L’obiettivo di questo saggio è identificare e mappare gli spazi collaborativi italiani dedicati all’innovazione sociale o che perseguono finalità sociali. Una volta descritte le principali caratteristiche di questi spazi – numerosità e distribuzione geografica, tipo di spazio, forma di governance, attività svolte e servizi erogati – il saggio approfondisce il caso della regione Emilia-Romagna attraverso un’analisi qualitativa delle funzioni che tali spazi svolgono a supporto dei lavoratori. Le funzioni rilevate sono principalmente quattro: la prima è una funzione comunitaria per professionisti esplicitamente impegnati in progetti e attività di innovazione sociale, le altre tre sono rivolte a lavoratori coinvolti dalle più recenti trasformazioni del lavoro, in particolare la transizione digitale. Nello specifico, si evidenzia una funzione di avvio a una professione o a un cambiamento professionale, per esempio nelle modalità di lavoro abilitate dalle nuove tecnologie; una funzione di accelerazione di una carriera già avviata, spesso in forma autonoma, imprenditoriale e nei settori digitali, e una funzione di ancoraggio inteso come supporto, non solo materiale, ma anche sociale, che di fatto integra o compensa la mancanza di sistemi di welfare aziendale o professionale per quei lavoratori che non riescono ad uscire dalla precarietà e che scontano una rilevante fragilità economica e sociale.
DOI: 10.7425/IS.2022.04.05
Gli spazi collaborativi sono luoghi di lavoro dove persone con differenti background formativi e professionali svolgono le proprie attività a contatto l’una con l’altra, condividendo gli stessi servizi e le stesse risorse, senza necessariamente lavorare per lo stesso datore di lavoro o su uno stesso progetto (Capdevila, 2015; Garrett et al., 2017). Gli spazi collaborativi rappresentano un fenomeno ancora in evoluzione ed eterogeneo, a cui spesso vengono ricondotte diverse realtà quali fab-lab, incubatori, spazi di coworking e hub culturali (Montanari et al., 2020). Tali realtà sono accomunate da un forte ethos collaborativo che spesso si traduce in un’atmosfera favorevole ai processi creativi, in opportunità di networking professionale e in un senso di comunità per chi li frequenta (Clifton et al., 2022; Garrett et al., 2017).
Gli spazi collaborativi sono principalmente popolati da professionisti e imprese che operano nei settori dell’economia digitale offrendo servizi spesso utilizzati da altre categorie di utenti degli spazi collaborativi: makers, lavoratori dipendenti in regime di remote working, studenti, cittadini e innovatori sociali (Capdevila, 2015; Clifton et al., 2022; Montanari et al., 2020). In tal senso, gli spazi collaborativi si stanno configurando come luoghi che intercettano non solo la trasformazione digitale del contenuto e delle modalità di lavoro, ma anche un insieme di esigenze di carattere sociale riconducibili a più ampie trasformazioni socio-economiche sviluppatesi negli ultimi decenni e accelerate dalla pandemia – tra cui, ad esempio, l’aumentata precarietà lavorativa e la crisi dei tradizionali sistemi di welfare (Avdikos, Pettas, 2021; Gandini, Cossu, 2021; Rodighiero et al., 2022). Ad esempio, un recente contributo di Ivaldi, Galuppo, Calvanese e Scaratti (2020) ha evidenziato la presenza in Italia di esperienze di welfare coworking, inquadrabili come spazi collaborativi nati esplicitamente attorno a progetti culturali o sociali di interesse per il contesto territoriale nel quale gli spazi sono localizzati e che vedono direttamente coinvolti, nella realizzazione dei loro progetti, i fondatori dello spazio e i professionisti che lo frequentano. Tali spazi si propongono di generare un valore che non è dato (solo) dai vantaggi individuali di cui beneficiano i singoli utenti, bensì dalla soddisfazione di specifici bisogni collettivi espressi, da un lato, dalla comunità professionale ricompresa in tale spazio e, dall’altro, dalla comunità locale in cui lo spazio si colloca (Avdikos, Iliopoulou, 2019; Gandini, Cossu, 2021).
La possibilità che gli spazi collaborativi – non solo quelli dichiaratamente dedicati a progetti di innovazione sociale – contribuiscano (anche) a soddisfare bisogni sociali emergenti, che almeno in parte sono legati alla rivoluzione digitale in atto, apre la possibilità di indagare se tali spazi possano rappresentare una possibile forma di imprenditorialità sociale, ad esempio supportando i giovani che si avviano al lavoro, offrendo un sostegno a professionisti in fase di riconversione oppure supportando forme di auto-tutela e protezione di lavoratori precari o fragili. Ciò consente di esplorare in modo originale e non scontato il legame che può esserci tra il fenomeno della digitalizzazione e forme diverse di sostegno sociale che possono assumere realtà imprenditoriali come gli spazi collaborativi.
Dal punto di vista empirico, il presente saggio triangola i risultati di una mappatura degli spazi collaborativi ad orientamento sociale presenti in Italia con quelli di un’indagine qualitativa focalizzata sui frequentatori di tali spazi in Emilia-Romagna. L’obiettivo è quello di approfondire le principali caratteristiche di tali spazi e i bisogni sociali e le funzioni che rendono inquadrabile la loro azione nell’ambito dell’imprenditorialità sociale.
Il saggio è strutturato come segue. Il prossimo paragrafo inquadra il fenomeno oggetto di indagine attraverso la letteratura esistente, mentre il terzo paragrafo illustra il disegno della ricerca empirica. I successivi due paragrafi presentano rispettivamente la mappatura degli spazi collaborativi a orientamento sociale presenti in Italia e i risultati della ricerca qualitativa finalizzata a meglio comprendere le funzioni di utilità sociale che tali spazi svolgono per i lavoratori che li popolano. L’ultimo paragrafo discute i risultati, suggerendo alcune conclusioni e linee di ricerca futura.
Lo sviluppo degli spazi collaborativi si radica in alcuni fenomeni socioeconomici che hanno attraversato l’ultimo decennio e a cui la pandemia ha impresso un’inevitabile accelerazione (Avdikos, Pettas, 2021; Gandini, Cossu, 2021; Rodighiero et al., 2022). In primo luogo, le trasformazioni del lavoro e la digitalizzazione dell’economia hanno contribuito ad un significativo incremento delle persone che lavorano in modo autonomo, che sono solo temporaneamente affiliate ad aziende o che svolgono la propria attività in remote working (Clifton et al., 2022). In secondo luogo, il graduale retrocedere del supporto garantito dai tradizionali sistemi di welfare e le condizioni di precarietà, informalità e “atomizzazione” che hanno coinvolto sempre più liberi professionisti e lavoratori della conoscenza (Merkel, 2019; Mondon-Navazo et al., 2022). L’avanzare di questi fenomeni è stata una delle determinanti della nascita di numerosi spazi anche nelle città medio-piccole e nelle aree periferiche del nostro Paese dove, a fianco ai classici spazi collaborativi business-oriented, si sono affermate molte realtà che potremmo definire a orientamento sociale, ossia spazi diretti a rispondere, attraverso progetti di innovazione sociale e di rigenerazione urbana, a esigenze socio-economiche condivise, spesso legate alla carenza di infrastrutture digitali diffuse (Rodighiero et al., 2022) o alla mancanza di servizi culturali e di welfare (Ivaldi et al., 2020; Gandini, Cossu, 2021).
A differenza degli spazi collaborativi puramente business-oriented che si configurano come iniziative imprenditoriali private e che basano il proprio modello di business sull’affitto di uffici, scrivanie e attrezzature, gli spazi collaborativi a orientamento sociale nascono spesso su iniziativa dell’attore pubblico, che concede finanziamenti e/o spazi fisici da utilizzare, e interviene direttamente nella governance di questi spazi per perseguire obiettivi legati alla comunità e al territorio in cui sono inseriti (Avdikos, Pettas, 2021, Gandini, Cossu, 2021). Si tratta, dunque, di spazi con un forte radicamento sul territorio e che vengono utilizzati dai decisori pubblici come strumenti di policy utili a promuovere progetti di innovazione sociale. Altre volte, però, gli spazi collaborativi nascono dall’attivazione di lavoratori che si riuniscono per condividere e gestire collettivamente uno specifico spazio di lavoro per rispondere alle loro esigenze professionali e personali e affrontare e risolvere criticità comuni (Avdikos, Iliopoulou, 2019).
Gli utenti possono partecipare a vario titolo alla fondazione e alla gestione di questi spazi a orientamento sociale che, dunque, si vanno a configurare come vere e proprie piattaforme organizzative di tipo collaborativo. Il loro fine, infatti, è quello di condividere risorse e affrontare problematiche comuni (condizioni di precarietà, ridotta rappresentanza, mancanza di servizi di welfare sul territorio, ecc.) pur garantendo l’autonomia imprenditoriale e professionale dei singoli utenti (Mondon-Nazano et al., 2022). Coerentemente con questi obiettivi, molti di questi spazi si caratterizzano per forme giuridiche di tipo cooperativo (Gandini, Cossu, 2021; Sandoval, Littler, 2019) o associativo e coinvolgono i partecipanti anche nel loro tempo libero (Avdikos, Iliopoulou, 2019). Così facendo, la creazione di un senso di comunità e lo sviluppo di reti di supporto e di meccanismi di solidarietà e responsabilizzazione reciproca emergono come valori e mission fondanti degli spazi a orientamento sociale (Sandoval, Littler, 2019). Questa condivisione valoriale e di finalità agevola la costruzione di reti relazionali e la nascita di processi collaborativi e creativi tra gli utenti degli spazi (Leone et al., 2022).
In letteratura non mancano esempi di casi italiani di spazi collaborativi a orientamento sociale. A titolo esemplificativo possiamo citare i cosiddetti welfare coworking (Ivaldi et al., 2020) o gli spazi collaborativi di resilienza che supportano e promuovono il cambiamento sociale attraverso l’interazione e la connessione con il territorio (Gandini, Cossu, 2021). Nonostante la crescente rilevanza del fenomeno, ad oggi manca uno studio che possa favorire una comprensione più precisa di quali siano i nuovi, emergenti bisogni a cui questi spazi collaborativi possono dare una risposta e attraverso quali caratteristiche e funzioni tali spazi possano di fatto rappresentare forme di imprenditorialità sociale per il territorio nel quale sono inseriti. A tal fine, questo saggio propone una mappatura di tutti gli spazi collaborativi a orientamento sociale presenti sul territorio nazionale e un approfondimento qualitativo sugli spazi della regione Emilia-Romagna.
Lo studio è stato strutturato in due fasi. Una prima fase ha riguardato una mappatura degli spazi collaborativi in Italia tramite un’analisi desk iniziata a ottobre 2017 e aggiornata periodicamente fino a maggio 2022. La mappatura degli spazi si è basata inizialmente su una ricerca online che ha prodotto una prima lista di spazi, dei quali sono stati consultati siti web e profili presenti sui social media. Le informazioni così raccolte sono state triangolate con dati presenti nei siti ufficiali di associazioni di settore, come, ad esempio, Italian Coworking, FabLabs.io, Lo Stato dei Luoghi, Trans Europe Halles, South Working e la consultazione di esperti e key informants. Questa analisi ha permesso di ottenere una mappatura di tutti gli spazi collaborativi presenti sul territorio nazionale, delle principali caratteristiche in termini di localizzazione geografica, anno di fondazione, forma di governance, numero di postazioni di lavoro e di utenti mensili, attività e servizi offerti, e obiettivi istituzionali. Ci si è quindi focalizzati sull’individuazione e lo studio degli spazi collaborativi con un orientamento sociale identificato sulla base o del tipo di governance dello spazio (pubblica o mista) o, nel caso di governance privata, della missione dichiarata, della forma giuridica (es. associazione, società cooperativa, fondazione) e/o del tipo di attività svolta prevalente (es. innovazione sociale).
Una seconda fase di approfondimento qualitativo si è basata su uno studio in profondità che ha coinvolto direttamente gli spazi collaborativi a orientamento sociale presenti in Emilia-Romagna. Tale fase di raccolta e analisi dati è stata condotta da fine 2018 ai primi mesi del 2022. In particolare, sono stati raccolti dati primari, quali interviste in profondità a gestori e frequentatori degli spazi mediante un protocollo semi-strutturato e in alcuni casi tramite l’osservazione diretta e partecipata (cioè visite in loco e partecipazione alle iniziative organizzate dagli/negli spazi). L’obiettivo di questa fase è stato quello di far emergere i temi ricorrenti e trasversali riguardanti gli spazi e l’ecosistema in cui sono inseriti.
Sono stati selezionati 22 spazi seguendo un criterio di rappresentatività sia delle diverse categorie di spazi emerse dalla mappatura, sia delle diverse province della regione e della numerosità di spazi collaborativi nelle diverse province. Sono state condotte 106 interviste. Sulle trascrizioni delle interviste è stata effettuata una analisi qualitativa induttiva (Gioia et al., 2013) finalizzata a descrivere e interpretare i dati raccolti e, quindi, a fornire un’indicazione su temi emergenti dallo studio degli spazi. In particolare, abbiamo identificato i diversi ruoli che gli spazi svolgono nei processi di trasformazione del lavoro, di supporto ai lavoratori e di innovazione sociale.
Attraverso la mappatura sono stati individuati 304 spazi collaborativi a orientamento sociale attivi in Italia a maggio 2022, pari a circa il 29% dei 1.056 spazi collaborativi presenti sul territorio nazionale. I dati raccontano che, se in termini numerici il fenomeno ha ormai assunto dimensioni di rilievo, dal punto di vista dell’evoluzione temporale esso si caratterizza per una storia piuttosto recente. Circa il 55% degli spazi collaborativi social-oriented, infatti, è stato fondato a partire dal 2016, anno in cui si è registrato il maggiore numero di nuove aperture di questo tipo di spazi (56 nuove aperture). Pur rallentando, il trend di crescita è proseguito anche durante la pandemia: circa il 10% degli spazi collaborativi social-oriented è stato fondato dal 2020 in poi, a conferma della vivacità del fenomeno.
In termini di governance, gli spazi collaborativi a orientamento sociale sono gestiti soprattutto da soggetti privati (circa il 68% del totale), principalmente associazioni (poco più del 60% degli spazi a governance privata). Questo testimonia come gran parte di questi spazi si fondi su iniziative di carattere sociale già sedimentate sul territorio. Il ruolo del pubblico è comunque tutt’altro che marginale, visto che molti spazi collaborativi godono di qualche forma di supporto diretto o indiretto (finanziamenti, concessioni, co-partecipazione nell’erogazione di determinati servizi, ecc.), le quali si integrano al quasi 15% di spazi a governance puramente pubblica.
Il coworking è il tipo di spazio collaborativo a orientamento sociale più diffuso (148 spazi, poco meno della metà degli spazi social-oriented). Si tratta soprattutto di spazi di medio-piccole dimensioni e dalla governance privata, principalmente associazioni (è comunque interessante notare come le società cooperative contino per un terzo circa). Sono perlopiù gestiti da un nucleo consolidato di professionisti che si aggregano al fine di condividere servizi e risorse e che cercano di attrarre all’interno del proprio coworking altri liberi professionisti, lavoratori in remote working e/o membri di start-up con esigenze sociali e professionali simili tra loro. Non a caso, si differenziano dai coworking business-oriented per il maggior grado di coinvolgimento degli utenti nella gestione e per il minore tasso di turnover che ne deriva. Inoltre, non sono riconducibili a modelli di franchise (es. Regus, WeWork) o di hot desking, o a spazi più simili a business center, in cui l’affitto di uffici privati ha maggiore centralità rispetto all’offerta di ambienti di coworking.
I fab-lab rappresentano il secondo tipo di spazio più diffuso (59 spazi, circa il 19% del totale). Si tratta principalmente di spazi che assumono una forma giuridica di tipo associativo e si focalizzano su iniziative di innovazione sociale o di tipo educativo. Non a caso, molti fab-lab promuovono collaborazioni con scuole o università o, in alcuni casi, sono stati creati proprio al loro interno. Gli utenti, i cosiddetti makers, sono solitamente studenti e professionisti in ambito digitale che partecipano su base volontaria e contribuiscono attivamente alla gestione dello spazio. Inoltre, l’impatto sociale dei progetti promossi dai fab-lab ne ha favorito la diffusione anche in città di piccole dimensioni, nelle quali possono contribuire a colmare i gap in infrastrutture e competenze digitali.
Gli spazi polifunzionali o ibridi rappresentano il terzo tipo di spazi a orientamento sociale più diffuso (48 spazi, circa il 16% del totale). La natura polifunzionale o ibrida di tali spazi deriva dall’integrazione di ambienti di coworking o fab-lab riservati ai propri utenti abbonati – o, comunque, affiliati allo spazio – con sale studio, aree bar e aree per eventi culturali aperte a tutta la comunità locale e caratterizzate da modalità di accesso più flessibili e informali. Molti di questi spazi si pongono a integrazione dell’offerta culturale e di welfare nelle aree periferiche delle città medio-grandi, contribuendo di conseguenza a rivitalizzarne il tessuto urbano e a offrire servizi per giovani e categorie più fragili.
Invece, la diffusione degli hub culturali (36 spazi, circa il 12% del totale) è in parte riconducibile a progetti di rigenerazione urbana in cui associazioni culturali o gruppi informali di creativi si insediano in edifici riqualificati, spesso usufruendo di concessioni d’uso gratuito o grazie a bandi pubblici. Molti hub culturali ricercano un forte radicamento sul territorio, ad esempio offrendo servizi educativi, attività culturali o, in alcuni casi, servizi di inserimento occupazionale e accelerazione imprenditoriale per giovani creativi. Ciò si affianca all’offerta di postazioni di lavoro, atelier, sale concerto o sale prova, talvolta fruibili anche a titolo gratuito (o, comunque, a prezzo ridotto) in base alla disponibilità economica di chi ne fa richiesta.
Gli incubatori sono gli spazi meno diffusi tra quelli a orientamento sociale (13 spazi, circa il 4% del totale). Si tratta principalmente di incubatori a governance pubblica (es. fondati da università) e di incubatori focalizzati sullo sviluppo di start-up a modello cooperativo. Oltre a offrire programmi di accelerazione e incubazione d’impresa e a facilitare l’accesso a finanziamenti, gli incubatori mappati offrono postazioni di lavoro, sale riunioni e altri ambienti condivisi a start-up, neoimprenditori e studenti con progetti ad alto impatto sociale (es. nell’ambito della formazione, del welfare e della sostenibilità ambientale).
Poco più della metà degli spazi collaborativi a orientamento sociale si trova nel Nord Italia (nel dettaglio, circa il 29% nel Nord Est e circa il 23% nel Nord Ovest). Circa il 25%, invece, si trova nel Mezzogiorno, dove si è registrata una rapida crescita negli ultimi anni: quasi due terzi degli spazi collaborativi social-oriented del Mezzogiorno sono nati dal 2016 in poi (contro la metà circa per gli spazi del Nord Italia). Tale crescita è da ricondursi, da un lato, allo sviluppo dell’associazionismo locale e, dall’altro, alle politiche di stimolo alla creatività promosse da alcune regioni. Un esempio è quello della Puglia (si veda anche Palmi, 2022), regione in cui sono nati negli ultimi anni coworking e hub culturali il cui sviluppo è stato favorito dalla disponibilità di bandi e finanziamenti regionali. In termini di associazionismo, invece, un esempio interessante è rappresentato dalla rete di South Working, creata nel 2020 con l’obiettivo di porsi come strumento di aggregazione di istanze e risorse di supporto in tema di precarietà lavorativa, bilanciamento vita-lavoro e rappresentanza di liberi professionisti e lavoratori in remote working (si veda anche Mirabile e Militello, 2022). In particolare, tale rete ha favorito lo sviluppo di nuovi coworking in località con minori servizi e infrastrutture – anche digitali – per i professionisti e la comunità locale. Nonostante la sua genesi recente, 30 spazi dei 304 spazi social-oriented mappati sono affiliati alla rete di South Working.
La diffusione degli spazi collaborativi a orientamento sociale nelle aree interne[1] del Paese è di particolare interesse. Nello specifico, ne abbiamo mappati 36 (principalmente coworking, fab-lab e hub culturali), pari a circa il 12% degli spazi social-oriented. Oltre due terzi degli spazi in aree interne si trova nel Mezzogiorno, a conferma della recente crescita degli spazi a orientamento sociale nelle regioni del Sud e del ruolo di aggregatore di istanze sociali e di offerta di servizi culturali e di welfare ricoperto da tali spazi. Alcuni di questi spazi, inoltre, sorgono in edifici pubblici (es. scuole, biblioteche, edifici di interesse storico-culturale) andati in disuso a causa dello spopolamento delle aree interne, avanzando l’ambizione di fornire una nuova funzione di pubblica utilità a tali edifici e, così facendo, di radicarsi nel territorio. Molti spazi, inoltre, hanno il preciso obiettivo di attrarre in loco, e far restare, giovani professionisti, lavoratori creativi e lavoratori in remote working.
Nella prossima sezione dettaglieremo l’analisi qualitativa condotta sui frequentatori degli spazi dell’Emilia-Romagna. L’Emilia-Romagna rappresenta un contesto interessante, in quanto, oltre a essere la seconda regione italiana per numero di spazi a orientamento sociale (45 spazi, dato inferiore solo a quello della Lombardia), mostra anche una distribuzione capillare sul proprio territorio (si veda anche Leone et al., 2021; Mattioli, 2021). L’Emilia-Romagna gode anche, da un lato, di una tradizione di associazionismo e di cooperative a forte impatto sociale e, dall’altro, di una stretta collaborazione tra pubblico e privato (es. definizione di bandi per giovani creativi e innovazione sociale o di percorsi di co-progettazione con le comunità locali) che hanno favorito negli ultimi anni lo sviluppo di molti spazi collaborativi a orientamento sociale, anche in aree periferiche e in comuni di minori dimensioni.
Come illustrato nella mappatura, gli spazi collaborativi a orientamento sociale presentano molte differenze in termini di governance, attività, utenti e funzioni svolte per i lavoratori e la comunità locale. L’analisi qualitativa condotta su un gruppo selezionato di questi spazi in Emilia-Romagna, e in particolare sui loro gestori e frequentatori, declina quali sono le funzioni che essi svolgono e identifica i principali gruppi di professionisti che decidono di lavorarvi. Le funzioni che abbiamo identificato sono quattro: una funzione “comunitaria”, una di avviamento alla professione, una di accelerazione della professione e una di ancoraggio professionale e personale. Alcuni spazi svolgono tutte queste funzioni, seppur in modo diverso. In altri casi, gli spazi si dedicano a una funzione prevalente, anche influenzati da fattori contingenti (come, ad esempio, la necessità di lavorare da remoto durante le fasi più dure della pandemia da Covid-19 o la precarietà lavorativa derivante dall’attuale situazione economica) che determinano quale funzione prevale sulle altre.
La funzione “comunitaria” riguarda quegli spazi che si contraddistinguono per offrire ai lavoratori una comunità professionale di affiliazione in cui possano riconoscersi. Di conseguenza, molte delle attività svolte sono dirette a sostenere lo sviluppo del senso di comunità tra i frequentatori dello spazio. Questo senso di comunità riguarda la presenza di valori comuni e di un’identità condivisa, che va oltre la realtà professionale. Spesso il risultato delle dinamiche di affiliazione dei frequentatori della comunità professionale che sorge attorno allo spazio è la costituzione di gruppi più o meno formali di lavoro, o più o meno autogestiti, come riporta uno dei manager di uno spazio polifunzionale in provincia di Modena che racconta come non sia raro che i frequentatori degli spazi si raggruppino in organizzazioni (associazioni, “collettivi” o cooperative) di diverso tipo: “l’associazione è nata un po’ dai coworker e da alcuni makers per poter fare delle attività insieme e anziché presentarci come singoli, ci presentiamo come un gruppo” (cit. Interv. #AS19). Attraverso lo spazio, le comunità di coworker danno spesso vita a progetti che rispondono ai bisogni del territorio in cui si radicano, diventando un vero e proprio catalizzatore per l’innovazione sociale. È il caso di alcuni spazi che, a partire da idee sviluppate dalla community dei frequentatori, hanno lanciato progetti con ampie ricadute sociali, come ad esempio l’inserimento nel mondo del lavoro di categorie svantaggiate. A frequentare questi spazi sono prettamente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, istruiti e con ampia esperienza professionale, già attivi principalmente nel campo dell’innovazione sociale e della cultura, accomunati spesso non solo dagli stessi bisogni, ma anche dagli stessi interessi personali.
Molti degli spazi social-oriented svolgono una funzione di avviamento, in particolar modo per professionisti (sovente dei settori digitali) giovani nelle fasi iniziali della propria carriera, o per quei lavoratori, più senior, che stanno attraversando una fase di transizione professionale (ad esempio, perché stanno lasciando un posto fisso per una professione indipendente o perché stanno iniziando a sperimentare il lavoro da remoto). Non a caso questa funzione di avviamento è divenuta spesso prevalente dopo l’insorgenza della pandemia da Covid-19, quando molti spazi hanno lavorato come veri e propri helpdesk fornendo orientamento e supporto a quei lavoratori dipendenti che hanno iniziato a lavorare da casa e a cui mancavano risorse e competenze necessarie all’adattamento alla nuova modalità di lavoro (ad esempio, mancanza di una stampante o di una connessione veloce da casa o poca familiarità con software di videoconferenze). Da quanto emerge dalle interviste, infatti, gli spazi che si dedicano maggiormente a questa funzione supportano i frequentatori innanzitutto mettendo a loro disposizione postazioni di lavoro e altre risorse materiali (sale riunioni, stampanti e altre attrezzature, ecc.). Così facendo, tali spazi aiutano i frequentatori anche a migliorare il bilanciamento vita-lavoro, contribuendo a mettere dei confini tra tempi e spazi di lavoro e non lavoro, e soprattutto contribuiscono a ridurre l’incertezza che caratterizza l’avvio di una professione, come ad esempio, un free lance attivo nel social media management fa notare: “all’inizio sei sempre abbastanza precario e quindi hai anche bisogno di crearti una certa stabilità […] questo posto ti dà una stabilità e te la dà anche mentale” (cit. Interv. #CS1).
Una terza funzione svolta dagli spazi collaborativi a orientamento sociale è quella di accelerazione del percorso professionale. In questi casi, gli spazi accolgono soprattutto startupper e lavoratori autonomi del mondo della comunicazione digitale che frequentano gli spazi collaborativi per una convenienza economica e le opportunità professionali. Così come sottolinea un libero professionista di uno spazio in provincia di Modena, “frequentare questo spazio ha semplicemente stimolato la mia libera professione, l’ha portata avanti, l’ha incentivata” (cit. Interv. #CS1). Questi spazi supportano i lavoratori, accelerando dei processi di affermazione professionale che altrimenti impiegherebbero più tempo, maggiori sforzi, garantendo accesso a risorse (relazionali, cognitive e tecnologiche) poco disponibili nel territorio in cui risiedono. Per usare le parole di un frequentatore di un coworking gestito da una cooperativa sociale: “partendo da zero, in un luogo così, un freelance o una start up, tramite le varie collaborazioni può arrivare a raggiungere dei risultati molto buoni in poco tempo” (cit. Interv. #EM14).
Un’ulteriore funzione di supporto che svolgono molti spazi collaborativi a orientamento sociale da noi considerati è quella dell’ancoraggio professionale e personale per quei lavoratori, in particolar modo autonomi, che mostrano una maggiore fragilità economica e un livello di esperienza professionale minore, e che si collocano al di fuori dei sistemi di welfare privati e pubblici e di ordini professionali. Per questi motivi, gli spazi supportano questi lavoratori, innanzitutto, aiutandoli a ridurre il rischio di isolamento professionale e personale, offrendo loro opportunità di socializzazione e di networking, e, in secondo luogo, contribuendo ad accrescere il loro riconoscimento e legittimazione professionale, dando, attraverso lo spazio, un luogo che li renda visibili sul mercato del lavoro, ai potenziali clienti e alle imprese del territorio, come raccontato dai seguenti intervistati: “Avevo bisogno di non lavorare da casa […] sentivo la necessità di uscire, di parlare con altre persone e di darmi una struttura” (cit. Interv. #EM15); “Quando sono entrato avevo una partita IVA traballante e una professionalità ancora da costruire. Questo spazio mi ha dato un luogo dove potere ricevere delle persone, quindi maggiore autorevolezza” (cit. Interv. EM13).
La nostra mappatura ha confermato che in Italia, negli ultimi anni, si sono diffusi in numero rilevante, e con una distribuzione geografica non scontata, diversi tipi di spazi collaborativi che svolgono funzioni di utilità sociale rispondendo a bisogni collettivi espressi dalla comunità locale nella quale sono inseriti. Molti di questi spazi sorgono grazie all’intervento di soggetti pubblici, ma anche su iniziativa dell’associazionismo e della cooperazione. La loro diffusione sta sempre più coinvolgendo non solo i centri delle città più grandi e le loro zone periferiche, ma anche i comuni più piccoli, compresi quelli nelle aree più interne del nostro Paese.
Come discusso nelle pagine precedenti, questi spazi ripropongono – sia pur nella varietà delle caratteristiche che li contraddistinguono (es. in termini di dimensione, tipo o localizzazione geografica) – le esperienze dei welfare coworking e degli spazi collaborativi “di resilienza” già evidenziati in letteratura (Gandini, Cossu, 2021). Tuttavia, rispetto alle ricerche esistenti, il nostro studio ha permesso di meglio esplicitare le funzioni sociali svolte da questi spazi. Oltre a una funzione che abbiamo definito “comunitaria” proprio perché esplicitamente orientata ai professionisti che in questi spazi lavorano su progetti dedicati alla comunità locale, gli spazi da noi identificati svolgono, in tanti casi non per mission esplicita, ma informalmente, un insieme di funzioni di supporto ai lavoratori che stanno attraversando una transizione professionale, anche e soprattutto per effetto della digitalizzazione. Da questo punto di vista, tali spazi, soprattutto nelle aree periferiche e più interne del Paese, rappresentano una valida alternativa mediante la quale i lavoratori (ma più in generale la comunità locale) possono accedere alle tecnologie digitali di cui necessitano e, allo stesso tempo, diventano piattaforme di imprenditorialità sociale in cui sviluppare e rafforzare nuove competenze digitali, attraverso corsi di formazione, eventi e la presenza di altri professionisti in possesso delle suddette competenze (Lange et al., 2022).
Nello specifico, le principali funzioni emerse dalla nostra analisi qualitativa indicano che molti spazi a orientamento sociale intercettano e catalizzano i cambiamenti nel mondo del lavoro, rappresentando una leva di avviamento al lavoro e di accelerazione professionale, non solo per i professionisti che sono nelle fasi iniziali della loro carriera, ma anche per i lavoratori che stanno sperimentando un cambiamento o un’evoluzione professionale (dovuti, ad esempio, a un cambiamento nelle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative). Allo stesso tempo, gli spazi collaborativi che abbiamo analizzato offrono un ancoraggio ai lavoratori più precari e fragili che si articola non solo in termini materiali, ma anche e soprattutto in termini sociali e personali. Così facendo, questi spazi contribuiscono a migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli individui che li popolano, ad esempio facendoli uscire dall’isolamento e dall’informalità e dando loro opportunità di socializzazione e visibilità.
Non pare dunque azzardato sostenere che tali spazi rappresentino spesso forme di imprenditorialità sociale, proprio per la presenza di una forte mission sociale che influenza la scelta delle attività e dei servizi offerti. Naturalmente, questo studio presenta una prima ricerca di tipo esplorativo. Interessante può essere indagare in modo più approfondito quanti e quali spazi a orientamento sociale siano maggiormente consapevoli di questo loro ruolo, al fine di valorizzarlo (anche formalmente) e di potenziarlo, così da creare benefici per gli spazi stessi, per i singoli frequentatori e per la comunità locale. Da questo punto di vista, un fenomeno da tenere monitorato riguarda anche la nascita di reti di coworking e, più in generale, di network di spazi collaborativi di tipo “solidale” volti a riunire insieme più spazi a orientamento esplicitamente sociale per aumentarne l'impatto non solo sulla comunità locale più prossima, ma con riferimento anche a intere regioni o aree territoriali più ampie, come testimoniano le esperienze di South Working, il network P@sswork o il caso dei Laboratori Aperti dell’Emilia-Romagna (si veda anche Ivaldi et al. 2020). Un’interessante linea di ricerca futura è quindi rappresentata dallo studio dell’evoluzione di questi spazi e reti, con l’obiettivo di coglierne la continuità, la sostenibilità e la capacità di impatto nel medio-lungo termine.
Avdikos V., Iliopoulou E. (2019), “Community-led coworking spaces: From co-location to collaboration and collectivization”, in Gill R., Pratt A.C., Virani T.E. (eds.), Creative hubs in question, Palgrave, Cham, pp. 111-129.
Avdikos V., Pettas D. (2021), “The new topologies of collaborative workspace assemblages between the market and the commons”, Geoforum, 121, pp. 44-52.
Capdevila I. (2015), “Co-working spaces and the localised dynamics of innovation in Barcelona”, International Journal of Innovation Management, 19(3), pp. 1-25.
Clifton N., Füzi A., Loudon G. (2022), “Coworking in the digital economy: Context, motivations, and outcomes”, Futures, pp. 1-14.
Gandini A., Cossu A. (2021), “The third wave of coworking: ‘Neo-corporate’ model versus ‘resilient’ practice”, European Journal of Cultural Studies, 24(2), pp. 430-447.
Garrett L., Spreitzer G., Bacevice A. (2017), “Co-constructing a sense of community at work: The emergence of community in coworking spaces”, Organization Studies, 38(6), pp. 821-842.
Gioia D.A., Corley K.G., Hamilton A.L. (2013), “Seeking qualitative rigor in inductive research: Notes on the Gioia methodology”, Organizational Research Methods, 16(1), pp. 15-31.
Ivaldi S., Galuppo L., Calvanese E., Scaratti G. (2020), “Coworking space as a practised place between welfare working and managerial challenges”, Journal of Workplace Learning, 33(1), pp. 26-44.
Lange B., Herlo B., Willi Y., Pütz M. (2022), “New working spaces in rural areas: designing a research agenda for regional sovereignty in post-pandemic times”, in Mariotti I., Di Marino M., Bednář P. (eds.), The COVID-19 Pandemic and the Future of Working Spaces, Routledge.
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