L’impresa sociale è, da tempo, ampiamente investita dalle trasformazioni operate dal paradigma digitale nell’organizzazione del lavoro, nell’offerta di servizi, nella costruzione di dinamiche relazionali con gli attori pubblici e profit. Eppure, con la significativa eccezione degli studi sull’innovazione e gli innovatori sociali, l’impatto di tali processi nel peculiare ambiente istituzionale del terzo settore, è stato finora poco osservato. L’articolo propone l’analisi di un case study a Torino, dove è stato creato un living lab tra operatori sociali e sviluppatori digitali. In che modo la ragione sociale dell’impresa condiziona le opportunità e rischi dell’innovazione digitale? Quanto le ICT sono “manipolabili” rispetto alle esigenze di un’impresa sociale? Che ruolo possono avere i lavoratori del settore, e tramite essi gli utenti, per condizionare lo sviluppo delle applicazioni tecnologiche? L’articolo ricostruisce la governance del progetto e, attraverso interviste ai partecipanti e ad osservatori privilegiati, descrive le pratiche messe in campo dal living lab.
Keywords: terzo settore, impresa sociale, welfare digitale, co-progettazione, marketization
DOI: 10.7425/IS.2022.04.04
Immaginate se vostro figlio, appassionato di PlayStation, anziché giocare agli sparatutto con qualche coetaneo nel sud est asiatico di cui non conoscete neanche il nome, qualche volta si dilettasse anche con uno psicologo esperto in gamification, che avete selezionato dopo colloquio e analisi del CV. Oppure, se la vostra cooperativa sociale, che ha 300 dipendenti ed eroga servizi di assistenza sociale su scala regionale a minori, disabili, anziani, adottasse un sistema informativo digitale integrato, e con un’unica interfaccia consentisse agli operatori di riportare i dati, e ai responsabili di servizio di monitorare la qualità del lavoro.
Non sono idee campate per aria. L’Edugamers for kids. 4.0 è un progetto della cooperativa Crescere Insieme che opera in Piemonte, e ha l’obiettivo di usare il gioco a distanza come dispositivo educativo. La piattaforma integrata è un progetto in corso di implementazione della cooperativa Stranaidea, in collaborazione con il Politecnico di Torino. Si tratta di casi di innovazione sociale, due dei tanti, dove la trasformazione digitale investe gli attori protagonisti del terzo settore sia nell’erogazione dei servizi, sia nell’organizzazione del lavoro interna (Busacca, 2013).
Ma la digitalizzazione progressiva dell’impresa sociale non passa necessariamente per il carattere innovativo dei progetti. Tracce di questa trasformazione in corso sono nella vita quotidiana del terzo settore: lo smart working, il marketing online, la digitalizzazione dei servizi rivolti all’utenza a distanza, come la domotica o la teleassistenza.
Alcune ricerche, concentrate prevalentemente sulle organizzazioni di volontariato e di promozione sociale, hanno messo a fuoco gli elementi di freno nell’accesso alle opportunità offerte dal digitale nel contesto italiano. Il rapporto elaborato da Cesvot e Università di Pisa (Trapani, 2022), con una survey rivolta a circa 400 enti noN profit della Regione Toscana, ha rilevato che oltre l’80% degli enti rispondenti investe meno del 5% del proprio bilancio in ICT, non eroga servizi o prenotazioni online, non raccoglie fondi tramite piattaforme, non consente neanche l’iscrizione o il voto dei soci a distanza. Oltre il 90% dichiara di non avere progetti in corso con Università, enti pubblici o altre strutture con cui poter sviluppare soluzioni digitali. Questi numeri tornano nella ricerca pubblicata da Italia non profit, sulla digitalizzazione del terzo settore (2018): i 176 operatori interrogati, questa volta con una copertura rilevante anche nel campo delle organizzazioni di economia sociale hanno risposto al 60% di non ritenere che il proprio ente ha una chiara strategia digitale, e che i deficit si posizionano prevalentemente nelle applicazioni più evolute, dall’analisi dei dati alla cybersecurity, dal digital fundraising all’intelligenza artificiale.
Le ragioni che potrebbero spiegare questo andamento lento sono necessariamente multi-livello. Anzitutto, l’influenza del contesto nazionale: in Italia è l’intero sistema produttivo ad avere una maturità digitale insoddisfacente, come dimostra l’indice DESI 2022, che registra una condizione sostanzialmente arretrata di tutti i settori economici rispetto agli altri Paesi europei più sviluppati. I limiti principali risultano essere quelli relativi alle competenze e al capitale umano, oltre che alla diffusione omogenea nel territorio di adeguate infrastrutture digitali. C’è inoltre da considerare che, sebbene in crescita in termini di numero di occupati e imprese attive, il panorama imprenditoriale italiano del terzo settore (alla pari del settore profit) risulta caratterizzato da un elevato numero di micro-imprese (Istat, 2022). Questo influisce in maniera rilevante sulla possibilità di condurre investimenti in tecnologie. Tuttavia, c’è anche un altro lato da cui osservare il controverso rapporto tra digitale e terzo settore in Italia, ed è quello dell’analisi critica dei sistemi socio-tecnici (Geels, 2011). Come ricordano molti autori, tra cui Morozov e Bria (2021), il mero possesso o anche l’accesso incipiente alle tecnologie digitali non equivale alla risoluzione del problema per cui le si adotta (soluzionismo tecnologico), né influisce necessariamente sulla modifica dei comportamenti sociali senza i quali non si ottengono risultati (determinismo tecnologico).
Da questa crescente consapevolezza, emerge la questione della verticalità con cui sono troppo spesso sviluppate le innovazioni digitali, e del bisogno di democratizzare non tanto gli effetti delle tecnologie, quanto il loro design (Gallino, 2015). Per cosa si progetta una soluzione digitale? Quali bisogni soddisfa? I servizi digitali attualmente disponibili soddisfano quelli del terzo settore? Servono a qualcosa? Possono essere ripensati per soddisfare esigenze più specifiche del terzo settore?
Questo articolo si pone l’obiettivo di sottoporre a critica i processi generativi con cui vengono pensate e progettate soluzioni ICT per il terzo settore, e di descrivere un caso studio focalizzato sulla co-progettazione tra operatori sociali e sviluppatori digitali. Nella prima parte, si illustra un progetto condotto dalla fondazione Torino Wireless, tutt’ora in corso, che ha allestito un living lab coinvolgendo 17 attori del terzo settore e un nutrito gruppo di start up esperte nello sviluppo di soluzioni digitali per il welfare. Nella seconda parte, dedicata alla discussione del progetto, si mettono in evidenza le potenzialità di un approccio partecipativo, purché strutturato secondo un metodo sistematico di consultazione, ma anche i rischi di un uso del digitale ad esclusivo vantaggio degli attori imprenditoriali sociali, ma di potenziale svantaggio per i loro utenti.
Il progetto I3S presenta delle caratteristiche coerenti con questa visione, e può essere utile descrivere i suoi esiti, come anche soffermarsi brevemente sul metodo con cui è stato progettato.
L’analisi del progetto è stata condotta attraverso lo studio dei documenti istituzionali, degli articoli stampa e del materiale visivo prodotto dagli organizzatori. Sono state inoltre realizzate alcune interviste semi-strutturate con i responsabili del progetto, con i designer del processo partecipativo e con osservatori privilegiati, con cui sono stati approfonditi gli aspetti metodologici e i contenuti di dettaglio emersi durante le interazioni tra sviluppatori e operatori.
Torino Wireless (TW d’ora in avanti) è una fondazione pubblico-privata costituita nel 2002 per supportare la digitalizzazione del Piemonte e le politiche di innovazione su scala urbana e regionale. Tra i fondatori e contributori pubblici figurano il MIUR, la Regione Piemonte, la Città Metropolitana e il Comune di Torino, la sezione locale della Camera di Commercio, i tre Atenei regionali (Unito, Polito, Unipo), tra quelli privati l’Unione degli Industriali, la Fondazione Link, il Centro Ricerche Fiat - FCA.
Questa struttura è uno dei prodotti istituzionali di un contesto sociopolitico peculiare come quello torinese, che alla fine degli anni 90’ si caratterizza per la presenza di una coalizione urbana costituita da stakeholder imprenditoriali, accademici e politici, con obiettivi e priorità condivise, e un approccio collaborativo molto accentuato (Barbera, Marciano, 2021). La città si posiziona come hub per l’innovazione urbana, elabora tre diverse progettazioni strategiche partecipate e diviene sede di industrie creative, eventi culturali e sportivi internazionali, progetti di rigenerazione urbana (Belligni, Ravazzi, 2012). In particolare, sul tema del terzo settore, Torino costituisce Torino Social Impact, una rete che integra oltre 100 attori pubblici, privati e terzo settore, con l’obiettivo di governare lo sviluppo tecnologico verso un impatto sociale. Non a caso, nel 2021, Torino viene selezionata dalla Commissione Europea per essere sede del primo competence center nazionale sull’innovazione sociale.
È dentro questo particolare milieu istituzionale che Torino Wireless sviluppa un ambito di intervento originale come quello della digitalizzazione del terzo settore, altrimenti solitamente poco analizzato. Il progetto I3S nasce a seguito di esperienze collaborative tra TW e alcune associazioni di categoria di riferimento per le imprese sociali da cui era emerso il bisogno di rafforzare le competenze digitali nel management del privato sociale, di supportare le organizzazioni no profit a fare scelte ragionate ed efficaci in merito all’acquisto di prodotti e infrastrutture digitali, ma anche di avvicinare lo sviluppo di applicazioni e tecnologie digitali modellate sulla loro domanda.
Il progetto, finanziato dalla Camera di Commercio di Torino e supportato da Torino Social Impact e Fondazione Links, è stato avviato nel 2020, in piena pandemia, e ha visto in prima battuta una fase di esplorazione e mappatura dell’offerta tecnologica disponibile attualmente sul mercato in termini di beni e servizi digitali per il terzo settore. L’analisi è stata svolta per filiere tematiche (ad esempio blockchain o artificial intelligence) e applicative (circular economy), con priorità per gli attori di mercato presenti sul territorio regionale o nei dintorni. L’output della ricerca è stata l’individuazione di un gruppo di circa 20 fornitori (filiera digital 4 social) e di referenti esperti nel campo dello sviluppo di soluzioni digitali per lo sviluppo delle successive fasi del progetto.
In parallelo, il progetto ha visto la realizzazione di un’indagine sui bisogni digitali del terzo settore, tramite la somministrazione di una survey ad un gruppo di 16 enti selezionati (di cui 8 Cooperative, 2 Aps, 4 Odv, 2 Onlus) in collaborazione con Legacoop, Confcooperative Piemonte Nord, e Volto. La survey è stata impostata per rilevare bisogni, esperienze applicative e carenze percepite da diverse figure presenti all’interno delle organizzazioni no profit, con la ricezione di 61 questionari completi. La survey ha messo in evidenza quattro argomenti chiave per la digitalizzazione del terzo settore: i) dai dati alla conoscenza: il potenziamento della capacità di analisi e uso dei dati da parte delle organizzazioni; ii) le persone al centro: la necessità di sviluppare servizi che siano rivolti direttamente all’utenza; iii) social network: l’uso di tecnologie digitali in grado di incrementare i rapporti collaborativi tra enti; iv) competenza nell’acquisto: rafforzare la capacità di analizzare il mercato digitale e di saper scegliere la soluzione migliore per l’organizzazione.
Il passo successo del progetto è stata la realizzazione di un living lab tra sviluppatori digitali ed esponenti del terzo settore, attraverso l’organizzazione di quattro diversi tavoli di lavoro costruita sulla base degli esiti della survey, con più di 50 persone coinvolte, 12 ore di discussione attiva, e l’individuazione di 16 proposte che sono state inserite nella “banca delle idee” del progetto, e cioè con potenzialità di essere incubate nelle fasi implementative di I3S. Tali proposte sono state clusterizzate, da parte del team di ricerca del progetto, in tre ambiti: idee e soluzioni attualmente disponibili; idee innovative per l’erogazione di servizi agli utenti e per l’organizzazione del lavoro.
Il metodo di co-progettazione utilizzato nel progetto, curato da esperti della Fondazione Links, ha utilizzato tecniche derivate dal design di processo e dalla psicologia delle organizzazioni per facilitare l’interscambio di conoscenza ed esperienze tra operatori del terzo settore e sviluppatori digitali.
Le restrizioni imposte dalla pandemia sono state occasione per la sperimentazione di piattaforme collaborative online.
La traccia seguita negli incontri prevedeva, per ogni tavolo di lavoro:
Gli esiti del workshop sono stati analizzati dal team di progetto che ha, in particolare, attribuito un punteggio alle idee sulle azioni strategiche in base alla loro fattibilità tecnico-economica, e al loro possibile impatto sociale. La valutazione è stata poi condivisa in un panel riservato agli enti del terzo settore, dove sono state individuate tre idee meritevoli di essere accelerate attraverso un secondo step del progetto. Le tre idee selezionate riguardano soluzioni innovative sia per i servizi agli utenti che per l’organizzazione:
Accanto alle idee progettuali, I3S ha permesso anche di identificare una serie di buone pratiche e raccomandazioni, rivolte prevalentemente agli attori del terzo settore. Tra queste, l’esigenza di aumentare gli investimenti in capitale umano e competenze di innovation management, assumendo personale qualificato in questo campo. Inoltre, di contribuire a sviluppare professionalità con competenze ibride, politecniche e umanistiche, di favorire gruppi di scambio tra enti, e metriche di monitoraggio del processo di innovazione fin dall’inizio.
Sul piano delle infrastrutture, il progetto ha messo in evidenza l’esigenza di rafforzare la banda larga e la capacità di connessione per tutti gli enti del terzo settore, di migliorare l'interfaccia utente per garantire maggiore accessibilità per gli utenti dei servizi (spesso non propriamente nativi digitali), di aumentare l’interoperabilità e l’integrazione tra i sistemi operativi utilizzati per la raccolta dati, in un’ottica di Welfare 4.0 (su questo, c’è da dire che la strada dovrebbe aprirla prima la pubblica amministrazione) e di potenziare l’accesso a banche dati aperte.
Durante la Seconda guerra mondiale, il territorio di una isolata popolazione melanesiana diviene crocevia del passaggio di enormi navi da guerra. Ogni tanto, il caso vuole che qualche cargo, carico di beni, arrivi sulle loro coste. La meraviglia provata dagli indigeni per i prodotti della modernità ottenuti, una volta tanto, senza pagare il prezzo dell’incontro con i moderni, li porta a sviluppare un culto propiziatorio (appunto, il “culto del cargo”), e a chiedere alle loro divinità di intercedere perché il cargo appaia di nuovo.
Peter Berger nel testo Le Piramidi del Sacrificio (1981) usa questa a metafora per descrivere la postura della politica nei confronti delle narrative sull’innovazione tecnologica e la crescita. Questa porterebbe in sé i doni del lavoro qualificato, delle opportunità di guadagno, del lusso (Barbera, Marciano, 2021), e godrebbe di un’accettazione acritica, per cui la sfida digitale si declina in domande sul “quando” arriveranno le tecnologie, “come” acquistarle e usarle, ma raramente “perché” e “per chi” utilizzarle.
È in questa prospettiva che nasce il mito della neutralità tecnologica, secondo cui un mezzo in sé non ha uno scopo, come un medium, ribaltando l’intuizione di McLuhan (1967), non avrebbe un suo contenuto specifico. La generazione di nuove tecnologie sarebbe ispirata ad una logica immanente al pensiero tecno-scientifico, e sarebbe slegata dalle pressioni di interessi politici, economici e culturali, anche se questi ne finanziano lo sviluppo, o ne determinano la diffusione. Una credenza questa, che porta verso il soluzionismo tecnologico, richiamato nelle pagine introduttive: dissociare il mezzo dallo scopo, rende neutro lo strumento, e ripone tutta la responsabilità sull’uso. Un approccio che con le tecnologie digitali risulta decisamente dominante, non solo per le rappresentazioni sociali sui media digitali, che per decenni li hanno raccontati con un approccio acritico, ma anche nelle politiche: il PNRR ha una delle sue voci principali nella missione Transizione Digitale 4.0, che è finanziata con circa 20 miliardi di euro di credito agevolato o di finanziamenti a fondo perduto per chi, semplicemente, compra tecnologie digitali (Barbera, Marciano, 2021).
Ma il digitale ha un suo contenuto implicito, slegato dagli usi che se ne possono fare? E in che modo le sue caratteristiche, le opportunità necessariamente limitate che offre in termini applicativi, risultano essere utili al terzo settore? Utili perché e per chi?
Di una infrastruttura digitale si possono fare molti usi sociali diversi, addirittura opposti, tuttavia resta una costante, e cioè che la caratteristica specifica e distintiva delle tecnologie digitali è la trasduzione, ovvero la capacità di ridurre qualsiasi grandezza ambientale (fisica, biologica o simbolica) in un’unità di informazione in grado di circolare e di essere decodificata da un sistema di elaborazione (Marciano, 2015). Un sensore per la rilevazione dell’inquinamento dell’aria calcola il tempo di passaggio dell’aria dentro un filtro ed è programmato per assegnare un certo tipo di valore alla resistenza incontrata: non ha idea di cosa sia il PM10. Una telecamera che inquadra un volto per stabilire un riconoscimento tramite IA (intelligenza artificiale), non ha idea dei lineamenti della persona, si limita a rilevare i punti più esposti su un piano geometrico – come gli zigomi – e a cercare corrispondenze nel proprio data base. L’apparato tecnologico digitale ha raggiunto risultati clamorosi sotto ogni punto di vista: l’economia, la politica, le principali sfere della realtà sociale ne sono state investite e, a volte, sussunte. Questo, tuttavia, non cambia il senso e la direzione della sua ontologia, che vuole prevedere, restringere, focalizzare, integrare e che entra inevitabilmente in conflitto con la complessità prodotta dai quotidiani processi di differenziazione e soggettivazione presenti in un tessuto sociale come quello contemporaneo.
La co-progettazione effettuata durante I3S ha colto questo punto, ponendo agli attori del terzo settore, in prima battuta, il tema di come analizzare il mercato digitale e quali soluzioni adottare tra quelle esistenti rispetto ai propri bisogni specifici. Tuttavia, e lo dimostra l’esigenza di orientare il progetto prevalentemente verso le innovazioni di prodotto e processo che oggi ancora non esistono, se il piatto piange (il terzo settore non ha sempre margini per fare investimenti in digitale), l’offerta langue. Come emerge dai risultati del progetto, le soluzioni esistenti nella filiera sono solo parzialmente soddisfacenti, e si rivolgono quasi completamente verso le innovazioni di processo, con l’obiettivo di efficientare l’organizzazione interna, ridurre i costi, incrementare la capacità di analisi dei dati, rafforzare le procedure di controllo sul lavoro e sull’erogazione dei servizi. Attività importanti e senz’altro utili alle imprese sociali, ma che risultano l’applicazione sul no profit di tecnologie pensate per il mondo profit. In questo senso la digitalizzazione incontra la mercantilizzazione, o meglio, si adegua alla struttura, ai bisogni, agli scopi, agli incentivi creati dalla progressiva maturazione nel privato sociale di una governance imprenditoriale (Eikenberry, 2009; Roy et al.,2022). A restare fuori dall’attuale specchio di beni e servizi digitali pensati per il terzo settore è una delle caratteristiche del digitale più dibattute nel campo della sociologia dei media (Jenkins, 2006): la convergenza culturale, e cioè la capacità di facilitare e accelerare la co-produzione di contenuti da parte degli utenti e, più in generale, di promuovere le culture partecipative e la capacità di aspirare.
Il progetto I3S intercetta questa opportunità, ma solo in parte. Indubbiamente, mette in campo pratiche innovative di estensione della voice sui cambiamenti tecnologici agli operatori sociali, i quali pur non partecipando direttamente alle fasi di sviluppo delle nuove applicazioni, sono consultati in maniera sistematica e hanno l’opportunità di entrare in contatto diretto con i fornitori, ponendo agli stessi domande più specifiche sui loro bisogni. Tuttavia, non estende la voice anche ai beneficiari degli interventi, alle loro comunità più o meno organizzate, e non prevede un coinvolgimento diretto – che implica anche una responsabilizzazione – dell’attore pubblico.
Il ruolo svolto dalla fondazione Torino Wireless, di patrimonio pubblico solo in parte, è quello del broker (Burt, 2004) che occupa un buco strutturale e facilita la sinergia tra attori altrimenti distanti, eppure con risorse e bisogni da scambiare. Si tratta di una posizione strategica per generare innovazioni, ma se esaurisse in sé la funzione pubblica, riprodurrebbe la divisione del lavoro tra Stato e mercato tipica della visione neoliberale, con il primo a fare il regolatore e/o facilitatore del secondo.
Eppure, è proprio il settore pubblico a costituire uno dei principali committenti delle prestazioni svolte dalle imprese sociali, ed è inoltre il soggetto dotato della funzione di rappresentanza politica delle istanze degli utenti. E, sebbene sia tradizionalmente forte il legame tra impresa sociale e comunità di beneficiari delle loro prestazioni, specie in Italia dove le origini del terzo settore sono fortemente radicate nei movimenti sociali e politici (Busso, 2020), non sempre tale legame è rimasto saldo, e un’ampia fascia del terzo settore non professionalizzato risulta ancora fondamentale a svolgere il compito di cintura di trasmissione delle istanze degli utenti.
Quanto sono rappresentate nel progetto I3S le voci dei disabili, degli anziani, dei minori, e quanto lo scambio informativo tra i protagonisti ha tenuto conto dei loro interessi? Quanto sono stati coinvolti gli amministratori pubblici a cui è dato il ruolo di indirizzare le politiche sociali? Queste domande non si pongono come sollecitazione critica al progetto in sé, che si è posto legittimamente degli obiettivi diversi, ma ad una possibile strategia pubblica per la digitalizzazione del terzo settore. Se infatti, il ruolo del non profit diviene progressivamente quello di essere portatore di un’offerta di servizi, la parte della domanda non può che essere rivestita dalle istituzioni pubbliche e dai corpi intermedi che si pongono esplicitamente al di fuori delle dinamiche di mercato per porsi come cintura di trasmissione tra Stato e comunità territoriali.
Un’indicazione operativa al progetto I3S, che emerge pertanto da questa breve analisi, è l’esigenza di ampliare la tipologia di attori sociali coinvolti nel progetto di co-progettazione, a partire da un maggiore coinvolgimento delle istituzioni politiche locali, dalle organizzazioni che rappresentano gli interessi dei principali beneficiari e da un loro campione rappresentativo, in base ai temi affrontati. Un ruolo rilevante potrebbe essere svolto anche dagli Atenei, sia nella fase di sviluppo delle soluzioni tecnologiche, sia nell’offrire metodi di co-progettazione e di ascolto dei bisogni, sia ancora nella fase di valutazione delle idee innovative e di loro “testing”.
Una seconda indicazione riguarda il metodo di co-progettazione, che di fronte ad una platea così ampliata, potrebbe beneficiare dell’uso di metodi di foresight partecipativo, in particolare di tecniche tese a facilitare la produzione di futuri preferiti tra attori sociali con interessi diversi o esplicitamente divergenti. Tra dieci anni, o anche adottando un orizzonte temporale più lungo, come immaginiamo che si svolga l’assistenza psicologica dei minori, e come potrebbe essere gestito in modo efficiente il workflow o lo scambio di risorse tra imprese sociali? Questa domanda, che dovrebbe ispirare il design delle tecnologie digitali del futuro, va rivolta alle associazioni di categoria delle imprese sociali, ma anche ai lavoratori di tali imprese, ai minori, ai genitori, agli insegnanti, e alle istituzioni politiche che delle politiche sul loro benessere sono responsabili.
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