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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2022

Editoriale

Discorsi sull’impresa sociale. Un confronto tra Carlo Borzaga e Lorenzo Sacconi

Carlo Borzaga, Lorenzo Sacconi

Impresa Sociale. Sino ad oggi uno studente che voglia cimentarsi con una tesi di laurea sull'impresa sociale o sul terzo settore immancabilmente dedica il primo capitolo agli economisti che, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, hanno aperto la strada agli studi sulle "nonprofit organizations", sul "third sector" e concetti simili: Weisbrod e l'elettore mediano, Hansmann e il ruolo del non distribution constraint e via discorrendo. Secondo voi in che misura questo percorso “classico” è tutt'ora utile nell'intraprendere una riflessione su questi temi e in che misura può essere limitativo?

Borzaga: Che tali autori “classici” siano il punto di partenza per le riflessioni sul terzo settore o sull’impresa sociale era vero fino a qualche tempo fa, oggi occupano semmai i primi paragrafi del primo capitolo. Questi ed altri lavori (come quello di Ben Ner e Van Hoomissen) sono stati particolarmente importanti a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando l’unica interpretazione delle diverse iniziative con esplicite finalità sociali che si stavano sviluppando in Europa era quella proposta dal tedesco Siebel, secondo il quale erano da considerare come realtà cui veniva affidata la gestione dei problemi privi di soluzione (nonprofit as a problem non solver). Come importanti furono i primi studi, sempre statunitensi, sulle motivazioni e i livelli di soddisfazione dei lavoratori nelle non profit – Leete e Mirvis in particolare – che ispirarono le prime ricerche italiane sul tema. Essi hanno consentito a noi studiosi europei di avviare una riflessione a partire da basi teoriche solide e riconosciute sia dal lato della domanda di non profit, sia dell’offerta; e la prima fase del nostro lavoro consistette appunto nell’approfondimento di questi studi. Man mano che cercavamo di applicarli al contesto europeo, abbiamo però anche cominciato a vedere le diversità tra i modelli di organizzazione che loro interpretavano – soprattutto fondazioni sostenute da donazioni – e le nostre esperienze, in particolare quelle delle cooperative e delle imprese sociali che non beneficiavano in modo significativo di donazioni, ma di riconoscimenti monetari per il lavoro svolto (e che erano esplicitamente non di interesse di questi studiosi). Ricordo che ebbi una lunga chiacchierata con Hansmann in cui gli spiegai come erano normate le cooperative in generale, e quelle sociali, in Italia, al termine della quale concluse: “ma queste sono imprese non profit a tutti gli effetti” e incluse poi questa precisazione in una nota del libro sulla proprietà dell’impresa (The Ownership of the Enterprise). E proprio dalla constatazione di queste diversità in Europa si sviluppò una analisi più attenta alle diversità organizzative che ha dato origine ad una letteratura di matrice europea che chiama in causa anche aspetti e funzioni diverse delle organizzazioni senza scopo di lucro, più attenta ad esempio alle motivazioni che ispirano i fondatori, i dirigenti e i lavoratori. Una letteratura che include – e a volte da per scontati – i contributi precedenti (come i fallimenti del mercato e l’incapacità dello Stato di cogliere tutti i bisogni), ma cerca di adattarli ad un contesto diverso e di comprendere anche altri aspetti che stanno all’origine delle non profit europee. Si è così formata una vasta letteratura europea su impresa sociale, terzo settore ed economia sociale che oggi deve essere presa in considerazione in qualsiasi lavoro – tesi o articolo – si occupi del tema.

Sacconi: Non è che questi economisti non avessero detto cose importanti. Inoltre, dai limiti della teorizzazione precedente si capisce il progresso delle teorie successive, che rispondono a domande prima lasciate inevase. Dal lato della domanda, ad esempio, Weisbrod spiega il non profit con il fatto che l’offerta pubblica di beni e di servizi di welfare è vincolata dal teorema dell’elettore mediano, secondo cui prevale il programma politico che coincide con le preferenze di tale elettore. Vi è quindi una domanda ulteriore non coperta, cui provvede il settore non profit. Tuttavia, questa è la previsione di uno spazio, non la spiegazione di come le organizzazioni non profit possano riempirlo, poiché ovviamente l’organizzazione privata di beni e servizi con caratteristiche di bene pubblico va soggetta ai paradossi dell’azione collettiva (free riding, dilemma del prigioniero etc.). Una brillante risposta fu data da Rose Ackerman, con un’idea – che è un’anticipazione di sviluppi futuri – di puntare sul ruolo degli “imprenditori ideologici”, animati da un ideale di giustizia sociale, o di solidarietà (ambientale, artistico, ecc.) oppure da un interesse intrinseco per la qualità del bene.

Un contribuito ancora più importante è quello di Hansmann, per il semplice motivo che mette l’organizzazione non profit nella lista delle imprese di cui egli discute la forma proprietaria alla luce di considerazioni relative ai costi di transazione e individua quando l’organizzazione non profit è la forma più efficiente di organizzazione della produzione. Certo Hansmann è legato all’ipotesi comportamentale della teoria neoistituzionalista, secondo cui gli agenti sono opportunisti razionali. Ma ne deduce brillantemente il fallimento dell’impresa capitalistica (e della stessa cooperativa di produzione e/o di consumo) nella produzione di servizi di welfare caratterizzati da forte asimmetria informativa sulla qualità (cioè credence goods, ove la qualità è un’informazione nota solo ai produttori specializzati) e da incompletezza contrattuale (certi stati del mondo sono imprevisti al momento del contratto iniziale, ad esempio quando si stabilisce quali trattamenti sanitari saranno necessari). Ciò implica che il produttore specialistico possa ampiamente sopravvalutare la qualità offerta per giustificarne il prezzo e quindi lucrare sul surplus associato a una stima non veritiera della qualità. Questo fa sì che il vincolo sulla distribuzione degli utili rappresenti un rimedio alla ricerca opportunistica del profitto. Se non può fare lecitamente profitto, almeno una parte dell’incentivo dell’imprenditore a mentire viene meno. Sarà un’analisi invecchiata, ma colpisce ancora duramente le ingenuità di chi propone la finanza speculativa di impatto come soluzione del problema del finanziamento dell’impresa sociale.

Ad ogni modo è chiaro che le teorie “classiche” – nel senso che si basavano su assunti dell’agire economico “classici” (potremmo meglio dire neoclassici?) –, non consentivano di mettere a fuoco e risolvere vari problemi. Il vincolo alla distribuzione può essere aggirato permettendo una appropriazione indiretta dell’utile e quindi le imprese non profit devono far leva su qualcosa d’altro oltre al vincolo sulla distribuzione, qualcosa di complementare a tale vincolo. Qualcosa che deve avere una forza motivazionale e al contempo corrispondere ai principi in base ai quali, in una società democratica, i servizi di welfare sono offerti universalisticamente ai cittadini e a vantaggio preminente di chi è in condizione di svantaggio. L’offerta degli imprenditori ideologici alla Ackerman, che risponde alla domanda di qualità sovramediana, ha questa forma? Oppure si identifica con i valori di particolari gruppi e con preferenze costose di cittadini ricchi, poco interessati all’imparzialità e all’impersonalità di trattamento, nonché alla redistribuzione a vantaggio dei poveri? 

 

Impresa Sociale. Quindi l’analisi dei classici restituisce chiavi di lettura ancora utili, anche se al tempo stesso è progressivamente emersa l’esigenza di fare un passo ulteriore nella comprensione dell’impresa sociale, in grado di rispondere adeguatamente ad alcune delle questioni rimaste irrisolte. Rispetto al modo con cui gli studiosi guardano all'impresa sociale, è possibile quindi individuare direzioni di ricerca che possono rappresentare un "cambio di visione", che ci incoraggino a esplorare punti di vista nuovi da cui studiare l'impresa sociale?

Borzaga: Sì certo. Interpretazioni dell’impresa sociale che esplorano direzioni di ricerca e punti di vista nuovi rispetto alla tradizionale letteratura sul non profit sono state sviluppate già dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, a partire dal primo lavoro di EMES. Cioè da quando, come ho già ricordato prima, ci si è resi conto delle diversità tra il modello delle non profit statunitensi – basato essenzialmente non su imprese, ma sull’istituto della fondazione con attività che privilegiavano spesso la classe abbiente – e il modello europeo, fondato soprattutto su associazioni e cooperative con attività produttive di servizi e rivolte a gruppi di persone fragili. Tanto che, a conclusione di un’ampia ricerca, Clodfelter affermava che non c’era evidenza che le fondazioni statunitensi contribuissero veramente a una redistribuzione del reddito a favore dei più bisognosi, cosa del tutto evidente nelle esperienze europee. Inoltre, era risultato immediatamente rilevante capire quale fosse il valore aggiunto di queste imprese e quali fossero i maccanismi alla base della loro formazione. Due questioni a cui la letteratura classica del non profit dava risposte molto limitate come quella dell’imprenditore ideologico o del gruppo, soprattutto di tipo religioso, in cerca di proseliti.

Così, per interpretare la specificità dell’impresa sociale, si è partiti dalla loro capacità di produrre sistematicamente esternalità positive. Una interpretazione che qualcuno ancora usa, ma che è risultata subito insoddisfacente perché la produzione di benefici era esplicitamente diretta a favore di soggetti terzi, diversi da imprenditori e lavoratori (che spesso coincidevano del tutto o in larga parte), un comportamento incompatibile con il concetto di esternalità. A dare un contributo importante alla riflessione furono le indagini sui lavoratori da cui emerse il loro interesse per l’attività svolta e l’elevata fedeltà all’organizzazione che, interpretata seguendo l’economia comportamentale, diventava un vantaggio competitivo, ma non solo: consentiva di orientare la produzione di beni e servizi o parte di essa a favore di soggetti non paganti: quindi operando secondo logiche non di mercato. Dalle stesse indagini risultava altresì come tra i motivi che spiegano la soddisfazione e la fedeltà dei lavoratori ci fosse anche la possibilità di partecipare ai processi decisionali. Meno rilavante e sovente non conosciuto era invece il vincolo alla distribuzione di utili, ritenuto peraltro facilmente aggirabile: due osservazioni che spinsero verso una maggior considerazione delle forme di governance inclusive o multi-stakeholder. Si iniziò quindi a riflettere sulla natura distributiva dell’impresa sociale e sulla rilevanza del concetto di giustizia sociale che la ispira. Cioè sulla sua tendenza a distribuire il valore creato come imprese tra tutti gli stakeholder, ma secondo modalità diverse da quelle di mercato, cioè anche a favore di chi non è in grado di pagare per nulla (o in parte) per il bene o servizio offerto. Questo è anche uno dei modi per dare concretezza al “perseguimento dell’interesse generale”, indicato come obiettivo dal nostro Codice del terzo settore. Per assicurare questa funzione in modo continuativo, le imprese sociali si dotano di forme di governance che includono nel processo decisionale una pluralità di portatori di interesse. Si è finiti così per definire una forma autonoma di impresa che a sua volta ha favorito la messa in discussione della tesi che l’impresa abbia come scopo unico la massimizzazione dell’interesse dei soli proprietari (il profitto), aiutando anche a sviluppare una interpretazione diversa delle imprese cooperative.

Purtroppo, l’approfondimento di queste riflessioni di carattere teorico è stato rallentato, soprattutto nella letteratura aziendalistica anglosassone, dall’affermarsi in letteratura della social entrepreneurship, che ha preso una strada diversa: quella dell’analisi delle imprese che si propongono di combinare scopo di lucro con attenzione al sociale. Tutta un’altra storia, che ha contribuito però a creare molta confusione anche tra gli addetti ai lavori.

Sacconi: Più che di semplici “nuove visioni” io parlerei di un “programma di ricerca”, nel senso del filosofo della scienza Imre Lakatos, un programma che ha portato a identificare un tipo ideale di impresa – l’impresa sociale – basata su un insieme di caratteristiche che a prima vista sarebbero ritenute potenziali falle in un modello di impresa. Carlo Borzaga, assieme al gruppo di EMES, è stato uno dei protagonisti di questo programma fin dalle origini.

Ma come definiamo un programma di ricerca? Le sue componenti sono a) un nucleo metafisico: un gruppo di assunti che non vengono sottoposti alla falsificazione, il nucleo è una visione “a priori” che esclude le alternative (simile a ciò che in psicologia cognitiva è un frame) e che permette, tramite lo sviluppo di teorie speciali, di dedurre predizioni e spiegazioni di problemi prima non risolti oppure nemmeno focalizzati. b) Un’euristica positiva: una lista di problemi irrisolti e di istruzioni su come applicare il nucleo per risolverli attraverso lo sviluppo di nuove ipotesi ausiliari. c) Un’euristica negativa: essa spiega come reindirizzare i contro esempi verso le ipotesi ausiliarie secondarie rispetto al nucleo (fornendone così la protective belt). Secondo questa metodologia, il cambiamento di programma non avviene mai a causa di singole anomalie o falsificazioni (queste non portano mai ad abbandonare un nucleo, che è assunto a priori). Il cambiamento avviene di solito quando un vecchio programma è in stagnazione e circondato da un mare di anomalie, mentre un programma alternativo include i risultati precedenti ed in più ottiene risultati nuovi. Ma un nuovo programma di ricerca si afferma senza alcuna prova diretta della verità/falsità del suo nucleo, che è sempre un assunto a priori; vi possiamo piuttosto aderire per ragioni ideologiche, morali o estetiche, di semplicità o di completezza, o per l’interesse suscitato dalla possibilità di “vedere” problemi o opportunità nuove, e di conseguenza derivarne i risultati che ne discendono. Secondo Thomas Kuhn, per altro, il cambio di “paradigma” scientifico (che corrisponde al nucleo di Lakatos) è sempre un atto di “conversione”, un cambio di “visione” a priori o di Gestlat, che non ha una spiegazione empirica razionale in termini accumulo di evidenze.

Secondo me, la nuova visione dell’impresa sociale è un programma di ricerca basato su un nucleo metafisico, che ha la tipica forma di un assunto di esistenza: esiste – o meglio “deve” esistere (con proprietà di stabilità da non renderlo un fenomeno evanescente) – un tipo di impresa produttiva di beni di interesse generale, non controllata dal capitalista per il profitto, autonoma e democratica. Tale nucleo ha portato a costruire un idealtipo (un costrutto astratto che definisce un modello internamente coerente e con una logica intelligibile) di impresa basato sugli indicatori di EMES, secondo i quali l’impresa sociale produce beni e servizi ed è remunerata per questo; impiega lavoro pagato; assume rilevante rischio economico; produce un bene di interesse per una comunità locale; nasce per via di una azione collettiva; remunera in modo limitano il capitale investito e non persegue un interesse speculativo; non è controllata da chi investe il capitale; è caratterizzata da grande autonomia e non dipende da soggetti terzi; con una governance che vede la partecipazione di vari soggetti che la compongono (stakeholder).

Il fatto che un’ampia classe di organizzazioni effettivamente esistenti soddisfacesse tali indicatori costituiva un primo “slittamento progressivo di problema”, un successo dell’euristica positiva del programma. In seguito, il programma ha avuto carattere fortemente progressivo: è stato in grado di spiegare fenomeni europei e sudamericani diffusisi a partire dallo sviluppo della cooperazione sociale in Italia e di prevedere la formalizzazione delle imprese sociali attraverso norme giuridiche avvenuta negli anni Novanta e Duemila sia in Italia, sia in vari altri Paesi europei e a livello dell’Unione. Il maggior “slittamento progressivo di problema” è stato però l’aver sfruttato le possibilità offerte dalla simultanea crescita della behavioral economics ed economia sperimentale. L’ipotesi di esistenza di una classe di imprese in grado di soddisfare l’idealtipo doveva confrontarsi con il problema che, secondo la teoria standard del comportamento economico razionale, una tale forma di impresa non sarebbe stata stabile, poiché non compatibile con gli incentivi privati. Conseguentemente, nel programma di ricerca si è deciso di difendere il nucleo (ipotesi di esistenza) compiendo una piccola rivoluzione nell’ipotesi di comportamento economico razionale individuale. L’impresa sociale era considerabile come instabile solo perché le ipotesi sul comportamento economico non erano adeguate al modello istituzionale in questione.

In altre parole, la predizione tipica dell’economia delle istituzioni prevalente sarebbe stata considerare impossibile la forma istituzionale impresa sociale non profit (prevedendo che essa degeneri necessariamente in una for profit di fatto, per via del comportamento opportunistico dei partecipanti); al contrario, modificando la teoria microeconomica, introducendo ad esempio l’ipotesi di preferenze e di credenze di conformità generate dal contratto sociale costitutivo dell’impresa (su cui ho lavorato da due decenni e di cui parleremo più oltre), la predizione è positiva. È un equilibrio. A questa predizione corrisponde l’osservazione delle imprese sociali che corrispondono all’idealtipo EMES. Guardando attraverso il cannocchiale della teoria microeconomica neoclassica e della stessa transaction costs economics non si vedeva nulla, adesso con questo nuove ipotesi si potevano scorgere organizzazioni basate su un accordo costitutivo coerente con l’idealtipo in cui le credenze e le scelte dei componenti determinano un equilibrio in cui avviene stabilmente la produzione di beni e servizi di welfare.

 

Impresa Sociale. Il fatto che i primi teorici ragionassero prevalentemente (a partire dalla denominazione dell'oggetto: "non" / "terzo") in termini residuali e che le loro argomentazioni partissero, in coerenza con questa impostazione, dall’analizzare ove altre istituzioni (lo Stato, il mercato) falliscono, può avere contribuito a creare una mentalità "subordinata" nel terzo settore? E, oggi, può portare a cercare in modo pervicace di riassegnare – magari con qualche aggiustamento – ai soggetti considerati come principali e naturali (lo Stato e, soprattutto, il mercato) gli spazi persi a causa dei propri fallimenti?

Borzaga: Non attribuirei la colpa ai teorici che sapevano di cosa parlavano, per i quali “fallimento” significa la non applicabilità a costi sopportabili della logica del mercato o dello Stato e la necessità di ricercare soluzioni alternative e per i quali “non profit” sta per “non profit distribution constraint”, bensì all’uso allegro e superficiale che di questi termini è stato fatto nel corso del dibattito (quanti di coloro che usano il termine oggi sanno che questo è il suo preciso significato e che il tanto utilizzato “no profit” non ha nessun senso?). Questo vale anche per il concetto di “terzo”: se oggi sono ancora in molti ad attribuire una posizione subordinata a questo insieme di organizzazioni è per una questione culturale, perché sono in molti (tra i politici direi tutti!) a considerare ancora valido il modello tedesco dell’economia sociale di mercato e quindi a non riuscire a concepire – nonostante i numeri non possano più lasciare dubbi – un modello economico-sociale diverso, che attribuisca alle organizzazioni che ricorrono al meccanismo cooperativo e operano secondo principi di reciprocità e solidarietà la stessa dignità delle altre imprese e delle istituzioni pubbliche. Anzi, sono così legati al modello tradizionale che ritengono che lo sviluppo di imprese sociali sia una pericolosa forma di privatizzazione di servizi essenziali, che dovrebbero invece restare in mano allo Stato o agli enti pubblici territoriali, anche se questi non vogliono o non possono per insufficienza di risorse farsene carico; dimostrando di avere una idea statica del sistema economico, cioè di pensare come se tutti i bisogni fossero soddisfatti e quindi ogni nuovo arrivato sul “mercato” non possa che espellere qualcun altro (in questo caso, nello specifico, un soggetto pubblico) che già vi operava. Mentre è vero il contrario: che ci sono sempre più bisogni e sempre meno risposte.

Va poi ricordato che quando il termine “terzo settore” o “terzo sistema” (termine molto più corretto, ma che sfortunatamente ha avuto vita breve) venne usato nella letteratura anglosassone (dove “sector” ha un significato molto diverso e più ampio di quello che ha in italiano), non si intendeva sminuire la rilevanza delle attività svolte, ma si cercava di unire sotto un'unica denominazione generale un insieme di attività diversamente denominate e regolate nei vari Paesi e di permettere così di fare analisi comparate. L’interpretazione negativa del termine “terzo” è venuta quando il suo uso si è esteso ed è stato interpretato dagli stessi attori come un modo per sminuirne l’importanza.

Ho poi dei forti dubbi che Stato e mercato possano trovare il modo per superare i loro fallimenti. Lo Stato, perché, come dimostrano i risultati elettorali in tutti i Paesi e l’elevato grado di astensionismo, è oggi meno di ieri in grado di cogliere bisogni sempre più differenziati e complessi. Il mercato, perché la domanda si sta sempre più orientando verso servizi che sono difficili da produrre e scambiare in base al solo principio del guadagno. Forse è ora che abbandoniamo la tesi dei fallimenti a favore dell’uso improprio di modalità di coordinamento inadatte a garantire il miglior risultato. Il monopolio, ad esempio, oggi lo definiamo un fallimento del mercato che però scompare se al posto di un imprenditore che massimizza il profitto i consumatori formano una cooperativa: è fallimento, o errato ricorso al mercato? Questo significa che organizzazioni e imprese sociali hanno la stessa importanza degli altri attori pubblici e privati e che quello che serve è utilizzarle dove funzionano meglio. Anche per questo trovo miopi i diversi tentativi – peraltro finora non di grande successo – di riportare dentro il modello duale anche le organizzazioni di terzo settore, come quelli che puntano alla ibridazione tra profit e non profit. In ogni caso non è il nome che conta ma il modo prevalente di interpretare il funzionamento dei sistemi economici.

Sacconi: La teoria economica neoclassica è basata sulla centralità del mercato concorrenziale. Ove il mercato fallisce, poiché la realtà non ne soddisfa le ipotesi, subentra lo Stato che può imporre ciò che non si potrebbe fare nel mercato, in quanto nelle condizioni date non è coerente con l’auto-interesse. Ma come si spiega la scelta pubblica? Si può assumere che la scelta pubblica abbia un contenuto etico maggiore della mera aggregazione di voti, ad esempio con l’utilitarismo (che prevede il punto di vista di un osservatore imparziale ma simpatetico) oppure con l’idea che la essa applichi un contratto sociale basato sull’accordo e su principi di giustizia concordati. Ciò va nella giusta direzione per comprendere le ragioni normative per agire dei soggetti del settore pubblico e di quelli del terzo settore.

Ma se si vuole restare, come molti fanno, all’economia positiva, allora la teoria economica della politica dice che lo Stato può fare solo quello che vuole “l’elettore mediano”. Quindi, per tutto ciò che va oltre alla preferenza dell’elettore mediano, dal punto di vista dei beni pubblici e della lotta alle ingiustizie ci può essere solo l’altruismo del non profit, che è residuale rispetto alle motivazioni prevalenti e centrali per l’economia, un residuo di bene fatto volontariamente e potremmo dire al di là del dovere – in modo supererogatorio.

Questo modo di ragionare corrisponde al modello liberale di responsabilità sociale, esasperato dal neoliberalismo che ha dominato la scena dagli anni ‘80, secondo cui al mercato – sede della responsabilità individuale – tocca la produzione e distribuzione dei beni privati, allo Stato tocca la responsabilità collettiva per i beni pubblici e la garanzia o modificazione dei diritti di proprietà, e al terzo settore di far qualcosa che va oltre il dovere.

Ma è evidente che i confini della responsabilità sociale vanno ormai del tutto ridisegnati rispetto al modello liberale. Intanto, finita la sbornia neoliberale, tutti riconoscono che il mercato è abitato da soggetti, le imprese, che esercitano potere o autorità, esattamente come accade nello Stato (un fatto che gli economisti avevano riconosciuto onestamente da tempo), ma senza la legittimazione democratica. A tali soggetti si chiede perciò di avere responsabilità sociali poiché il loro operare può avere gravi effetti in termini aumento di diseguaglianze non accettabili e creazione di effetti esterni negativi (sociali e ambientali). La crisi finanziaria globale ha poi mostrato come la società possa subire effetti esterni drammatici del malfunzionamento del capitalismo finanziario che, oltre a paralizzare l’attività economica, scarica poi i costi del proprio salvataggio sugli Stati, imponendo di conseguenza ai sistemi di welfare politiche di austerità che, oltre a non favorire la crescita, creano povertà e aggravano le diseguaglianze. È chiaro che occorrerebbe un intervento preventivo, per evitare che si formino diseguaglianze inaccettabili e impedire che il mercato generi esternalità che è sempre più difficile correggere ex post, con gli interventi redistributivi ostacolati dalle politiche di austerità.

In generale, nella sfera della produzione e distribuzione privata di beni e servizi si fa strada la richiesta di responsabilità sociale. La divisione del lavoro tra pubblico, privato e terzo settore salta. Il superamento di questo confine è la cosa più importante. Essa porta alla comprensione del fatto che, per limitare un livello di diseguaglianza incettabile, non si può solo intervenire a valle con la redistribuzione pubblica, ma occorre intervenire a monte con forme di produzione e distribuzione primaria del reddito e della ricchezza (la cosiddetta pre-distribuzione) che prevengano la formazione della diseguaglianza di mercato. Forme di democratizzazione dell’impresa capitalistica o forme non capitalistiche di impresa, come l’impresa sociale e il cooperativismo, sono essenziali a tale fine.

Con ciò, organizzazioni private senza scopo di lucro possono offrire beni e servizi di mercato e al contempo possono entrare nella sfera dell’offerta di beni pubblici e comuni in quanto basate su principi di giustizia, capaci di attivare motivazioni pubbliche di equità (non semplice generosità e altruismo). La realizzazione di principi di giustizia o la prevenzione di esternalità invade il settore privato e di mercato, e a realizzarli possono essere chiamate organizzazioni capitalistiche socialmente responsabili, oppure, quando si tratti di beni e servizi in cui la competizione di mercato è inefficiente, organizzazioni non profit e imprese sociali organizzate in forma non capitalistica, che non sono più isolate in un ambito di bontà perfettamente altruistica, ma interagiscono con gli interessi che si devono mobilitare nella produzione e distribuzione di beni e servizi e nella mediazione tra interessi anche configgenti.

Tutto ciò però non corrisponde affatto alla ritirata dello Stato e dell’etica pubblica. Al contrario, significa che i criteri universalistici dell’etica pubblica invadono il mercato e giustificano l’intervento di organizzazioni private non capitalistiche come le imprese sociali. Nel quadro descritto, quello sull’impresa sociale, così come quello sui commons capeggiato da Elinor Ostrom, sono due programmi di ricerca che hanno resistito nel corso degli anni Novanta all’egemonia del modello neoliberale di impresa basato sul primato degli shareholder e poi ne hanno accompagnato la messa in discussione, assieme al crescere della domanda di responsabilità sociale.

Si dovrebbe pertanto evitare di confondere le venature anti-stataliste e anti-burocratiche, che vanno naturalmente assieme alle istanze di democrazia di base, di autogoverno e autodeterminazione, tipiche della fase nascente della cooperazione sociale sia di matrice cattolica, sia genericamente “di sinistra”, con la narrazione del neoliberalismo, la quale è ovviamente antistatalista, ma incentrata sull’idea della diffusione universale del mercato come unica istituzione economica, in cui troverebbe spazio solo il modello comportamentale dell’homo œconomicus. Questa narrazione inserisce l’impresa sociale nel quadro del progressivo ritrito dello Stato Sociale dalle sue funzioni di supporto al welfare, per effetto della cosiddetta crisi fiscale, cui sarebbe complementare l’espansione del mercato e dello spazio dell’impresa privata capitalistica. Il portato di questa visione è che l’impresa sociale, rispondendo agli incentivi di un quasi-mercato, non sarebbe guidata dagli obbiettivi universalistici, di giustizia sociale, di uguaglianza di trattamento tipici del welfare pubblico; l’impresa sociale sarebbe, secondo questa visione, una versione “ibrida” dell’impresa capitalistica (una combinazione tra scopo di profitto e scopi sociali) e dovrebbe rivolgersi per la sua sopravvivenza alla finanza speculativa, ripagandone l’investimento con sistemi di remunerazione in base al risultato capaci di premiare l’investitore (il che, in ultima analisi, richiede sempre che il bilancio pubblico saldi il conto). Il tentativo più significativo di “normalizzare” l’impresa sociale nel senso suddetto si è sviluppato durante la riforma del terzo settore (anni 2013-2016), con il tentativo di ridurre l’impresa sociale a una generica impresa “con impatto sociale” in cui si potessero inserire imprese con modelli organizzativi che non sarebbero mai emersi o co-evoluti nel modo che abbiamo descritto nella risposta precedente (e su cui torneremo in seguito).

Sulla lettura “privatista” talvolta convergono sia critici di sinistra dell’impresa sociale cooperativa – che ne enfatizzano l’uso distorto nella privatizzazione a basso costo dei servizi pubblici – sia i sostenitori, che vogliono dimostrarne la non subordinazione e subalternità alla pubblica amministrazione. Entrambe queste posizioni hanno alcune ragioni dalla loro parte, ma in definitiva sono sbagliate. Secondo me, infatti, l’impresa sociale è stato nel corso degli ultimi decenni il principale movimento in controtendenza volto ad affermare forme alternative di impresa e di governance. Ha accompagnato e in parte anticipato la critica al modello shareholder dell’impresa capitalistica, oggi assai diffusa, e persuasivamente argomentato perché nel campo dei beni e servizi di welfare e dei beni comuni il dispositivo “mercato più impresa per il profitto” sono inadeguati.

D’altra parte, ormai ci sono studi sperimentali sugli effetti che forme finanza speculativa (seppur condizionate alla ancora misteriosa misurazione dell’“impatto sociale”) avrebbero sul crowding in /out delle motivazioni intrinseche che caratterizzano l’impresa sociale. In questi esperimenti, senza simulare incentivi monetari, osserviamo una misura elevata di comportamenti orientati al valore intrinseco o ideale degli output dell’impresa sociale, che si riflette nella creazione di beni di alta qualità per il beneficiario sia pur a costi elevati per gli operatori dell’impresa sociale. Se si inserisce un incentivo materiale (la possibilità di avere un finanziamento) legato alla possibilità che il finanziatore realizzi un profitto speculativo, sia pur condizionato a un impatto – posto che l’impatto sia misurabile sempre in modo incompleto mediante standard approssimativi – ciò che si osserva è un effetto di spiazzamento (crowding out) delle motivazioni intrinseche. In altre parole, la produzione di qualità viene limitata al minimo necessario per soddisfare il requisito della remunerazione del capitale, da cui dipende il finanziamento futuro. In sostanza, se occorre garantire un livello minimo di qualità per poter remunerare il capitale, allora quella e soltanto quella sarà la qualità sarà prodotta, sebbene sia inferiore a ciò che l’impresa sociale offrirebbe senza incentivo finanziario. Il messaggio è che le preferenze intrinseche non sono un dato (come credono gli autori dei modelli “ibridi”), ma una variabile dipendente dal contesto istituzionale. E perciò cambiare l’assetto istituzionale per subordinare il finanziamento dell’impresa sociale a un obbiettivo di profitto spiazza le motivazioni e le riduce al minimo necessario funzionale al profitto. Solo in un mondo di informazione perfetta e simmetrica sugli outcome dell’impresa sociale, condizionare la remunerazione del capitale e quindi il finanziamento futuro dell’impresa a misure di impatto sociale può avere un effetto di crowding in sulle motivazioni. Ma noi tipicamente viviamo in un mondo di informazione incompleta e asimmetrica.

 

Impresa Sociale. Probabilmente è possibile esplorare nuove direzioni per la comprensione dell'impresa sociale attraverso due percorsi complementari, l'uno alla ricerca di causalità positivista “a valle” (quando è perché un'impresa fatta in un certo modo funziona meglio di altre), l'altra di causalità volontaristica “a monte” e quindi relativa ai motivi che spingono le persone ad agire entro un contesto caratterizzato dal "patto fondativo" e dalla “ideologia costituzionale” propria dell'impresa sociale. Che prospettive vedete su ciascuno di questi due fronti?

Borzaga: Sono due direzioni al contempo essenziali e complementari, nel senso che per raggiungere determinati risultati a valle servono precise condizioni a monte e in particolare servono persone che condividano il patto fondativo dell’impresa, che ha anche una componente ideologica, intesa come una particolare visione di come si vorrebbe che fosse il mondo. E questo sia perché così l’impresa sociale può funzionare meglio di altre imprese, sia perché solo così realizza la propria funzione che è diversa da quella di tutte le altre forme di impresa, cooperative tradizionali incluse. Mi sono riletto di recente l’audizione di Sen del 1998 alla Commissione Affari Sociali sul terzo settore in cui egli ha insistito proprio sulla capacità di queste organizzazioni di contenere i costi e di risultare così più efficienti di tutti gli altri produttori pubblici e privati. Le remunerazioni che i lavoratori accettano perché socialmente motivati fanno parte, sempre secondo Sen, di questa capacità di ridurre i costi.

Credo quindi che si debba continuare sia ad approfondire attraverso la ricerca (se ne è fatta ancora troppo poca), sia a meglio evidenziare tutte due le direzioni e soprattutto a fare in modo che entrino nella cultura manageriale delle imprese sociali. Cosa che non mi pare stia succedendo, anzi! Mi ha infatti molto stupito leggere interventi di persone con ruoli dirigenziali in cui si auspica la necessità di scalzare una volta per tutte l’autoreferenzialità elitaria e profetica che avrebbe impedito finora al terzo settore e all’impresa sociale di entrare nel mainstream con una posizione ugualitaria rispetto alle altre istituzioni, alle imprese di mercato, alla finanza. Come se queste ultime non si basassero anch’esse su una buona dose di ideologia. In altri termini sembra che stia venendo avanti una cultura secondo cui per fare parte del mainstream ci si dovrebbe omologare agli altri, invece che entrarvi ribadendo la propria specificità. Sarebbe la fine dell’impresa sociale così come è stata quella di molte mutue e cooperative in giro per il mondo. Meno male che la Commissione europea ha finalmente deciso invece di riconoscere la specificità delle forme di impresa non a scopo di lucro con il Piano d’Azione per l’Economia Sociale.

Sacconi: Certamente entrambi questi tipi di ricerca sono utili e complementari. Nella mia prospettiva entrambi fanno parte dell’euristica positiva del programma di ricerca sull’impresa sociale. Da un lato, si possono classificare empiricamente nuove categorie di imprese e organizzazioni come appartenenti al tipo ideale dell’impresa sociale e vedere se le caratteristiche tipiche possano essere variabili esplicative, mediante opportune correlazioni statistiche (e ulteriori analisi econometriche volte ad appurare il senso della causalità), del successo o dell’insuccesso di dette organizzazioni. D’altro canto, ci si può porre problemi teorici più fondamentali, necessari per spiegare perché e predire quando l’impresa sociale soddisfi una proprietà di equilibrio e quindi possa essere stabile nel tempo.

Però vorrei dire che non credo che esista qualcosa come una spiegazione empirica “a valle”, puramente induttiva, che fa generalizzazioni a partire dai dati, contrapposta a una spiegazione deduttiva basata su ipotesi a priori. E ancora meno credo che la prima sia una spiegazione causale di tipo positivista, mentre la seconda sarebbe una spiegazione intenzionale, basata sulla comprensione empatica delle motivazioni interiori degli agenti, come accadeva nello storicismo tedesco. Io penso che tutta la ricerca sia ipotetico deduttiva, che faccia uso di ipotesi generali e astratte e di condizioni iniziali per dedurre congetturalmente spiegazioni, predizioni o retro–dizioni, e che tra le premesse deduttive possano esservi benissimo ipotesi su sistemi di preferenze o assunti sulle credenze che, attraverso una logica dell’azione (una teoria della scelta razionale sia pur riformata), contino come “cause” e permettano di dedurre fatti osservabili. Questa non è una novità, le intenzioni e le credenze (cause interne) possono servire a spiegare il comportamento in modo causale assumendo che una logica intellegibile e condivisa tra l’agente e l’osservatore (benché fallibile e imperfetta) colleghi le premesse come “ragioni per agire” all’azione e quindi al comportamento osservato. D’altra parte, nella metodologia dei programmi di ricerca scientifica è implicito che ogni teoria speciale applicata in una parte dell’euristica positiva, in cui si risolve un problema particolare, faccia uso degli assunti del nucleo metafisico del programma, che non è mai indotto o verificato in base ai dati, e opera sempre come un a priori. Cosicché da ipotesi speciali dedotte dal nucleo più alcune ipotesi ausiliari necessarie alla soluzione del caso particolare, si deduce la particolare spiegazione.

 

Impresa Sociale. Entrambi, nei vostri lavori, avete in più occasioni guardato all'impresa sociale come contesto che può essere compreso a partire da come un membro vede e interpreta gli orientamenti e le azioni di altri membri: pensiamo al tema della "conformità" sviluppato da Lorenzo Sacconi e al tema delle "equità percepita" su cui ha lavorato Carlo Borzaga. Come gioca l'aspettativa e la lettura del comportamento altrui nell'impresa sociale? In altre parole, è possibile fondare l'impresa sociale a partire da una teoria del comportamento delle persone che vi prendono parte?

Borzaga: Certo che sì. Soprattutto perché, come ricorda Anna Grandori, le imprese in quanto tali non hanno obiettivi che invece sono decisi (e modificati) dai proprietari, cioè in genere da persone in carne e ossa con la loro visione del mondo. Mi pare però che tra l’approccio della conformità e quello dell’equità percepita ci sia una differenza importante. Il primo su cui ha lavorato e sta lavorando Sacconi, spiega come e a quali condizioni le aspettative delle persone impegnate nell’impresa sociale tendano a convergere, mentre la seconda è il risultato sulla soddisfazione per il lavoro e sulla fedeltà all’organizzazione di una serie di comportamenti dell’impresa che i lavoratori sembrano apprezzare in modo particolare e che possono compensare salari più bassi o la richiesta di maggior impegno. Semmai l’equità percepita può essere considerata un sostegno al conformarsi delle preferenze. Nelle ricerche sui lavoratori e sui dirigenti che realizzammo nei primi anni Duemila abbiamo rilevato due tipi di equità percepita, quella distributiva e quella procedurale. La prima è relativa al fatto che il lavoratore consideri il suo impegno riconosciuto e remunerato equamente tenendo conto delle risorse a disposizione dell’impresa. La seconda riguarda la percezione dei lavoratori di essere adeguatamente informati su ciò che da essi ci si aspetta, alla coerenza delle remunerazioni con quelle dei colleghi e dei superiori tenendo conto del ruolo e dell’impegno richiesti, alla trasparenza rispetto alla possibilità di crescita professionale e di ruolo. Risultò che ambedue le equità percepite erano particolarmente elevate nelle cooperative sociali e molto basse tra i dipendenti pubblici, più che nelle imprese convenzionali su cui avevamo poche osservazioni. E che la più importante nel determinare la soddisfazione e la fedeltà dei lavoratori era l’equità procedurale, che invece presentava valori bassissimi negli enti pubblici. Ma questo non significa che il perseguimento dell’equità non possa essere utilizzato anche nella gestione di imprese convenzionali, specie se occupano forza lavoro difficile da reperire e da trattenere.

Sacconi: Non osserveremmo imprese sociali “in equilibrio”, che svolgono efficacemente il loro compito di produzione e distribuzione di beni e servizi di welfare, sia su commessa pubblica sia in risposta alla domanda diretta dei beneficiari, qualora le preferenze dei partecipanti non fossero plastiche rispetto alla forma organizzativa e al suo “contratto sociale costitutivo”. Grazie a questo “contratto sociale” ed ai principi di giustizia sociale intorno ai quali gli stakeholder convergono, nonché grazie alla forma di governance multi-stakeholder e tendenzialmente democratica, vengono attivate credenze reciproche e preferenze di conformità ai principi che riescono a vincere le spinte al comportamento opportunistico e controbilanciano con utilità intrinseche il differenziale remunerativo del lavoro non rispetto al privato capitalistico (che nei servizi sfrutta selvaggiamente i lavoratori), ma al settore pubblico o rispetto ad impieghi in settori alternativi.

Questa tesi è stata formulata attraverso vari lavori sulle cosiddette preferenze di conformità (Sacconi 2002, Sacconi e Grimalda 2005, 2007) anche pubblicati in un numero monografico di Impresa sociale (2005), che permettono di spiegare le imprese sociali come istituzioni stabili in quanto in equilibrio, cioè organizzazioni in cui la regolarità di comportamento dei partecipanti corrisponde a un sistema di aspettative reciproche che predice quella regolarità di comportamento, cui i partecipanti rispondono con lo stesso comportamento. Si tratta di una nozione analoga a quella dell’equilibrio di Nash della teoria dei giochi, ma che si basa su un cambiamento del modello di agire economico, o di preferenza personale (anche se altri assunti di razionalità sono mantenuti invariati). Le preferenze sono influenzate dalla forma istituzionale, e sono attivate dalle credenze che si generano in tale forma istituzionale. Perciò il patto costitutivo dell’organizzazione genera le credenze e le preferenze che producono l’equilibrio e l’equilibrio tra credenze e comportamenti rende stabile la forma istituzionale. Cosicché tra forma istituzionale e credenze e comportamenti vi è co-evoluzione, e gli attrattori della co-evoluzione sono istituzioni stabili.

Per capirci, secondo questa teoria, nell’impresa sociale valgono tre ipotesi: 1) tra i membri esiste un sistema di principi o un’ideologia costituzionale che prevede l’equa distribuzione tra gli stakeholder dei vantaggi generati dall’impresa, inclusi i beneficiari. Tale ideologia costituzionale esprime il contratto sociale costitutivo dell’impresa, e quindi spiega perché e con quale proposito l’impresa sia stata costituita, attraverso l’azione collettiva dei costituenti. 2) Le preferenze dei soggetti attivi attribuiscono valore intrinseco o un peso motivazionale alla conformità e alla reciproca aspettativa di conformità ai principi costitutivi, ovvero se i partecipanti si aspettano di conformarsi e credono che gli altri a loro volta si conformino, allora un fattore motivazionale (una disposizione) viene attivata nel loro sistema di preferenze, che li motiva a conformarsi. 3) Tra i membri dell’impresa sociale si formano proprio quelle aspettative reciproche che permettono alla disposizione alla conformità di essere effettivamente efficace nel sistema di preferenze degli agenti, cioè tra i membri dell’impresa vige la reciproca aspettativa che ciascuno farà la propria parte quando anche gli altri la fanno nel conformarsi all’ideologia costitutiva.

Ne consegue che, dato il principio su cui vi è un accordo costitutivo (è un modello normativo accettato ma efficace condizionatamente alla reciproca conformità), e data la credenza reciproca di conformità si attivano preferenze per la conformità che modificano il sistema di payoff del gioco e sotto certe condizioni ciò cambia anche gli esiti in equilibrio. Le preferenze psicologiche di conformità possono controbilanciare le utilità materiali, cosicché l’adesione al principio può risultare la risposta ottima di tutti i partecipanti. Quello che prima era irrazionale, perché inspiegabile in termini di vantaggi materiali, risulta perfettamente spiegabile come un equilibrio, date le nuove ipotesi sulle preferenze psicologiche e le credenze. In sintesi, nel gioco in cui i produttori di beni e servizi di welfare possono decidere se accaparrare il surplus prodotto oppure destinarlo al benessere del beneficiario, in mancanza di un patto costitutivo su principi di giustizia prevarrà normalmente la scelta opportunistica di appropriarsi del surplus. Tuttavia, in seguito a un patto costitutivo su un principio di equità, le preferenze vengono influenzate e qualora vi siano le aspettative adeguate, la decisione effettiva può risultare quella di devolvere una parte sostanziale del surplus al beneficiario.

Vista col senno di poi è chiaro che non si tratta di un modello ad hoc per l’impresa sociale, ma di una teoria abbastanza generale per spiegare organizzazioni produttive apparentemente impossibili sotto le ipotesi comportamentali tipiche dell’homo œconomicus. La tradizione sociologica da Max Weber ci parla di modelli di razionalità rispetto allo scopo e rispetto ai valori. Noi pensiamo che la funzione di utilità di un agente possa catturare entrambi questi orientamenti razionali attraverso due tipi di preferenze: le preferenze conseguenzialiste, in cui cioè gli esiti del gioco sono ordinati in base a preferenze su stati che rappresentano le conseguenze che occorrono a chi decide o ad ogni altro soggetto (altruismo) e le preferenze deontologiche che riflettono la coerenza a principi, cioè ordinano gli esiti del gioco in base alla coerenza degli stati raggiunti rispetto a qualche principio (ad esempio di giustizia distributiva). Cosicché la funzione di utilità per ciascuno stato del gioco combina linearmente le tradizionali utilità materiali (rappresentative delle preferenze per le conseguenze) con utilità psicologiche che rappresentano l’intensità di una diposizione alla conformità (per così dire esogena), pesata con un indice di conformità condizionale e reciproca attesa nello stato dato.

Il ruolo delle aspettative è cruciale poiché io, data la mia previsione sul tuo comportamento, con una mia scelta realizzo un certo grado di conformità rispetto al massimo valore di conformità possibile nello stato; e d’altra parte, con la mia aspettativa sulla tua scelta e data la mia congettura su ciò che tu ti aspetti da me, definisco un grado di conformità reciproca attesa da parte tua rispetto al massimo valore di conformità in quello stato. Questi due elementi stabiliscono un indice complessivo di conformità attesa per ogni stato. Siccome il peso motivazionale della disposizione a conformarsi (pesato per l’aspettativa di conformità) cambia il valore totale dei payoff, qualora la disposizione a conformarsi pesi abbastanza, vi sarebbero esiti del gioco in cui è razionale conformarsi in risposta ad altri agenti che si conformino.

È bene chiarire la natura delle aspettative di cui stiamo parlando. Si tratta dell’aspettativa che la controparte si attenga a un principio che ha valore normativo; non è perciò conformismo nel senso di fare ciò che gli altri vogliono che noi facciamo, o fare ciò che gli altri fanno. La conformità ai principi (potremmo chiamarla adesione od osservanza) è altro dal conformismo sociologico. Si tratta di conformità a principi che hanno forza normativa indipendente, ma condizionata al fatto che ci sia reciprocità. Per intendersi, le aspettative reciproche positive (ciò che gli altri credono che noi facciamo) o normative (ciò che gli altri credono che noi dovremmo fare) da sole non influenzerebbero il comportamento; ciò che influisce è che noi ci aspettiamo reciprocamente l’osservanza di un principio di giustizia normativo che abbiamo imparzialmente concordato in una situazione originaria, come principio costitutivo della nostra cooperazione. In questo modo la dipendenza dalle aspettative sulla scelta altrui e sulle aspettative altrui non limita la nostra autonomia, in quanto si tratta di agire come abbiamo autonomamente deciso per via di accordo, stabilendo un’intenzione comune, posto che quel sodalizio continui in fase di attuazione (di qui l’aspettativa di reciprocità).

Non per caso la base filosofica della teoria, benché non l’avessimo del tutto esplicitata nel primo lavoro teorico del 2002/2005 (ma si veda poi Sacconi e Faillo 2010, e Sacconi, Faillo e Ottone 2011), si trova in effetti nella parte meno nota della teoria della giustizia di John Rawls, il grande teorico della giustizia come equità. Secondo la teoria del sense of justice, che Rawls espone nell’ultima parte della sua famosa opera, se noi abbiamo concordato dietro velo di ignoranza (cioè imparzialmente) su principi di giustizia, allora sviluppiamo un atteggiamento di adesione ai principi tale che, qualora abbiamo conoscenza comune che gli altri aderiscano ai principi stessi, ci porta a reagire reciprocamente aderendo a nostra volta. Questo atteggiamento è qualcosa come una preferenza per la conformità ai principi di giustizia condizionata all’altrui conformità. Un ruolo chiave è perciò svolto dall’idea di accordo imparziale dietro velo di ignoranza, ma l’attenzione si concentra in questa fase su cosa accade dopo l’accordo, quando il velo è sollevato, cioè sugli effetti che l’accordo ha sui nostri atteggiamenti – non incondizionatamente ma date certe credenze.

Il tema delle preferenze di conformità è stato sviluppato inizialmente come spiegazione dell’impresa sociale (si veda Grimalda e Sacconi 2005, Sacconi e Grimalda 2007), ma è poi stato generalizzato studiando gli effetti dell’accordo imparziale e del senso di giustizia in vari contesti con applicazioni teoriche e sperimentali. Per facilità mi concentro su due di queste (Sacconi e Faillo 2010, Faillo, Ottone e Sacconi 2011, Degli Antoni, Faillo, Francés–Gómez, Sacconi 2022). L’esperimento sul “gioco dell’esclusione” in particolare riguarda contesti in cui agenti forti (con potere decisionale) decidono se ammettere o meno un soggetto debole alla distribuzione di una somma: ad esempio il manager e l’operatore di una impresa sociale decidono se destinare il risultato di una raccolta fondi o di un avanzo di gestione al miglioramento dei servizi per il beneficiario o appropriarsene, i cittadini decidono se estendere i benefici del welfare a un immigrato oppure no. Data la struttura a singola giocata (one shot) del gioco, non c’è alcun benefico di reputazione nell’includere la parte svantaggiata, né un beneficio per la produttività congiunta. I partecipanti sono quindi due giocatori attivi e un dummy che non ha potere di scelta, e che può essere escluso dalla ripartizione di una torta. Potendosi appropriare di quote della torta, si osserva che gli agenti attivi se ne appropriano interamente. La peculiarità dell’esperimento è però introdurre una fase preliminare (ex ante) di cosiddetto di cheap talk (accordo senza garanzia di imposizione quindi non esternamente vincolante) in cui i tre giocatori, senza sapere se sarà loro assegnato il ruolo attivo o quello di dummy, devono concordare sulla regola distributiva, cioè devono fare un accordo dietro velo di ignoranza rispetto ai ruoli. Poi il velo è sollevato e quelli cui viene assegnato il ruolo attivo possono con una scelta ex post di nuovo scegliere individualmente quale quantità prendere e se applicare l’accordo. Se vogliono, possono cioè defezionare dall’accordo ex ante. Sorprendentemente tuttavia, e contro la teoria dei giochi classica, la quale prevedrebbe in ogni caso che i giocatori attivi si accaparrassero l’intera torta, e si accordassero fin dapprincipio su questa regola, si osserva che a) la maggioranza fa un accordo equo sulla regola di distribuzione eguale, b) la maggioranza di coloro che scelgono tale regola la rispetta, c) la quasi totalità di chi la rispetta ha anche l’aspettativa che l’altro giocatore con cui interagisce (e con cui ha fatto l’accordo) la rispetti.

Tra il primo trattamento (senza accordo) e il secondo, l’unica differenza è data dall’accordo ex ante non vincolante, il quale cade sul principio equo ed è la variabile esplicativa sia della credenza che l’altro si conformi, sia della decisione di rispettare l’accordo che rivela una preferenza di conformità contrastante i payoff monetari. L’esperimento conferma la teoria delle preferenze di conformità e offre un esempio sperimentale del senso di giustizia di Rawls. Inoltre, è la rappresentazione sintetica del meccanismo decisionale che secondo me opera nell’impresa sociale. La mia conclusione è: la struttura istituzionale dell’impresa sociale, basata su una governance democratica in cui i membri della cooperativa si autogovernano e quindi rinnovano periodicamente il patto costituivo, che implica una rinuncia all’appropriazione dell’utile per perseguire un principio di giustizia, genera le preferenze e le credenze che ne sostengono l’efficacia e l’efficienza. Lasciate che questo meccanismo sia sostituito da incentivi materiali, e vedrete cadere l’efficacia e l’efficienza delle imprese sociali, cioè ne destabilizzerete l’equilibrio, che nonostante contraddica la teoria economica ortodossa, permette di osservare organizzative produttive di beni e servizi che stabilmente operano a vantaggio dei loro beneficiari. Anche altri esperimenti simili dimostrano come, in larga maggioranza, i soggetti rispettino gli accordi, e in particolare quello sul principio di egualitarismo liberale, e rivelano poi di aspettarsi sia che gli altri partecipanti al medesimo gruppo facciano lo stesso, sia che questi a loro volta abbiano la stessa aspettativa nei loro confronti.

 

Impresa Sociale. Come opera il meccanismo cooperativo come forma di coordinamento dell'attività economica alternativo all'autorità dello Stato e allo scambio di mercato? Vi sono evidenze che esso si stia progressivamente affermando? In quali ambiti e perché? È possibile dire che questa tripartizione di meccanismi di coordinamento ponga il modello cooperativo in posizione non subordinata? Cosa identifica l'impresa sociale considerata come una forma peculiare di coordinamento e in che condizioni tale forma di coordinamento può essere considerato vantaggioso?

Borzaga: Il meccanismo di coordinamento di persone e risorse assume il carattere cooperativo (così lo chiamo io, anche se in letteratura è chiamato in tanti modi diversi: network, rete, ecc.) quando le persone che condividono un bisogno si accordano su come affrontarlo e fissano le regole di partecipazione e le modalità di attribuzione dei costi e dei risultati e quindi i prezzi o i contributi da pagare. Modalità che possono anche essere diverse tra i partecipanti, secondo una logica di reciprocità con l’aggiunta, nel caso dell’impresa sociale, di elementi solidaristici. A ciò deve ovviamente corrispondere una forma di governance coerente che dia a tutti coloro che sottoscrivono il patto gli stessi poteri decisionali. Questo modo di coordinare l’attività si distingue sia da quello basato sull’autorità, tipico dello Stato, sia da quello dello scambio anonimo basato su prezzi omogeni formati dall’incontro tra domanda e offerta o fissati dal produttore, tipico del mercato. È un meccanismo esistente da sempre ma dato per scontato e considerato dal punto di vista economico, per ragioni ideologiche alla base di molti alcuni teorici, secondario rispetto agli altri due. È invece vero il contrario. Pensiamo, come ha dimostrato Elinor Ostrom, all’importanza che ha avuto nel governare le proprietà collettive o nel determinare il successo dei distretti industriali italiani. E ci sono sempre più evidenze trasversali di un aumento del ricorso al meccanismo cooperativo sia nei rapporti tra le imprese (filiere e soprattutto contratti di rete), sia tra cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche (amministrazione condivisa, co-progettazione, ecc.), sia, ancora, tra organizzazioni di terzo settore (aumento dei progetti condivisi). Anche l’aumento e la diversificazione delle forme cooperative e delle esperienze mutualistiche tra cittadini vanno nella stessa direzione. In un saggio recente sui mutamenti indotti dalla crisi si individua come cambiamento epocale il passaggio dei mercati dal tipico carattere politico ereditato dagli anni Sessanta all’idea della cooperazione e dell’auto mutuo aiuto come una via per dare risposta agli stessi problemi sociali, inclusa la creazione di un maggior numero di posti di lavoro e di lavori più coerenti con i valori dei promotori. È chiaro che riconoscere l’importanza del meccanismo cooperativo sta contribuendo e contribuirà alla rivalutazione della forma cooperativa anche perché aiuta a interpretarla secondo un approccio coerente e non usando le stesse ipotesi e gli stessi strumenti utilizzati per interpretare le imprese convenzionali. Va comunque chiarito il passaggio tra meccanismo di coordinamento e istituzione di coordinamento come è l’impresa o come sono le amministrazioni pubbliche. Queste sono costruite utilizzando in modo variabile nel tempo tutti tre i meccanismi. Le grandi corporation del dopoguerra, nell’organizzare la produzione, usavano molto più l’autorità che il mercato, che è invece diventato il meccanismo più utilizzato con il decentramento della produzione. Negli ultimi anni anche le imprese convenzionali stanno facendo ricorso crescente alla cooperazione per fidelizzare i consumatori e chiedendo ai propri lavoratori di condividere la mission dell’impresa. Le imprese cooperative a loro volta sono basate principalmente sul meccanismo cooperativo ma trattano acquisti e vendite secondo la logica del mercato e al loro interno definiscono chi ha il potere di assumere certe decisioni riconoscendogli la relativa autorità.

Ad identificare l’impresa sociale come una peculiare istituzione di coordinamento basata fondamentalmente sul meccanismo cooperativo sono le sue caratteristiche, in particolare l’obiettivo perseguito, il vincolo della indistribuibilità del patrimonio e la governance inclusiva che garantiscono non tanto il superamento dei fallimenti delle istituzioni alternative, ma la continuità della funzione distributiva e del perseguimento dell’interesse generale. Di qui derivano anche i suoi vantaggi, tra cui la maggior efficienza ottenuta dalla riduzione dei costi senza che ciò metta in forse la produzione. 

Sacconi: L’idea di Carlo Borzaga è che la cooperazione sia una forma alternativa di coordinamento economico rispetto allo Stato e al mercato. La tripartizione è suggestiva e coglie certamente un aspetto importante, un po’ come funziona l’idea di Ostrom sulla governance dei beni comuni attraverso forme autogovernate di cooperazione tra gli utenti, in alternativa alla proprietà privata o all’amministrazione statale. Tuttavia, mi pare che il concetto di “cooperazione” sia troppo pervasivo per stare in alternativa allo Stato e al mercato. La cooperazione può trovarsi sia nell’impresa (anche quella capitalistica), sia nelle relazioni contrattuali di mercato di un certo tipo (non quelle della competizione perfetta). D’altra parte, per la teoria politica, la cooperazione è ciò che caratterizza l’insorgenza dello Stato e l’uscita via “contratto sociale” dallo “stato di natura”. Si pensi ai giochi ripetuti che spiegano l’emergenza della cooperazione basata su effetti di reputazione e che si adattano perfettamente alla cooperazione tra professionista e cliente, tra università e studente, tra ospedale e paziente, o tra la stessa impresa e alcuni dei suoi stakeholder. Oppure alla selezione dell’equilibrio tra i molti possibili nello “stato di natura” utilizzando (come suggerito da Binmore) l’idea della contrattazione cooperativa all’interno del sottoinsieme degli equilibri che soddisfano una proprietà di imparzialità e impersonalità. Questa è una spiegazione fondamentale di come funziona il contratto sociale nella scelta di istituzioni (equilibri) che si possono mantenere e che hanno proprietà normative attraenti. Più in generale, il contratto sociale può essere visto come la soluzione un problema di contrattazione cooperativa con la quale scegliere un piano equo di azione congiunta per cooperare e sfuggire al conflitto. D’altra parte, Aoki già nel 1984 gettava le basi per la teoria del contratto sociale dell’impresa (ogni tipo di impresa) su cui ho lavorato anch’io per decenni, usando l’idea dell’impresa come “gioco di contrattazione cooperativo” tra capitale e lavoro, volto nel suo caso a cogliere la natura dell’impresa giapponese.

Limitatamente alle forme di governance di istituzioni e organizzazioni che producono e distribuiscono beni e servizi, l’alterativa rilevante potrebbe essere tra forme di governance autoritarie (la cui legittimità non dipende dal consenso di coloro che vi operano e che si avvalgono del bene), forme coordinamento decentrato attraverso transazioni di mercato (contratti) con potere simmetrico e molto debole per tutte le parti contrattuali, e la democrazia economica in cui l’esercizio legittimo dell’autorità è basato sull’autogoverno degli stakeholder a vario titolo partecipanti alla produzione e distribuzione del bene o servizio.

La tesi di Carlo è rilevante per il fatto che modelli istituzionali e di governance co-evolvano con modelli di motivazione, e che quindi le forme democratiche co-evolvano con i comportamenti cooperativi e le preferenze non puramente egoistiche. Mentre invece l’auto interesse è mantenuto e sviluppato dalla competizione di mercato, ma anche all’interno di relazioni meramente gerarchiche in cui l’accettazione dell’autorità, a parte un principio di legittimazione esterna (l’obbedienza in generale alla legge), grazie a incentivi materiali e sanzioni. Inoltre, la scelta tra modelli di governance riflette chiaramente scelte di valore; ad esempio, un’etica dell’indipendenza individuale e dei diritti negativi può spingere a preferire lo schema ideale delle transazioni di mercato, mentre la giustificazione della disuguaglianza in base alla credenza in gerarchie naturali di classe, genere e razza può privilegiare l’autoritarismo. L’etica dell’uguale considerazione e rispetto per ogni persona intesa come libera ed uguale, che trova le sue formulazioni nell’illuminismo liberale di Kant e si riflette nel personalismo cattolico e nel socialismo democratico, porta a preferire le forme democratiche.

Trova qui naturale collocazione fare cenno a un ulteriore sviluppo della ricerca, cioè cercare il fondamento normativo dell’impresa sociale nell’approccio delle capabalities di Sen e la sua relazione con i beni comuni. Questo in effetti porterebbe a vedere che le finalità normative dell’impresa sociale hanno effettivamente un legame essenziale con forme giuridiche che contraddicono lo scambio di mercato, ma anche l’organizzazione gerarchica e burocratica sia dell’impresa capitalistica, sia dell’amministrazione pubblica, se intesa come gerarchia di uffici (ma non quando l’amministrazione pubblica sia organizzata da enti locali autonomi, democraticamente eletti e funzionanti secondo i criteri della democrazia deliberativa, e della partecipazione dai cittadini). Le capabilities sono libertà effettive, che permettono di raggiungere buoni livelli di funzionamento in vari campi di essere e di fare delle persone e quindi ottenere i rispettivi stati di benessere, ma che al contempo hanno valore in sé, nel senso che l’ampiezza dello spazio di scelta tra le capabilities da attivare dà valore aggiuntivo in termini di agency a ciascuna capacità. Una capability, che ci mette in condizione di realizzare un funzionamento, ha sempre due componenti: quella di abilità di fare o essere qualcosa o qualcuno, e quella di entitlement, cioè una “relazione legale” che dà effettività alla libertà positiva. Contrariamente al troppo immediato ricorso al concetto di dritti, penso che il significato di entitlement sia “libertà” in senso legale, cioè libertà come possibilità di accesso, quindi assenza del dovere di fare o di non fare qualcosa, o negazione della pretesa di esclusione (la libertà è la negazione del dovere imposto da una pretesa di esclusione che altri si astengano da dati beni, come è tipicamente la pretesa del diritto di proprietà, pretesa della quale quindi la libertà è una limitazione). Pensando alla cooperativa sociale di inserimento lavorativo è l’abilità di svolgere un mestiere, ma anche l’entitlement di avere accesso all’impresa, esserne parte e non poterne venir escluso arbitrariamente.

Dovrebbe vedersi la relazione con i beni comuni: essi sono rivali e non escludibili nel consumo, ove la non escludibilità è la caratteristica più importante. Ma le capabilities hanno bisogno della libertà di accedere alle caratteristiche beni per poterli trasformare in funzionamenti. Quindi non è possibile avere una capacità senza almeno un bene comune. Mentre non è obbligatorio proteggere una capability con un diritto esclusivo, cioè col dovere degli altri di astenersi dall’usare certe caratteristiche del bene per il loro funzionamento, deve almeno esserci un bene comune accessibile le cui caratteristiche possano essere usate per trasformarle attraverso una capacità in qualche funzionamento. D’altra parte, l’avere effettivamente capacità implica che vi siano molteplici funzioni di trasformazione a disposizione della scelta, e quindi molteplici caratteristiche o beni rispetto ai quali l’agente non possa essere escluso. In sostanza, un mondo in cui tutti i beni fossero di proprietà privata di qualcuno (a meno che tutti i beni siano perfettamente divisibili e distribuiti in maniera perfettamente uguale), sarebbe un modo povero di capabilities, mentre un mondo di estese capabilities personali richiede che molti beni siano comuni, nel senso di essere accessibili per la realizzazione dei funzionamenti di ciascuno.

L’idea è dunque che il patto costituivo dell’impresa sociale sia in ultima analisi “creare capabilities” per i suoi stakeholder. Cioè – facendo il verso a un famoso libro di Sraffa – produzione di capabilities per mezzo di capabilities. Infatti, l’output dell’impresa sociale è la creazione di capabilities nel campo del welfare a vantaggio dei beneficiari: la capacità di stare in salute, aver un’istruzione sufficiente all’esercizio di una professione o un mestiere, ottenere un reddito adeguato, la capacità di sfuggire alla marginalità, di essere inclusi linguisticamente e socialmente, di godere del patrimonio culturale, naturale e ambientale, di sfuggire alla solitudine e avere relazioni umane ricche ecc. Queste capabilities sono in effetti i “servizi” di welfare prodotti dall’impresa sociale. Ma gli input stessi dell’impresa sociale sono creazione di capabilities. L’impresa come forma di combinazione di input e risorse umane è creazione di capabilities che servono a realizzare funzionamenti nella sfera del lavoro, prima di tutto l’autonomia e l’autodeterminazione democratica del socio lavoratore nelle decisioni, il poter accedere all’impresa e non poterne essere escluso arbitrariamente. La shared governance come capacità di accedere ai processi decisionali, che rendono il governo di impresa limitatamente escludibile e quindi un bene comune.

Ora, è ovvio che non si può dire che solo l’impresa sociale possa creare capabilities, ma si può certamente dire che la richiesta normativa tipica delle capabilities di avere libertà effettive e quindi ridurre la sfera della proprietà privata e del suo potere di esclusione rende le imprese sociali e le altre forme democratiche più appropriate a creare capabilities. Per riprendere la distinzione tra mercato, stato e cooperazione, io mi sentirei di dire che mentre lo Stato gerarchicamente organizzato e il mercato (reale) basato su scambi di diritti di proprietà possono ostacolare la creazione di capabilities, forme di organizzazione basate sull’autogoverno democratico sia nella sfera privata mediante le imprese cooperative, o forme di democrazia economica, sia in quella pubblica mediante l’amministrazione locale democratica e partecipata creano capabilities proprio perché limitano i poteri di esclusione.

 

Impresa Sociale. Veniamo ora al centro della discussione: disciplina degli utili, mission statutaria, forme di governance, vocazione produttiva, e così via: proviamo a mappare in modo sistematico lo spazio concettuale dell'impresa sociale e i suoi tratti distintivi con altre forme organizzative? È possibile, in altre parole, compiere un'azione classificatoria per certi versi simile a quella della biologia, in cui le forme viventi sono classificate secondo specie, genere, famiglia, e così via (e sono considerate in permanente evoluzione)? Ciò è di particolare interesse laddove si considerino forme in qualche modo spesso accomunate all'impresa sociale e in particolare modo le imprese for profit più inclini a considerare gli aspetti sociali o dove si considerino, per usare un termine oggi molto in voga, organizzazioni "ibride", che si suppone cioè siano frutto di una contaminazione tra impresa sociale e impresa for profit.

Borzaga: I tratti distintivi dell’impresa sociale mi sembrano ormai assai ben definiti sia nella letteratura scientifica (a partire dai lavori di Emes), sia nelle legislazioni che la regolamentano e alcuni di essi ne determinano la distintività rispetto alle altre forme di impresa: produzione in modo continuativo e professionale di beni e servizi, ma in settori di impiego o con esiti limitati a quelli di interesse generale, limitata distribuzione di utili correnti e totale indisponibilità del patrimonio (inteso come valore commerciale dell’impresa), governance multi-stakeholder o, come preferisco chiamarla, inclusiva. Adesso la sfida vera per non cambiare natura è tradurli in pratica, soprattutto con riguardo alla governance. Nei fatti già abbiamo una sorta di classificazione non basata sulle forme giuridiche, ma sull’obiettivo dove la “specie impresa” (intesa come soggetto che attiva e gestisce un processo produttivo) si articola in imprese per il profitto, società benefit o low profit company, imprese mutualistiche e imprese sociali, a loro volta articolabili in famiglie. Nel caso dell’impresa sociale abbiamo fin dall’inizio due famiglie: quelle che producono servizi e quelle che si occupano di inserimento lavorativo, cui si stanno aggiungendo le imprese sociali di servizio alla comunità.

Sono invece decisamente contrario all’estensione del concetto di impresa sociale alle imprese for profit che assumono un qualche impegno di carattere ambientale o sociale (incluse la società benefit) e alla tesi della contaminazione tra profit e non profit. Nel primo caso perché nell’impresa sociale il capitale ha una funzione strumentale e i suoi proprietari di fatto rinunciano alla quota di valore prodotto che comunque spetterebbe loro, anche se l’impresa non massimizzasse gli utili. Nel secondo caso perché è un concetto privo di significato (è una delle solite frasi evocative, ma senza utilità concreta): cosa vuol dire contaminare il profit con il non profit? Vuol dire spingere le imprese a farsi maggior carico degli stakeholder diversi dai proprietari, inclusa la comunità in cui operano? Ma per questo basta fare riferimento a quanto indicato dalla corporate social responsability senza tirare in mezzo il non profit e l’impresa sociale. Senza dimenticare che mentre le imprese sociali non possono cambiare veste (la legge italiana, per esempio, impedisce alle cooperative sociali di trasformarsi anche in un altro tipo di cooperativa), mentre la scelta di adottare criteri di CSR è volontaria (anche secondo la recente normativa europea) e basta un cambio di azionisti per abbandonare ogni riferimento alla responsabilità sociale. Il recente caso della Danone ne è esempio: l’entrata nella base azionaria di un fondo speculativo statunitense ha comportato un cambio radicale di rotta con il licenziamento dell’amministratore delegato che tanto si era speso nel sostegno alle iniziative di Yunus.

Sono contrario anche all’uso del concetto e del termine di ibrido che non aiuta in nessun modo a capire l’evoluzione delle forme di impresa ed è solo un modo per salvare capra e cavoli. Anche perché chi lo usa fa riferimento ad un qualche tipo puro che raramente viene specificato: ibrido rispetto a cosa? Al modello teorico di impresa? A modello cooperativo tradizionale? C’è chi ha chiamato ibridi le imprese sociali che adottano forme giuridiche diverse dalla cooperativa, ma sono previste dalla legge. È comunque un termine che ha un ritorno negativo. A chi piacerebbe sentirsi definire ibrido?

Sacconi: In altri contesti Carlo Borzaga si è riferito alla situazione attuale come una Babele di linguaggi. Questa Babele per me ha anche fare con la crisi di egemonia culturale del modello di impresa neoliberale basato sull’idea del primato dello shareholder value, cui viene ridotto il proponimento dell’impresa capitalistica. Questa idea è il nucleo di un programma ormai in stagnazione, contro il quale si evidenziano molteplici anomalie, che in realtà potrebbero essere anche considerate espressioni di un paradigma alternativo, quello dell’impresa socialmente responsabile, sebbene tale idea abbia molte specificazione diverse (tra queste le B corp, le imprese che formano un proponimento diverso dal profitto, dichiarazioni di missione basate sulla soddisfazione di diversi stakeholder, e in generale il movimento per la CSR che da oltre vent’anni coinvolge gli stakeholder delle corporation, fino alle recenti iniziative di consultazione europea sui temi della sustainable corporate governance). Queste “anomalie” rispetto alla dottrina dello shareholder value, per così dire, si aggiungono al movimento dell’impresa sociale che da circa trenta anni costituisce una visione alternativa all’impresa capitalistica, sia pure limitatamente al settore dei servizi di welfare.

La cosa più sciocca sarebbe ora vedere questo moltiplicarsi di esprimenti di imprese che scoprono l’importanza della dimensione sociale della loro attività come una crisi dell’impresa sociale non capitalistica. È vero il contrario naturalmente. Ciò cui assistiamo è che queste imprese, quando non si tratti – il che purtroppo è frequente – di mero “CSR whasing” o “green whasing”, in realtà si aggiungono all’impresa sociale nel rappresentare un’alternativa al modello di shareholder primacy, e possono esser viste come manifestazioni particolari di un più generale modello di impresa socialmente responsabile, di cui anche l’impresa sociale è una realizzazione speciale, adatta al proprio ambito di intervento, cioè la produzione e distribuzione di beni di welfare e beni comuni.

Se dunque di crisi si può parlare, è crisi di crescita, per il successo di idee che in precedenza erano solo tipiche dell’impresa sociale come quella di governance multi-stakeholder, ormai almeno in linea di principio accettata per rendere effettiva la responsabilità sociale di impresa, anche se in pratica in ben pochi casi essa viene attuata (in Italia). Così l’impresa sociale trova ora molti compagni di strada, ma occorre capire bene che tali compagni, se si tratta di cose serie, non sono in competizione nel medesimo ambito, ma in cammino in ambiti paralleli.

Altra cosa è la teoria degli “ibridi” (“altra perché io non vedo alcuna ibridazione tra impresa for profit e organizzazione non profit, bensì diverse specialità profit o non profit, settorialmente e istituzionalmente distinte di un unico modello di impresa socialmente responsabile, alternativa all’ideologia neoliberale dell’impresa basata sul primato del valore patrimoniale e per gli shareholder). Sotto l’insegna degli ibridi sono classificate forme di “impresa sociale” intese come attività for profit di organizzazioni non profit che vengono confuse con imprese profit che valorizzano le loro attività di charity o di beneficienza, superficialmente identificate con la CSR. Così il modello non profit e quello profit sono combinati in un ibrido detto imprenditorialità sociale, la quale svolge tipicamente due attività con due finalità separate benché caratterizzate da un certo trade–off. Queste imprese non sono riconducibili al modello EMES. Al contrario l’esemplare tipico sarebbe una (giuridicamente oscura) combinazione lineare tra un’impresa di capitali condotta in funzione del valore per gli azionisti e una fondazione con lo scopo di finanziare programmi sociali o di natura ambientale.

Più specificamente, dal punto di vista teorico l’imprenditoria sociale è vista come la combinazione lineare due funzioni obbiettivo (profit e non profit). L’idea è che il fondatore (che ha evidentemente a cuore una missione sociale o ambientale) sia un principale di una struttura gerarchica (nessun riferimento alla governance democratica) che cerca un agente-manager il quale agisca efficientemente rispetto ai suoi scopi. Tuttavia, il principale sa che esistono manager con motivazioni miste, volte alla ricerca del profitto (con peso p), e alla ricerca della produzione di esternalità positive e programmi sociali (con peso 1 – p). Scegliere uno di tali manager può garantire un valido meccanismo incentivante, poiché egli può essere remunerato in ogni caso: se si realizza il caso positivo in cui il programma sociale o ambientale ha successo, egli può ottenere utilità intrinseca dal beneficio sociale e quindi operare fattivamente per questo scopo; tuttavia, qualora si realizzi il caso peggiore, il cui lo scopo sociale o ambientale non può essere ottenuto, egli può essere nondimeno incentivato da una quota degli utili che vengono comunque realizzati (da che si deduce che il profitto è sempre perseguito in entrambi i casi). In tal modo egli può correre il rischio di investire sforzo per ottenere l’obbiettivo sociale se il caso positivo avviene, contando sul fatto che se fallisce è assicurato dall’assunto che può in ogni caso partecipare al profitto. In conclusione, il fondatore accetterebbe un compromesso con la logica del profitto per incentivare il manager il cui sistema misto di preferenze è preso per dato.

A parte ovviamente che la probabilità del verificarsi del caso migliore potrebbe essere correlata negativamente con la ricerca del profitto che opera come assicurazione contro il caso peggiore (inquinamento o diseguaglianza potrebbero essere causate per perseguire il profitto, cosicché le risorse destinate all’obbiettivo non profit non sarebbero mai sufficienti per avere successo), la teoria degli ibridi trascura il tratto distintivo dell’impresa sociale. Infatti, per questa teoria, le motivazioni intrinseche del manager sono un dato preesistente e non co-evolvono con la forma istituzionale. Data una mescolanza tra egoismo e motivazione sociale del manager, l’impresa ibrida è un meccanismo incentivante efficace, perché capace di “assicurare” contro il fallimento dello scopo sociale, con la possibilità di remunerare il manager col profitto. Al contrario, nel modello di preferenze di conformità, l’impresa sociale col suo accordo costitutivo attiva credenze e preferenze di conformità, mentre la probabilità di deviazione dall’accordo deprime tali preferenze (la strategia mista del manager che persegue i due obbiettivi avrebbe effetti di crowding out sulle motivazioni intrinseche). In compenso vi può essere utilità intrinseca nel punire una deviazione, ad esempio con un boicottaggio, il che elimina equilibri in cui il manager può agire opportunisticamente contro gli stakeholder. Mentre nell’impresa ibrida tipicamente il manager persegue una strategia mista che calibra la probabilità di ottenere uno scopo sociale con quella di ottenere profitto, nel modello di preferenze di conformità tale strategia mista non sarebbe parte di un equilibrio poiché l’utilità psicologica sarebbe maggiore per la scelta di non cooperare con il manager.

Peraltro, gli “ibridi” non catturano neppure la sostanza della CSR, che ci indica un fenomeno abbastanza lontano rispetto alla filantropia. Io intendo la CSR come una dei protagonisti del campo di battaglia tra concezioni alternative della corporate governance apertosi fin dagli anni Trenta del Novecento. Solo dagli anni Ottanta è apparsa dominante la dottrina di max shareholder value, ma sono sempre esistite altre forme di capitalismo con tratti più compatibili con gli assunti della stessa impresa sociale (si pensi alla democrazia industriale nei paesi di lingua tedesca e scandinavi).

Di fronte al rischio di Babele linguistica, si tratta di decidere quale sia la strategia di ricerca più fruttuosa: se quella dell’immunizzazione, oppure quella della classificazione dell’impresa sociale come specie di un genere comune a tutte le imprese “socialmente responsabili”. Due generi separati, oppure un genere normativo comune e varie specificazioni? Personalmente credo che non sia mai bene avere una teoria che vale per solo per un caso specifico, ma non può spiegare altre specie che si presentano in uno stesso campo di interesse (cioè spiegare ciò che hanno in comune e ciò che le differenzia). La mia tesi è dunque che ci sia un unico genere normativo che contiene tutte le forme di impresa socialmente responsabili, e varie specie distinte in base alla forma proprietaria e di governance, e alla tipologia dei beni offerti. Di tale genere non fa però parte la dottrina dello “shareholder value”, che non prende alcuna responsabilità verso stakeholder altri dall’investitore di capitale finanziario e che piuttosto serve a identificare l’impresa “socialmente irresponsabile”.

Per capire cosa intendo con “genere” occorre considerare la concezione secondo cui la responsabilità sociale è una regola costitutiva dell’impresa. La corporation è una persona artificiale che può perseguire scopi di coordinamento e cooperazione impossibili ai singoli membri, non limitati al profitto e addirittura alternativi al profitto. La natura dell’impresa è di essere un bilanciamento tra molteplici stakeholder in vista della possibilità di perseguire un qualche interesse o scopo. Tale bilanciamento è costitutivo, non strumentale ad altri scopi (ad esempio lo sharehodler value) perché la fissazione del proponimento o lo scopo sociale dell’impresa conseguono da questo bilanciamento. Questo punto è stato colto da varie teorie dell’impresa come l’approccio degli stakeholder (Freeman), la gerarchia di mediazione (Blair e Stout), l’Impresa come gioco di contrattazione cooperativa tra risorse cognitive coessenziali (Aoki).

In questo contesto descrittivo, l’impresa socialmente responsabile è quel genus normativo in cui chi governa ha doveri fiduciari verso tutti gli stakeholder essenziali dell’impresa oltre che i proprietari, ove gli stakeholder essenziali sono le categorie di soggetti che fanno investimenti specifici nell’impresa da cui dipende la creazione di un surplus di valore, oppure che subiscono effetti esterni positivi o negativi. All’estensione dei doveri fiduciari a tutti gli stakeholder essenziali, inoltre, si accompagnano diritti di partecipazione, di informazione e consultazione, per verificare l’osservanza dei doveri fiduciari.

Questo modello normativo è giustificato dall’idea di contratto sociale dell'impresa, cioè l’accordo tra molteplici stakeholder di uscire dallo stato di natura, in cui le loro relazioni sono guastate dall’opportunismo e dall’incompletezza contrattuale, via pactum unionis che dà vita alla persona artificiale dell’impresa mediante un accordo di contrattazione. In seguito, via pactum subjectionis viene delegato uno o più stakeholder al governo dell’impresa, sulla base di un calcolo dei costi di governance, ma resta sempre l’obbligo di fedeltà ai termini del pactum unionis: la validità della delega di autorità resta finché lo stakeholder delegato a governare adempie alla clausola fiduciaria estesa. Con il pactum subjectionis vengono prese in esame diverse tipologie di governance e proprietà, ma gli obbligai speciali così creati devono sempre rispettare la responsabilità verso tutti gli stakeholder per gli obbiettivi stabiliti nel primo contratto sociale.

Il pactum unionis della specifica impresa è visto come un contratto tra parti con poteri e diritti simmetrici; ma come è possibile? Il fatto è che questa teoria presuppone il contratto sociale a due livelli: quello costituzionale che stabilisce le libertà, i diritti e i doveri, le dotazioni di risorse e mezzi di produzione e di potere, nonché le responsabilità di cui ogni agente deve essere titolare prima di entrare, costituire o associarsi ad ogni coalizione produttiva, e in secondo luogo il contratto post-costituzionale con il quale particolari forme di impresa vengono costituite sulla base dell’accordo tra i loro stakeholder raggiunto esercitando le loro dotazioni diritti, poteri, e risorse, e mediante la scelta di una particolare struttura di governance. La soluzione del problema post–costituzionale è che ogni individuo ottiene il valore atteso dei suoi contributi a ogni coalizione (impresa associazione, cooperativa etc.). Risalendo indietro di un passo, tra le soluzioni post costituzionali si sceglie quella compatibile con l’accordo di contrattazione costituzionale, che è un accordo imparziale per la distribuzione di dotazioni di diritti e poteri che viene raggiunto prima che gli stakeholder abbiano contribuito e quindi è basato su uguali pretese di beni sociali primari o sulla base dei bisogni relativi.

In conclusione, il contratto sociale dell’impresa ammette diverse forme di proprietà e diversi tipi istituzionali, ma tutti coerenti col contratto costituzionale sulle dotazioni di risorse, poteri e diritti di partecipazione alla governance delle imprese. La responsabilità sociale nei confronti di tutti gli stakeholder essenziali nel perseguire il loro beneficio, mediante l’equo bilanciamento tra i loro interessi, è il tratto costituzionale essenziale dell’impresa, che viene diversamente realizzato nei vari tipi. L’impresa di capitali socialmente responsabile e l’impresa sociale sono due di questi tipi (specie) compatibili con la costituzione (genere).

Qui va fatta attenzione alla distinzione tra fatti e valori; l’impresa socialmente responsabile è un genus normativo d’impresa che realizza il bilanciamento equo tra i suoi stakeholder. Stiamo perciò parlando di una categoria normativa entro cui ricadono, in base alla valutazione, molte imprese ma non tutte (non quelle irresponsabili, come quelle che perseguono in modo assoluto lo shareholder value, non le cattive cooperative sociali che mettono il vantaggio degli operatori prima dell’interesse dei beneficiari). Le specie istituzionali sono sottoinsiemi del genus distinti in base a tipologie proprietarie e di governance basate su criteri di efficienza, ma che realizzano non di meno la responsabilità sociale. Così si può vedere la specificità istituzionale di ciascuna forma di impresa. Ciò che è generico nella responsabilità sociale dell’impresa commerciale è l’approccio multi-stakeholder alla funzione obbiettivo, alla governance e alla gestione strategica, basato sull’idea del contratto sociale equo tra gli stakeholder. Ciò che è specifico – presupponendo un modello di governo che protegge l’interesse dello shareholder controllante – è la declinazione dei doveri fiduciari estesi e delle forme d’informazione, consultazione, sorveglianza e partecipazione che permettono agli stakeholder non controllanti di verificare l’adempimento dei principi di equa cooperazione impliciti nel contratto sociale costituzionale.

Invece, cosa è generico e cosa specifico nella responsabilità sociale dell’impresa sociale? Nell’impresa sociale, la responsabilità sociale è costituita nondimeno da un bilanciamento equo tra vari stakeholder, ma vi è una differenza specifica legata alla natura dei beni offerti, cioè a caratteristiche che fanno sì che tali beni non possano normalmente esser offerti efficientemente attraverso scambi di mercato da imprese in cui uno stakeholder legittimamente si appropria dell’utile. Qui oltre che i beni caratterizzati da forte asimmetria informativa (credence goods) o incompletezza contrattuale, vanno citati i beni comuni, cioè quei beni il cui consumo è rivale ma che la società e la “moralità comune” intendono come non escludibili (come l’acqua, ove la non escludibilità discende dall’idea di cittadinanza, non dalla tecnologia), e inoltre i beni di welfare che non sono escludibili in quanto nel contratto sociale generale sono caratterizzabili come beni sociali primari (Rawls) (cioè i mezzi fondamentali per sviluppare qualsiasi piano di vita), o come base di funzionamenti fondamentali (Sen).

Questa lista introduce la seconda specificità istituzionale della responsabilità sociale dell’impresa sociale, che ha a che fare con il criterio di bilanciamento e la nozione di equità dovuta alla natura dei beni di welfare. Essi hanno rilevanza costituzionale in quanto primario oggetto del contratto sociale generale e richiedono quindi la soddisfazione di un criterio di priorità. Prima di tutto la produzione e distribuzione dei beni deve essere equa rispetto ai bisogni, e solo dopo può essere preso in considerazione l’equo bilanciamento tra gli stakeholder che contribuiscono alla produzione del bene e del servizio, garantendo loro benefici proporzionali al contributo dato.

Per questo la responsabilità sociale esclude ad esempio che le pretese di medici (o delle industrie farmaceutiche fornitrici) vengano prima delle pretese di salute dei cittadini, specialmente di quelli più fragili, e per questo si esclude che il contratto sociale dell’impresa sociale in sanità possa riflettere il maggior potere negoziale dei medici rispetto a quello dei malati, e piuttosto debba esser visto come deliberazione imparziale in cui ogni pretesa in base al contributo non può essere giustificata a detrimento (o con un trade-off) dei bisogni sanitari dei pazienti. Da questa idea di ordinamento tra pretese da bilanciare segue abbastanza naturalmente che un’impresa sociale sanitaria debba soggiacere al vincolo sulla distribuzione degli utili (sfruttando l’intuizione di Hansmann in una prospettiva di garanzia dell’equità piuttosto che della sola efficienza).

 

Impresa Sociale. Anche a partire dall'ottica prima discussa, è forse il caso di notare che oggi a livello europeo siano utilizzate spesso categorie come quelle dell'economia sociale o dell'economia sociale e solidale, che appaiono più ampie e inclusive rispetto all'impresa sociale. Quali differenze vi sono tra questi concetti? È comunque utile continuare a utilizzare il più delimitato concetto di impresa sociale? Perché?

Borzaga: Oltre che in letteratura, anche nel recente documento della Commissione Europea il termine economia sociale ha confini ben definiti anche dal punto di vista delle forme giuridiche: associazioni, mutue, cooperative e imprese sociali comunque costituite, cioè anche usando la forma dell’impresa di capitali, ma con i vincoli tipici dell’impresa sociale. Aggiungendo il concetto di solidale (cosa che fa l’ILO, ma non la Commissione) si vanno a ricomprendere anche le attività informali e di sopravvivenza diffuse nei paesi poveri. È un modo diverso, più “in positivo” rispetto a non profit e terzo settore, di indicare tutte le realtà più o meno orientate in senso produttivo (anche le organizzazioni di volontariato spesso producono servizi), che non hanno come obiettivo il profitto, ma il servizio ai soci o alla comunità o ai soggetti fragili. Ciò che invece ha creato confusione specie a livello internazionale è utilizzare l’aggettivo “sociale” per individuare solo attività rivolte alle fasce marginali, mentre quando esso viene associato a economia serve a individuare tutte le imprese, incluse le grandi cooperative agricole e le banche di credito cooperativo, che perseguono obiettivi diversi dal profitto. L’impresa sociale si colloca quindi a tutti gli effetti dentro l’economia sociale, senza per questo perdere la sua distintività. Perché il fatto che abbia quella che sopra ho definito come “funzione distributiva” la differenzia dalle altre forme dell’economia sociale che hanno invece natura mutualistica. E proprio per questo è importante continuare ad usarlo, perché in questo modo si chiarisce che è una impresa con obiettivi e funzioni diverse non solo dalle imprese a scopo di lucro, ma anche da tutte le altre imprese dell’economia sociale. È un membro autosufficiente della famiglia più ampia. Serve invece soprattutto evitare di usare un termine per l’altro, errore purtroppo ancora molto diffuso sia nel dibattito che nelle istituzioni.

Sacconi: Da ciò che è detto in precedenza, segue che sarebbe un errore rinunciare all’uso di un termine che denota una specifica forma istituzionale di impresa. Quei termini, come economia sociale o solidale hanno significati ambigui, ma questo non è un problema. Con essi si cerca di riferirsi all’insieme delle forme in cui si manifesta all’emergere di quello che per me è un unico paradigma o genere normativo, ovvero l’impresa socialmente responsabile avente molteplici specificazioni.

Si tratta ovviamente di un fenomeno ampio, di cui giustamente di cerca di identificare i tratti comuni. Ma, come ho affermato, le specie hanno la loro importanza poiché, anche muovendosi all’interno dell’insieme delle imprese socialmente responsabili, che condividono l’idea di equo bilanciamento tra stakeholder e di accordo multi-stakeholder costitutivo, sarebbe sbagliato chiedere all’impresa che procura beni di welfare, cioè beni sociali primari, funzionamenti fondamentali, o beni comuni, di soddisfare le richieste normative adatte a un’impresa che opera in un settore industriale come l’automotive e che ammette tra gli interessi legittimamente posti in bilanciamento l’equa remunerazione del capitale investito sotto forma di utile. Non c’è motivo che la legge affidi, sia pure entro il paradigma della responsabilità sociale, la produzione di beni e servizi che hanno significati e che richiedono criteri di bilanciamento particolarmente esigenti a persone giuridiche che non devono soddisfare tali criteri negli ambiti della loro normale attività.

Visto che parliamo del livello europeo, uno dei fatti più rilevanti recenti è la proposta da parte del Parlamento e della Commissione di una direttiva sulla due diligence in materia di diritti umani e di rispetto dell’ambiente che si è deciso rivolgere a tutte le imprese europee e non europee quotate in borsa e aventi certi requisiti dimensionali. Tale proposta di direttiva contiene anche alcune formulazioni dei doveri degli amministratori che vanno nel senso da me auspicato dell’estensione dei doveri fiduciari a tutti gli stakeholder essenziali dell’impresa, poiché richiedono di intendere tali doveri come rivolti non solo agli interessi degli shareholder ma alla sostenibilità sociale e ambientale nel lungo periodo, e quindi agli stakeholder ad essa interessati. Anche questo elemento può essere visto come parte del medesimo fenomeno da me descritto: l’emergenza del genere di impresa socialmente responsabile dal campo di battaglia su modelli alternativi di corporate governance. E infatti sono stati valutati vari mezzi per introdurre questo ampliamento, tra cui la mera persuasione da parte delle istituzioni europee, oppure un più significativo impiego della soft law, ma alla fine si è ritenuto di puntare su norme obbligatorie che lo richiedano a tutte le imprese di una certa dimensione.

Ipotizziamo adesso di avere un’ampia categoria di tali imprese, di cui sia accertata l’applicazione adeguata delle regole di due diligence e che abbiano introdotto la nuova definizione di doveri degli amministratori nei propri statuti. Dobbiamo dedurne che avremmo identificato una classe di imprese sociali? A un’impresa di capitali che non viola diritti umani, usa tecnologie non energivore e che impiega fonti di energia rinnovabili, e al contempo ha una definizione dei doveri degli amministratori che legittima la presa in considerazione – come aventi valore a sé – degli interessi di altri stakeholder oltre gi azionisti, dovrebbe esser delegato per ciò stesso di occuparsi di salute pubblica o istruzione universitaria? Dovrebbe essergli affidata l’amministrazione delle risorse naturali comuni? Si capisce bene che rientrerebbe nella definizione di “economia sociale di mercato”, ma al contempo non rientrerebbe nella specie di impresa sociale.

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