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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2022

Saggi

Welfare post-pandemico, politiche della cura e terzo settore: de-istituzionalizzazione o (neo)privatizzazione?

Maria Cristina Antonucci, Armando Vittoria

Introduzione e finalità del contributo

Le politiche della cura, con attenzione per specifici segmenti di destinatari e portatori di fabbisogni (non autosufficienze, disabilità), sembrano aver trovato un rinnovato interesse e qualche elemento di innovazione all’interno del quadro di pianificazione predisposto con il PNRR che provvede ad allocare le risorse previste da Next Generation EU. Dopo un lungo quindicennio di politiche di austerità e dinamiche di privatizzazione e finanziarizzazione, almeno potenzialmente si allarga il diaframma di finanziamento delle politiche in settori quali la sanità (Pet Mesi Dou et al., 2014; Reeves et al., 2014; Arcà et al., 2020), politiche sociali (Ciarini, 2019; Ciarini, Neri, 2021), l’assistenza alle non autosufficienze (Arlotti et al., 2021; Da Roit, 2021; Buzelli, Boyce, 2021), la disabilità (Portillo Navarro et al., 2021). 

Tuttavia, l’intervento ad oggi pianificato attraverso il PNRR per questi settori, pur sperimentando alcune linee guida originali per il contesto italiano (de-istituzionalizzazione, telemedicina di prossimità, riorganizzazione territoriale dell’integrazione sociosanitaria) e un approccio di programmazione pluriennale supportato da una significativa dotazione di risorse finanziarie, risulta non sempre e non appieno coordinato e integrato con i modelli organizzativi ordinari di sanità e sociale. La sanità, in particolare, emerge dall’austerity fortemente indebolita da pesanti riduzioni per struttura, organici, dotazioni funzionali e strumentali: 37 miliardi di tagli al Sistema Sanitario Nazionale, 180 strutture ospedaliere chiuse, 30.000 posti letti in meno, 5.000 medici specialisti, 4.000 medici di base e 7.500 infermieri in meno negli ultimi 15 anni secondo le indagini ISTAT.

La mancanza di integrazione tra la pianificazione ordinaria negli ambiti sociale, assistenziale e sanitario e quella prodotta sull’asse PNRR espone queste arene di policy-su-policy, centrali per la risposta welfaristica ai fabbisogni sociali di base e per la politica di cura a individui e famiglie, a diversi rischi. Da un lato, la sovra-dotazione finanziaria di alcuni progetti vagamente definiti dalla governance del PNRR (ospedali di comunità, case della comunità) rischia di creare strutture socio-sanitarie allocate nel deserto degli interventi, o legate ad una condizione temporanea e post-emergenziale, sottraendo risorse e forza all’azione di policy sociale che incrocia i fabbisogni durevoli e stabili; questi ultimi appaiono aggravati dal backlash pandemico, e prospetticamente in crescita considerato l’invecchiamento demografico che colpisce il sistema italiano (ISTAT, 2022). Dall’altro lato, il debole re-investimento sui settori sanitario e sociosanitario (cui sono destinate solo parte delle risorse liberate temporaneamente dai fondi PNRR) espone ad un indebolimento ulteriore le politiche strutturali in ambito sanitaria e sociale, peraltro già – o ancora? – assorbite dall’emergenza pandemica, con il rischio che la finestra di risorse e pianificazione straordinaria si traduca, come avvenne per molte fasi della Cassa per il Mezzogiorno, in un tracollo della politica ordinaria in questi ambiti. Per impiegare una metafora esemplificativa, l’intervento della missione 6 del PNRR sul comparto sanitario e sociosanitario è paragonabile alla deviazione di un fiume, che è stato a lungo siccitoso e che vede ora ritornare afflusso di liquidi; a causa della deviazione essi saranno riorientati verso nuovi percorsi, sulla cui sicurezza e tenuta è davvero difficile effettuare previsioni certe in questa fase, limitandosi a rilevare il mutamento del corso.

In una prospettiva teorica, la situazione attuale comporta l’insieme di una serie di fattori che determinano la straordinaria complessità dell’attuale fase di transizione. Senza avere l’intento di considerarne una disamina complessiva, ma con la finalità di ricostruire la situazione di partenza, proviamo in questa sede prenderli in rassegna:

  1. il disallineamento tra pianificazione straordinaria da PNRR delle politiche sanitarie e la pianificazione ordinaria;
  2. l’inadeguato re-investimento – nei termini precedenti al decennio dell’austerity – sulle politiche sanitarie e sociali, anche in ragione della concentrazione dell’attività di policy sulle risorse derivanti dal piano straordinario;
  3. la persistenza di alcune tendenze nel welfare (esternalizzazioni, anche a soggetti del Terzo settore, di linee di attività e intervento, privatizzazione di servizi sanitari e di welfare, stabilizzazione del contributo degli assistiti per le prestazioni che realizzano i LEA) che si qualificano come elementi di indirizzo nella direzione della neo-governamentalità (Pellizzoni, Sena, 2021).

Quest’ultima, in particolare, è un approccio inteso a porre in luce il modello di controllo razionale e di presa in carico delle esigenze dei cittadini da parte del governo; esso si verifica in specifici ambiti di politiche, proprio come quelle sanitarie e assistenziali, e viene esercitato dal governo appoggiandosi sul consenso delegante del popolo, più che su partecipazione e coinvolgimento nelle scelte collettive. Si tratta di un paradigma ideologicamente niente affatto neutrale, che ha manifestato un pieno dispiegamento nel caso del governo tecnico Draghi; esso, come anche nel caso del governo tecnico del 2012, ha manifestato un approccio peculiare, coniugando il perno dell’antipolitica degli “esperti” (Easterly, 2015), impiegati come fondamento di settori di politiche significativamente connessi con il PNRR e con le decisioni pandemiche, con la logica tecno-populista del consenso, espresso secondo modalità binarie e polarizzanti all’interno della società politica (Bloom, Sancino, 2019).

Questa complessa serie di fattori conduce ad un univoco punto di caduta sul piano delle politiche pubbliche di welfare: il ri-accentramento verticale nel governo nazionale della direzione e degli strumenti per la realizzazione delle politiche sanitarie e sociali finanziate dalla fiscalità generale e da risorse NGEU. A tale percorso di verticalizzazione decisionale statale corrisponde anche una ri-centralizzazione decisionale di tipo orizzontale, ossia un percorso finalizzato a limitare, nella prassi di urgenza del PNRR, quella spinta a co-costruire una rete di welfare plurale, comunitario e partecipativo, un fenomeno costruito, pur tra mille difficoltà, a seguito della riforma del Titolo V del 2001. Un modello di governo che eleva a sé, in virtù della contrazione dei tempi e dei passaggi istituzionali per l’approvazione del PNRR, tutto il carico delle decisioni e della governance in ambiti, quali sanità e sociale, sembra contrastare in modo consistente il percorso di sussidiarietà verticale e di leale collaborazione tra Stato, Regioni e Autonomie che pure aveva prodotto percorsi di welfare orientati alla co-costruzione istituzionale. Parimenti, l’idea che l’emergenza di tempi e di modalità di implementazione del PNRR imponga una rapidità decisionale connessa con un ruolo di guida sintetica del governo sembra comportare, relativamente alle politiche delineate nel piano straordinario, una stasi del rapporto di consultazione, collaborazione, coinvolgimento di molti soggetti del Terzo settore tradizionalmente coinvolti all’interno del comparto sanitario e soprattutto sociosanitario e sociale. Non sorprende, pertanto, che siano proprio i passaggi riferiti al Terzo settore del PNRR i segmenti più improntati ad una visione idealizzata, anziché frutto di un confronto concreto, del ruolo sociale, economico e politico del privato sociale. Va certamente registrata con favore la tendenza a prevedere forme di coprogettazione degli interventi con il Terzo settore contenuta in molti avvisi pubblici relativi a fondi PNRR; ma nei fatti ciò 1) generalmente deve avvenire in tempi molto ristretti per rispettare le tempistiche di realizzazione degli interventi, rendendo impossibile un reale confronto tra i diversi soggetti e 2) spesso si realizza a partire da un quadro ampiamente predefinito all’origine e quindi oggettivamente con poco spazio per la creatività e la progettualità del Terzo settore.

In prospettiva, il rischio è che le risorse post-pandemiche in ambito sanitario e sociale reiterino per i modelli di welfare South-European il prodursi di quei fenomeni di retrenchment pubblico e sociale, e di privatizzazione istituzionale (Verney, Bosco 2013; Ongaro. 2014; Petmesidou et al., 2014; Di Mascio, Natalini, 2015) cui il neo-managerialismo aveva dato l’avvio con le sue politiche di austerity. L’emergenza sanitaria e sociale che i modelli europei vivono dovrebbe invece servire per un complessivo ripensamento dei sistemi di lettura dei fabbisogni e di erogazione dei servizi autenticamente calati nei diversi contesti territoriali e con un coinvolgimento autenticamente partecipativo di tutte le forze istituzionali, del profit e del non profit, coinvolte nel sistema di politiche pubbliche per sanità e sociale. Solo con un coinvolgimento di tutti gli stakeholder, con una finalizzazione verso obiettivi esplicitati, comuni e condivisi, la ripresa e la resilienza delle politiche sanitarie e di welfare diventa un obiettivo di policy praticabile ed effettivo.

L’articolo propone una prima esplorazione della programmazione, e delle linee di policy-implementation, previste dalla pianificazione del PNRR in materia di sanità (Misura 6), con particolare riferimento al caso degli Ospedali di Comunità come sotto-misura (M6.C1). Essendo un ambito di policy, quello PNRR-NGEU, approvato sotto la forma della pianificazione di un intervento straordinario, si cercherà di osservare l’impatto del ciclo di questa programmazione di policy-su-policy rispetto a quattro dimensioni:

  1. centralizzazione, o tendenza ad un impulso neo-statalista nell’approccio di governance istituzionale, riducendo la sussidiarietà verticale);
  2. de-istituzionalizzazione, ovvero in che misura il disegno di implementazione della sotto-misura effettivamente miri ad aumentare il coinvolgimento dei soggetti dell’autonomia sociale organizzata, o, diversamente, se invece impatti negativo sulla sussidiarietà orizzontale e sul community welfare, rispetto ai modelli di inclusione degli attori del Terzo settore nella co-programmazione e co-progettazione;
  3. standardizzazione della governance istituzionale dei servizi, delineata mediante il sistema dei contratti istituzionali di sviluppo;
  4. selettività/universalità dell’accesso alle prestazioni, laddove gli strumenti per assicurare l’effettività del diritto alla salute si diversificano, profilando diverse tipologie di utenze (cronici, destinatari di interventi sanitari a bassa intensità clinica) e realizzando un repertorio di strutture non centrate sull’istituzione ospedale per la risposta a fabbisogni di natura sanitaria nello sviluppo di questo modello.

La convinzione di fondo è che la logica emergenziale, neo-manageriale, centralizzata e standardizzata che ha ispirato l’azione del Governo Draghi rispetto alla programmazione PNRR stia amplificando, ancora in questa fase, il suo impatto nei diversi ambiti di intervento previsti dal Piano. Particolarmente, tale logica di policy manifesta un impatto peculiare nella Missione 6 dedicata alla salute, laddove le misure straordinarie del piano, elette al più largo obiettivo di rafforzare l’infrastruttura sanitaria pubblica, introducono riforme sostanziali all’organizzazione territoriale della sanità, con un modello di implementazione dal cui disegno appare assente il reale coinvolgimento degli stakeholders di policy, sia istituzionale e professionali – Regioni, ordini dei medici e delle professioni sanitarie – che soprattutto sociali – come i soggetti del Terzo settore attivi nelle politiche sanitarie, socio-sanitarie, nelle reti di aiuto.

Il contributo si articola secondo la seguente partizione: nel prossimo paragrafo si presenta un quadro sinottico delle misure della missione salute del PNRR e se ne individua l’impatto sull’intero comparto sanitario e socio-sanitario; nel paragrafo successivo si concentra l’attenzione sul caso di analisi: gli Ospedali di Comunità come luogo della de-istituzionalizzazione, rilevando natura, finalità, modalità di implementazione della misura; a seguire, si delineano delle riflessioni conclusive che connettono le modalità di approvazione della missione salute del PNRR alle specifiche misure assunte in materia di Ospedali di Comunità.

Le politiche sanitarie del PNRR della Missione 6 - Salute: uno sguardo di insieme

Sul piano generale, la posizione che il PNRR assegna al settore della Salute (Misura 6) è esplicitata piuttosto chiaramente dal Piano approvato dal governo Draghi: ribadire “il valore universale della salute, la sua natura di bene pubblico fondamentale” ma anche “la rilevanza macroeconomica dei servizi sanitari pubblici” (Italia Domani, 2021a, p. 224). Ed è in questa tensione tra produzione di valore pubblico in sé e produzione di valore economico generale (crescita) che va ricercato, in prima istanza, l’indirizzo politico che il PNRR sviluppa per il comparto della sanità, anche e soprattutto alla luce dell’impatto che su questo ha avuto dalla pandemia, e prima ancora il ciclo di austerity aperto dalla crisi dei subprime del 2008 e peggiorato dalla successiva crisi del debito del 2011.

Lo scenario di partenza è, dunque, quello di una tendenza più che decennale alla contrazione della spesa pubblica in ambito sanitario (Figura 3). Tale tendenza viene paradossalmente peggiorata dalla risposta pandemica, che, concentrando risorse sanitarie emergenziali sul Covid-19, rialloca nella sostanza le risorse, economiche, organizzative, di capitale umano, riservate alle politiche sanitarie. L’emergenzializzazione sanitaria si innesta quindi su un andamento contrattivo iniziato con l’austerity e stimolato, come misura di riduzione del debito pubblico, dai governi a carattere tecno-politico. Dall’esperienza Monti del 2011 all’esecutivo guidato da Gentiloni che porterà alle elezioni del 2018, si esprime quella tendenza al retrenchment pubblico e sociale, e alla privatizzazione istituzionale in ambito sanitario (Verney, Bosco, 2013).  

Sia sul lato dell’offerta sanitaria, sia su quello dell’efficienza del sistema, un dato su tutti chiarisce questa tendenza, ed è illustrato dalla Figura 1 che ricostruisce i dati sull’andamento dei posti letto e del discharge rate ospedaliero da prima della crisi allo scoppio della pandemia in tre grandi democrazie industriali europee come Francia, Germania e Italia. Questi sistemi sanitari subiscono tutti un duro colpo dalla politica di austerity, per poi essere successivamente stressati dalla crisi pandemica. E tuttavia, la Germania perde nel periodo solo mezzo punto (da 8.3 a 7.8) di posti letto ospedalieri, la Francia ben 1.4 posti per 1.000 abitanti (da 7.1 a 5.7 posti), l’Italia solo 0.8 posti letto: il punto sono le dimensioni di partenza e di arrivo dell’offerta, perché il sistema italiano passa dai 4 posti letto per 1.000 abitanti del 2006 ai 3.2 posti letto del 2020, cioè la metà rispetto agli altri due sistemi. Stessa dinamica che si osserva nel discharge rate – cioè il numero di pazienti in degenza superiore ad un giorno su 1.000 abitanti che il sistema riesce a curare: nel periodo la Francia passa da 17.2 a 16 pazienti (-1.2), la Germania da 22 a 21.8 (-0.2), mentre il sistema italiano diminuisce in capacità di presa in carico di ben 6 punti, ma soprattutto passa da 15.3 a 9.3 pazienti su 1.000 abitanti. E ciò si verifica senza un parallelo rafforzamento nel nostro Paese della presa in carico territoriale, che è oggetto del PNRR – se ne tratterà dopo – ma che in ogni caso in tutti questi anni è rimasta secondaria nella gran parte dei sistemi sanitari regionali. Si noti, infine, come a differenza che negli altri due Paesi, in Italia ad inferire rilevantemente queste tendenze sia il passaggio del 2011 al governo tecnico e del “vincolo esterno” guidato da Monti (un -0.8 in due anni).

Figura 1. Posti letto per 1000 abitanti (Beds) e pazienti curati (degenza > 1 giorno) per 1000 abitanti (DisCh, Discharge rate). Fonte: OECD 2021.

È dunque interessante analizzare se il disegno di politics che emerge dalla programmazione del PNRR nell’ambito della salute provi o meno – e soprattutto come – ad intervenire su questa tendenza al retrenchment pubblico e alla privatizzazione istituzionale. Seguendo le indicazioni del Piano, alla componente Missione 6 sulla sanità sono assegnati 15,63 miliardi di euro, pari al 8,16% del totale, articolati su due componenti:

  • Reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l'assistenza sanitaria territoriale, con misure per 7 miliardi di euro;
  • Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale, con interventi finanziati da 8,63 miliardi di euro.

Mentre la componente dell’innovazione e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale prevede aree di intervento finalizzate all’acquisto di 3.133 apparecchiature e macchinari per l’adeguamento alle più recenti tecnologie degli ospedali, alla digitalizzazione di 280 dipartimenti di emergenza e accettazione e al potenziamento strutturale degli ospedali con incremento dei posti letto in terapia intensiva e semi-intensiva, all’interno della prima sotto-misura (6.1) sono articolate misure e investimenti per: (1) la creazione di 400 ospedali di comunità; (2) la realizzazione di 1.350 case della comunità; (3) l’adeguamento antisismico degli ospedali; (4) la creazione di 5 centri operativi di risposta alle future pandemie; (5) l’istituzione del sistema nazionale salute, ambiente, clima; (6) la presa in carico mediante assistenza domiciliare del 10% degli over 65; (7) investimenti in telemedicina; (8) la realizzazione di 602 Centri Operativi Territoriali per l’erogazione di servizi domiciliari.

Si tratta di due componenti di investimento e pianificazione profondamente differenziate per finalità e strumenti di intervento: se la seconda appare più coerente con il framework di riferimento del Next Generation EU della Commissione Europea, soprattutto per la linea della digitalizzazione della sanità e l’adeguamento tecnologico, la prima componente dedicata alle “Reti di prossimità”, per natura e ambizioni, manifesta un potere trasformativo sul servizio sanitario nazionale caratterizzato da un intento riformistico, senza procedere per la via legislativa e con i consueti strumenti di sussidiarietà verticale e leale collaborazione con il sistema delle Regioni.

Il potenziale trasformativo di questo ultimo asse di programmazione (M6.C1), con interventi per 7 miliardi che intendono rafforzare le prestazioni erogate sul territorio grazie al potenziamento e alla creazione di strutture e presidi territoriali per “allineare i servizi ai bisogni di comunità e pazienti” e “rafforzare i servizi sanitari di prossimità”, è dunque assai ambizioso nelle premesse. Tuttavia, esso si pone come un obiettivo perseguito con modalità strettamente direttive, secondo modalità top-down dal governo centrale ai territori regionali, tanto per gli standard e i requisiti di utenza posti, quanto per lo strumento di gestione, il contratto istituzionale di sviluppo, gestito dal Ministero della Salute nei confronti delle Regioni.

Come lo stesso Piano ricorda, lo shock pandemico ha “reso ancora più evidenti alcuni aspetti critici di natura strutturale, che in prospettiva potrebbero essere aggravate dalla accresciuta domanda di cure derivante dalle tendenze demografiche, epidemiologiche e sociali in atto”, e in particolare le “significative disparità territoriali nell’erogazione dei servizi, in particolare in termini di prevenzione e assistenza sul territorio” e la “inadeguata integrazione tra servizi ospedalieri, servizi territoriali e servizi sociali” (Italia Domani, 2021a, pp. 225-226).

Ad un primo sguardo d’insieme, le misure disegnate per questa sotto-misura intervengono, con la forma emergenziale del piano e con la temporaneità delle relative risorse finanziarie, a modificare non solo le policy di assistenza territoriale, ma la natura stessa della relativa politics, con una riforma implicita approvata in Parlamento su un diritto essenziale, come quello alla salute, senza alcun dibattito parlamentare. Punti cardine di questo modello di riforma è in primo luogo la deistituzionalizzazione rispetto alla centralità delle strutture ospedaliere (da un lato potenziate a livello di edilizia e dotazioni tecnologiche, dall’altro liberate dalla pressione dell’utenza con una diversificazione delle strutture di cura: il sistema domiciliare, gli ospedali di comunità, l’ambulatorialità non emergenziale delle case della comunità, con la conseguente diversificazione di tipologie di aventi diritto alla salute (e ai mezzi per rendere tale diritto effettivo) che sembra cozzare con l’universalismo costituzionale e anche con la recente visione “one health” presentata dal WHO.

In altri termini: alle situazioni di gravità ed emergenza restano destinati i rinnovati e tecnologici ospedali e pronto soccorso; agli anziani viene riservata la domiciliarità; ai cronici con acuzie e in condizioni di non autosufficienza viene riservato l’ospedale di comunità, in una visione funzionale del diritto dei cittadini ad accedere alla salute molto fondata sulle esigenze delle strutture sanitarie e meno centrata sui diritti e i fabbisogni non standard dei cittadini. Con questa segmentazione delle opzioni di presa in carico, gli obiettivi di de-ospedalizzare, de-centralizzare e de-istituzionalizzare sembrano, dunque, prendere vita attraverso un disegno di policy che – almeno in potenza – curva l’implementazione in un senso non necessariamente coerente col principio di pubblicità-universalità delle prestazioni, tradizionalmente trasferite nel modello italiano mediante la centralità erogativa tramite la struttura ospedaliera. È vero che i tagli al finanziamento della sanità hanno condotto ad una situazione di difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie erogate secondo il modello ospedaliero, con liste di attesa di molti mesi. È tuttavia altrettanto vero che si tratta del frutto intossicato di scelte in materia di sanità pubblica assunte dal medesimo decisore della allocazione sanitaria del PNRR (la lunga emergenzializzazione da Covid-19 – anche in comparazione con altri sistemi sanitari europei omogenei per formato e utenza –; la riallocazione emergenziale di molte risorse economiche e umane, già destinate al comparto ospedaliero; il rinvio di prestazioni anche urgenti per patologie gravi e molto gravi; la dilazione di azioni e misure rivolte alla prevenzione). Portare il tema dell’universalismo dell’accesso alle prestazioni sanitarie al di fuori del consolidato modello ospedalo-centrico, senza un preciso disegno alternativo dello spazio sanitario cioè che sia territorializzato ma ispirato dalla publicness – pensando, cioè, più alle Unità di Cura di Comunità portoghesi che alle Accountable Health Communities – e soprattutto ove si inizi a segmentare tipologie di pazienti e condizioni fisiche, rischia di spingere il modello di assistenza sanitaria esistente in un territorio sconosciuto, con rischi di incremento dei divari di diseguaglianza socioeconomici, oltre che territoriali, aggravando quelli già evidenziati dall’alto livello di spesa privata sanitaria in Italia.

Probabilmente si tratta di un effetto determinato dall’ispirazione di politics funzionalista – diremmo, tecno-manageriale – che attraversa tutto il PNRR e, al suo interno, tutto il sesto asse di programmazione dedicato alla Salute. Una ispirazione che oscilla – per citare direttamente – tra l’obiettivo di consolidare “il valore universale della salute” e quello di leggere in termini di crescita “la rilevanza macroeconomica dei servizi sanitari pubblici”, per quanto molti elementi di disegno di policy contenuti nella Misura 6 pendano maggiormente su questo secondo versante-obiettivo.

Ad evidenziarlo, c’è, in primo luogo, un elemento relativo all’impatto macroeconomico previsto per il PNRR, rispetto al quale è interessante notare come le ipotesi fatte per la Misura 6 prevedano una capacità generativa di valore aggiunto della spesa per il 75,2% legata ad edilizia e beni informatici (sostanzialmente, spesa pubblica intermedia) e solo per il 18,2% collegata alla ricerca e alla formazione (cioè creazione di valore pubblico di base) (Italia Domani, 2021a, p. 256).

Ancora e maggiormente, però, è un secondo elemento quello che ci dice qualcosa rispetto all’investimento nel “valore universale della salute” contenuto nel disegno del PNRR. Delle 275 sotto-misure incardinate sui 6 settori-misure d’intervento, è significativo che le risorse di finanziamento – come noto in parte in sovvenzione, in parte a prestito – sollevino dagli oneri finanziari futuri (sovvenzione) mediamente per il 50% tutti gli ambiti amministrativi (ministeriali), eccetto il Ministero della Salute. Come illustra la Figura 2, il valore pubblico e strategico assegnato dal PNRR ai settori finanziati con le Misure da 1 a 5 (Digitale, Verde, Infrastrutture, Istruzione, Coesione sociale) risulta maggiore, finanziando il Piano questi ambiti del sistema-paese per il 50% a fondo perduto, a fronte di un 12% riservato alla Sanità. Questa tendenza viene rafforzata dalla considerazione che la sanità è marginale negli obiettivi e stanziamenti del PNC, il Piano Nazionale complementare al PNRR, e che delle 6 missioni di quest’ultimo action plan, quella sulla salute pubblica si qualifica come la più sotto-finanziata (Italia Domani, 2021f).

Figura 2. Incidenza del finanziamento in sovvenzione: media PNRR e singole misure da 1 a 6. Fonte: elaborazione degli autori su dati Italia Domani (2021e).

Una prima evidenza che emerge con chiarezza è che gli interventi dettati dalla missione 6 del piano, i quali appaiono destinati a mutare il volto della assistenza territoriale (case della comunità, ospedali di comunità, centri operativi territoriali, presa in carico mediante assistenza domiciliare degli over 65), intervengono in maniera diretta sulle policy sanitarie e di integrazione socio-sanitaria, attraverso un approccio di esecutivizzazione d’urgenza e de-parlamentarizzazione della policy che non si preoccupa di ricevere istanze, fabbisogni, rappresentazioni da parte delle comunità coinvolte in questo processo: associazioni di pazienti, ordini di medici, professionisti sanitari, assistenti sociale, enti di Terzo settore coinvolti nelle attività socio-sanitarie (secondo i dati ISTAT 2019, il settore sanità del non profit, a prevalente vocazione cooperativo-sociale, impiega 188.506 unità, pari al 21,9% del totale dei dipendenti).

In secondo luogo, la policy in sé appare informata da una direzione funzionalista e da un modello di assistenza territoriale in cui la deistituzionalizzazione è una leva per il risparmio di bilancio. Questo si verifica perché, non essendo previsti altri investimenti di sistema questo segmento centrale del settore pubblico destinato a realizzare diritti essenziali attraverso servizi universali, risulta carente di ulteriori strumenti operativi, al di fuori di una mera ri-centralizzazione del modello. In altri termini, non è dato conoscere quali strumenti e quali formati siano previsti per la de-istituzionalizzazione, una pratica che richiede una profonda consapevolezza e conoscenza del contesto territoriale, estremamente diversificato su base nazionale, in cui essa si situa. Pratiche di deistituzionalizzazione nel Centro-Nord in aree urbane possono manifestare differenze significative rispetto ad analoghe esperienze nel Sud e nelle aree interne. Un fenomeno che presenta difficoltà e rischi di divari soprattutto alla luce dell’esigenza di investimenti significativi, tanto sanitari quanto sociali, che difficilmente possono trovare copertura nel sistema ordinario di finanziamento. Infatti, le stime del MEF ad indicare che nel triennio 2023-2025 (Figura 3) come l’outlook per l’investimento nella sanità pubblica sia di tipo assolutamente contrattivo, peggiore del punto di rottura seguito all’austerity: un -0.8% sul 2022-25 (cioè a PNRR attivo) contro lo -0.4% del periodo 2009-11 (in piena austerity e senza PNRR).

Figura 3. Incidenza (%) spesa sanitaria su PIL, Italia (2000-2025). Fonti: elaborazione degli autori su dati MEF 2022.

Emerge in questa sede la non piena congruenza tra azioni previste dal PNRR, strutturalmente rivolte a conferire risorse per infrastrutture, l’esigenza di intervenire sulla programmazione sanitaria ordinaria, soprattutto destinata all’acquisizione e alla gestione del capitale umano, necessario a dare implementazione alle riforme previste per le strutture finanziate nel PNRR. Questa mancanza di intervento sul duplice binario di programmazione straordinaria e ordinaria pone una serie di questioni.

Osservando, dunque, il disegno di politics della salute pubblica e di policy sulle reti di prossimità sanitaria, appare dubbio non solo l’impatto estensivo della Misura 6 sull’universalità di accesso (e sulla natura pubblica del canale di accesso) ai Livelli Essenziali di Assistenza, ma anche solo l’influenza espansiva del Piano sulla disponibilità di risorse per la Sanità. Limitandosi, poi, alla sola valutazione del disegno di policy – l’attuale stato di avanzamento del Piano consente solo questo – per cogliere gli eventuali gap contenuti nella Misura M6.C1 dedicata alle “Reti di prossimità”, un possibile aspetto da valutare è l’impatto della de-istituzionalizzazione e de-ospedalizzazione del servizio in uscita programmato dalle misure (Output di LEA) in termini di effettiva ed efficace “prossimizzazione” ed universalità-pubblicità della cura ricevuta dal cittadino (Outcome di LEA). Prima di tutto, a che tipo di modello di politics e policy sanitaria queste misure sulle reti di prossimità guardano? Che tipo di effetti di policy è possibile prevedere?

Il caso di analisi: gli Ospedali di Comunità come luogo della de-istituzionalizzazione, della separazione, del mancato coinvolgimento degli stakeholder del Terzo settore

Un campo di indagine interessante, da questo punto di vista, è costituito come detto dalla sotto-misura, la linea 1.3, che dedica 1 miliardo di investimenti agli Ospedali di Comunità. Questi sono intesi dal Piano come strutture di “potenziamento dell’offerta dell’assistenza intermedia al livello territoriale”, ovvero strutture sanitarie “della rete territoriale a ricovero breve e destinata a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata. Tale struttura, di norma dotata di 20 posti letto (fino ad un massimo di 40 posti letto) e a gestione prevalentemente infermieristica” nelle intenzioni dovrebbe garantire “una maggiore appropriatezza delle cure determinando una riduzione di accessi impropri ai servizi sanitari come, ad esempio, quelli al pronto soccorso o ad altre strutture di ricovero ospedaliero o il ricorso ad altre prestazioni specialistiche. L’Ospedale di Comunità potrà anche facilitare la transizione dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio, consentendo alle famiglie di avere il tempo necessario per adeguare l’ambiente domestico e renderlo più adatto alle esigenze di cura dei pazienti” (Italia Domani, 2021a, pp. 229-230).

L’ospedale di comunità è dunque un hub sanitario di prossimità destinato a pazienti che, a seguito di un episodio di lieve acutezza o di recidiva di patologie croniche, necessitino di degenze di breve durata per interventi sanitari a bassa intensità clinica che potrebbero essere forniti anche a casa, ma che sono erogati in tali strutture a causa della scarsa idoneità dell'edificio stesso (struttura e/o casa familiare). I numeri dell’intervento appaiono, potenzialmente, rilevanti: 381-400 nuovi Ospedali di Comunità aiutati dal “coordinamento tra i livelli istituzionali coinvolti”, e un timing che prevede il completamento al 30 giugno del 2026. Dal punto di vista degli organici, si indicano poi processi di razionalizzazione e riorganizzazione delle risorse umane vigenti, con un “un incremento strutturale delle dotazioni” (Italia Domani, 2021a).

Posti gli obiettivi e gli orizzonti della Misura M6 C1.3, quali sono i numeri della programmazione istituzionale ed economica a livello macro della Missione, in particolare della misura riguardante gli Ospedali di Comunità? L’amministrazione titolare, al vertice, di tutte le fasi di programmazione ed attuazione, e responsabile dell’interoperabilità è ovviamente il Ministero della Salute (Italia Domani, 2021b). Come indica la Tabella 1, al 25 luglio 2022 – ultima data di aggiornamento del portale (!) – né localizzazioni né gare significative appaiono completate, e solo la milestone rappresentata dal Contratto istituzionale di sviluppo è sostanzialmente stata realizzata (Italia Domani, 2021c).

Tabella 1. Timeline e programmazione della Misura M6 C1.3 (Ospedali di Comunità). Fonte: Italia Domani (2021e).

Secondo quanto previsto dal Decreto ministeriale del 20 gennaio del 2022, il Contratto Istituzionale di Sviluppo (CIS) dovrebbe contenere “l'elenco di tutti i siti idonei individuati per gli investimenti e degli obblighi che ciascuna regione italiana assumerà per garantire il conseguimento del risultato atteso. In caso di inadempienza da parte della regione il Ministero della Salute deve procedere al commissariamento ‘ad acta’. Per quanto riguarda il parco tecnologico degli impianti, vale a dire tutti gli strumenti, le licenze e le interconnessioni, deve essere data preferenza ai metodi di aggregazione degli appalti”. Lo schema istruito col successivo Decreto Ministeriale del 5 aprile 2022, che ha approvato il Modello di CIS, ha poi incluso le linee guida di progettazione destinate alle regioni per attivare il processo che dovrebbe portare entro il 2023 secondo il Piano alla istituzione degli 400 Ospedali di Comunità nelle 20 regioni e province autonome del Paese.

Seguendo gli obiettivi stabiliti per la sotto-misura C1.3, gli Ospedali di Comunità nascono per il “potenziamento dell’offerta dell’assistenza intermedia al livello territoriale”, ovvero sono strutture sanitarie “della rete territoriale a ricovero breve e destinata a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata” (Italia Domani, 2021a, p. 229). Dunque, si tratterebbe di soluzioni organizzative del tipo accountable care provider che intendono intervenire per ridurre le ospedalizzazioni superflue, aumentare l’assistenza di prossimità territoriale per interventi a media/bassa intensità clinica, e per degenze di breve durata, soprattutto riferibili a patologie croniche ma non invalidanti né a rischio vita. Come osserva Pesaresi, il tema dell’ospedale di comunità era presente dalla seconda metà degli anni 2000, in maniera latente e con un approccio maggiormente consistente nella letteratura scientifica che nell’avvio sui territori, all’interno del dibattito sulla “de-ospedalizzazione” e sulla riduzione dei “ricoveri inappropriati”. In assenza di sperimentazioni territoriali o di iniziative private nel corso di un lungo dibattito, concentrato maggiormente sul lato della riduzione dell’offerta che sulla rilevazione dei fabbisogni dei pazienti, la misura trova la propria attuazione nel PNRR (Pesaresi, 2022).

Stando all’ultimo monitoraggio fatto nel 2018 sui LEA, le due dimensioni dell’assistenza ospedaliera (f) e dell’assistenza domiciliare e residenziale – coinvolte da questa misura – erano prima del PNRR soddisfatte da pochissime regioni, ovvero da Emilia-Romagna, Marche, Molise e Veneto nel primo caso, cui si aggiungevano anche Liguria, Toscana e Lombardia (ma non Marche) nel caso dell’assistenza domiciliare (MINSAL, 2021). Tutti gli altri dati riferibili all’assistenza domiciliare sono coerenti con questa evidenza. Se, però, si osserva il potenziale strutturale dell’offerta ospedaliera sul territorio nazionale, si può chiaramente notare che, tra Ospedali, Aziende Ospedaliere, Presidi Ospedalieri e Case di cura in sistema di convenzione (AGENAS, 2021b) si fatichi a negare come per posti letto e per capacità di discharging (Figura 1) la rete di ospedalizzazione presenti una generale inefficacia di disegno strutturale. In sostanza, la policy basata sugli Ospedali di Comunità sembra cogliere un fabbisogno di istituzionalizzazione non-ospedaliera che è indubbio, ma è difficile comprendere quale sia l’idea di de-istituzionalizzazione sottostante (anche per carenza di indicazioni e strumenti di chi ha scelto di avviare questa policy senza un coordinamento con l’intero sistema delle cure intermedie), a meno questa non si riduca a recuperare le economie di scala organizzativa nel rapporto con l’offerta che il Terzo settore fornisce al mondo della cura.

Le risposte portate da questa linea di intervento della missione 6 del PNRR non servono a rafforzare la situazione attuale, tanto nella parte che prevede un deficit di accesso alle prestazioni sanitarie (cui pure sarebbe stato opportuno riservare risorse di programmazione ordinaria, liberate dall’arrivo del PNRR), quanto, nel sostenere l’offerta di servizi di integrazione socio-sanitaria, soprattutto da parte del mondo cooperativo sociale, laddove l’ospedale di comunità viene come una struttura ibrida, a forte attrazione sanitaria nella forma, ma a sostanziale funzione socio-sanitaria nella pratica (per tipologia di personale impiegato, caratteri delle terapie, nesso con la sanità territoriale). Al tempo stesso, sembra chiaro che ogni esigenza di tipo sanitario, anche legata a condizioni croniche o di acuzie, debba essere affrontata, in modo integrato, all’interno di una struttura sanitaria pubblica complessa, come l’ospedale, riservando al solo sociale e a limitate e definite fattispecie di sociosanitario, l’accesso a un ventaglio di offerte che comprendano profit, non profit e pubblico.

Più precisamente in termini di dati, e ragionando sulla popolazione del 2019 (ISTAT 2022), con tale sotto-misura il PNRR investe mediamente 16.7 euro a cittadino per la cura (futura) attraverso gli Ospedali di Comunità per ognuno dei 59.641.488 abitanti del Paese. Se la logica della misura è quella di de-ospedalizzare, de-istituzionalizzare e “avvicinare” territorialmente e socialmente l’offerta di cura per quegli ambiti di LEA, allora ci si attende che sia la domanda (da parte delle Regioni) e sia il Piano ministeriale di ripartizione delle risorse tra le Regioni risponda ad una logica di razionalizzazione di quella parte asimmetrica e disfunzionale dell’offerta strutturale ospedaliera, e, dall’altro, alla riarticolazione dell’offerta partendo – probabilmente – dalla rete del privato sociale, così da riorganizzare un’offerta di cura meno istituzionalizzata – ma non di mercato – più vicina e universale.

Se si osserva però quanto indica la Tabella 2, essa evidenza come tutto ciò non emerga affatto, giacché la distribuzione del budget previsto per la sotto-misura alle Regioni appare non seguire alcuna logica di raccordo col tessuto insediativo del Terzo settore a livello locale, lasciando pensare che la misura (gli Ospedali di Comunità) alla fine spinga, da un lato, a ridimensionare (forse) una eccessiva e non sempre calibrata offerta di sanità e cura nella sua articolazione territoriale regionale, e dall’altro ad affidare questo nuovo (e promettente) segmento dell’offerta strutturale di cura probabilmente agli stakeholder già presenti nel circuito di accreditamento regionale, se non al nascente mercato assicurativo, ma non presumibilmente allo spazio del Terzo settore. Chiaramente, la logica di programmazione sanitaria e soprattutto di integrazione socio-sanitaria non si fonda sulla disponibilità di alternative di Terzo settore presenti sul contesto territoriale; tuttavia la spinta forte verso co-programmazione e co-progettazione sui territori renderebbe utile considerare, nel quadro complessivo della implementazione delle misure, la possibilità di raccordo, soprattutto nella dimensione socio-sanitaria, con le risorse di Terzo settore disponibili, specialmente in contesti specifici (territori interni e a rischio marginalizzazione).

Tabella 2. Ospedali di Comunità previsti per 1.000 abitanti (ODC*1000ab) secondo la ripartizione dei fondi chiesta dalle Regioni e accordata dal Ministero, densità di presidio ospedaliero (ovvero numero di strutture di ogni grado, pubbliche o in convenzione, che garantiscano un accesso per il SSN) per 1.000 abitanti (PrOSP*1000ab) e numero di Istituzioni (IstTS*1000ab) e Dipendenti (DipTS*1000ab) del Terzo settore per 1.000 abitanti sempre a livello regionale. Fonte: la popolazione è al 1 gennaio 2019 (ISTAT, 2022). I dati sugli Ospedali di Comunità provengono dall’Allegato 1 al Decreto 20 gennaio del 2022. I dati sulla presenza di strutture ospedaliere e para-ospedaliere sono dell’Agenzia Nazionale e si riferiscono al 2020 (AGENAS, 2021), mentre quelli sul Terzo settore si riferiscono al 2019, ultimo censimento (ISTAT, 2021).

Le regioni che pianificano un intervento sugli Ospedali di Comunità superiore alla media nazionale (in grigio) sono o regioni che da anni presentano un problema di ipertrofia, ma soprattutto irrazionale asimmetria d’offerta delle strutture ospedaliere e para-ospedaliere, o regioni che soffrono di una geografia tale da penalizzare l’accesso alle cure nelle aree interne, magari orograficamente complesse. Tranne il Friuli e la Sardegna – che forse rientrano in questi casi – le altre regioni però non presentano dei “fondamentali” sul radicamento del Terzo settore tali da far immaginare che il riordino fatto attraverso gli Ospedali di Comunità si tradurrà in una de-istituzionalizzazione collaborata col privato sociale. Probabilmente, vista la forte pressione di lobbying del privato convenzionato in queste regioni – si pensi alla Campania o alla Calabria in questo primo gruppo, ma anche, sul totale, al Lazio e alla Lombardia che programmano rispettivamente 35 e 60 Ospedali di Comunità – in molti casi la de-istituzionalizzazione si tradurrà in una insufficienza sistematica di tali nuove strutture, atta a condurre ad una semi-privatizzazione delle cure di prossimità, accompagnata a tagli selettivi di quella parte dell’offerta ospedaliera complessivamente ritenuta inefficiente.

Ad emergere, è dunque un disegno di policy in cui è il razionalismo neo-managerialista a prevalere, essendo “la rilevanza macroeconomica dei servizi sanitari pubblici” prioritaria. Tale prospettiva sembra scevra dalle considerazioni, molto corrette, affrontate da Fontanari (2021), sull’esigenza di considerare tanto il lato della domanda quanto il lato dell’offerta complessiva di servizi sanitari e socio-sanitari nei diversi contesti territoriali. In particolare, anche ove, come sostengono i due autori del presente contributo, la preferenza per l’accesso alla sanità debba essere garantito mediante la struttura istituzionale, non sfugge come e quanto la disponibilità di servizi socio-sanitari privati possa costituire un volano per la crescita di investimenti sanitari sul territorio, generando risposte di policy win-win tanto per il settore sanitario pubblico quanto per il profit e non profit attivo nel socio-sanitario (Fontanari, 2021).

Riflessioni conclusive

Lo scenario futuro aperto da questo ambito di intervento degli Ospedali di Comunità appare comunque stretto tra il design di riforma dell’assistenza sanitaria affidato a fondi del PNRR, la rimodulazione della spesa sanitaria ordinaria a livelli pre-pandemici e gli interventi di de-istituzionalizzazione settoriale per determinate tipologie di fragilità. La circostanza che tale riforma dall’alto sia stata scarsamente condivisa con gli attori istituzionali della sanità regionale, soprattutto ove essa “sanitarizza” la dimensione di integrazione socio-sanitaria – qui un più preciso coordinamento con quei soggetti di Terzo settore attivi spesso in co-programmazione e co-progettazione ma anche con regioni ed enti locali sarebbe stato utile – apre, inoltre, uno scenario in cui de-ospedalizzazione e territorializzazione dello spazio sanitario appaiono letti non in un’ottica di publicness riformata, ma piuttosto di neo-statalismo formale nel design di policy e di neo-privatizzazione sostanziale nella implementazione della policy, e questo soprattutto nell’ambito dell’integrazione socio-sanitaria di cronici e anziani.

L’assenza di conciliazione con il sistema regionale negli snodi istituzionali per la realizzazione delle componenti della Missione 6 a marzo 2022, l’iter parlamentare necessitato da urgenze temporali e dall’utilizzo del voto di fiducia, la mancanza di adozione di strumenti partecipativi nelle fasi in cui la Missione 6 del piano veniva comunicata, hanno trovato un ulteriore elemento di direttività centralista e funzionalista nell’adozione dello strumento del Contratto Istituzionale di Sviluppo per la realizzazione delle attività previste nel PNRR per la Missione 6 dedicata alla Sanità. L’adozione di tale dispositivo di implementazione prevede caratteristiche di accelerazione e semplificazione ad esclusivo dominio delle amministrazioni centrali coinvolte rispetto alla specificità dei fabbisogni, di tipo sanitario e sociosanitario, che sono funzione specifica della dimensione regionale e locale e che difficilmente trovano un adeguato riscontro nello strumento e nella governance così disegnati. Un design e una implementazione di policy di assistenza territoriale maggiormente attento al coinvolgimento delle istituzioni regionali avrebbe garantito una maggiore pienezza della dimensione di sussidiarietà verticale tra Stato e Regioni, così come essa viene prevista dal dettato costituzionale in materia sanitaria dal 2001, secondo i principi di pluralismo istituzionale, della concertazione e della leale collaborazione. L’assunzione dell’onere riformatore su fondi PER, la selezione di strumenti di implementazione orientati in maniera preponderante ad un modello neo-statalista dell’assunzione delle decisioni sanitarie (frutto dell’esperienza pandemica).

Inoltre, la complessiva carenza di un approccio integrato nella riforma dell’assistenza territoriale assume un peso rilevante in termini di mancata sussidiarietà orizzontale. Questo avviene in misura più significativa in quei contesti territoriali in cui, a fronte dei fabbisogni delle popolazioni toccate dalle misure della componente 1 della Missione 6 esistevano e operavano realtà di Terzo settore, come cooperative e imprese sociali, attive nel sanitario e nel sociosanitario. Il sistema sanitario nel suo complesso avrebbe così beneficiato dal contributo di conoscenze e competenze mediante il coinvolgimento attivo di quei soggetti del Terzo settore dotati di un rilevante radicamento territoriale, attivi in una consolidata pratica di co-programmazione, co-progettazione, convenzionalità con il sistema pubblico regionale e locale, e da tempo impegnati in specifiche esperienze di integrazione sociosanitaria (l’esperienza delle case della salute). 

Non resta dunque che valutare ex post – vista la limitata possibilità di partecipazione di soggetti del Terzo settore e della ricerca al design e alla implementazione della riforma dell’assistenza territoriale – l’efficacia di tali misure, in termini policy sanitaria e sociosanitaria, della strategia di de-istituzionalizzazione di determinate categorie di fragili. Quanto e come la scelta di realizzare gli Ospedali di Comunità, con questo formato dimensionale e con queste caratteristiche di cura, inciderà sul concreto diritto alla salute di anziani e cronici, allontanandoli dal tradizionale sistema di cura basato sull’asse ospedaliero-ambulatoriale? Quanto creare determinate categorie di beneficiari di interventi sanitari de-istituzionalizzati o altrimenti istituzionalizzati avrà influenza sull’effettività del diritto alla salute e sull’universalità dello stesso per chi accede agli ospedali di comunità? E quali effetti perversi (di carenze rispetto ai fabbisogni territoriali, con la conseguente elaborazione di un’offerta parallela da parte del privato) possono emergere dall’introduzione di un modello così poco condiviso e partecipato dai soggetti attivi nel settore sanitario?

Queste domande, per la delicata natura delle politiche sanitarie in un sistema colpito dalla pandemia come l’Italia, necessitano di trovare risposte concrete e condivise nel corso dei prossimi anni, nel momento in cui la salute dei cittadini, anche in relazione alle condizioni ambientali, si qualificherà come una leva rilevante non solo per la tutela dei diritti, ma anche come asset di sistema. Soprattutto, esse aprono uno spazio di misurazione, indagine e ricerca in futuro tutto da praticare.

DOI: 10.7425/IS.2022.04.07

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