulsiva delle iniziative realizzate che si presentano come esperienze a forte innovatività. Sono emersi alcuni elementi ricorsivi che vale la pena ricordare prima di approfondire gli esiti dell’ultima edizione dell’Osservatorio.

Le organizzazioni protagoniste della seconda edizione della Biennale, interpellate sugli effetti prodotti dalle iniziative di prossimità hanno segnalato ben 160 variabili qualitative descrittive dei cambiamenti generati. Ai fini del presente articolo, le variabili sono state riclassificate in tre gruppi:

  • i cambiamenti per la comunità: rientrano in questo raggruppamento gli effetti che hanno determinato forme più avanzate di sostegno reciproco tra i membri di una comunità, ad esempio attraverso un mutuo aiuto tra le persone, la creazione di opportunità di reinserimento sociale e lavorativo, la creazione di reti, il rafforzamento delle relazioni, la ricostruzione di legami sociali nella comunità, esperienze di sviluppo locale partecipato e di incremento del benessere, ricostruzione di legami comunitari, scambi intergenerazionali, spirito di coesione, senso di appartenenza alla comunità, ecc.;
  • i cambiamenti per le organizzazioni: emerge come le iniziative di prossimità siano generatrici di una prossimità interorganizzativa, con la creazione di reti multistakeholder, definite dalle organizzazioni “aperte”, ma al contempo “stabili”. La valenza informale dei raggruppamenti non va a discapito della capacità di agire in modo congiunto e condiviso;
  • i cambiamenti per gli individui: anche le persone – siano esse portatrici di bisogni specifici, operatori o cittadini – escono dalla partecipazione ad una iniziativa di prossimità con un bagaglio di esperienza che determina una maggiore consapevolezza, capacità di coinvolgimento, relazioni, capacità di attivazione e protagonismo.

Nella Figura 1 il “word cloud della prossimità”, costruito dall’analisi delle parole più utilizzate nella descrizione degli effetti generati.

Figura 1. Word cloud della “prossimità”. Fonte: Osservatorio sulla prossimità in Italia prima edizione

Le parole chiave sono “relazioni”, “integrazione”, “comunità”, “sociale” come ambiti di riferimento e “coinvolgimento”, “consapevolezza”, “partecipazione” come stile d’azione. Queste evidenze costituiscono il pilastro da cui poi la ricerca ha mosso i successivi passi.

La ricerca 2022

Metodologia della terza edizione dell’Osservatorio

L’indagine 2022 esplora la capacità di modellizzazione delle esperienze alla ricerca di tratti caratteristici trasversali alle singole iniziative e quindi caratteristici del welfare di prossimità qui definito. Per il perseguimento degli obiettivi conoscitivi si è scelto lo strumento dell’analisi qualitativa e della intervista semi strutturata con cui si sono analizzati 20 casi studio. I colloqui in profondità con i rappresentanti delle esperienze di welfare di prossimità selezionate hanno avuto la durata di 60 minuti ciascuna nella forma di un colloquio libero a partire da alcuni temi predefiniti: ambito di intervento, sostenibilità, reti attivate, coinvolgimento dei cittadini, competenze, leadership, ruoli, modalità organizzative, strumenti di monitoraggio e analisi, replicabilità e modellizzazione. Le informazioni raccolte sono state rilette a partire dalla ricerca di tratti comuni e caratteristici e l’analisi ha restituito 10 elementi trasversali alle esperienze di forte interesse e innovatività. Le pratiche analizzate sono tra loro diverse per area geografica, entità e periodo di sviluppo; tutte hanno elementi che le associano a significati simbolici per la comunità in cui nascono e per chi le osserva e sono in qualche modo “esemplari” nel proprio ambito. Nella Tabella 2 elencate le 20 pratiche con specifiche territoriali e riferimenti[2]:  

Tabella 2. Venti casi studio della terza edizione dell’Osservatorio.

Si sono scelte, tra le moltissime esperienze con cui a vario titolo il gruppo di ricerca della Biennale della Prossimità è entrato in contatto, quelle sopra elencate in modo da assicurare una compresenza di:

  • diverse fasi di sviluppo, con l’inclusione di pratiche di prossimità nelle loro diverse fasi, da quelle consolidate a quelle oggi ancora in forma embrionale;
  • esperienze collocate in varie parti d'Italia
  • esperienze con livelli diversi di complessità, da pratiche piccole, semplici, destrutturate ad altre di dimensioni medio grandi, con architetture complesse e articolate;
  • esperienze situate sia in centri medio e grandi che in aree deboli e interne
  • esperienze, infine, sviluppate o in via di sviluppo grazie a una spinta iniziale che in alcuni casi proviene da soggetti privati (enti di Terzo settore, ma anche imprese for profit) e in altri che hanno visto un ruolo significativo del soggetto pubblico insieme ad espressioni della società civile.

Da queste aree categoriali si è così potuto costruire un catalogo di esperienze che hanno:

  • una rappresentanza regionale nutrita. Le esperienze studiate si collocano infatti in Sicilia, Emilia-Romagna, Campania, Toscana, Piemonte, Marche, Veneto, Puglia, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia;
  • un tempo di nascita o di sviluppo della pratica differenziato; ci sono infatti realtà neonate e altre invece sedimentate già da molti anni;
  • Forme organizzative diverse: cooperative sociali, cooperative di comunità, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, imprese for profit;
  • dimensioni differenti: piccole esperienze con poche persone che promuovono e che coinvolgono fette di comunità, ma anche medie e grandi realtà che hanno costruito processi stabili di prossimità.

Pur trovandosi in situazioni così diverse, si è in tutti i casi di fronte a esperienze che traggono la loro forza dal provenire dalle cosiddette “aree di mezzo” dove le prospettive, i saperi, le competenze, le culture e le identità dei soggetti si incrociano, si contaminano, convergono in percorsi partecipativi fino a quel momento non prevedibili e che sono capaci di attivare dinamiche feconde che portano alla costruzione di beni comuni. In tutti i casi, coerentemente con la definizione di prossimità adottate, le “risposte” non nascono da un piano di intervento di un soggetto sovraordinato (es. l’ente pubblico che offre un servizio ai cittadini), ma dall’attivazione degli attori stessi.

L’analisi delle pratiche di prossimità: dieci tratti caratteristici

L'analisi delle esperienze e dei soggetti che le animano – considerati dall’area ricerca un tutt'uno è per questo chiamati unicamente pratica di prossimità – ci consegna una dimensione dinamica, fortemente innovativa, ricca di spunti e suggestioni, con molti elementi ricorrenti. Ciò senza la pretesa di proporre uno sguardo definitivo, ma con il desiderio di restituire elementi utili al lavoro di consolidamento e sviluppo di forme di sperimentazione della prossimità.

1. Riproducibilità “maieutica”  

Sono in essere percorsi di modellizzazione e replica delle esperienze che non si traducono in un’affiliazione nello stile del franchising, ma nella creazione di una rete interconnessa di organizzazioni legate tra loro e al tempo stesso, favorito da un processo iniziale di affiancamento da parte delle organizzazioni più esperte che accompagnano i nuovi nodi della rete. L’ente che promuove la replica interviene avendo sin da principio definito una “strategia exit” dal nuovo territorio, lasciando quindi che la nuova esperienza si sviluppi in autonomia.

In queste esperienze, l’ente che ha per primo intrapreso una determinata azione di prossimità sostiene altri territori dove è possibile dare vita ad esperienze analoghe; talvolta dà vita ad un ente di secondo livello che analizza bisogni e risorse del territorio che vorrebbe riproporre e adattare l’esperienza in questione e realizza azioni preliminari e studi di fattibilità per verificare le condizioni di replicabilità della iniziativa. Dopo questo lavoro di capacitazione della comunità e del gruppo che gestisce il processo, generalmente questo ente termina il proprio coinvolgimento diretto, così che la nuova esperienza possa procedere con elevati gradi di autonomia e flessibilità, seppur seppure riconoscendosi in riferimenti e metodologie comuni. Il posizionamento del progetto di prossimità risulta dunque aperto e in evoluzione. La riproducibilità si realizza con strategia “exit” dell’ente che ha supportato la diffusione dell’esperienza, perché l’obiettivo è quello di valorizzare le competenze presenti in un territorio di cui si riconoscono specificità e bisogni. Si tratta quindi di favorire l’emersione di potenzialità secondo le peculiarità locali e non di costringere gli interventi in categorie predefinite e calate dall’alto. Le organizzazioni intervistate affermano a tal proposito: “Abbiamo deciso di non farlo diventare un franchising, riteniamo che la nostra presenza sia stata indispensabile all’inizio”; cosa che viene riconosciuta: “L’accompagnamento è fondamentale per creare il gruppo”. Ma da un certo punto in avanti l’obiettivo non è il controllo operativa della nuova iniziativa: “L’obiettivo è non esser indispensabili, è importante per noi che un intero territorio si riconosca all’interno di un progetto comune. Non c’è il vincolo contrattuale, stiamo insieme perché c’è una missione comune”. E al facilitatore del processo è affidato il compito di attuare la missione comune e di accompagnare il processo: “C’è … una figura professionale dedicata che assume le vesti di facilitatore del processo e che lavora sul territorio per creare la rete”. È questo un processo di riproducibilità a forte innovatività, che riesce a coniugare un principio di modellizzazione e valorizzazione dell’esperienza con l’apertura all’ascolto, alla creatività e alla personalizzazione. In questo senso si parla di riproducibilità maieutica perché fondata sulla partecipazione attiva dei soggetti e delle organizzazioni coinvolte che sono unite in un processo condiviso ma al contempo autonome nell’esprimere le proprie specificità.

2.  Competenze che apprendono  

Le competenze per guidare e animare gli interventi di prossimità sono dinamiche e trasversali, mai fisse, ma in uno stato di apprendimento continuo, combinando saperi diversi: le figure professionali coinvolte lavorano su continui cambiamenti e non su un piano strategico statico. Le pratiche di prossimità richiedono capacità di improvvisazione, accanto alle strategie deliberate ci sono quelle emergenti che hanno bisogno di un approccio di equipe e interdisciplinare. Vanno sviluppati punti di osservazione diversificati, dinamici e interdipendenti.

Preliminarmente, come già evidenziato in precedenti edizioni dell’Osservatorio, va evidenziato che in molte occasioni i progetti di prossimità coinvolgono, oltre a cittadini che si aggregano spontaneamente, persone che hanno lo specifico compito di promuovere, animare e coordinare le azioni di prossimità; ma, ci si chiede qui, che profilo hanno queste persone? I progetti di prossimità necessitano di equipe interdisciplinari caratterizzate da profili e specializzazioni diversificate, per poter attivare più punti di osservazione intorno ad uno stesso oggetto e di persone in grado di sviluppare una grande capacità di ascolto reciproco. Promuovere o sostenere lo sviluppo di un processo di prossimità richiede inoltre la disponibilità ad apprendere dalle esperienze, talvolta procedendo per “prova ed errore”, osservando via via gli esiti e i cambiamenti prodotti dalle proprie azioni. Sono importanti le competenze trasversali, quelle che non riguardano un campo specifico, non sono puramente sociali e neppure solo culturali o imprenditoriali in senso stretto: si tratta di competenze relative ad abilità e atteggiamenti e non solo a contenuti di conoscenza. Gli intervistati affermano: “C’è una equipe interdisciplinare, tra le altre figure un filosofo, un antropologo, un economista, ad oggi siamo 14 professionisti in un’area dedicata”, e ancora: “Tutto quello che facciamo l’abbiamo imparato dall’esperienza, tra le skill fondamentale la capacità di dialogo, confronto e coinvolgimento”; “L’attitudine e la capacità all’ascolto è molto sviluppata nell’equipe della rete, siamo cresciuti sostenendoci, chi ha più esperienza fa crescere l’altro”. “Capacità di empatia e comprensione. Come si fa a formare su queste competenze? È una selezione fatta a monte, c’è un livello motivazionale e delle capacità, non scegliamo il più bravo ma il più adatto”. Momenti di confronto stabili, creazione di gruppi interdisciplinari, capacità di ascolto, creazione condivisa di soluzioni innovative nelle modalità del gruppo partecipativo, verifica e apprendimento continuo, riconferma e attualizzazione dei propositi e delle motivazioni: lo stile della prossimità valorizza ciascun aspetto del processo in modo coerente e innovativo.

3. Il circuito virtuoso della prossimità

Fare prossimità significa ingaggiare il territorio, mettersi in gioco tutti, attivare processi comunitari, portare a galla talenti, definire ruoli e responsabilità in modo mobile e non preordinato.

L’azione di prossimità attiva un processo dal basso che sa ingaggiare, valorizzare talenti e creare corresponsabilità e forme di mutualità. Gli intervistati affermano: “Siamo diventati una sorta di presidio culturale, luogo di aggregazione, la comunità ha le chiavi della sede, sta crescendo anche nella gestione eventi e iniziative grazie anche ad una nostra azione di empowerment che riconosce e valorizza i talenti. Si crea così una comunità con un fortissimo senso identitario”. È così che l’azione di prossimità si apre alla comunità, diventa una sorta di presidio sociale, attivando energie impreviste, nuove idee, collaborazioni, diversificazione di servizi ed ambiti. È la prossimità che genera prossimità creando un vero e proprio circuito virtuoso: “Accogliamo costantemente cittadini, gruppi informali, chi propone, fa. Noi valutiamo la proposta e la fattibilità. È uno spazio pubblico aperto alla città.” E la sperimentazione di forme innovative di welfare: “L’obiettivo cardine del progetto è quello di arricchire la scena del welfare chiedendo la partecipazione di attori “non convenzionali” del “secondo welfare”. Chiamiamo a raccolta le aziende, le associazioni di categoria, le fondazioni private e di comunità e soprattutto i cittadini, attraendo nuove risorse economiche, umane e strumentali, attraverso la costruzione e la “manutenzione” di relazioni sociali”. Un approccio che fa crescere e riconoscere le competenze e la possibilità di ciascuno a mettersi in gioco: “Il teatro nella comunità ha fatto crescere le persone attraverso ad esempio la modalità del confronto assembleare, oppure la risoluzione conflitti - il teatro diventa ring nel rappresentare il conflitto dando l’opportunità di risolverlo; tutti, proprio tutti gli abitanti partecipano, e da qui oltre al teatro si decide di offrire servizi: anziani, ufficio postale, museo, edicola, farmacia”. La prossimità è contagiosa, allarga la rete dei soggetti coinvolti, è dinamica ed evolutiva e non autoreferenziale , uno stile che sempre più si caratterizza per i tratti di innovatività , non afferma se ma include l’altro mettendo in gioco il sistema, continuativamente.

4. Osservare, valutare, apprendere, ridefinire 

C’è una consapevolezza diffusa dell’importanza di attivare percorsi di osservazione delle esperienze con l’utilizzo di strumenti e metodologie specifiche che permettano di ricavare indicatori oggettivi sugli effetti generati, così da andare oltre alle percezioni personali. L’analisi degli effetti trasformativi generati è fondamentale non solo per il miglioramento, ma anche per identificare e meglio circoscrivere l’originalità e l’innovatività dei modelli di intervento.

La consapevolezza dell’importanza di attivare analisi dell’impatto sociale delle azioni di prossimità intraprese non corrisponde sempre all’effettiva attivazione di percorsi di ricerca; quando ciò avviene emergono elementi di grande interesse relativi ai punti di forza e criticità dei modelli attivati e indicazioni relative a percorsi migliorativi e di ottimizzazione degli interventi. Gli intervistati affermano: “L’analisi di impatto sociale è fondamentale, anche per capire come l’azione possa generare processi e modalità originali per questo è imporrante verificare cosa succede” E ancora: L’analisi di impatto sociale serve per capire da vicino punti di forza e debolezza. Noi possiamo avere un’immagine distorta perché siamo molto calati nel servizio, serve uno sguardo oggettivo”. È molto interessante rimarcare questo tratto, perché evidenzia come le caratteristiche di spontaneità, creatività ed espressività tipiche delle azioni di prossimità si accompagnino senza contraddizione alla ricerca di strumenti, tecniche e metodologie oggettive e rigorose per monitorare, conoscere, migliorare, apprendere. C’è consapevolezza di aver bisogno di uno sguardo esterno capace di oggettivare e trascendere il campo delle percezioni personali, generando un percorso di continuo apprendimento.

5. Protagonisti, non beneficiari 

L’azione di prossimità rivoluziona la categoria di “beneficiario”, trasformandolo in attore attivo e protagonista.

Negli interventi di welfare consolidati è generalmente identificata una categoria di persone (che condividono una fragilità, che vivono in un certo territorio, ecc.) definita, con sfumature non solo semantiche, ma relative a differenti approcci culturali, come “utenti”, “destinatari”, “beneficiari” o con altri termini simili: persone cioè a favore delle quali un certo intervento è indirizzato, ben distinte dagli operatori che prestano i servizi in questione. La distinzione è, nel welfare istituzionale, elemento di garanzia della qualità, dal momento che l’operatore si identifica per titoli professionali che lo abilitano a offrire specifiche prestazioni. Nelle azioni di prossimità la situazione è molto più sfumata e generalmente coloro che in una impostazione tradizionale sarebbero “beneficiari” sono in realtà tra i soggetti attivi co-protagonisti dell’intervento, prendono parte ai processi, mettono in gioco capacità e disponibilità e sono parte, anche se talvolta inconsapevolmente, di un processo trasformativo. Il “beneficiario” si trasforma, cambia pelle, e diventa parte attiva dell’azione di prossimità, ritagliandosi in modo creativo un ruolo e delle attività. È questa la testimonianza su cui concordano tutte le esperienze di prossimità intervistate, un vero e proprio cambiamento culturale ispirato alla reciprocità: “La mutualità per noi è una reciprocità spontanea: chi viene qui si dà da fare ad aiutare; gli ospiti diventano volontari, si attivano. E vedi che si trasformano, cambiano pelle, assumono un nuovo sguardo su di sé fatto di possibilità anziché di limite”. E ancora: “Oggi si è creato una sorta di orgoglio di appartenenza attraverso un percorso di negazione della carità e di attivazione della solidarietà, si tratta di ridare dignità”; “Facciamo di tutto, ci mettiamo molta fantasia, reinventando e rileggendo la storia dei vissuti delle persone”. L’approccio è rivoluzionario perché scardina l’atteggiamento consolidato nell’approccio del welfare istituzionale che vede un utente /beneficiario passivo con una tendenza alla delega, affermando uno stile attivo con tendenza al coinvolgimento e alla co-partecipazione. La domanda che guida il processo non è più “cosa mi aspetto”, ma “cosa posso fare io”. È una rivoluzione di approccio decisiva dal punto di vista dell’empowerment, anche non esente da rischi - l’eccesso di personalizzazione e di protagonismo per citarne alcuni - che è bene monitorare.

6. Da reti ad alleanze

Nei tratti delle pratiche si scorgono forme di prossimità che sviluppano il concetto di reciprocità come patto di collaborazione e la cooperazione come stile.

Gli attori delle azioni di prossimità sono, come si è visto, molto vari: organizzazioni strutturate, sistemi informali, persone; ma, nonostante questa diversità, è spesso presente un atteggiamento teso a comprendere quanto sia possibile essersi utili vicendevolmente: è il passaggio tra il “fare rete” e l'allearsi. Si “fa rete” per una necessità contingente, perché – da soggetti distinti quanto a finalità e obiettivi – si riscontra l’utilità reciproca di una collaborazione su taluni aspetti.  Nelle iniziative di prossimità spesso il percorso che inizia con collaborazioni estemporanee diventa esigente e quindi porta a una interazione più profonda tra i partecipanti, che tendono a viversi come risorsa reciproca gli uni per gli altri; in pratica si passa ad un processo pratico e assolutamente pragmatico in cui ognuno è portato a “metterci del proprio” per realizzare le azioni condivise. Come emerge in un’intervista “Inizialmente eravamo sempre alla ricerca di soggetti e organizzazioni che collaborassero con noi, ma spesso questo si traduceva in una contrattazione sulla “la merce di scambio”. Questo da un lato agevolava l'adesione iniziale, ma poi spesso complicava l'azione. Solo quando ci siamo resi conto che era necessario costruire un’alleanza abbiamo fatto un salto di qualità in termini collaborativi” e questo porta alla costruzione di capitale sociale. Un passaggio fondamentale che aumenta l'intensità della prossimità, ma aumenta anche il rischio della rottura della prossimità nel momento in cui tali meccanismi saltano. Se da una parte queste alleanze superano, grazie al legame fiduciario, il carattere di aggregazioni contingenti, dall’altro esse possono essere circostanziate ad obiettivi specifici. Come notato anche da Paolo Venturi a proposito delle “alleanze di scopo”, si sta affacciando “un nuovo livello di intermediazione che non si vuole, giustamente, sostituire ai tradizionali intermediari ma che ambisce a potenziare le istanze dal basso e la loro radicalità” (Venturi, 2021).

Queste alleanze, spesso inconsapevolmente, costituiscono inoltre un laboratorio rispetto alle forme con cui si realizza la cooperazione, sotto lo stimolo di istanze di collaborazione magari non progettate in partenza ma di cui ad un certo punto si avverte la necessità. Le forme adottate sono varie, senza che nessuna di esse appaia come dominante: associazioni (culturali e di promozione sociale in particolare), cooperative, fondazioni, raggruppamenti di partite IVA, ecc. Generalmente il punto di partenza non è l’una o l’altra veste formale, ma si arriva ad una o l’altra soluzione spinti dalla ricerca tradurre una mutualità fatta di scambi continui, di supporto materiale reciproco e di condivisione di idealità.

7. La coprogettazione in pratica (al di là dell'art.55) 

Le pratiche di prossimità non pensano alla coprogettazione come eventualità, ma come processo necessario. Senza coprogettazione la distanza tra l'inizio e la fine di una pratica è brevissima.

Quando si agisce in ottica di prossimità, l’esigenza di mettersi insieme e di collegare le competenze, i vissuti, le idee, gli attrezzi a disposizione caratterizza non solo le organizzazioni con più marcate caratteristiche di informalità, ma anche imprese sociali consolidate che, in interventi diversi da quelli di prossimità, gestiscono contratti di importi rilevanti aggiudicati tramite appalti, sono strutturate, hanno una compagine di lavoratori ampia. La prossimità è di per sé inevitabilmente orientata verso il dialogo e la condivisione e, quando si è coinvolti in questo tipo di esperienze, la coprogettazione e le sue regole divengono naturali. Si tratta di un’affinità elettiva tra prossimità e coprogettazione, che hanno in comune atteggiamenti quali la tensione positiva a curare la relazione, la disponibilità all’ascolto, la dimensione della reciprocità, la partecipazione diffusa. È la collaborazione che si basa sulla costruzione di rapporti orizzontali e il più possibile disintermediati fra le persone, in una dimensione dove si passa dal “partecipo a” al “faccio con”. Lo dice con molta chiarezza questa testimonianza dell'esperienza abruzzese di Borgo Universo: “quando la prossimità si “palesa” in un certo senso, cioè si mostra la via necessaria, abbiamo come la sensazione di progettare e fare nello stesso tempo… Lavoriamo a stretto contatto con gli altri e ci sembra quasi naturale trovare una sintesi tra quello che pensa uno e quello che pensa l'altro”. La prossimità è quindi un “lavorare insieme”, verso un’azione congiunta per il raggiungimento di obiettivi condivisi in una dimensione di rete. Tale collaborazione ha alla base 1) una la relazione consapevole e produttiva e 2) il ritrovamento dei moventi ideali alla base della relazione. La relazione consapevole e produttiva dove gli attori hanno chiaro come la collaborazione non sia una mera scelta auspicabile da un punto di vista etico, ma anche l’opzione più vantaggiosa per ciascuno (e quindi anche per sé) e rappresenti quindi una opportunità da cogliere per realizzare al meglio gli interventi. Il ritrovamento dei moventi ideali alla base della relazione è una dimensione che in queste pratiche di prossimità aiuta a ricostruire valori e così a risvegliare orientamenti collaborativi che nei contesti competitivi rischiano di essere atrofizzati; si pensi, ad esempio, a quanta parte del mondo cooperativo condivide il fatto di avere come mission “l’interesse generale della comunità”, salvo poi dare per scontato che, nella pratica quotidiana, la lotta per la sopravvivenza rappresenta l’elemento che di fatto dà forma alle relazioni con altre cooperative. In sostanza, oltre a trovare la collaborazione vantaggiosa, ci si riscopre parte di un progetto di cambiamento sociale condiviso o meglio, tale condivisione riacquista la forza aggregativa che prima appariva sopita.

8. Innovazione culturale naturale

Molte pratiche passano da proposte culturali – a volte riconducibili ad una cultura popolare, a volte più “sofisticata” - e nelle intenzioni o nel guardare i risultati di queste pratiche emerge una dimensione sociale della proposta culturale. Una cultura, in pratica, che fa impatto sociale.

Molte pratiche di prossimità osservate operano nelle proprie comunità combinando processi sociali e processi culturali e si innestano quindi nel filone del welfare culturale, cioè di quegli interventi che attraverso attività culturali offrono un supporto alle persone più fragili e in generale alla cittadinanza. Nel racconto di Dolomiti Hub in Veneto questo viene sottolineato dai protagonisti: “Eravamo convinti sempre che la cultura potesse far bene alla comunità o fosse un medicinale per il benessere della comunità. Il difficile è stato passare da una cultura sofisticata a una cultura “pop” come diciamo noi, cioè in grado di arrivare a tutti. Lavorare sulla memoria sulle tradizioni, sugli aspetti culturali della nostra comunità è come ricostruire un flusso di relazioni coesive.” L'azione socioculturale prende forma in queste pratiche come la capacità di una attività, di un servizio, di una offerta al pubblico, di riferirsi contemporaneamente al livello sociale (in termini di bisogni, esigenze, ecc.) e culturale (in termini di capacitazione, apprendimento, crescita, appartenenza, ecc.) di uno o più individui e di una comunità di riferimento. Questo campo così definito ci porta a superare la netta separazione tra sociale e culturale (sia di strutture, sia di organizzazioni, sia di operatori) a favore di una dimensione ibrida in grado di tenere insieme organizzazioni culturali che operano consapevolmente in forme socioculturali e organizzazioni sociali che operano, anch'esse, consapevolmente in forme socioculturali.

9. Luoghi e valore pubblico

Le pratiche di prossimità sono spesso, se non sempre, radicate in un luogo. Il luogo non solo c'è, ma è anche e soprattutto un elemento fondante degli obiettivi dell’azione di prossimità. Il luogo non è un mero strumento, ma è strutturalmente parte della prossimità.

La perdita di certezze territoriali e di contesto, che potremmo definire una sorta di “spaesamento” di valori e di punti di riferimento condivisi, spinge le persone a sentire intensamente l'esigenza di ritrovarsi in un qualche “centro”, simbolico e materiale allo stesso tempo. C'è bisogno di uno spazio relazionale da cui sentirsi attratti e dove portare il proprio punto di vista, dare risposta al bisogno di appartenenza, esprimere la disponibilità ad attivarsi in un luogo comune. Il luogo poi aiuta, quasi potenzia, la dimensione “pubblica”. Attraverso la presenza del luogo la pratica di prossimità diventa evidente e accessibile, si amplifica il valore pubblico di quello che si sta facendo. I protagonisti di Pibiesse, nella zona nocerina in Campania affermano: “Il luogo per noi è centrale, fondamentale senza questo non potremmo fare prossimità... Per noi il luogo è l'oggetto che aiuta le competenze, le attività a diventare azioni e processi”. E aggiungono anche gli animatori di Nòva di Novara “certe volte abbiamo la sensazione che se il nostro luogo non ci fosse, la nostra comunità perderebbe un centro di riferimento. Sarebbe disorientata, e forse anche un po' triste.”

Spesso, visitando uno di questi luoghi di prossimità, si ha l’impressione che non siano “dispensatori” di soluzioni, ma in spazi che abilitano a trovare soluzioni. In qualche maniera rappresentano “spazi informali” cui fa riferimento Hall (2009) e che corrispondono a quella “idea spaziale” (De Certeau, 1990) per cui gli individui contribuiscono, nelle azioni micro-sociali, a trasformare e a reinventare lo spazio quotidianamente, in modo imprevedibile e continuo. Nella pratica, il legame fra le persone non è di tipo contrattuale, ma si basa su un sistema di scambio relazionale e di reciproci servizi. Elinor Ostrom[3] suggerisce d’altronde che la capacità di governare i beni comuni, nasce da governance comunitarie: i beni sono “comuni” se sono gestiti in comune (e non necessariamente tramite la mano pubblica). Come scriveva Jane Jacobs[4], “se la densità e la diversità creano vitalità, la vita che alimentiamo è disordinata”[5]; questi luoghi collaborativi, attraverso le proprie caratteristiche, definiscono una relazione con la città, con il contesto dove si collocano spesso in una forma non programmata, indefinita, ma sempre molto generativa. Queste esperienze generano processi che superano i luoghi che li producono e toccano in maniera significativa i territori, le comunità e le persone.

10. L'humus della prossimità passa dalla cura generazionale

L'attenzione ad almeno due fattori che riguardano il concetto di generazione (quello delle generazioni giovani/adulti/anziani e quello della storia ovvero-memoria/presente/futuro) permette e valorizza la dimensione del legame fra parti di una comunità che altrimenti faticano a connettersi. In realtà, le cose che si fanno che sempre sono legate alla memoria e sempre inesorabilmente condizionanti il futuro.

Nelle pratiche di prossimità spesso si pensa al rilancio di processi che valorizzano e riscoprono radici, origini e tipicità; si tratta di un esercizio allenante, che riporta il prima e il durante entrambi verso il futuro. Ed è in questo lavoro elastico che molto spesso si materializzano le connessioni utili a costruire processi intergenerazionali in cui ognuno si affeziona alla parte degli altri, trovando modi anche inediti per costruire percorsi, azioni, progetti. È appunto l'inedito che tiene insieme e motiva al tempo stesso le relazioni intergenerazionali e questo avviene in molte delle pratiche osservate grazie al recupero di tradizioni, di un modo di fare passato, di una storia che riporta indietro, di un ritrovamento. Il ritrovamento è una dimensione che ricostruisce valori, motivazioni e prassi relazionali e di comunità che fanno parte della storia di una comunità, ma che o sono trascurate, o hanno perso l'elemento relazionale generativo. Paradossalmente il cambiamento in queste pratiche di prossimità è rappresentato proprio dal “ritrovamento” perché oggi, come ci dice un’intervistata “le cose nuove che stiamo vedendo e che ci stanno appassionando passano da dimensioni legate a modi di stare in comunità, riferiti al passato”. Del resto, la condivisione, la fiducia, la relazione fra persone per il raggiungimento di un obiettivo sono modelli di comportamento e sistemi relazionali che oggi presentiamo con versioni innovative e avvincenti, ma hanno di fatto molto a che fare con modelli di prossimità della tradizione comunitaria. È come se, di fronte a continui processi di accelerazione sociale e a flussi globalizzati che attraversano le comunità, si riconosca nel territorio, nella tradizione locale e nella storia un asset di recupero di rapporto fra le generazioni. Come afferma lo staff di Case di Quartiere a Torino “È difficile pensare che questo progetto possa avere un senso e soprattutto un futuro senza la presenza di tutte le generazioni. Non ci immaginiamo che stiano partecipando tutti, non è possibile questo, ma che giovani, giovanissimi, adulti e anziani comunque in forme diverse ci siano. Questo sta avvenendo ed è fondamentale.” In questi contesti non siamo di fronte a processi necessariamente disrupting, cioè dirompenti, quasi traumatici, come verrebbe da immaginare, piuttosto alla capacità di mettere insieme, con delicatezza e attenzione, la passione per le nuove tecnologie e l’attenzione all’ambiente, oppure le necessità economiche con i processi sociali. L'intergenerazionalità e la cura della memoria si producono proprio in questa capacità di combinare elementi differenti e di coniugare modalità sociali – che spesso arrivano da pratiche passate – con modalità innovative che guardano al futuro. E su questo interessante è la frase ripresa dall'intervista all'esperienza di Microaree di Trieste “Sembra scontato ma non lo è, Il nostro stare in prossimità si basa sulla sensazione di essere nel mezzo tra il prima e il dopo. Si sente come una responsabilità.”

La prossimità. Stimoli di approfondimento attraverso alcune visioni e studi

I dieci tratti, che sono risultati ricorrenti e trasversali rispetto alle singole esperienze, restituiscono piste di modellizzazione che contribuiscono ad affermare un modello di welfare di prossimità, che sarà importante continuare a monitorare nei suoi processi evolutivi: Tratti che ispirano quattro macrocategorie di inquadramento del fenomeno che anche altri studi e ricerche sul campo evidenziano e valorizzano.

La prossimità come cellula generativa di valore sociale

La prossimità è, sappiamo, una parola con un significato largo e ricco anche all'interno del campo di riferimento su cui ci posizioniamo ovvero quello sociale. È una parola che ha una dimensione che affonda e incrocia tante discipline, tante professioni, è multidimensionale (azioni, attività, approcci, metodi, ecc..) e multisettoriale (sociale, ambientale, culturale, urbanistica, ecc.). In più, la parola prossimità è entrata a far parte del linguaggio comune, come evidenziato anche nel volume “Alla ricerca della prossimità” prodotto dalla Biennale della Prossimità: “Papa Francesco ne ha fatto una delle parole cardine del suo pontificato, gli operatori sociali hanno iniziato ad usarlo diffusamente, parlando di “interventi di prossimità”, “operatori di prossimità” e a poco a poco la dimensione di prossimità è entrata nell’uso comune con le accezioni più varie, tanto è vero che oggi si legge sulle cronache nazionali, solo per fare alcuni esempi, degli “uffici di prossimità” in ambito giudiziario e del “marketing di prossimità” consigliato dai pubblicitari, della “raccolta di prossimità” dei rifiuti differenziati e delle “biblioteche di prossimità”.

In questa sede, non è prioritario di per sé ristringere questa ampiezza e ricchezza di significati, ma riflettere sulla qualità che un’esperienza di prossimità esprime. Una prossimità che non smuova processi di crescita della coesione sociale, della condivisione non interessa in questa sede, una prossimità che sia capace invece di accendere, alimentare, sviluppare benessere sociale in una logica comunitaria, questo invece sì. Ci si colloca quindi in una cornice che prova a catalizzare dentro sé gli aspetti che rendono la prossimità una sorta di unità di misura una cellula da cui partono o possono partire processi virtuosi e finalizzati al benessere di una comunità, di un gruppo di persone, di un quartiere, di un luogo.

La prossimità nella sua dimensione del “noi” 

La prossimità contiene una doppia prospettiva, quella dell'inclusività e quella della capacitazione e empowerment, come ci ricordano Francesco Messia e Chiara Venturelli nell'approfondire il tema del welfare di comunità (Messia, Venturelli, 2015). Richiede in partenza la disposizione ad “andare oltre con lo sguardo” nel senso di dare alla propria esistenza un orizzonte attraverso meccanismi di sospensione e riflessione, alzare gli occhi e riuscire a vedere gli altri che possiamo incrociare proprio nel meraviglioso paradosso di essere vicini, ma sentirsi accanto (“prossimi”) per quello che si riesce a condividere nel vedere, insieme, lontano. In sostanza, si è prossimi nel momento in cui si progetta insieme. Questo chiama in causa l’appartenenza, cioè il superamento del sentimento di solitudine e isolamento grazie alla consapevolezza di far parte appunto di uno stesso orizzonte che ci permette di cominciare a dire “noi”, ben sapendo che l'appartenenza può essere contemporaneamente l'elemento di unione sia degli aspetti positivi, sia dei suoi aspetti critici; la vita di ognuno crescerà in relazione alla crescita di quella degli altri che condividono uno stesso contesto e luogo, appunto ricco di potenzialità, ma anche di elementi deludenti e da ripensare. Ecco come si può comprendere la parola prossimità, oltre che nel senso di vicinanza, anche in una prospettiva inclusiva. Il nostro orizzonte dipende dalla condivisione di un orizzonte collettivo tra i soggetti appartenenti allo stesso contesto. Del resto, come sottolineato in un articolo su Welfare oggi del 2019 in cui si elabora una riflessione su alcune delle alcune esperienze di Prossimità osservate, “le indicazioni … relative alla necessità di ampliare il confronto e la partecipazione, rimandano all’immagine di un coro che sembra dire “non da soli”: dal confronto tra le esperienze di prossimità nasce una reciprocità, nuove intuizioni e lavoro comune per fertilizzare un terreno di sperimentazione che ha le caratteristiche per generare il nuovo. È questa la pista che le organizzazioni identificano per poter vivere la fragilità dichiarata dalle esperienze non solo come limite, ma come principio ispiratore di un processo di generatività sociale” (Bongiovanni, 2019).

La prossimità e la peculiarità dell'essere “a movente ideale”

I desideri, intesi come capacità di alzare lo sguardo e proiettarlo oltre le ‘miserie del presente’, sono l’elemento cruciale per poter immaginare nuove possibili configurazioni di futuro mitigando il ruolo, a volte ingombrante, che assume la tecnica nei processi di progettazione e azione nei nostri contesti» (Corvo, 2022). Luigi Corvo riesce in queste poche righe a rappresentare il senso di una dimensione, nel nostro caso la prossimità, che ha a che fare con la motivazione che nasce da un desiderio di visione; questo porta a non concepire una pratica come mera azione tecnica, ma invece come realizzazione di una speranza, di un’istanza, di una volontà, di una immaginazione.

Sempre Corvo parla di “capacità di interpretare i desideri delle comunità e dei territori, che riesce a coinvolgere in un processo di immaginazione collettiva, che attiva l’erotica collaborativa delle comunità come dispositivo collettivo irrinunciabile per costruire un futuro comune” (Corvo, 2022). Questo è quello che emerge osservando le pratiche di prossimità e che ne rappresenta un aspetto decisivo: la capacità di definire azioni, contesti e luoghi come frutto di un “desiderio di futuro”.

Andrè Gorz[6] parla di “ricchezza del possibile” indagando quelle situazioni, che oggi sono perfettamente ritrovabili nelle pratiche di prossimità, dove numerose possibilità contenute e spesso nascoste nelle pieghe del nostro presente riescono a proporre cambiamento perché spinte da un movente ideale forte, capace di superare le dimensioni della strutturazione rigida, della richiesta di aiuto di altri, della delega, della deresponsabilizzazione. La prossimità ha quindi a che fare con quel movente ideale che a più riprese Luigino Bruni e Alessandra Smerilli[7] ci ricordano, evidenziando che i soggetti sono spinti ad agire non solo per ottenere un mero vantaggio personale o, più semplicemente, un profitto; essi invece operano sulla base di una vera e propria missione o vocazione, o in altri termini, un movente ideale che risulta essere strettamente connesso alle proprie motivazioni intrinseche. Le motivazioni hanno dunque delle importanti conseguenze sulle scelte delle persone, ma anche su coloro che osservano tali scelte e che possono quindi a loro volta mobilitarsi.

La prossimità come dispositivo ad alta densità relazionale

Ragionare sulla prossimità significa anche interrogarsi su quello che la prossimità riesce a produrre: se cioè nel tempo attiva relazioni sane, inclusive e orizzontali, competenza e capacitazione di comunità.  La prossimità ha come risultato innanzitutto la lenta costruzione di legami, condizioni di convivenza, processi di reciprocità che durano nel tempo anche quando l’esperienza effettiva di prossimità è teerminata. Come ci ricorda Andrea Canevaro[8], “nessun processo avviene in solitaria, ma ha sempre bisogno di essere condiviso. E bisogna anche accettare che non ci sia sempre la possibilità di arrivare subito a un obiettivo, ma che si debba procedere individuando le terre di mezzo ed essendo allo stesso tempo terra di mezzo. Essere terra di mezzo diventa anche una possibilità per chi deve fare un percorso che non ha ancora chiaro e che quindi potrebbe non avere voglia di intraprendere o in cui potrebbe perdersi. Prossimità, farsi prossimo, vuol dire avvicinarsi: le terre di mezzo sono tappe nell’avvicinamento” (Canevaro, 2020).

Se allora la prossimità implica l’avvicinamento e la relazione, è importante che si mobilitino nelle persone che la praticano due dimensioni “fondamentali”, il tempo e le infrastrutture che consentono i legami. Riguarda al tempo, la prossimità si costruisce e diventa pratica di relazione se gli diamo tempo, se, come ci ricorda il premio Nobel Elinor Ostrom, si attiva un flusso di scambio, quello che quando si riferisce alla discussione tra le persone la Ostrom chiama le “chip things”, le conversazioni (Ostrom, Hess, 2009). La Ostrom ci ricorda che nella pratica, infatti, il legame fra le persone non è mai di tipo contrattuale, ma si basa su un sistema di scambio relazionale e di reciproci servizi. Rispetto alle infrastrutture che consentono i legami, “è necessario dare importanza alle infrastrutture di connessione e relativi ruoli; assumere un’ottica positiva per perseguire il bene dell’altro, senza sostituirsi, con rispetto, lontano dalla sola necessità di autorealizzarsi; praticare relazioni di solidarietà, incontri da soggetto a soggetto, da istituzione a istituzione; tra generazioni infra familiari, solidarietà mutualistica, dunque coesione che scaturisce dalla coscienza di far parte di un uno” (Seganti, 2014). E questo “sentirsi uno” non è un sentimento passivo, ma è tenuto insieme da consapevolezza e da capacitazione e rappresenta un “motore acceso” dentro le comunità in grado di costruire valore sociale indipendentemente dall'attività che mette in moto. Si ha infatti costruzione di valore se la prossimità riesce a essere compresa come pratica, ma anche e prima ancora come concetto. Molti soggetti e molte esperienze si sono poste questo parametro essenziale di costruzione di valore come si evince da questo estratto dal quaderno di formazione realizzato per le Case di quartiere di Torino, “l’aspetto divulgativo è parimenti essenziale: a poco servirebbe avere una Casa bellissima e ricca di appuntamenti se non fosse altamente frequentata. Accanto alle consuete promozioni che viaggiano su social network e newsletter, è importante sottolineare come, spesso, le attività delle Case di maggior successo facciano affidamento su un meccanismo di passaparola che si sviluppa nelle reti di prossimità già esistenti nel quartiere. I gruppi dei genitori di una scuola, così come i pensionati che si ritrovano sempre nelle stesse aree verdi o i frequentatori degli altri luoghi aggregativi del quartiere, rappresentano i primi stakeholder per gli operatori della Casa, sempre interessati a costruire con le figure di riferimento sociali rapporti solidi e privilegiati, perché sanno che la migliore promozione della Casa viaggia con il “carburante” della fiducia che i cittadini hanno nei confronti della stessa” (Sabarino et al., 2019). Questa istantanea presa, come dicevamo, dal lavoro delle Case di Quartiere di Torino ci restituisce proprio l'immagine che la prossimità sia valore grazie anche al fatto che si forma e sviluppa dentro una densità relazionale.

Conclusioni

Non volendo né potendo chiudere una riflessione che guarda le pratiche di prossimità - che per loro natura mutano e stanno già mutando mentre scriviamo - è interessante però proseguire a interrogarsi, non solo a partire dalle effettive esperienze di prossimità, ma anche considerando gli elementi simbolici che queste azioni producono. Del resto, come ci suggerisce Cravero, “L'azione non ha solo un valore concreto. Anzi il suo valore è innanzitutto simbolico. Simbolo e azione si rimandano a vicenda: senza azione non c'è alcuna comunicazione sociale e prima di dover essere compresa è l'azione stessa che apre alla comprensione. Il valore dell'azione è importante non solo per quanto può produrre ma ancor più per il processo formativo e simbolico che l'agire è in grado di suscitare in termini di consapevolezza. Conoscenza ed azione si rimandano circolarmente” (Cravero, 2009); e i dieci tratti caratteristici rimandano effettivamente a dimensioni simboliche. Ne fermiamo tre in questo paragrafo conclusivo: 1) il tema della relazione, che dovrebbe accompagnare le azioni sociali comunitarie anche dell'impresa sociale, 2) l'innovazione sociale, non come sfida, ma come necessità, 3) la capacitazione e poi la partecipazione grazie alla coscienza di luogo.

1. La relazione comunitaria e i moventi ideali

Quella della relazione comunitaria è una dimensione non nuova nelle pratiche sociali, ma che nella contemporaneità viene spesso trascurata o perso l'elemento generativo. Nelle pratiche studiate questo aspetto invece è sempre presente e vitale. In questi casi, l’azione di prossimità, anche se rivolta a poche persone - a un gruppo target specifico, a un problema, esigenza, desiderio o bisogno circoscritto - rimanda sempre ad un’ottica comunitaria. Si pensa alla comunità locale, condizionando così l'oggetto degli interventi da realizzare e anche i suoi esiti. Non solo: proprio le caratteristiche di complessità della comunità conducono spesso anche al ribaltamento della stessa logica degli interventi. La pratica collaborativa ridà intensità al vivere insieme, innescando filiere tra una azione e un'altra, tra una decisione e un'altra, tra un evento e un altro, ma anche tra un luogo e un altro. Si opera quindi per non far venir meno il dialogo e lo scambio tra strati differenti che compongono una città o che fanno vivere la città o il paese, o la cittadina, o il quartiere; e per questo, in molti casi, si accompagna all’ibridazione fra professioni, fra strati sociali, fra soggetti di natura diversa, ecc.

2. La sfida dell'innovazione sociale come processo necessario

L’innovazione sociale “di prossimità” consiste nella possibilità di affrontare problemi complessi attraverso meccanismi di intervento di tipo reticolare, combinando un’ampia gamma di strumenti e utilizzando forme di coordinamento e collaborazione piuttosto che forme verticali di controllo. E l'impatto che si genera “è tanto più elevato quanto più inclusivo è il processo di coinvolgimento della comunità, secondo modelli in continua evoluzione” (Andorlini, 2019). Questa mobilitazione di risorse umane porta in molte delle esperienze studiate ad un attivismo diffuso, in grado di moltiplicare energie e iniziative al servizio del cambiamento sociale. Non ci sono attori e settori più idonei di altri nello sviluppare pratiche di innovazione sociale, anzi in queste pratiche di prossimità si può dire che le esperienze più interessanti e radicali sono il frutto della collaborazione tra diversi attori appartenenti ad ambiti diversi. E così facendo di fronte alle difficoltà e alle opportunità di crescita si riesce a innovare esplorando territori inediti.

3. La capacitazione (e poi la partecipazione) di più persone possibili grazie alla coscienza di luogo

Le pratiche di prossimità osservate valorizzano il contesto, lo fanno diventare generativo, attivando la consapevolezza del numero maggiore possibile di soggetti che vivono quel territorio. Siano essi attori istituzionali, semplici cittadini, destinatari di interventi sociali, soggetti del terzo settore, nuovi contesti collaborativi organizzati. Si legge, talvolta in maniera nitida, talvolta solo scorgendola, una consapevolezza che rimanda ad un bisogno nativo, semplice, che riguarda il sentire delle persone verso il luogo e/o l’azione fatta in comune, la sensazione che “è indispensabile esserci” e che vince anche l’inerzia verso la fatica a partecipare. L’intervento di prossimità o il luogo fisico dove si svolge entrano a far parte del proprio vivere, come riferimento delle proprie aspirazioni, ma anche dei propri bisogni: questo si legge in quasi tutte le esperienze. Contesti dove si costruiscono relazioni trasversali non di tipo utilitaristico e individuale, ma di condivisione di destini collettivi. In specifico, la riappropriazione della “coscienza di luogo” ovvero di una coscienza che mira a tutelare i beni patrimoniali comuni - ossia culture, paesaggi urbani e rurali, produzioni locali, saperi -non nella prospettiva difensiva, bensì all'interno di un orizzonte solidale e partecipativo, dove sono portatori di diritti coloro che si prendono cura dei luoghi (Magnaghi, 2010), è la condizione, che attraversa le varie esperienze osservate, per contribuire alla ricostruzione di identità, territorialità e autosostenibilità. Relazioni comunitarie, innovazione sociale, coscienza di luogo risultano asset strategici di un modello di welfare di prossimità che ci si propone di continuare ad analizzare proseguendo il lavoro qui illustrato. 

 

Ringraziamenti

La ricerca muove sempre da una disponibilità e dalla condivisione di un obiettivo, che le organizzazioni protagoniste dell’indagine confermano e rafforzano. Un grazie speciale a tutte le 20 pratiche protagoniste della terza edizione dell’Osservatorio sulla prossimità in Italia.

DOI: 10.7425/IS.2023.01.08

Bibliografia

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Bruni L., Smerilli A. (2010), La leggerezza del ferro. Un'introduzione alla teoria economica delle Organizzazioni a Movente Ideale, Edizioni Vita e Pensiero.

Corvo L. (2022), “Introduzione”, in Andorlini C., Romano N. (a cura di), Appunti di progettazione sociale, Pacini Editore.

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De Certeau M. (1990), L’invention du quotidien, Gallimard ed.

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Magnaghi A. (2010), Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Edizioni Bollati Boringhieri.

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Sabarino M., Bergamin R., Romano S., Vico M., De Masi S., Cerrato G. (2019), Artigiani Sociali nelle Case del Quartiere - Le Competenze all’interno del Quadro Europeo, Quaderno di formazione.

Seganti M. (2014), “L'integrazione scolastica e sociale”, Verso una pedagogia di prossimità, 13(1).

Venturi P. (2021), L’ascesa delle alleanze di scopo, Vita.it, 16 marzo.

Note

  1. ^ Per approfondimenti, si rimanda alla sintesi delle precedenti edizioni dell’Osservatorio: Welfare Oggi 5/2017 e Welfare Oggi 5/2019; in entrambi i numeri di questa rivista sono stati realizzati dei focus dedicati al tema della prossimità, sia da parte degli autori che di altri contributori (interni ed esterni all’organizzazione della Biennale della Prossimità).
  2. ^ Le pratiche sono state oggetto di un approfondimento edito dal quotidiano Avvenire con un resoconto di storie di prossimità a puntate.
  3. ^ Elinor Ostrom è stata una politologa statunitense, premio Nobel per l'economia e punto di riferimento mondiale sul tema dei beni comuni.
  4. ^ È stata un'antropologa, scrittrice e attivista statunitense naturalizzata canadese.
  5. ^ Da The economy of city J. Jacobs 1969.
  6. ^ André Gorz è stato un filosofo e giornalista francese, fondatore dell'ecologia politica.
  7. ^ Luigino Bruni e Alessandra Smerilli sono economisti e punti di riferimento a livello nazionale e internazionale del pensiero e teoria dell'Economia Civile. Il tema del movente ideale a cui si fa riferimento in questo testo è tratto in particolare da (Bruni, Smerilli, 2010).
  8. ^ Andrea Canevaro è stato pedagogista e professore all'Università di Bologna.
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