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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2022

Saggi

Sperimentando la co-programmazione a livello locale. L’esperienza bresciana del Consiglio di indirizzo del welfare della città

Giammaria Gotti

Abstract

Il presente lavoro si propone di analizzare come opera a livello locale l’istituto della co-programmazione, previsto dall’art. 55 del d.lgs. 3 luglio 2017 n. 117. Tale analisi sarà svolta, dapprima, attraverso un’indagine sui presupposti teorici della partecipazione degli enti del Terzo settore alle scelte programmatiche degli enti locali e, successivamente, attraverso la descrizione dell’innovativa esperienza di co-programmazione promossa – già a partire dal 2016 e di recente ulteriormente consolidata – dal Comune di Brescia con il Consiglio di indirizzo del welfare della città. La descrizione di quest’ultima esperienza permette di apprezzare da vicino tutte le potenzialità del citato istituto, così come le sfide e le prospettive delle sue future applicazioni da parte delle pubbliche amministrazioni e degli enti del Terzo settore. Detta esperienza si inserisce pienamente nell’attuale tendenza legislativa (art. 55 CTS) e giurisprudenziale (su tutte, Corte Cost., sentenza n. 131 del 2020) di valorizzazione dell’amministrazione condivisa e si pone quale virtuoso esempio di democrazia partecipativa a livello locale.

Keywords: amministrazione condivisa, democrazia partecipativa, co-programmazione, Terzo settore, enti locali.

Si ringrazia il dott. Luca Gori per i suoi insegnamenti e per i preziosi consigli, senza i quali il presente lavoro non sarebbe stato possibile.

DOI: 10.7425/IS.2022.04.10

Introduzione. Un’esperienza di co-programmazione tra amministrazione condivisa e democrazia partecipativa

Il presente lavoro si propone di analizzare come opera a livello locale l’istituto della co-programmazione, previsto dall’art. 55 del d.lgs. 3 luglio 2017 n. 117 (cd. Codice del Terzo settore, d’ora in poi anche “CTS”). Tale analisi sarà svolta, dapprima, attraverso un’indagine sui presupposti teorici della partecipazione degli enti del Terzo settore (di seguito anche “ETS”) alle scelte programmatiche degli enti locali e, successivamente, attraverso la descrizione dell’innovativa esperienza di co-programmazione promossa – già a partire dal 2016 e di recente ulteriormente consolidata – dal Comune di Brescia con il Consiglio di indirizzo del welfare della città. La descrizione di tale esperienza permette di apprezzare da vicino tutte le potenzialità del “nuovo” istituto della co-programmazione, così come le sfide e le prospettive delle sue future applicazioni da parte delle pubbliche amministrazioni e degli enti del Terzo settore. Detta esperienza si inserisce poi pienamente nell’attuale tendenza legislativa (art. 55 CTS) e giurisprudenziale (su tutte, Corte Cost., sentenza n. 131 del 2020) di valorizzazione dell’amministrazione condivisa e, allo stesso tempo, si pone quale virtuoso esempio di democrazia partecipativa a livello locale.

Discorrere di amministrazione condivisa e di democrazia partecipativa descrivendo un’esperienza promossa da un ente territoriale minore non è frutto di una scelta casuale[1]. Anzi, è dovuta al fatto che i Comuni non solo rientrano certamente tra le amministrazioni pubbliche alle quali si riferiscono le norme del CTS sulla amministrazione condivisa, ma costituiscono “i primi e i più immediati interlocutori” degli ETS[2]. Non v’è poi dubbio che la democrazia partecipativa, se è certamente considerata paradigma di buon governo per tutti i livelli dei poteri pubblici, è proprio con riferimento ai Comuni che la sua concreta applicazione trova “una qualche giustificazione maggiormente cogente”[3]. Il livello comunale è infatti quello in cui maggiormente si realizza una sorta di identificazione tra livello istituzionale e comunità in esso insediata. Questa immedesimazione fra istituzione e comunità ha giustamente portato ad affermare che non si può pensare di “staccare il Comune, la sua organizzazione, il modo di svolgere le sue funzioni dalla sussistenza e operatività della sua comunità di riferimento” e che il principio partecipativo “di interazione effettiva e piena tra istituzioni e società appartiene alla natura focale del Comune come ente di base”[4].

Il rapporto di complementarità che corre tra amministrazione condivisa e democrazia partecipativa[5] aiuta a meglio comprendere l’innovatività di una simile esperienza. I principi di partecipazione e di solidarietà di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione – nei quali si rinviene il fondamento della democrazia partecipativa nell’ordinamento italiano[6] – sono stati particolarmente rafforzati a seguito dell’introduzione in Costituzione, nel 2001, del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, quarto comma, Cost.). La previsione di un dovere per Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini nel perseguimento dell’interesse generale va infatti ad affiancarsi all’obbligo posto in capo alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di cui all’art. 3, secondo comma, della Costituzione, rendendo ancora più esplicito che tra le responsabilità dei pubblici poteri vi è quella di creare le “pre-condizioni dell’esercizio da parte di privati di attività idonee a realizzare interessi generali”, liberando le loro “potenzialità partecipative”[7]. In altre parole, si può affermare oggi che “dentro la sussidiarietà orizzontale s’è andata ad annidare la più esigente e irriducibile delle spinte partecipative”[8].

Tuttavia, rimane ben ferma la distinzione tra i due concetti. Come è stato efficacemente sottolineato[9], la partecipazione all’erogazione di servizi o alla gestione di un bene comune è cosa comunque diversa dalla partecipazione alla elaborazione di decisioni politiche. Se la sussidiarietà orizzontale rafforza la prospettiva di una partecipazione di stampo amministrativo permettendo all’autonoma iniziativa della società civile di farsi portatrice del cd. “interesse generale”, la democrazia partecipativa rafforza una partecipazione di carattere più politico, intesa come coinvolgimento diretto di quelle forze sociali nella definizione dell’interesse pubblico da parte delle istituzioni politiche. A tale distinzione può ricondursi anche quella tra Terzo settore “di servizi”, inteso come produttore di servizi a vantaggio di terzi quale apporto originale al sistema di welfare (che rappresenta ancora oggi il suo principale ambito di sviluppo) e Terzo settore “di advocacy[10], facendosi con tale termine riferimento al ruolo da esso assunto “nella dimensione della partecipazione all’elaborazione delle politiche pubbliche, e perciò nel più ampio contesto di quella che è definita la democrazia partecipativa”, “nelle attività cioè di elaborazione delle decisioni riguardanti il perseguimento dell’interesse pubblico, siano esse di rilievo strategico complessivo ovvero connesse alla programmazione di un determinato e specifico intervento”[11].

A nostro avviso, per i motivi che si metteranno in luce nel corso del presente lavoro, l’esperienza in discorso va inserita “a metà strada” tra l’amministrazione condivisa e la democrazia partecipativa, tra coinvolgimento del privato sociale nel sistema di welfare e partecipazione dello stesso all’elaborazione delle politiche pubbliche a livello locale, collocandosi a pieno titolo in quel fenomeno di emersione di nuove esperienze partecipative che si risolvono in forme atipiche e originali di concorso alle scelte dei pubblici poteri[12].

Infine, tra le diverse esperienze che potevano scegliersi, quella del Comune di Brescia è parsa particolarmente interessante anche per un’altra ragione. Essa costituisce infatti una delle (sinora) non numerose applicazioni del “nuovo” istituto di co-programmazione. Come è noto, infatti, mentre le esperienze di co-progettazione sono parecchie, non altrettanto può dirsi per la co-programmazione, che pure dovrebbe precedere, nei tempi e nella logica, l’eventuale co-progettazione. Come si è messo in evidenza, “mentre è frequente che enti pubblici e Terzo settore lavorino insieme su progetti specifici concreti, giungendo al termine di tali collaborazioni a definire in modo condiviso obiettivi, ruoli e risorse di ciascuno, capita in molti meno casi che abbiano ragionato insieme sulle scelte politiche di fondo che portano a scegliere di attivare o meno tali progetti”[13]: che abbiano appunto fatto ricorso alla co-programmazione.

Il senso del presente lavoro è quindi studiare come la co-programmazione operi a livello locale e come questa favorisca la partecipazione della comunità locale alle scelte programmatiche pubbliche, per descrivere poi una di quelle esperienze che meglio sembrano aver realizzato le finalità proprie dell’amministrazione condivisa. Non solo quindi uno studio di un caso, ma una riflessione teorica i cui risultati trovano una conferma in un’esperienza senz’altro unica, quella bresciana.

Qualche notazione di contesto: la partecipazione degli enti del Terzo settore alla determinazione delle politiche pubbliche a livello locale

Prima di procedere con la descrizione dell’esperienza bresciana, può essere utile qualche notazione di contesto sulla partecipazione degli ETS alla determinazione delle politiche pubbliche a livello locale e sulle diverse forme che nel tempo essa ha assunto.

L’ambito nel quale si è registrata un’ampia diffusione e sperimentazione di esperienze di democrazia partecipativa è proprio quello dell’attività amministrativa locale, nell’ambito della quale tali esperienze si sono poste spesso in relazione con l’attività di organi esecutivi deputati alla cura dell’interesse generale (come la giunta comunale)[14]. D’altronde, numerose sono oggi le disposizioni, anche costituzionali, in cui si può rinvenire il fondamento normativo della partecipazione a livello locale (artt. 6 e 8 TUEL; art. 4, comma 4, l. 131 del 2003; art. 117, sesto comma, Cost.), disposizioni che lasciano aperti “spazi normativi considerevoli attraverso i quali è possibile dar vita a percorsi innovativi, che trovano quindi nell’attuale quadro costituzionale un sicuro fondamento”[15].

L’esigenza di creare sempre più ampie occasioni di partecipazione degli ETS (e non solo) alle decisioni dei pubblici poteri, specialmente per quanto riguarda le attività di pianificazione e di programmazione delle politiche di settore a livello locale, è ormai da tempo oggetto di attenzione[16].

Fu per la prima volta la legge 8 giugno 1990, n. 142 (recante Ordinamento delle autonomie locali) a disporre che “i Comuni valorizzano le libere forme associative e promuovono organismi di partecipazione dei cittadini all’amministrazione locale”. Successivamente, l’art. 2 della legge 3 agosto 1999, n. 265 introdusse nell’art. 2 della legge 142 cit. un’importante disposizione, in base alla quale “i comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali”[17].

Un ruolo di particolare rilievo venne poi riconosciuto dalla legge n. 328 del 2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), che aveva previsto che gli enti locali “provvedono, nell’àmbito delle rispettive competenze, alla programmazione degli interventi e delle risorse del sistema integrato di interventi e servizi sociali” secondo i princìpi, tra l’altro, “di concertazione e cooperazione tra i diversi livelli istituzionali, tra questi ed i soggetti di cui all’articolo 1, comma 4” (organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, associazioni e enti di promozione sociale, fondazioni e enti di patronato, organizzazioni di volontariato, enti riconosciuti delle confessioni religiose). In particolare, l’art. 3 di tale legge immaginava una cd. programmazione negoziata, frutto di concertazione e cooperazione tra i diversi livelli istituzionali e i soggetti del cd. privato sociale. La previsione non è andata esente da critiche, incentrate specialmente sul carattere settoriale delle forme di partecipazione previste e sulla insufficiente garanzia della partecipazione del TS alla definizione delle politiche pubbliche. In particolare, si sottolineava il rischio che una simile partecipazione si prestasse facilmente a strumentalizzazioni finalizzate all’accaparramento del consenso, piuttosto che essere diretta a garantire un coinvolgimento effettivo nell’elaborazione di quelle politiche[18].

Ad ogni modo, la funzione che assolverebbe in tali contesti la partecipazione è quella di consentire l’acquisizione delle scelte più adeguate alla cura degli interessi generali, contribuendo allo stesso tempo a legittimare democraticamente le scelte stesse e ad accrescere il consenso intorno ad esse[19].Come messo in evidenza dall’Agenzia per il Terzo settore nelle Linee guida sulla definizione di criteri e di modelli per la partecipazione del Terzo settore alla determinazione delle politiche pubbliche a livello locale del 2001, l’esigenza di detta partecipazione derivava dalla “crisi del sistema rappresentativo classico dovuta ad una serie di fattori quali la presenza di sistemi elettorali scarsamente rappresentativi, l’assenza di democraticità nelle modalità di selezione delle candidature, il conseguente indebolimento delle assemblee elettive”[20]. Da qui si poneva l’urgenza di garantire “una partecipazione effettiva, consapevole e costruttiva al policy making della società civile organizzata”[21].

La co-programmazione nel Codice del Terzo settore

Come noto, oggi il già citato art. 55 del CTS disciplina la collaborazione tra enti locali (e in generale, tutte le pubbliche amministrazioni) e gli enti del Terzo settore prevedendo che le amministrazioni pubbliche “nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di interesse generale assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento”[22]. In particolare, il secondo comma dell’art. 55 disciplina l’istituto della co-programmazione, prevedendo che essa “è finalizzata all’individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili”.

La previsione rappresenta l’evoluzione di quanto era già stato previsto dal d.P.C.M. 30 marzo 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona ai sensi dell’art. 5 della l. 8 novembre 200, n. 328), che aveva evidenziato la necessità per le Regioni di prevedere il ricorso ad “adeguati processi di consultazione” con i soggetti del Terzo settore e con i loro organismi rappresentativi “riconosciuti come parte sociale” (art. 1, comma 2, lett. e)[23]. In dottrina[24] si era infatti da tempo messa in evidenza la necessità di predisporre una serie di interventi positivi da parte delle istituzioni volti ad assicurare “le condizioni materiali” della partecipazione del privato sociale ai procedimenti amministrativi, specie in quelli di programmazione, data la difficoltà di continuare a procedere “in assenza di specifiche regole che stabiliscano obblighi in capo ai soggetti pubblici, specifiche procedure, garanzie”[25].

Come chiarito dalle Linee guida recentemente adottate dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con lo scopo di offrire un quadro condiviso di analisi degli articoli 55 e ss. del CTS e di supportare gli enti pubblici nella loro concreta applicazione (D.M. n. 72/2021), la co-programmazione si sostanzia in un’istruttoria partecipata e condivisa, nella quale il quadro di conoscenza e di rappresentazione delle possibili azioni da intraprendere è il portato della collaborazione di tutti i partecipanti al procedimento. I vantaggi concreti della co-programmazione sono di costituire sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, (...) in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento[26].

In dottrina si è infatti sottolineato come la co-programmazione sia “la precondizione affinché i successivi interventi e progetti risultino in linea con i principi enunciati dall’art. 55, comma 1. La co-programmazione rappresenta un terreno specifico di attività degli enti del Terzo settore, la cui posizione, all’interno dell’ordinamento, non è esclusivamente limitata allo svolgimento di attività in concreto, bensì è valorizzata dalla capacità di offrire alla P.A. una “rappresentazione” dei bisogni e delle esigenze di una comunità”[27]. Secondo la storica sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, ciò si sostanzia in “una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.”, un originale canale di “amministrazione condivisa… scandito per la prima volta in termini generali [come] una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria”. Agli ETS è così “riconosciuta una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale”.

Se quindi dovessimo riassumere brevemente i punti di forza della “nuova” co-programmazione, potremmo dire che essi risiedono essenzialmente nella sua flessibilità nell’articolazione del procedimento amministrativo: tutte le P.A. sono chiamate ad impegnarsi in essa, tutti gli ambiti di attività di interesse generale sono interessati, tutti gli ETS possono essere coinvolti e chiederne l’attivazione. La capacità adattiva della co-programmazione, dunque, a temi e alle questioni più disparate.

Si è peraltro affermato che la disciplina del Codice è orientata verso un modello di partecipazione che non è limitato alla mera consultazione degli ETS[28], ma che adotta un vero e proprio metodo deliberativo, fondato su uno “scambio di informazioni e di argomenti confortati da ragioni” e mirante “alla elaborazione di posizioni comuni per mezzo della discussione pubblica tra i soggetti”[29]. Già in passato, infatti, si era infatti sottolineato che “la deliberazione è qualcosa di più della consultazione dei soggetti che rappresentano interessi “propri”, mirando alla elaborazione di posizioni comune per mezzo della discussione pubblica tra i soggetti”. Il metodo deliberativo sarebbe quello “più pertinente alla natura e alla mission del TS, perché presuppone che le parti che partecipano alla discussione siano mosse dalla volontà di addivenire a soluzioni condivise”, contribuendo così a “dotare di maggiore effettività la partecipazione alla determinazione delle politiche pubbliche da parte di soggetti esclusi dal tradizionale circuito della rappresentanza politica”[30].

Il ruolo degli enti locali

Prima di passare a descrivere nel dettaglio l’esperienza bresciana, rimane un ultimo aspetto da considerare in via generale: il ruolo degli enti locali rispetto al nuovo istituto della co-programmazione. Per fare questo, occorre notare che la disciplina dettata dall’art. 55 CTS rimane alquanto generica sotto alcuni profili, per esempio su quale debba essere lo svolgimento in concreto del “coinvolgimento attivo” o su quali siano i criteri per l’individuazione, da parte della pubblica amministrazione, dei soggetti con cui svolgere attività di co-programmazione. La norma si limita infatti a prevedere che le forme di co-programmazione attraverso cui assicurare il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore siano poste in essere “nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona”.

La genericità della disciplina dettata dall’art. 55 CTS, se da un lato potrebbe apparire criticabile, lascia dall’altro un’ampia discrezionalità alle pubbliche amministrazioni[31], consentendo così, per esempio, l’intervento delle fonti locali in funzione integrativa. Non sembra infatti che si possa ragionevolmente negare che gli enti locali abbiano la competenza a dare attuazione a tali disposizioni legislative. In dottrina si è infatti messo in evidenza come gli enti locali abbiano sviluppato una “significativa capacità di disciplinare, con proprio regolamento, alcuni istituti innovativi”, così che “non sembrano esservi ostacoli a che la fonte comunale dia attuazione, nell’ambito della propria competenza, all’art. 55 del Codice in tema di coinvolgimento degli ETS attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione, specialmente laddove il legislatore statale e quello regionale omettano di dettare una disciplina più completa ed organica, giocando, in tal senso, ancora una volta, ruolo di “volano” dell’innovazione”[32].

Sono quindi anzitutto i regolamenti degli enti locali – che, come noto, hanno oggi copertura a livello costituzionale (art. 117, sesto comma, Cost.) – a poter disciplinare e sperimentare forme innovative di collaborazione[33]. Con riferimento a queste forme innovative, si è parlato di “diritto pubblico informale”, in quanto esse, non spesso inquadrabili e riconducibili a norme di fonte legislativa, trovano il proprio riconoscimento giuridico nella disciplina offerta da norme comunali[34].

Proprio con riferimento al recente modello di amministrazione condivisa e grazie agli spazi lasciati aperti per gli enti locali, si iniziano a registrare alcuni regolamenti locali volti a disciplinare nel dettaglio le forme di collaborazione con il Terzo settore[35], tra i quali spicca quello – che ora analizzeremo a fondo – del Comune di Brescia.

In definitiva, con le parole di Gori, “questa matrice dal basso rappresenta il ‘cuore’ giuridico e politico del cambiamento di paradigma in attuazione dell’art. 118 u.c. Cost: una innovazione creata principalmente nei laboratori periferici dei Comuni”[36].

Il Consiglio di indirizzo del welfare della città quale “sede permanente di governo della co-programmazione” nel Comune di Brescia

Come noto, la legge regionale Lombardia 12 marzo 2008, n. 3 (recante Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale) stabilisce, all’art. 13, che i Comuni sono titolari delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale e, in particolare, programmano la rete locale delle unità d’offerta sociali “anche promuovendo la partecipazione dei soggetti di cui all’articolo 3” (vale a dire persone fisiche, le famiglie e i gruppi informali di reciproco aiuto e solidarietà; i soggetti del Terzo settore, le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e gli altri soggetti di diritto privato che operano in ambito sociale; gli enti riconosciuti delle confessioni religiose, con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, che operano in ambito sociale). L’art. 18 della stessa legge, inoltre, prevede che il “piano di zona è approvato o aggiornato dall’Assemblea distrettuale dei sindaci… secondo modalità che assicurano la più ampia partecipazione degli organismi rappresentativi del terzo settore” (co. 4). Ad un primo sguardo, potrebbe apparire questo, insieme – come si vedrà – all’art. 55 CTS, il fondamento normativo della decisione del Comune di Brescia di istituire il cd. Consiglio di indirizzo del welfare della città (di seguito anche “Consiglio” o “CIW”). Occorre tuttavia calare tale esperienza in un più preciso quadro storico e politico.

L’esperienza bresciana del Consiglio parte e viene attuata quando il Codice del Terzo settore era ancora di là da venire, radicandosi in una scelta politica della nuova giunta comunale insediatasi nel 2013. La giunta Del Bono nell’arco di due anni innova profondamente tutta l’impostazione del welfare cittadino, secondo una visione organica – la cd. Città del noi – che aveva bisogno di un luogo di sintesi permanente nella quale la visione complessiva dei bisogni e delle risposte sociali fosse condivisa tra amministrazione e Terzo settore. La stessa amministrazione, peraltro, aveva anche dichiarato al momento dell’insediamento “Brescia città zero gare”, con ciò indicando l’apertura di una stagione di collaborazione cittadina che poi è stata progressivamente strutturata. Da qui l’unicità dell’esperienza bresciana, che, nel momento in cui fu avviata, poteva ritenersi di “diretta” attuazione dell’art 118, quarto comma, Cost.

Il Consiglio è stato istituito nel 2016 per volontà dell’amministrazione comunale bresciana (deliberazione del Consiglio comunale n. 708 del 1° dicembre 2015). Esso rappresentava l’approdo di alcune dinamiche di partecipazione che avevano caratterizzato l’attività sociale della città negli anni precedenti e veniva presentato quale organo permanente di orientamento, stimolo e valutazione delle politiche e delle azioni pubbliche e del privato sociale, per assolvere compiti di programmazione generale e per indirizzare le politiche di welfare in maniera partecipata. Nel 2019, questo organismo è stato ulteriormente consolidato, attraverso un apposito regolamento per l’istituzione e la disciplina “in via definitiva” del Consiglio (d’ora poi anche “Regolamento”) approvato con deliberazione del Consiglio comunale del Comune di Brescia del 25 luglio 2019, n. 93. Tale delibera presenta il regolamento istitutivo del Consiglio come “testo regolamentare che disciplin[a] i rapporti tra l’Amministrazione ed il Terzo settore, in un’ottica di co-programmazione in attuazione del D. Lgs. 117/2017”, al fine di consolidare un “modello di welfare cittadino di comunità, quale forma concreta di attuazione del principio di sussidiarietà” e di “favorire la co-programmazione e la partecipazione civile con riferimento ai temi sociali”.

Ovviamente l’approvazione nel 2017 del Codice del Terzo settore ha in qualche modo corroborato le scelte fatte precedentemente dalla Giunta e ha permesso alla città di trovarsi particolarmente ben attrezzata per la nuova stagione regolata dai principi dell’amministrazione condivisa. Principi che, al di là dei richiami “di stile” alla citata l. r. 3/2008, non sono stati promossi dalla Regione Lombardia, alla quale – almeno con riferimento all’esperienza bresciana – non è riconducibile alcuna reale spinta promozionale. Da qui l’unicità di tale esperienza, il cui sviluppo è da ricondursi alla precisa volontà politica della giunta comunale e che, almeno nel momento del suo avvio (2015-2016), costituiva una diretta attuazione dell’art 118, quarto comma, Cost.

Il Consiglio rappresenta oggi la “sede permanente della Città di Brescia ai fini dello svolgimento dell’attività di co-programmazione prevista dall’art. 55” del CTS (art. 1, co. 1 del Regolamento), avente come riferimento territoriale l’Ambito 1 del Piano di Zona, vale a dire i Comuni di Brescia e dell’adiacente comune di Collebeato.

Al Consiglio è affidato il compito di “stimolare, raccogliere tramite specifici incontri di confronto, la progettualità di tutti gli attori del welfare in una visione condivisa che valorizzi tutte le risorse umane, organizzative, finanziarie e strumentali presenti sul territorio” e costituisce “tavolo di co-programmazione e di partecipazione civile dei diversi portatori di interesse sul tema sociale della città… con lo scopo di condividere informazioni, esigenze, istanze utili ad orientare, attraverso il dibattito pubblico ed il libero confronto di idee e proposte, le scelte e le azioni volte a realizzare un sistema di welfare sempre più adeguato” (art. 1, co. 2 e 3 del Regolamento).

Nelle pagine che seguono si descriveranno quindi funzionamento, composizione e competenze del Consiglio, formulando per ciascuno di questi aspetti alcuni rilievi anche critici e proposte di miglioramento. Ci si interrogherà, infine, sulle prospettive future del Consiglio, anche alla luce delle valutazioni formulate sulla sua attività dalla stessa amministrazione e dal Terzo settore bresciano.

Funzionamento e durata 

Quanto al funzionamento del Consiglio, l’art. 4, co. 1, del Regolamento stabilisce che esso si riunisce di norma in seduta bimestrale “per esaminare le diverse tematiche del welfare cittadino, esprimendo pareri, proposte ed indicazioni … non vincolanti per i provvedimenti di competenza” dei Comuni di Brescia e Collebeato.

Per la sua attività, il Consiglio si avvale di specifici tavoli tematici tecnici, costituiti nell’ambito del processo programmatorio del Piano sociale di Zona dell’Ambito 1. È il Consiglio a determinare gli obiettivi e le scadenze di lavoro di tali tavoli, a cui partecipano anche gli operatori comunali competenti per materia e soggetti esperti delle varie tematiche, oltre che la componente sanitaria e sociosanitaria ed eventualmente una rappresentanza delle scuole e delle Autorità Giudiziarie.

Si precisa poi, come ovvio, che l’approvazione dei documenti finali di co-programmazione e l’adozione degli atti conseguenti rimangono di competenza esclusiva del Comune di Brescia. I risultati prodotti dal CIW e l’oggetto del confronto al suo interno sono oggetto di informativa pubblica alla Città, anche nell’ambito del monitoraggio sull’attuazione degli obiettivi previsti nel Piano sociale di Zona.

Quanto all’ambito territoriale e alla durata, si precisa che il CIW ha come riferimento territoriale l’Ambito 1 Brescia-Collebeato ed ha “durata pari a quella del Piano di Zona. Al fine di consentire la continuità delle attività del Consiglio medesimo, lo stesso rimarrà in carica per tutto il mese seguente all’approvazione del nuovo Piano di Zona”.

Senza dubbio una caratteristica particolarmente apprezzabile del CIW è la sua natura permanente. La continuità nel tempo della sua attività testimonia infatti come a Brescia si sia voluto assicurare – quanto meno con riferimento alle politiche e ai servizi sociali – una sede permanentemente dedicata all’attività di co-programmazione, che non si limita quindi ad assumere una natura occasionale. Si va addirittura oltre a quella natura “circolare” richiamata dalle citate Linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore (DM 71/2021). In tale documento, infatti, la co-programmazione è immaginata più come procedimento che come sede, i cui tempi di svolgimento “dovrebbero essere congrui rispetto alla complessità dell’oggetto e delle attività relative al procedimento di co-programmazione, oltre alla numerosità degli ETS partecipanti”, e solo con riferimento alla successiva fase della co-progettazione si dice che essa dovrebbe avere natura “circolare”, ovverosia “dovrebbe essere riattivata – nei termini e con le modalità disciplinati da ogni singolo avviso, anche in relazione alla peculiarità dell’oggetto del procedimento – allorquando si manifesti la necessità o, anche, l’opportunità di rivedere o implementare l’assetto raggiunto con la co- progettazione”.

In virtù della sua natura permanente, dunque, l’esperienza bresciana costituisce un esempio di attuazione virtuosa della previsione del CTS anche oltre il dettato normativo, che immagina appunto un procedimento di co-programmazione piuttosto che una sede permanente entro la quale esso deve svolgersi. Una co-programmazione, dunque, non confinata in atti episodici e dinamiche contingenti, ma strutturata in forme di interlocuzione permanente.

Le competenze 

Quanto alle competenze del Consiglio, si è già ricordato come esso si presenti quale tavolo di co-programmazione e di partecipazione civile “sul tema sociale della città” per esaminare “le diverse tematiche del welfare cittadino”. Se quindi l’ambito di riferimento essenziale pare essere quello sociale, è chiaro che, presentandosi come “sede permanente… dello svolgimento dell’attività di co-programmazione” ex art. 55 CTS, la sua competenza potrebbe intendersi in realtà come rivolta potenzialmente a tutte le “attività di interesse generale” di cui all’art. 5 CTS. In altre parole, l’orizzonte di riferimento non è più solo quello degli interventi e dei servizi sociali, ma anche quello di tutte le altre attività di interesse generale (seppure in qualche modo sempre connesse alla sfera sociale).

Come è stato chiarito in dottrina, infatti, la co-programmazione ex art. 55 CTS non è più, come in passato, esclusivamente prevista con riferimento all’elaborazione del piano di zona dei servizi sociali (come lo era con la legge n. 328/2000), ma viene oggi estesa a tutti gli ambiti di cui all’art. 5 CTS[37]. Si può quindi affermare che “i commi 1 e 2 dell’art. 55 CTS sviluppano [la] prospettiva di relazione tra sfera pubblica e sfera privata nell’esercizio delle funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi sociali, estendendola però all’intera gamma delle attività di interesse generale. Ciò comporta l’adozione di un metodo e di un procedimento di co-programmazione anche in settori che, attualmente, ne sono privi o che, comunque, non possono vantare un’esperienza storica così ampia e diffusa come quella dei servizi sociali. Si configura, in questo modo, un ampliamento della sfera di operatività del modello della programmazione partecipata, andando a ricomprendervi un insieme di attività di interesse generale, senza dubbio connesse alla sfera sociale, ma che va ben oltre il semplice riferimento ad interventi e servizi sociali”[38].

Certo è che, a prima vista, data l’attuale perimetrazione delle competenze del CIW fissata dal regolamento, alcuni ambiti di attività di interesse generale sembrerebbero rimanere esclusi, come per esempio la cura dei beni ambientali e culturali o l’organizzazione di attività sportive. Anche se, a ben vedere, il tenore della formula “tematiche del welfare” è talmente vago che anche le attività appena citate potrebbero in qualche modo rientrarvi. In definitiva, fermo restando che sarebbe sempre preferibile una più chiara ed univoca individuazione delle competenze, si crede che molto dipenderà da come l’amministrazione comunale – con una scelta di natura politica – deciderà di intendere il “welfare”. Davvero innovativo sarebbe quindi l’estensione dell’esperienza del CIW ad altri settori, a partire da quell’area sopra descritta, accogliendo magari una più chiara (e più ampia) nozione di welfare.

Attualmente, l’Ambito 1 si è impegnato alla raccolta del parere del Consiglio in occasione di decisioni di natura strategica, rilevanti ai fini della pianificazione e programmazione delle scelte delle politiche di welfare. Sono state affrontate differenti tematiche, documenti di pianificazione pluriennale, regolamenti relativi alle attività di welfare, progetti sperimentali e iniziative di innovazione, procedure di riconoscimento dei servizi, linee d’indirizzo, gestione di servizi, linee guida, altri argomenti di particolare interesse per la città. In particolare, le linee di intervento interessate sono state: la cura delle reti e collaborazione con il Terzo settore; il contrasto alla povertà e all’emarginazione sociale; politiche abitative; promozione inclusione attiva; domiciliarità; anziani; digitalizzazione dei servizi; politiche giovanili e per minori; interventi connessi alle politiche per il lavoro; interventi per la famiglia; interventi in favore delle persone con disabilità.

La composizione

L’art. 2 del Regolamento prevede poi che il Consiglio sia composto da: a) l’Assessore con delega alle politiche sociali del Comune di Brescia; b) l’Assessore con delega alle politiche sociali del Comune di Collebeato; c) il Presidente della Commissione Consiliare “Servizi alla persona e sanità” del Comune di Brescia; d) componenti individuati secondo i criteri dell’art. 3 tra gli “enti del Terzo settore, singoli o associati”, tra le “organizzazioni sindacali”, tra “gli enti di ricerca e formazione” nonché da un “rappresentante indicato da ogni ordine professionale i cui appartenenti operano in una stretta integrazione sociale e socio sanitaria con il Comune”; e) un “rappresentante dei Consigli di quartiere[39] indicato dall’Assemblea dei Presidenti”; f) un “rappresentante dei Punti di Comunità[40]”.

Il Presidente del Consiglio è l’Assessore con delega alle politiche sociali del Comune di Brescia ed è prevista la partecipazione “in via permanente” alle sedute anche dei Dirigenti comunali dell’Ambito sociale e dei “responsabili dei servizi sociali territoriali”.

Quanto alle modalità di scelta dei componenti, il Regolamento prevede che i soggetti di cui alla lettera d) interessati a partecipare possono, a seguito di avviso pubblicato dal Comune, presentare domanda.

È la Giunta Comunale a valutare le domande pervenute, tramite un giudizio formulato “sulla base del criterio della rappresentatività, della rilevanza e della varietà delle espressioni all’interno dell’ambito sociale”. I requisiti richiesti per partecipare sono definiti dalla determinazione dirigenziale contenente l’avviso pubblico, compresa l’indicazione del “livello di rappresentatività” richiesto.

Il primo avviso finalizzato alla presentazione delle candidature per la scelta dei componenti del Consiglio è stato pubblicato nel marzo del 2016, ove si specificava che potevano candidarsi “le organizzazioni del Terzo settore, singole o associate, attive nel welfare del territorio”, organizzazioni sindacali, enti di ricerca e formazione e “personalità singole con particolari esperienze nell’ambito del welfare”. In assenza, a quel tempo, di una definizione legislativa di Terzo settore, l’avviso specificava che per soggetti del Terzo settore erano da intendersi “gli organismi con varia configurazione giuridica attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, quali, a titolo esemplificato: organismi non lucrativi di utilità sociale; organismi della cooperazione; organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati non a scopo di lucro”[41].

Nel più recente avviso dell’aprile 2022 con il quale si è dato avvio alla procedura per la presentazione delle candidature per la scelta dei componenti del Consiglio per l’attuazione delle linee di intervento previste dal Piano di Zona 2021-2023, gli enti invitati a partecipare sono gli enti del Terzo Settore (espressamente individuati in “organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni riconosciute e non, fondazioni e gli altri enti di carattere privato senza scopo di lucro costituiti per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo Settore, operanti sul territorio dell’Ambito 1-Brescia”[42]) e le organizzazioni sindacali e gli enti di ricerca.

Si può fare quindi ora qualche osservazione, anche critica. Si è già ricordato che l’art. 55 CTS ha allargato l’ambito della co-programmazione oltre l’ambito tradizionale degli “interventi e servizi sociali”, estendendolo a tutti i settori di attività di cui all’art. 5 CTS. Come è stato osservato in dottrina, ciò “dovrebbe indurre le amministrazioni pubbliche a ripensare la competenza istituzionale a tenere i rapporti con il TS, che tradizionalmente viene delegata all’assessore ai servizi sociali”[43]. A tal proposito può essere importante ricordare che anche le Linee guida sulla definizione di criteri e di modelli per la partecipazione del TS alla determinazione delle politiche pubbliche a livello locale dell’Agenzia per il Terzo settore avevano auspicato che a tenere i rapporti con il Terzo settore fosse “una sede centrale di coordinamento a competenza trasversale. In altri termini, se il Terzo settore è un soggetto politico di interlocuzione generale, esso deve interfacciarsi con un unico ufficio, che deve far capo a chi ha la funzione di coordinamento dell’amministrazione”[44], come ad esempio l’ufficio del Sindaco. Nel caso in esame, considerate anche le competenze assai estese del Consiglio e la nozione molta ampia di “welfare” accolta (come rilevato supra), sarebbe forse ragionevole, in fase di revisione del regolamento, tenere in considerazione la possibilità di prevedere (anche) la partecipazione del Sindaco o di un suo delegato, piuttosto che la sola presenza dell’Assessore alle politiche sociali.

Quanto ai criteri per l’individuazione dei soggetti partecipanti, abbiamo già messo in evidenza come l’art. 55 CTS sia particolarmente vago sul punto e che ciò legittima l’integrazione di essi da parte delle fonti locali. Non si contempla infatti la necessità di forme di accreditamento o procedure concorsuali, ma ci si limita a richiamare il “rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti e in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona”. Sono state quindi le Linee guida di cui al citato DM 72/2021 a suggerire che, non contenendo il CTS previsioni o prescrizioni in ordine al contenuto degli avvisi per rispettare il principio di autonomia organizzativa e regolamentare di ciascun ente, costituirebbe comunque “buona pratica” pubblicare un avviso, che contenga, tra l’altro, i “requisiti dei partecipanti”, le “modalità di presentazione della domanda di partecipazione e relative dichiarazioni, inclusa espressa liberatoria in favore dell’Amministrazione procedente in ordine ad eventuali responsabilità legate alla proprietà intellettuale delle proposte presentate”[45].

Da questo punto di vista, dunque, sembra che la procedura prevista dal Comune di Brescia sia del tutto coerente con tali principi, prevedendo addirittura una sorta di “procedura concorsuale” con valutazione delle domande da parte della Giunta comunale.

L’unico auspicio è che venga assicurato sempre il coinvolgimento di tutti i soggetti operanti nel settore e nell’ambito territoriale interessato che siano in grado di fornire un contributo al raggiungimento degli obiettivi a cui la co-programmazione tende[46], senza peraltro escludere – come sembra fare il recente avviso dell’aprile del 2022 quando prevede il requisito della “iscrizione nel Registro Unico del Terzo settore” – la possibilità di un coinvolgimento di soggetti diversi da quelli formalmente qualificati come ETS ai sensi dell’art. 4 CTS.

Quale futuro per il CIW

Nel 2019, al termine del primo triennio di mandato, è stata effettuata una valutazione dei punti di forza e debolezza del CIW con il coinvolgimento di tutti i suoi partecipanti, di cui si è dato analiticamente conto nel nuovo Piano di Zona 2021-2023[47]. In particolare, è stato somministrato un questionario per rispondere alla domanda: “Come sarebbe stato il welfare cittadino senza il CIW?”. I risultati emersi dalla consultazione mostrano che le principali innovazioni apportate dal CIW nel sistema di welfare sono state la compartecipazione alla definizione di nuovi servizi e progetti, una maggiore condivisione di azioni programmatorie, una maggiore informazione al Terzo Settore delle politiche comunali e maggior possibilità per quest’ultimo di esprimere il proprio parere. È emerso pure che l’esperienza del CIW ha apportato un cambiamento rilevante per la stessa città di Brescia, in quanto la presenza del Terzo settore all’intero della programmazione ha favorito il diffondersi tra i cittadini di conoscenza, informazione e comunicazione sui servizi. Questo ha portato ad una “maggiore vicinanza del TS ai cittadini rispetto alla PA” e ad un “senso di appartenenza del Terzo Settore al welfare cittadino”, “vicinanza tra Comune e territorio”, “sinergie tra ruoli e funzioni, tra indirizzi politici e letture dei bisogni”.

“Vicinanza”, “senso di appartenenza”, “sinergia”: insomma, le parole chiave per descrivere i risultati concreti dell’amministrazione condivisa. Ciò ha portato quindi il Terzo settore bresciano a “cambiare il proprio punto di vista”, a “sentirsi parte del sistema”, essendo meno autoreferenziale e rendendo più fluidi alcuni processi comunicativi e di scelta. Era questo, del resto, il compito assegnato al Consiglio nello svolgimento di quella “azione permanente di orientamento, stimolo e valutazione delle politiche e del privato sociale” e nella promozione del “dibattito” tra pubblico e privato (cfr. art. 1.3 del Regolamento).

Un’innovazione di metodo. Brevi cenni alle altre esperienze di sussidiarietà a Brescia

Le esperienze di amministrazione condivisa a Brescia non possono però ritenersi limitate alla creazione del Consiglio e alla promozione delle sue attività. Con la presentazione del Piano di Zona 2018-2020 Brescia è infatti entrata in una nuova fase della progettazione e gestione del welfare municipale, implementando e consolidando il progetto “Brescia città del noi” iniziato nel 2016[48]. Con esso si è promossa una visione del welfare in ottica comunitaria, costruendo nuove connessioni fra tutti i soggetti coinvolti nella produzione del benessere sociale della città.

Tra le altre esperienze promosse, anzitutto, può segnalarsi il programma di formazione implementato dall’amministrazione comunale degli operatori sociali comunali al fine di diventare “agenti di comunità”, considerati non più solo come meri erogatori di servizi su mandato dell’ente pubblico, ma soggetti che “conoscono e integrano le istanze, i bisogni e le risorse della popolazione e della comunità”[49]. Questo costituisce l’espressione di quella nuova tendenza, sopra richiamata, che considera il Terzo settore non solo come erogatore di servizi ma anche come insieme di soggetti che svolgono un più ampio ruolo di “advocacy[50]. Il Piano di Zona 2018-2020 intende infatti rafforzare un modello di forte integrazione tra pubblico e privato attraverso anzitutto la crescita culturale e formativa tanto dell’ente locale quanto dei soggetti di Terzo Settore. L’intento è quello di definire quindi un “linguaggio comune” pubblico/privato sul welfare cittadino, e l’esperienza del CIW rappresenta sicuramente la massima espressione di tale esigenza.

Un’altra esperienza da segnalare è quella dei già menzionati Punti di comunità (di cui un rappresentante, peraltro, fa parte del CIW), che sono quei luoghi che, sui territori, rappresentano il concreto spazio di collaborazione tra le realtà presenti a livello di quartiere in cui costruire sinergie per rispondere agli specifici bisogni dei cittadini. I Punti di comunità vanno quindi intesi come luoghi in cui si aggregano risorse, si progettano iniziative condivise e si promuovono sviluppo e coesione sociale[51].

L’innovazione promossa dunque dal menzionato progetto Brescia città del noi, dai Piani di Zona 2018-2020 e 2021-2023 è non solo un’innovazione che riguarda i servizi, ma soprattutto un’innovazione di metodo: la realizzazione di un nuovo sistema che si sviluppa a partire dal CIW (al livello istituzionale “più alto”, a diretto contatto con la Giunta e il Consiglio comunale) sino ad arrivare ai punti di comunità (a diretto contatto con il livello più basso, i quartieri): un’apertura della Pubblica Amministrazione alla collaborazione con tutti i soggetti capaci di intervenire nel territorio per perseguire gli obiettivi, anche “politici”, fissati nella programmazione comunale. Per riprendere le parole utilizzate in dottrina[52], si assiste alla promozione di una “sussidiarietà decisionale” – consistente nella partecipazione della società nelle decisioni dei pubblici poteri –, preservando una già consolidata “sussidiarietà azionale” che vede la società civile coinvolta nell’azione amministrativa.

Sfide e prospettive della co-programmazione

Dopo aver descritto l’innovativa esperienza di co-programmazione sperimentata a Brescia, non rimane che cercare di trarre qualche conclusione sulle sfide che attendono la co-programmazione nei prossimi anni e sulle prospettive che si presentano per l’amministrazione condivisa.

Anzitutto, occorre intendersi sul significato che si vuole attribuire alla co-programmazione, quanto meno ai fini del presente lavoro, dato che può esserci un rischio di equivoco. Occorre cioè comprendere se ci si riferisce solo al procedimento amministrativo che si apre con un avviso pubblico e si chiude con un documento di programmazione oppure se si vuol fare riferimento a quel complesso di orientamenti, di dispositivi regolamentari, di prassi che rendono il Terzo settore partecipe delle scelte programmatiche di una pubblica amministrazione. Si potrebbe dire che la seconda accezione citata si riferisce ad un “ecosistema partecipativo” in cui poi si svolgono (al meglio) le esperienze di co-programmazione intesa come specifico procedimento amministrativo. Sono anzi quelle esperienze di co-programmazione che si spingono sino ad accogliere entrambi i significati ad essere quelli maggiormente apprezzabili, quelli che riescono a coglierne davvero il senso profondo.

Il fatto che a Brescia sia stata prevista una “sede permanente” di co-programmazione sembra proprio dimostrare la volontà e la determinazione dell’amministrazione comunale di non guardare alla co-programmazione solo come un procedimento isolato da attivare in caso di necessità, ma come uno strumento indispensabile per la programmazione sociale della città che consente la duratura e ininterrotta partecipazione del Terzo settore alle scelte anche politiche in materia sociale. In questo si apprezza tutta l’importanza dell’esperienza bresciana, che, come abbiamo cercato di mettere in rilievo anche in apertura del presente lavoro, dovrebbe essere collocata “a metà strada” tra l’istituto (più di stampo amministrativistico) della co-programmazione e quello (più politico) della democrazia partecipativa.

Si è già avuto modo di chiarire più volte nel corso del presente lavoro che il fine dell’art. 55, secondo comma è quello di generare un “arricchimento della lettura dei bisogni, anche in modo integrato, rispetto ai tradizionali ambiti di competenza amministrativa degli enti, agevolando… la continuità del rapporto di collaborazione sussidiaria, come tale produttiva di integrazione di attività, risorse, anche immateriali, qualificazione della spesa e, da ultimo, costruzione di politiche pubbliche condivise e potenzialmente effettive, oltre alla produzione di clima di fiducia reciproco”[53].

L’esperienza promossa a Brescia dimostra la volontà politica di cogliere appieno le potenzialità messe a disposizione dal citato art. 55, superando – come più volte detto – quella “concezione del TS soltanto quale strumento necessario al sistema di welfare in quanto erogatore di servizi o di prestazioni, per favorirne una considerazione più piena, vale a dire quale partner dell’intera procedura”[54]. Si è accolto pienamente quindi quell’invito, formulato da autorevole dottrina, di “immaginare nuove metodologie di lavoro”[55] in grado di integrare conoscenza, competenze e risorse per costruire visioni e programmi condivisi tra sfera pubblica e mondo del Terzo settore.

Oggi una delle maggiori sfide che si pone alle PP.AA. e agli ETS è quella di costruire un clima di fiducia per una loro collaborazione reciproca. Un clima di fiducia che deve essere realizzato anzitutto nel Terzo settore, fra le sue diverse componenti che partecipano all’amministrazione condivisa. Senza dubbio la descritta esperienza bresciana si inserisce pienamente in questa prospettiva, realizzando una sede permanentemente a ciò dedicata. I risultati dei questionari sottoposti ai membri del Consiglio lo dimostrano.

Pare potersi affermare poi che un’altra importante lezione dell’esperienza bresciana è che la stagione dell’amministrazione condivisa a livello locale, affinché essa possa ritenersi seriamente avviata, richiede necessariamente delle scelte politiche. In altre parole, la stagione del coinvolgimento attivo del Terzo settore nelle scelte programmatiche pubbliche dovrà inevitabilmente essere sorretta da una forte volontà politica dell’amministrazione comunale. Oggi, con l’art. 55 CTS, queste scelte possono trovare più facile attuazione rispetto a quando, nel 2015, Brescia si mise in moto, ma rimangono comunque necessarie.

Le PP.AA. e gli ETS dovrebbero poi rendersi conto, come affermato da Gori[56], che la valorizzazione dell’amministrazione condivisa è la “cartina di tornasole di una trasformazione dell’amministrazione, in grado di propagarsi sino a lambire tratti essenziali della forma di stato, disegnando un nuovo scenario di democrazia”, che realizza “una diversa dislocazione del potere politico” e una “trasformazione della partecipazione dei cittadini all’esercizio delle funzioni pubbliche, al di là delle forma più consolidate”. È soprattutto quest’ultima esigenza quella che sembra essere stata colta dall’amministrazione bresciana nella realizzazione del CIW, sperimentando, come si diceva nell’introduzione, un’esperienza che promuove allo stesso tempo l’amministrazione condivisa e la democrazia partecipativa, individuando le modalità di coinvolgimento permanente del TS nella dimensione politica comunale, ponendo quest’ultimo a stretto contatto con gli organi esecutivi e rappresentativi dell’ente locale. Il TS diviene così parte integrante non solamente del procedimento amministrativo, ma anche del processo decisionale politico locale. In definitiva, la sperimentazione bresciana di amministrazione condivisa e di democrazia partecipativa si rivela insieme metodo politico-amministrativo capace di produrre progettualità sociale e strumento di rivitalizzazione della democrazia locale.

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Note

  1. ^ Peraltro, in dottrina si era già sottolineata l’esigenza di “ragionare sull’interazione fra la promozione dell’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono… a perseguire il bene comune e il pluralismo territoriale”. Così G. Delledonne (2017), “Le ripercussioni sul riparto di competenze fra Stato e Regioni”, Non Profit, 3/2017, p. 71 (numero speciale monografico a cura di E. Rossi e L. Gori). Sui rapporti tra principio pluralistico e quello dell’autonomia locale, si v. F. Pizzolato (2015), “Democrazia come autogoverno: la questione dell’autonomia locale”, Costituzionalismo.it, n. 1/2015.
  2. ^ G. Leondini (2019), Riforma del Terzo settore e autonomie locali, Giappichelli, Torino, p. 151.
  3. ^ U. Allegretti (2011), “Modelli di partecipazione e governance territoriale. Prospettive per i processi partecipativi nei comuni “dopo” le circoscrizioni”, Istituzioni del Federalismo, n. 2/2011, p. 205.
  4. ^ Ivi, p. 207.
  5. ^ Questo aspetto è messo bene in rilievo da A. Valastro (2016), “La democrazia partecipativa alla prova dei territori: tendenze e prospettive dei regolamenti comunali”, Osservatorio sulle Fonti, n. 3/2016, spec. pp. 13 e ss.
  6. ^ Si v., ex multis, U. Allegretti (2011), “Democrazia partecipativa”, Enciclopedia del Diritto, Annali IV, Milano.
  7. ^ G. Arena, G. Cotturri (2010), “Introduzione. Il ‘valore aggiunto’ della cittadinanza attiva”, in Arena G., Cotturri G. (a cura di), Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia, Carocci, Roma, p. 14.
  8. ^ G. Cotturri (2003), Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella Costituzione italiana, Astrid Online, p. 3.
  9. ^ E. Rossi (2016), “Le finalità e gli strumenti della democrazia partecipativa nell’ordinamento giuridico italiano”, Diritto e Società, n. 3/2016, p. 495.
  10. ^ P. Consorti, L. Gori, E. Rossi (2021), Diritto del Terzo settore, II edizione, Il Mulino, Bologna, p. 40.
  11. ^ Ivi, p. 35.
  12. ^ F. Pizzolato (2017), “La democrazia locale come fondamento di autonomie responsabili”, in De Martin G.C., Merloni F. (a cura di), Per autonomie responsabili, LUP, Roma, spec. pp. 99-100.
  13. ^ Così G. Marocchi (2021), “La coprogrammazione a Caluso. Un’esperienza di amministrazione condivisa”, Impresa Sociale, n. 2/2021, pp. 57 e ss.
  14. ^ Si v. sul punto P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, cit., p. 35.
  15. ^ E. Rossi et al., Identità e rappresentanza, cit., p. 121.
  16. ^ C. Cittadino, C. Bova, M.F. De Forgellinis, A. Ferrante (2008), “La partecipazione alle attività di pianificazione e programmazione delle politiche di settore”, in Cittadino C. (a cura di), Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e terzo settore, Passigli, Firenze, pp. 155 ss. Sulle forme di coinvolgimento dei soggetti del TS previste a livello locale, si v. E. Rossi, P. Addis, F. Biondi Dal Monte, E. Stradella, E. Vivaldi (2011), Identità e rappresentanza del Terzo settore, in S. Zamagni (a cura di), Libro bianco sul Terzo settore, Bologna, p. 121 ss.
  17. ^ A tal proposito si era osservato che “il legislatore ha evidentemente voluto in tal modo fare assumere alla partecipazione una valenza anche ‘surrogatoria’ dell’azione dell’ente locale, sullo sfondo (almeno così parrebbe) di un’accezione estensiva del principio di sussidiarietà”: così E. De Marco (2000), “Comune” (voce), Enciclopedia del Diritto, Aggiornamento IV, p. 275.
  18. ^ Sul punto criticamente E. Rossi et al., Identità e rappresentanza, cit., pp. 124 ss.
  19. ^ P. Pantalone (2018), “Organizzazione dei servizi sociali e partecipazione. Profili generali e considerazioni specifiche relative al caso della metropoli milanese”, Il Diritto dell’Economia, 31(95), pp. 47 e ss.
  20. ^ https://www.passionenonprofit.it/wp-content/uploads/2012/02/LINEE-GUIDA-SULLA-DEFINIZIONE-DI-CRITERI-E-DI-MODELLI-PER-LA-PARTECIPAZIONE-DEL-TERZO-SETTORE-ALLA-DETERMINAZIONE-DELLE-POLITICHE-PUBBLICHE-A-LIVELLO-LOCALE.pdf, p. 5.
  21. ^ Ivi, p. 6.
  22. ^ Sul tema, in dottrina, ex multis, si v. E. Frediani (2021), La coprogettazione dei servizi sociali, Torino, Giappichelli; A. Fici, L. Gallo, F. Giglioni (a cura di) (2020), I rapporti fra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore, Napoli, Editoriale Scientifica; S. Pellizzari, A. Magliari (a cura di) (2019), Pubblica amministrazione e Terzo settore. Confini e potenzialità dei nuovi strumenti di collaborazione e sostegno pubblico, Napoli, Editoriale Scientifica.
  23. ^ Come ricordato da L. Gori (2022), Terzo settore e Costituzione, Giappichelli, Torino, p. 212.
  24. ^ Ad es. A. Valastro, La democrazia partecipativa alla prova dei territori, cit., p. 12.
  25. ^ Fermo restando che, come messo in evidenza da L. Gili (2018), “Il Codice del Terzo settore ed i rapporti collaborativi con la P.A.”, Urbanistica e Appalti, n. 1/2018, p. 3, la co-programmazione “è intesa come forma di coinvolgimento degli enti del Terzo settore in termini non co-decisori ma più squisitamente partecipativi”.
  26. ^ Ministero del lavoro e delle politiche sociali, DM 72/2021, Linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore negli art. 55-57 del d.lgs. n.117/2017 (Codice del Terzo settore), p. 8.
  27. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 211.
  28. ^ Si è anzi detto che essa rappresenta una delle più recenti evoluzioni in tema di tecniche di partecipazione all’attività amministrativa, configurandosi come partecipazione “precoce”, “un contraddittorio che si instaura usque ab initio”. Così L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 213. Sul punto si v. anche E. Frediani (2017), “I rapporti con la pubblica amministrazione alla luce dell’art. 55 del codice del Terzo settore”, Non Profit, 1, p. 163.
  29. ^ G. Leondini, Riforma del Terzo settore e autonomie locali, cit., p. 46.
  30. ^ E. Rossi et al., Identità e rappresentanza, cit., p. 127.
  31. ^ Come messo in rilievo da L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 214: “non può essere sottovalutata la circostanza che l’art. 55, commi 1 e 2, CTS, in realtà, rappresenti una sorta di “scheletro normativo” che ciascuna pubblica amministrazione procedente, nei limiti dei propri poteri e attribuzioni, è chiamata ad integrare definendo proprie modalità, procedimenti ed effetti”. Lo stesso A. prosegue osservando che, se si ragionasse diversamente, “risulterebbe assai difficile immaginare una sorta di procedimento del tutto astratto rispetto al contesto territoriale, slegato dall’attività di interesse generale che ne è oggetto e dai nessi che si intendono creare fra tale co-programmazione e le successive fasi di co-progettazione”, e che quindi “pare ammissibile, in linea generale, che Regioni ed enti locali … possano dettare proprie norme al fine di integrare quanto previsto dal legislatore all’art. 55 CTS”.
  32. ^ Ivi, p. 321.
  33. ^ L. Gori (2018), “Il sistema delle fonti nel diritto del Terzo settore”, Osservatorio sulle Fonti, n. 1/2018, p. 47, secondo cui l’ambito naturale delle fonti locali è rappresentato proprio dalla “promozione delle attività e delle finalità del TS, riconoscendo per prime – come fonti dotate di maggiore prossimità rispetto ai fenomeni sociali – nuove istanze che chiedono di essere qualificate, disciplinate e promosse”.
  34. ^ F. Giglioni (2018), “Il diritto pubblico informale alla base della riscoperta delle città come ordinamento giuridico”, Rivista Giuridica dell’Edilizia, II, p. 3 e ss.
  35. ^ A. Valastro, La democrazia partecipativa alla prova dei territori, cit., pp. 21 e 27, ove si nota che oggi “è in atto una seconda stagione, animata e stimolata dai grandi mutamenti sociali e istituzionali intervenuti nel frattempo e – soprattutto – dalla rinnovata spinta partecipativa e solidaristica che le nuove crisi hanno impresso alle comunità locali” e che i “regolamenti, ancora pochi perché legati all’evoluzione assai recente del modello dell’amministrazione condivisa, sono tuttavia molto significativi perché costituiscono i primi tentativi di rendere effettivamente complementari i due modelli e le due facce della partecipazione. In alcuni casi ci si limita ad affiancare la previsione degli istituti di democrazia partecipativa e di amministrazione condivisa all’interno dello stesso regolamento, che assurge così a vera normativa-quadro della partecipazione collaborativa tout court; in altri casi gli organismi della partecipazione organica vengono ripensati come luoghi non solo del proporre ma anche «del fare e dell’agire»”.
  36. ^ L. Gori (2019), “La riforma del Terzo settore e gli spazi di autonomia regionale”, Politiche Sociali, n. 2/2019, pp. 326-327.
  37. ^ P. Consorti, E. Rossi, L. Gori, Diritto del Terzo settore, cit., p. 160.
  38. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 213.
  39. ^ In attuazione dell’art. 8 TUEL, il Comune di Brescia ha disciplinato i Consigli di quartiere con apposito regolamento disponibile al seguente link: https://www.comune.brescia.it/servizi/partecipazioneediritti/ConsigliQuartiere/Documents/Anno2020/Documenti2020/reg.%20Consigli%20di%20Quartiere.pdf
  40. ^ Il “Punto Comunità” si qualifica come momento di aggregazione delle associazioni, delle parrocchie, delle realtà di volontariato e, più in generale, del Terzo Settore del quartiere e/o dei quartieri, cui fa riferimento, con le quali collabora nella progettazione, organizzazione e gestione di progetti ed iniziative, con la finalità di fare rete e di ottimizzare i servizi offerti. Il “Punto Comunità”, grazie alla collaborazione tra i soggetti coinvolti, realizza un servizio concreto attraverso l’apertura di uno sportello impegnato a: tessere una rete di sostegno locale per le persone fragili; operare come punto di riferimento per i residenti e per le realtà aggregative che vogliano assumere un ruolo attivo in ambito sociale; attivare iniziative collettive destinate a promuovere occasioni di cittadinanza attiva e di solidarietà. Per approfondimenti, si v. l’avviso pubblico del maggio 2017 destinato all’attivazione dei punti di comunità disponibile al seguente link: https://www.comune.brescia.it/trasparenza/sovvenzioni/Documents/Avviso%20punti%20comunità%202017.pdf#search=punti%20di%20comunità
  41. ^ In particolare, il Consiglio istituito nel 2019 ha visto la presenza, oltre che dei soggetti sopra ricordati di: ordine medici, farmacisti, assistenti sociali, psicologi ed educatori; Acli, Anffas, Ariele psicoterapia, Confcooperative, congrega della carità apostolica, diocesi, forum terzo settore, Uneba, forum associazioni familiari e Cgil-Cisl-Uil.
  42. ^ Più opportuno, forse, sarebbe stato un diretto riferimento all’art. 4 del CTS. Problematico forse anche il riferimento alla “iscrizione nel Registro unico del Terzo settore”, considerato che – come noto – è solo agli inizi della sua implementazione (il Registro previsto dall’art. 45 del CTS è attivo, infatti, dal 23 novembre 2021, come stabilito dal Decreto direttoriale n. 561 del 26 ottobre 2021) e che alcuni soggetti del TS potrebbero, per svariati motivi, scegliere di non iscriversi.
  43. ^ P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, cit., p. 160.
  44. ^ Così le Linee guida cit., p. 10.
  45. ^ D.M. 72/2021 cit., p. 9.
  46. ^ G. Leondini, Riforma del terzo settore e autonomie locali, cit., p. 43.
  47. ^ Si v. il Piano di Zona 2021-2023 dell’Ambito 1 Brescia e Collebeato.
  48. ^ https://www.comune.brescia.it/news/2019/giugno/Pagine/Brescia-Citta-del-Noi.aspx
  49. ^ Così si legge nel Bilancio Sociale partecipato del welfare della città di Brescia, 2, 2017, pag. 17.
  50. ^ P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, cit., p. 35.
  51. ^ Per approfondire sui Punti di comunità, si v. le informazioni contenute nell’avviso supra cit.
  52. ^ L. Azzena (2015), Vecchi e nuovi paradigmi per le politiche pubbliche in tempi di crisi. La doppia faccia della sussidiarietà orizzontale, Il Mulino, Bologna.
  53. ^ Così il DM 72/2021, cit., p. 8.
  54. ^ P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, cit., p. 175.
  55. ^ F. Scalvini (2018), “Co-programmazione, co-progettazione e accreditamento: profili e questioni applicative”, in Fici A. (a cura di), La riforma del terzo settore e dell’impresa sociale. Un’introduzione, Editoriale Scientifica, Napoli, p. 272.
  56. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 345.
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