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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2022

Saggi

Sussidiarietà e coprogettazione: un legame implicito o ancora da costruire?

Luca Fazzi

La ricerca che ha portato alla stesura del presente contributo ha beneficiato del sostegno finanziario della Provincia Autonoma di Trento ed è stata svolta da Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises). Hanno fatto parte del gruppo di ricerca Mirella Maturo, Gianfranco Marocchi e Giacomo Pisani. 

Introduzione

I processi di integrazione del terzo settore nelle politiche pubbliche negli ultimi due decenni sono stati caratterizzati da un progressivo venire meno delle relazioni collaborative tra pubblico e terzo settore che avevano connotato la fase pionieristica del welfare mix (Fazzi, 1996; Fazzi, Messora, 1999). Incentivando la concorrenza e perseguendo un obiettivo di migliore allocazione della spesa, essi hanno generato una forte frammentazione dei servizi, alle volte un abbassamento della qualità e spesso un impoverimento delle capacità progettuali e dell’autonomia del terzo settore (Fazzi, 2022). L’esigenza di cambiare in modo radicale questo trend per evitare di trasformare il terzo settore in mero esecutore e non più attivatore di risposte ai problemi sociali è dunque molto sentita sia tra i rappresentanti di cooperative sociali, associazioni e fondazioni che tra studiosi e osservatori che analizzano l’evoluzione del fenomeno.

L’art. 55 del Codice del terzo settore, introducendo la coprogrammazione e la coprogettazione come strumenti per promuovere una nuova concezione più collaborativa e paritaria dei rapporti tra lo stato e gli enti di terzo settore, costituisce in questo quadro un elemento di importante svolta (Gori, 2020). Con la sentenza della Corte costituzionale 2020 è stato affermato in particolare il principio secondo cui il terzo settore ha titolo di partecipare alla costruzione dei servizi e delle politiche in forza di quella che a suo tempo veniva definita come natura statutaria del privato sociale (Donati, 1996). L'idea è che gli enti di terzo settore costituiscono forme di azione organizzata attraverso le quali i cittadini si associano per intraprendere attività di interesse generale attuando il secondo comma dell'art. 118 della Costituzione (Fici, 2020). In forza di tale caratterizzazione, essi sono più vicini ai bisogni e il loro contributo progettuale e non solo esecutivo è quindi centrale per un efficace risposta ai problemi sociali.

La collaborazione con le pubbliche amministrazioni si basa dunque sull’assunto che gli enti di terzo settore rappresentano dei soggetti emblematici della rete solidale del Paese e che, anche a fronte della crisi che caratterizza i modelli pubblici di welfare, è necessario per l’interesse comune dare cittadinanza a quel mondo di relazioni sociali che, essendo più prossime ai bisogni dei cittadini, sono in grado di fornire informazioni ed elaborare idee e progetti per affrontare i problemi sociali. A tale proposito la sentenza ricorda che in Italia la solidarietà è stata caratterizzata da sempre da una dimensione relazionale che trae origine dalla fitta rete di libera e autonoma mutualità capace di assicurare forme di aiuto alle persone in difficoltà prima dell’avvento dei sistemi pubblici di welfare. In base a questa caratterizzazione statutaria è di conseguenza naturale e importante che si instaurino relazioni di condivisione tra pubblico e terzo settore (Pellizzari, 2019). Gli istituti previsti all’art. 55 rappresentano in questa prospettiva – secondo la Corte costituzionale – una vera e propria “procedimentalizzazione” dell’azione reciprocamente sussidiaria tra pubblico e terzo settore attraverso la previsione di strumenti finalizzati a configurare le relazioni tra le parti in base alla condivisione di obiettivi, risorse e attività.

Attualmente, dei due principali strumenti introdotti dal Codice del terzo settore – la coprogrammazione e la coprogettazione – è il secondo a trovare la maggiore applicazione, mentre il primo rimane confinato ad un numero ancora esiguo di casi probabilmente per la difficoltà di definire confini chiari con le altre forme di programmazione in teoria concertate come i piani di zona. Dopo una partenza abbastanza in sordina e lo stop del Consiglio di Stato del 2018, il percorso di sperimentazione della coprogettazione è ripartito con forza a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 2020 che ha fugato i dubbi sulla legittimità e la fondatezza giuridica della nuova normativa (Marocchi, 2020). Molte amministrazioni pubbliche – sia che avessero in passato già applicato strumenti collaborativi, che senza alcuna esperienza in materia – hanno avviato così processi di coprogettazione ai sensi dell’art. 55.

L’analisi di questi percorsi, pur ormai frequenti soprattutto a livello di enti locali, al momento è ancora fortemente concentrata sull’innovazione giuridica, mentre scarseggiano gli studi empirici che sono limitati alla descrizione pur interessante di pochissimi casi di studio (Fazzi, 2021). L’applicazione effettiva della coprogettazione e la coerenza con gli assunti culturali su cui tale istituto poggia sono pertanto attualmente poco suffragati da analisi approfondite. Questo vulnus – data anche la rilevanza sollevata dall’applicazione del Codice del terzo settore – rischia di essere problematico, perché i processi innovativi avvengono al di fuori di un sistema di osservazione finalizzato a rilevarne i punti di forza e le eventuali criticità. In particolare, per valutare se la coprogettazione risponde alle attese di promozione di un nuovo welfare incentrato sulla collaborazione e sulla valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale tre sembrano essere gli interrogativi a cui rispondere:

  1. Le pubbliche amministrazioni favoriscono (e sono in grado di favorire) la piena partecipazione del terzo settore?
  2. Le procedure di coprogettazione consentono l’espressione della autonoma progettualità del terzo settore nell’ambito di una interazione virtuosa con gli obiettivi delle pubbliche amministrazioni?
  3. Il terzo settore è capace di valorizzare e sfruttare le nuove procedure per esprimere la sua natura di attore inserito nelle reti della solidarietà locale e espressione della sussidiarietà?

Per cercare di fornire una risposta preliminare a questa domanda sono qui riportati i risultati di una indagine svolta tra l’estate del 2021 e del 2022 che ha analizzato 20 coprogettazioni in 7 regioni italiane raccogliendo 54 interviste semi strutturate a dirigenti e funzionari pubblici e del terzo settore e a 6 consulenti coinvolti nelle procedure. Il campionamento è avvenuto attraverso una raccolta dei bandi pubblicati in rete dalle pubbliche amministrazioni tenendo conto della dislocazione territoriale (sud, centro e nord), della tipologia di amministrazione pubblica interessata (Comuni, consorzi, aziende di servizi, altri enti) e dell’entità economica del contributo previsto nell’avviso pubblico. La ricerca che ha portato alla stesura del presente contributo ha beneficiato del sostegno finanziario della Provincia Autonoma di Trento.

Il ruolo delle pubbliche amministrazioni nella valorizzazione del terzo settore

Il primo interrogativo dell’indagine è stato di verificare se e in che modo le pubbliche amministrazioni facilitano la partecipazione del terzo settore e si rapportano a esso come partner per la condivisione di obiettivi comuni. Le dimensioni su cui si è focalizzata l’indagine per rispondere a questa domanda sono:

  1. Quali sono le strategie per attivare e mobilitare il terzo settore rispetto alla partecipazione agli avvisi di coprogettazione?
  2. Che tipo di contributo chiedono le pubbliche amministrazioni al terzo settore?
  3. I rapporti con il terzo settore sono improntati a un riconoscimento di pari dignità?

Le modalità di attivazione sono dirimenti per definire i criteri di selettività e inclusione dei processi partecipativi (Pedersen et al., 2022). Nelle procedure di coprogettazione studiate è sempre l’ente pubblico a promuovere gli avvisi e mai il terzo settore. La fase antecedente alla formalizzazione degli avvisi è naturalmente difficile da analizzare, perché si può svolgere anche in parte importante a livello informale. Se si guarda al modo con cui gli avvisi sono promossi si registra un netto prevalere di comunicazioni amministrative che non sembrano denotare un ruolo attivo della pubblica amministrazione nel promuovere la maggiore partecipazione possibile agli avvisi. Gli esiti di questo tipo di comunicazione rischiano di ingenerare un effetto opposto rispetto a quello della promozione allargata della partecipazione alle reti del terzo settore locale. “Da noi – racconta un direttore di un grande consorzio di cooperative di una città del Nord Italia – gli avvisi finiscono sugli albi pretori dei Comuni. Così li trovano le cooperative abituate a cercare bandi di gara, ma certo non le piccole associazioni del territorio.” Solo in due casi gli avvisi prevedevano come condizione per la partecipazione la presenza di una rete allargata di enti salvo poi finire nel primo in una sorta di competizione tra tre diverse cordate di grandi organizzazioni che avevano chiesto l’adesione formale a piccoli enti in cambio di partecipazioni marginali alla eventuale distribuzione di valore economico.

Il ruolo dei dirigenti e dei funzionari pubblici si profila centrale nelle decisioni finalizzate a promuovere la partecipazione quasi più che non quello del terzo settore che si auto-organizza dal basso. In uno delle poche coprogettazioni con una rete allargata di enti di terzo settore il dirigente del Comune ha deciso, per esempio, di far dialogare insieme le due cordate che avevano presentato una proposta per la progettazione degli interventi istituendo un tavolo congiunto che ha permesso di arrivare ad un unico progetto. In diversi altri casi, invece di fronte a due o più proposte i dirigenti hanno scelto di selezionarne una soltanto, trasformando la coprogettazione in qualcosa di molto simile a una procedura competitiva.

In secondo luogo, le pubbliche amministrazioni possono essere interessate a diverse forme di partecipazione da parte del terzo settore, economiche, ideative, organizzative. La logica che sottende all’art. 55 è che debbano essere soprattutto le idee, le informazioni e le progettualità a essere valorizzate in forza della vicinanza che gli enti di terzo settore hanno rispetto ai bisogni, e solo insieme ad esse le risorse che il terzo settore riesce a mobilitare. La richiesta di idee e progettualità è presente soprattutto nei contesti in cui anche prima dell’attuazione dell’art. 55 si basavano su un approccio collaborativo. Dove lo scambio di idee è virtuoso, si consolidano relazioni di collaborazione tra pubblico e terzo settore, la pressione verso il cofinanziamento è minore e la mobilitazione di risorse aggiuntive tende a prendere forma attraverso la realizzazione di interventi che generano interesse e adesione da parte di nuovi attori. I contesti in cui avvengono questi processi sono tuttavia molto particolari, e in essi prevalgono forte senso di identità comunitaria, scarsa competizione, basi di fiducia reciproca.

Dove la tradizione dei rapporti tra enti pubblici ed enti di terzo settore ha carattere più strumentale e competitivo, la coprogettazione è utilizzata spesso, invece, come modo per richiedere una compartecipazione ai costi dei servizi e degli interventi. Questo avviene sia attraverso una richiesta esplicita di contribuzione economica per la realizzazione dei progetti che può arrivare fino al 20% dei costi, oppure tramite un mancato riconoscimento dei costi indiretti per la produzione dei servizi, disconoscendo quindi implicitamente la natura imprenditoriale delle forme più strutturare di terzo settore. Più banalmente ancora, ci sono casi in cui la coprogettazione è percepita dal pubblico come una richiesta implicita di riduzione dei costi da parte del terzo settore. In un grande comune metropolitano – racconta una intervistata – è uscito un avviso per una procedura di coprogettazione per interventi di sostegno a trovare casa per migranti. “Il problema è molto sentito anche da molte cooperative sociali e associazioni che erano più che disponibili a attivarsi in una cornice di collaborazione con le istituzioni.” Il bando prevedeva un impegno di 750.000 euro per un biennio di cui 700.000 erano destinati direttamente ai migranti e 50.000 al terzo settore. “Cosa vuoi pretendere si faccia con queste cifre? Sembra si sia perso completamente il senso delle cose (…). Il bando ovviamente è andato deserto e l’assessora si è addirittura arrabbiata ma fa specie che il ragionamento sia che coprogettare voglia dire lavorare praticamente a gratis.” Le richieste economiche non sono necessariamente avanzate per mettere in difficoltà il terzo settore. “Penso sia giusto che ci sia una maggiore co-responsabilizzazione rispetto alle spese – spiega un altro funzionario di un piccolo comune che ha avviato una coprogettazione per la realizzazione di attività ricreative estive per adolescenti – come amministrazione c’è sempre stata la massima disponibilità a sostenere queste attività. Adesso ci sono problemi di bilancio e la scelta è se tagliare o no. È nell’interesse di tutti fare uno sforzo per andare avanti”.

Il risultato finale è comunque quello di un interesse strumentale verso la collaborazione che mette in secondo piano le potenzialità di uno scambio di idee e informazioni proficuo per dare risposta ai bisogni sociali. La coprogettazione infine non sembra riuscire, al momento, a rendere più paritari i rapporti di potere tra pubblico e terzo settore. Questo non vuole dire che non ci siano relazioni caratterizzate da un reciproco rispetto. “La condivisione – argomenta una dirigente di un comune storicamente precursore della coprogettazione – nasce da un approccio con la realtà e se uno osserva la realtà vede che i servizi devono essere veramente co-costruiti per risultare efficaci. Non esiste un esecutore e uno che comanda, esistono soggetti che interpretano un mandato, se quel mandato fa parte di una vocazione sociale allora si possono costruire alleanze con meno asimmetrie”. Si tratta comunque anche in questi casi di una concessione di fiducia condizionata: “Il terzo settore ha espresso da noi sempre persone che erano leali con i servizi. Quando si percepisce questo il compito del pubblico e valorizzare questo contributo.”

Più in generale l’atteggiamento tende a essere però maggiormente direttivo. In alcuni casi, i funzionari pubblici definiscono già in partenza in modo dettagliato i parametri e le caratteristiche dei servizi da realizzare, cosicché la coprogettazione diventa un esercizio che prende forma entro spazi molto contingentati e poco negoziabili. In altri, le richieste riguardano direttamente la fornitura di ore di prestazioni come se si trattasse di un vero e proprio appalto. La differenza nel modo di rapportarsi con il terzo settore è data principalmente dalla storia e dalla conoscenza antecedente all’avvio delle procedure e dalla sensibilità e capacità dei singoli funzionari e dirigenti di cogliere le potenzialità dello strumento della coprogettazione in relazione alla tipologia di problema che si intende affrontare. Nel caso in cui il tutto “dipende molto dal dirigente o dall’assessore”, la coprogettazione rischia di diventare uno strumento meramente tecnico che lascia immutati gli atteggiamenti dei partecipanti. Se l’idea è che pubblico e terzo settore sono partner, la coprogettazione può dare legittimazione istituzionale a modelli di azione che rompono con le logiche consolidate del welfare mix più ingessato e meno virtuoso; se la convinzione è invece che il pubblico comanda e il terzo settore esegue, una discontinuità con i sistemi di affidamento tradizionali di servizi è più difficile da registrare.

Le procedure

Il secondo interrogativo a cui rispondere per capire se e come l’introduzione della coprogettazione stia modificando i rapporti tra pubblico e terzo settore – e il ruolo che ciascuno dei diversi attori può esercitare nella costruzione del welfare locale – riguarda le procedure utilizzate. Le dimensioni analizzate per approfondire l’argomento sono le seguenti:

  1. Quale livello di inclusività dei diversi soggetti del terzo settore permettono le procedure di applicazione della coprogettazione?
  2. In che modo tali procedure sono applicate in modo da essere ancorate ad attività di analisi dei bisogni di tipo partecipativo?
  3. In che modo i processi di coprogettazione sono supportati e accompagnati?

Per quanto concerne il livello di inclusività delle procedure, si deve partire dal fatto che rispetto alle istruttorie di coprogettazione o ad altre forme di coprogettazione sperimentate in precedenza all’approvazione del Codice del terzo settore, i vincoli previsti dagli istituti dell’art. 55 sembrano essere nettamente più restrittivi. In teoria, i processi partecipativi potrebbero anche allargarsi alla consultazione di altri attori più informali come gruppi di quartiere, gruppi di auto aiuto ecc., perché la norma “assicura” il coinvolgimento del terzo settore ma non vieta di integrare le attività di coprogettazione riservate agli enti selezionati dai bandi con azioni di tipo consultivo o altre raccolte di informazioni che coinvolgono ulteriori attori. La grande parte dei funzionari e dirigenti pubblici interpreta la normativa in modo letterale e quasi tutte le procedure analizzate (con l’esclusione di due) solo gli enti con i requisiti normativi sono ammessi a partecipare al percorso di coprogettazione. Questa interpretazione restrittiva della norma rischia di portare a risultati paradossali. Come racconta un dirigente cooperativo “i soggetti informali – parlo di comitati, piccole associazioni o gruppi di volontari – non possono nemmeno più fare parte delle coprogettazioni e questo porta in alcuni casi a situazioni oggettivamente surreali”. L’intervista riporta come esempio un caso verificatosi durante la pandemia delle cosiddette “brigate” di volontari molto giovani che in una grande città del Nord Italia hanno operato per assistere anziani e persone in difficoltà segregate in casa. Finita la pandemia molti di questi volontari si sono resi disponibili non solo per l’assistenza pasti o forme di aiuto più materiale, ma anche per scrivere i curriculum a persone che avevano perso la propri occupazione e che si trovano in difficolta a rientrare nel mondo del lavoro. “Quando sono partite le ultime coprogettazioni erano però ancora un gruppo informale e così non si è riusciti a integrarli nel sistema”. Inoltre, in molti casi, i requisiti richiesti per partecipare alle coprogettazioni insistono sull’esperienza professionale degli enti e sulla loro specializzazione. Per la gestione di un servizio specialistico questo può essere comprensibile ma per pensare interventi di prevenzione o con finalità più ampie il rischio è chiaramente di una compressione del contributo dei partecipanti verso una prospettiva professionale di gestione dei problemi sociali.

L’inclusività degli attori informali potrebbe essere naturalmente assicurata nelle fasi di coprogrammazione che l’art. 55 stabilisce essere propedeutiche a quelle di coprogettazione dei servizi e degli interventi. Le esperienze reputate maggiormente gratificanti di coprogettazione sono tutte precedute da processi di coprogrammazione. Il vincolo al legare la coprogettazione alla coprogrammazione è però in generale vago e in molti casi i processi di coprogrammazione a cui gli intervistati fanno riferimento sono quelli dei piani di zona, che sono caratterizzati quasi sempre dalle medesime logiche di coinvolgimento del terzo settore anche se magari su scala più ampia (nei processi di coprogettazione). “I piani di zona – dice una dirigente di una grande cooperativa sociale veneta – sono diventati molto burocratici. I tavoli si fanno, ma più o meno con le stesse organizzazioni (…) Mancando i soldi, si è spento un po' tutto secondo me e le decisioni sono più per il mantenimento dello storico che per nuove progettualità.” La sensazione diffusa è che la determinazione della grande parte degli avvisi di coprogettazione si limita a individuare i servizi tradizionali ed esprime una risposta storica ai bisogni, che non è dinamica ma stabilizzata e poco ricettiva rispetto a stimoli esterni.

L’applicazione delle procedure, infine, è nella maggiore parte dei casi poco strutturata e tende a creare problemi per la partecipazione e per una interazione fruttuosa tra gli attori coinvolti. Classicamente uno dei grandi problemi dei processi partecipativi è la selezione avversa (Regonini, 2005). Per motivi di tempo e impegno richiesto, solo alcuni enti sono in grado di comandare dirigenti o funzionari a prendere parte alle sessioni di coprogettazioni e alle attività ad esse correlate. Gli enti più piccoli fanno invece molta più fatica, in particolare se l’impegno richiesto tende a diventare significativo. Fino a due o tre incontri, può ancora essere sostenibile per molti, ma andare oltre diventa più oneroso e difficile. Considerato che con un paio di incontri il contributo del terzo settore per le finalità di coprogettazione di servizi e interventi può essere molto parziale è chiaro che non affrontare il problema della sostenibilità della partecipazione per i piccoli enti rischia di creare un vulnus importante nell’intera filosofia delle nuove pratiche collaborative. Si potrebbero prevedere impegni tecnicamente diversi per i singoli attori calibrando le richieste di partecipazione in funzione del tempo e del carico di lavoro, ma questo accade solo nei pochi casi in cui c’è un reale investimento strategico dell’ente pubblico per la gestione della coprogettazione. Se l’obiettivo è più legato alla soluzione di problemi contingenti (evitare una gara, risparmiare risorse ecc.), non c’è una progettazione del percorso tale da facilitare la partecipazione attiva e continuativa dei più piccoli. Le sessioni di coprogettazione, inoltre, dipendono molto dal ruolo dei dirigenti o dei funzionari pubblici che le coordinano o dei consulenti chiamati a fornire un supporto. Ogni dinamica di interazione dipende da una pluralità di fattori: la fiducia reciproca, la distribuzione del potere implicita ed esplicita, la preparazione e le competenze dei partecipanti ecc. Aggregare intorno a un tavolo attori molto diversi può facilmente portare a forme di partecipazione formale o asimmetrica. “Parlano sempre i soliti” è un’osservazione, per esempio, fatta ai margini dei lavori da una rappresentante di una piccola cooperativa che ha preso parte a un tavolo di coprogettazione sui neet. L’idea che basti convocare un tavolo di lavoro per adempiere al compito di favorire la partecipazione è ancora diffusa e il rischio è di non tenere conto che la partecipazione e la valorizzazione dei diversi punti di vista è l’esito di processi sociali complessi e di attività di supporto (per esempio attraverso la messa a disposizione di facilitatori) che non si improvvisano e richiedono tempo per essere sperimentati e allenati.

Il ruolo del terzo settore come promotore delle reti solidali

La ricerca si è concentrata infine sulla valutazione della capacità del terzo settore di rappresentare e portare nelle coprogettazioni le istanze e i bisogni della comunità. Questo presupposto è essenziale per giustificare l’esistenza di un regime di relazioni non competitive, legittimate da un contributo di lettura dei bisogni e di elaborazione progettuale di interventi che solo il terzo settore sarebbe capace di offrire (o che comunque riesce a fornire in modo più efficace rispetto al soggetto pubblico). Sono state a questo riguardo analizzate tre dimensioni:

  1. i processi di costruzione delle proposte da presentare agli avvisi;
  2. la tipologia degli enti che hanno preso parte alle coprogettazioni;
  3. la partecipazione consultazione di cittadini e utenti prima e durante le procedure.

I processi di costruzione delle proposte da presentare agli avvisi riguardano il modo attraverso cui il terzo settore si organizza per elaborare risposte alle richieste di collaborazione delle pubbliche amministrazioni. In una logica di sussidiarietà, l’elaborazione delle proposte dovrebbe avere una natura il più aperta e inclusiva possibile. Sono pochi i processi di costruzione delle cordate che cercano di ampliare la rete a soggetti con cui in precedenza non si avevano contatti. Un’attività di mobilitazione di enti e attori del territorio per preparare le proposte e partecipare ai bandi antecedente alle successive attività di coprogettazione è molto limitata ed è promossa principalmente dagli enti più strutturati – in genere cooperative sociali che sono ancora radicate nel tessuto sociale locale e collaborano stabilmente con piccoli enti di volontariato e gruppi anche informali. L’organizzazione ordinaria delle cordate avviene invece preferenzialmente in base a meccanismi più strumentali che tendono a aggregare enti interessati alla gestione di specifici servizi in base alla specializzazione professionale oppure che selezionano i partner in relazione a valutazioni di migliore posizionamento rispetto alla collocazione di altri attori o aggregatori di attori. Il problema principale da affrontare è che molti degli enti di terzo settore che teoricamente agiscono in base a motivi solidaristici, in realtà sono attori razionali che mirano a ottenere benefici particolaristici e non amano dividere con altri i vantaggi derivanti dall’occupazione di una certa posizione. Questo li porta a vedere spesso nella coprogettazione la possibilità di erogare un servizio e di garantire un’entrata economica piuttosto che non come un modo diverso di creare aggregazione e condivisione tra più attori per il raggiungimento di obiettivi sociali condivisi.

Tale atteggiamento risulta rinforzato in particolare quando sono gli stessi avvisi pubblicati dalle pubbliche amministrazioni a definire in modo troppo specialistico i servizi da coprogettare. Inoltre si registra una cultura diffusa, soprattutto all’interno del terzo settore, più professionale che porta a considerare come un rischio la condivisione di idee e progettualità con altri. “Questo, ti garantisco – afferma un vecchio presidente di una cooperativa di inserimento lavorativo – è il retropensiero di quasi tutti, anche io mi guardavo bene se avevo una buona idea di condividerla con altre cooperative. Prima la si porta a casa e dopo eventualmente ne si discute, questa è la regola di buon vicinato.” Il risultato è che ci sono casi in cui ai bandi partecipano direttamente singoli enti interpretando in modo molto restrittivo lo spirito stesso della nuova normativa.

Le procedure di coprogettazione analizzate presentano, in secondo luogo, una forte selettività delle tipologie di enti coinvolti che rischiano di penalizzare le piccole organizzazioni e gli enti che operano nelle realtà territoriali più marginali. Il problema della iniquità dei processi partecipativi che sanzionano gli enti meno solidi e favoriscono i più strutturati è ampiamente studiato nella letteratura internazionale sulle agende collaborative (Carmel, Harlock, 2008) e si conferma essere un punto dolente anche nell’applicazione dell’art. 55. A fare la parte del leone, sono cooperative sociali più strutturate di medie e medio-grandi dimensioni, mentre solo in meno di un terzo dei casi sono presenti anche enti di piccole dimensioni e di volontariato. Le piccole associazioni partecipano soprattutto ai bandi che prevedono un contributo economico ridotto da parte degli enti pubblici e che risultano probabilmente per questo meno appetibili rispetti agli avvisi con entità economica più consistente. La percezione dei dirigenti e dei quadri dei piccoli enti è che la coprogettazione si divida in qualcosa di simile “alla serie A e alla serie B”. Se si partecipa alla serie A gli ingaggi e i premi sono molto più consistenti, ma l’accesso al campionato è riservato agli enti più grandi; i quali solo raramente si interrogano della mancanza degli enti più piccoli come se esistesse una norma implicita alle coprogettazioni che riserva la partecipazione solo a chi ha competenze e strutture adeguate a rispondere alle richieste.

Infine, la partecipazione degli enti avviene quasi per intero senza il coinvolgimento dei cittadini e degli utenti. Durante le coprogettazioni la tempistica per coinvolgere i cittadini e gli utenti può essere naturalmente contingentata. Se per esempio una coprogettazione si esaurisce in due o tre sessioni di lavoro, diventa estremamente difficile pensare di riservare uno spazio per chi in prima persona può parlare dei bisogni e dei problemi sociali. Più logico sarebbe attendersi che gli enti che partecipano ai tavoli di lavoro abbiano raccolto prima delle sedute di coprogettazione voci, diari, e opinioni degli utenti e delle persone che vivono una determinata condizione sociale rispetto alle quale si intende definire e realizzare specifiche risposte. Anche in riferimento alla fase antecedente alle coprogettazioni il ruolo attivo dei cittadini e degli utenti risulta tuttavia limitato. Gli enti che hanno svolto consultazioni o hanno promosso gruppi di lavoro o una qualche forma di partecipazione attiva per ragionare sui bisogni emergenti delle risposte sono pochissimi. Le uniche eccezioni tra gli enti più strutturati e professionali sono costituite da organizzazioni emanazioni di associazioni di famigliari che mantengono canali di comunicazione costantemente aperti con i loro associati o da cooperative sociali che hanno nelle basi sociali soci fruitori attivi. L’analisi dei bisogni passa dunque principalmente attraverso il filtro delle strutture professionali e organizzative degli enti che producono i servizi. Questo fa si che la valutazione dei problemi e dell’efficacia delle risposte sia fortemente condizionata da routine, credenze, e valori che rischiano di diventare nel tempo autoreferenziali senza che di ciò ci sia piena consapevolezza (Bach Mortensen, Montgomery, 2018). Di conseguenza, come ha osservato un funzionario pubblico: “(gli enti di terzo settore) penso tendono a ragionare su quello che sanno fare (…), prima che chiedersi se è questo quello che serve (ai cittadini e agli utenti).

Conclusioni

Huxman e Vangen (2005) hanno definito come vantaggio collaborativo un termine che si contrappone a quello più classico di vantaggio competitivo e che sottolinea la rilevanza della interazione come fattore che permette di migliorare l’efficacia degli interventi. Il dibattito sull’art. 55 del Codice del terzo settore si basa sulla convinzione che il nuovo welfare collaborativo debba fare leva sulla natura sussidiaria del terzo settore e su strumenti che promuovono la collaborazione con gli enti pubblici, permettendo il superamento delle logiche competitive che hanno reso difficile negli ultimi anni l’elaborazione di politiche di innovazione e sviluppo del welfare locale. Ci sono effettivamente molte buone ragioni per sostenere che un welfare che non riesce a valorizzare adeguatamente le organizzazioni che si collocano tra Stato e mercato e incorporano le voci, i bisogni e le aspettative dei cittadini è inevitabilmente destinato a non adempiere agli ideali di inclusione, giustizia e solidarietà (Colozzi, 2005).

Per passare dal lato teorico della collaborazione a quello pratico non è però sufficiente essere d’accordo sui principi che stanno alla base delle argomentazioni a favore di un nuovo modo di rapportarsi tra enti pubblici e terzo settore, ma serve quello che Aunger e colleghi (2021) definiscono come un “approccio realista, ovvero una riflessione che si basi in modo onesto sulla ricerca empirica.

La prima indagine su scala nazionale sull’applicazione dell’art. 55 fornisce elementi parziali e limitati al campione di indagine per valutare la fondatezza di queste attese. I tempi culturali di una riforma hanno bisogno di tempo per maturare ed essere interiorizzati. Il focus sulla coprogettazione non permette inoltre ancora di valutare l’effetto della connessione con le procedure di coprogrammazione che sono attualmente molto limitate e che non sembrano sorreggere in modo consistente la diffusione della coprogettazione. Trattandosi di processi più complessi, le co-programmazioni probabilmente richiedono un maggiore investimento per essere attuate; esse si incrociano inoltre con le prassi consolidate dei piani di zona, e questo crea problemi di sovrapposizione o rischi di duplicazione di interventi che frenano la loro attuazione. Le coprogettazioni sono avviate dunque spesso in modo indipendente dalla precedente analisi dei bisogni e servono per risolvere problemi contingenti come l’affidamento di un servizio che non si vuole più mettere in gara.

In un sistema chiaramente ancora da rodare e sperimentare si possono tuttavia trarre alcune considerazioni generali che aiutano a riflettere sull’applicazione dei nuovi strumenti e sugli eventuali aggiustamenti da fare per aumentare la loro eventuale efficacia. La sensazione generale è che la coprogettazione possa essere uno strumento importante per migliorare i modelli consolidati di relazione tra enti pubblici e terzo settore, ma che le nuove agende collaborative non siano esattamente quello che si dice “un pranzo di gala” dove c’è solo da festeggiare e poco da tirarsi su le maniche.

In primo luogo, per promuovere un nuovo ruolo del terzo settore nel governo del welfare locale non sono sufficienti nuovi strumenti amministrativi, ma è essenziale che gli attori responsabili del loro utilizzo siano anche in grado di capirne e condividere le finalità e che essi siano messi in condizione di esercitare il ruolo di attivatori dei processi partecipativi in modo consapevole ed efficace (Borzaga e Fazzi, 2004). Questo in alcune realtà sicuramente accade. Pur tenendo conto della ristrettezza del campione di casi analizzati la sensazione è però che nella larga maggioranza dei casi i dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni ricorrano alla coprogettazione spinti principalmente da motivazioni di ordine strumentale come il risparmio sui costi, oppure dalla volontà di evitare più onerose procedure di appalto con i relativi costi di valutazione e selezione dei concorrenti, e meno da considerazioni di ordine strategico relative a un nuovo modello di welfare da costruire e sperimentare. Una comprensione delle potenzialità della coprogettazione da parte del pubblico è al momento solo parziale e i meccanismi di attivazione e stimolo del terzo settore risultano spesso condizionati dalle culture e dalle prassi di affidamento dei servizi dominanti.

In secondo luogo, sia la normativa che una sua interpretazione eccessivamente restrittiva e ambigua portano a privilegiare le procedure burocratiche a discapito di un’attivazione di processi orientata a obiettivi di promozione della partecipazione e di orientamento ai bisogni. Normare i processi partecipativi è naturalmente importante per evitare eccessive opacità. In realtà, però, l’applicazione pedissequa delle norme e delle linee guida – un po' come accade con il codice degli appalti – non evita assolutamente che si creino zone di ombra e processi di selezione avversa di attori potenzialmente interessati alla partecipazione.

Anche i processi di coprogettazione ai tavoli di lavoro sembrano essere solo parzialmente seguiti e accompagnati. La complessità delle dinamiche in gioco rimanda però alla necessità di costruire fiducia tra i partecipanti, di definire ruolo e contributi di ciascuno in una ottica di equità e inclusione e di strutturare codici di comunicazione comprensibili a tutti. Per fare ciò è indispensabile innovare profondamente il modo prima di tutto di ragionare degli attori implicati alla progettazione e alla gestione delle pratiche collaborative. Si può immaginare la coprogettazione come uno strumento – per esempio un martello – da utilizzare per raggiungere un certo obiettivo. Se però un martello può servire a un esperto carpentiere per montare un tetto, non è detto che messo in mano a un infante produca lo stesso risultato. Quello che sembra emergere da una prima analisi dell’applicazione delle procedure di coprogettazione è che c’è un notevole investimento da fare in competenze, visioni e capacità di manovrare in modo accorto i nuovi strumenti. Dove si verifica tale condizione i risultati della coprogettazione producono effetti positivi; dove questa attenzione manca, la reazione rischia di essere quella di un direttore di un consorzio di cooperative sociali che ha sentenziato a chiare lettere “per me erano meglio gli appalti”.

Infine, esiste un grande problema ancora troppo poco esplorato relativo alla capacità del terzo settore di essere promotore di idee, risorse e bisogni delle reti solidali locali. “Ci sono cooperative che sono tossiche” è una frase che contiene un segnale di allarme che non dovrebbe essere trascurato. Nella retorica dominante il terzo settore è composto da un insieme di attori vicini ai bisogni della società e che aggregano le migliori energie per rispondere ai bisogni sociali. Questa visione idilliaca del terzo settore rappresenta quanto di più sbagliato e dannoso si possa immaginare per il futuro del terzo settore. La realtà che le pratiche di coprogettazione fotografano come una cartina al tornasole mostra come si hanno diverse forme di terzo settore accomunabili giuridicamente in un unico campo di azione, ma che nella pratica perseguono finalità, usano metodi di lavoro e si rapportano con la comunità in modi anche diametralmente opposti. La ricerca empirica ha da diversi anni messo in evidenza l’esistenza di processi di profondissima differenziazione e trasformazione all’interno del terzo settore (Borzaga, Fazzi, 2014). Per costruire processi di collaborazione inclusivi e orientati a dare voce ai bisogni e spazio alle reti solidali territoriali sembra indispensabile prendere maggiore consapevolezza di tali cambiamenti e introdurre criteri di selezione e valorizzazione del terzo settore coerenti con una visione imprenditoriale, ma anche pienamente solidaristica e inclusiva del welfare e dei servizi.

DOI: 10.7425/IS.2022.04.09

Bibliografia

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