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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2021

Editoriale

PNRR: alcune linee di indirizzo e priorità

Iris Network, Forum Disuguaglianze e Diversità

Iris Network e il Forum Disuguaglianze e Diversità propongono con questo documento alcune linee di indirizzo e priorità per la nuova redazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nella parte dedicata alla coesione sociale.

Premessa

È sempre più chiaro che le ingenti risorse del New Generation EU (NGEU) saranno ben spese a patto di essere fin da subito orientate ad un disegno consapevole di cambiamento del Paese. La “resilienza” non è solo condizione iniziale per la ripartenza, ma è la capacità permanente del nostro corpo sociale di generare sviluppo mantenendo coesione sociale e mobilitando tutte le energie. Non si tratta quindi solo di attivare interventi puntuali, ma di:

  • avviare una politica inclusiva che riduca in modo significativo le diseguaglianze sia di reddito che nell’accesso a servizi e opportunità e attenta all’equità generale, così da rendere tutti i cittadini e le cittadine partecipi del nuovo corso, creando al tempo stesso nuove occasioni di sviluppo;
  • coinvolgere tutti i soggetti sociali ed economici in grado di interpretare e realizzare queste politiche in modo partecipato e democratico, legittimando, riconoscendo e responsabilizzando le organizzazioni della società civile, che proprio nel corso della pandemia hanno dimostrato tutto il loro potenziale.

A partire da queste convinzioni, si propongono alcune linee di indirizzo e priorità per la nuova redazione della parte del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dedicata alla coesione sociale.

Quali linee di indirizzo

Per un Paese che, come l’Italia, ha una spesa sociale in linea con la media europea, ma nettamente sbilanciata sui trasferimenti (oggi ancor più che negli anni pre-Covid), concretizzare l’indicazione della Commissione europea di impiegare parte delle risorse per aumentare la coesione sociale (che nel caso italiano include anche quella territoriale), pur con il vincolo che vengano impegnate solo per investimenti, è necessario optare soprattutto per il potenziamento deciso dei servizi di welfare in senso lato, in particolare sanitari, sociali, educativi e di inserimento lavorativo.

Perché ciò sia possibile nei tempi brevi imposti dalla Commissione europea è necessario:

  • evitare il pericolo di concepire in senso restrittivo gli investimenti in sole strutture materiali e adottare invece una concezione ampia come quella del modello del Social Investment State spesso richiamato e adottato dalla stessa Commissione che include, soprattutto nella fase di avvio, anche i costi immateriali e di personale, tenendo così conto del peso e della insostituibilità del lavoro nei servizi di welfare e della invece limitata necessità di strutture immobiliari e di strumentazioni materiali;
  • interpretare quindi i “costi del sociale” come investimento economico e relazionale, che valorizza i legami; riconoscere che “l’incorporamento” delle variabili economiche in strutture sociali è una delle chiavi per coniugare la produzione di nuove forme di inclusione sociale con la necessità di aumentare le possibilità di accesso al reddito per i soggetti più deboli;
  • prendere atto della particolare complessità del settore, sia dal lato della domanda che dei soggetti coinvolti nell’offerta e delle forme organizzative originali create negli ultimi decenni.

Riconoscere come centrale il tema della coesione sociale significa che la ripresa non potrà prescindere da un radicale cambio di paradigma che riconosca il valore della cura e, con essa, della riproduzione sociale, unendo l’attenzione alle persone a quella per l’ambiente, contribuendo ad affrontare le odierne disfunzionalità economiche e le disuguaglianze crescenti. La trasformazione del sistema di welfare è dunque la grande questione da affrontare nel Paese, potenziando finalmente il welfare delle relazioni e dei servizi, prevedendo il passaggio da forme di assistenza contenitive e istituzionalizzanti, spesso costose ed inefficaci, a modelli di welfare comunitari, generativi, strutturalmente intrecciati con sistemi di economie solidali finalizzati a tutelare e promuovere l’autonomia delle persone e il benessere economico e collettivo. 

Le ragioni a favore di questa trasformazione poggiano innanzitutto sul pilastro della giustizia sociale e, con essa, sul valore della creazione di capacità, intese come libertà positive per ogni persona di “funzionare bene”, e quindi in ultima istanza di star bene nelle diverse sfere di realizzazione e fioritura umana. La giustizia, in altri termini, richiede di garantire a tutti e a tutte la libertà di concretizzare i propri piani di vita senza dover contare solo sulle risorse individuali, un compito che non può attuarsi senza il welfare dei servizi. Ciò è tanto più vero oggi, in presenza di rischi diffusi e trasversali che si sono aggravati con lo scoppio della pandemia, acuendo il generale senso di insicurezza.

Sottolineiamo inoltre il contributo di questa trasformazione all’equità di genere. Mettere al centro lo sviluppo dei servizi significa porre la cura al centro dell’attenzione pubblica, rimediando al suo storico e sistematico occultamento nello spazio privato e familiare. In questa prospettiva, l’uguaglianza di opportunità nell’accesso e nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro con le stesse chance degli uomini, dipende in misura rilevante dalla disponibilità di sostegni alle attività di cura: non solo asili nido, ma scuole a tempo pieno, sostegni educativi e servizi agli anziani.

Per produrre benefici diffusi e duraturi

Potenziare i servizi di welfare produce poi una serie di evidenti benefici:

  • all’equilibrio demografico: l’assenza di servizi alla famiglia adeguati rende più costoso fare e crescere figli, incide negativamente sul tasso di natalità aggravando lo squilibrio demografico, destinato invece ad accentuarsi senza un consono potenziamento dei servizi di assistenza dal momento che il numero di persone non pienamente autosufficienti è destinato ad aumentare;
  • all’occupazione in particolare femminile: le occupate e gli occupati nel settore sono quasi un milione in meno di quelli possibili se avessimo lo stesso numero di occupate e occupati ogni cento abitanti della media europea, a sua volta ben inferiore a quella di Francia e Germania. Al contempo la mancanza di servizi come asili nido, scuola a tempo pieno e assistenza agli anziani riduce il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e limita l’accesso al lavoro dei giovani, in particolare per quelli specificatamente formati per queste professioni. Mai come oggi appare quindi urgente immaginare nuove forme di intervento e servizi che sappiano coniugare il lavoro sociale con la produzione di buoni lavori, con processi di rigenerazione di luoghi e territori, con un’attenta distribuzione dei compiti di cura che tenga conto anche degli equilibri di genere.
  • alla quantità e alla qualità del capitale umano: la scarsa diffusione di un’offerta scolastica a tempo pieno e la mancanza di servizi di sostegno all’apprendimento, soprattutto in termini di contrasto alla povertà educativa e alla costruzione di comunità educanti, impediscono a molti giovani di raggiungere il livello di conoscenze e capitale umano necessari al pieno inserimento nella società e nel mercato del lavoro
  • alla stessa produttività economica: anche se spesso non tenuta nella giusta considerazione, l’assenza di servizi di welfare adeguati – e in particolare la grave carenza di servizi per la non autosufficienza – rende meno produttivi i lavoratori in generale e soprattutto le lavoratrici che devono dividersi tra lavoro e impegno nelle attività di cura.

Indirizzi per un disegno coerente

L’assetto dei servizi di welfare deve, ovviamente, essere coerente con queste finalità. Su questo piano, non può sfuggire l’importanza della sfera pubblica e quindi dello Stato (benché i due termini non siano sovrapponibili) nel fissare obiettivi, livelli di servizio e standard universalistici, pur nel riconoscimento delle differenze e delle diversità fra soggetti, nonché nel definire le forme dell’intervento diretto per garantire questi obiettivi. Il tema del riconoscimento delle differenze, ad esempio, richiede un serio impegno nel contrasto alle discriminazioni implicite, di cui la femminilizzazione del lavoro di cura è un esempio.

Affermare questo ruolo pubblico non significa però sostenere che spetti solo alle amministrazioni pubbliche la definizione delle concrete modalità di identificazione dei bisogni e delle forme di organizzazione dell’offerta di beni e servizi di welfare che devono invece tenere conto della complessità oggettiva e peculiare sia della domanda che dell’offerta, anche in relazione ai diversi contesti territoriali (grandi città/piccole comunità).

Il settore dei servizi di welfare – sia in senso stretto come servizi sanitari e assistenziali, sia in senso allargato inclusivo dei servizi al lavoro, al sostegno scolastico, alle comunità marginali e in generale dei servizi che rendono il più possibile accessibili a tutte/i le/i cittadine/i beni comuni, come salute, ambiente, cultura, arte, partecipazione e opportunità di fruizione di beni e servizi qualificati – presenta infatti un tratto distintivo nella complessa articolazione dell’offerta che va dalla famiglia al volontariato e all’associazionismo, a unità di offerta pubbliche, a forme organizzative imprenditoriali private senza scopo di lucro, che si differenziano tra loro da diversi punti di vista: la capacità di incorporare diversi stakeholders, la capacità di leggere i bisogni e di organizzare le rispose, le motivazioni sottostanti all’azione, le logiche seguite nell’allocazione dei servizi, i costi, il grado di efficacia e di efficienza. Limitata invece è la presenza nel settore di imprese a scopo di lucro, con poche eccezioni concentrate negli ambiti più remunerativi grazie soprattutto alle modalità con cui alcuni servizi sono finanziati dalle amministrazioni responsabili.

La complessità dell’offerta corrisponde a una elevata e crescente articolazione dei bisogni, sempre più diversificati sulla base di numerosi fattori: dello stato di salute, della presenza di limitazioni di varia natura, dei livelli di reddito, della capacità di acquistare direttamente i servizi, della posizione nel mercato del lavoro (tipologia e qualità dei contratti), dei territori; una diversificazione che se da una parte non consente di affidare il settore alla sola logica del mercato, dall’altra ha reso progressivamente inefficaci e costose le risposte pubbliche standardizzate che erano state adottate nel dopoguerra e ha spinto verso il progressivo coinvolgimento – e la conseguente crescita – delle organizzazioni senza scopo di lucro (o di Terzo settore) in generale e delle imprese sociali in particolare.

La vastità dei bisogni che richiedono servizi di cura e la duplice complessità sia della domanda che dell’offerta consigliano quindi di organizzare il settore integrando sia nei processi decisionali che nella gestione tutti gli attori disponibili. Va in altri termini garantita la massima partecipazione di tutti secondo le loro caratteristiche e disponibilità, sia nelle decisioni relative ai servizi da offrire che nelle modalità di reperimento delle risorse. Ma avendo ben presenti le diversità tra gli attori coinvolti con riguardo agli obiettivi perseguiti e ai vincoli al comportamento. In concreto ciò significa passare da una organizzazione del settore dove le amministrazioni pubbliche decidono in base alle sole risorse (scarse) a loro disposizione che servizi attivare e per chi e poi, nella maggior parte dei casi, chiamano a gestirli operatori privati, spesso senza attenzione alla qualità delle proposte e dei proponenti, ma spesso con il solo obiettivo di minimizzare la spesa, ad una logica di co-programmazione e di co-progettazione che coinvolga – come esplicitamente previsto dall’art. 55 del Codice del Terzo settore – tutti gli attori che perseguono gli stessi obiettivi e operano nell’interesse generale, in modo da garantire la massima partecipazione di tutti i soggetti interessati e insieme individuare sia quali servizi offrire che le risorse necessarie e la loro provenienza. Per dar vita non a unità di offerta avulse, separate le une dalle altre e spesso anche dal contesto sociale, ma a vere e proprie “infrastrutture sociali”.

Costruire su una realtà già di grande rilievo e potenzialità

La costruzione di questo “modello di governance” partecipato e condiviso dei servizi di welfare può già contare su un diffuso e dinamico insieme di organizzazioni con esplicite finalità di interesse generale, accomunate sotto la definizione di Terzo settore e dettagliatamente regolamentate. Un settore composito per tipologie di organizzazioni, per funzioni esercitate e per diverso orientamento produttivo. Tra queste, quelle di maggior interesse per un progetto di ampliamento dell’offerta di servizi di welfare sono tuttavia le imprese sociali – di diritto e di fatto – intese non come generiche imprese che si autodichiarano socialmente responsabili, ma come istituzioni – ad oggi soprattutto cooperative sociali e soggetti di varia natura che gesticono servizi in forma di enti non commerciali – con caratteristiche chiaramente regolamentate dalla legge tra cui in particolare: esplicita finalità sociale o di interesse generale, assenza di scopo di lucro, governance che include nei processi decisionali i portatori di interesse più rilevanti – soprattutto lavoratori, volontari o utenti e solo marginalmente i portatori di capitale – chiari obblighi di rendicontazione economica e sociale. Oltre a rappresentare già il maggior produttore non pubblico di servizi sociali e un importante bacino di occupazione, le imprese e le cooperative sociali hanno dimostrato sia capacità di innovazione nel disegno dei servizi e nelle modalità di gestione, che una significativa capacità di crescita soprattutto dopo la crisi del 2008 e di resilienza nel corso della pandemia.

L’esperienza degli ultimi decenni dimostra che proprio nella prospettiva di un serio potenziamento dei servizi di welfare, le imprese sociali si presentano superiori a tutte le altre forme di impresa perché sono più coerenti con la finalità di questi servizi in quanto, se correttamente disegnate, non possono avere uno scopo diverso dall’interesse generale delle loro comunità, che in ultima analisi consiste nello sviluppo della capacità e del benessere dei loro stakeholder, in primis dei beneficiari. Esso si sono inoltre dimostrate più efficienti delle altre forme organizzative – pubbliche e private – perché mobilitano risorse umane con motivazioni intrinseche e sociali e hanno quindi meno bisogno di incentivi monetari oltre quelli di una remunerazione decente ed equa; la loro natura privata e la vicinanza ai bisogni – anche per la loro natura inclusiva – le rende più flessibili e meglio in grado di adattarsi tempestivamente al modificarsi dei bisogni stessi, soprattutto se confrontate con le unità di produzione pubbliche; purché la loro forma organizzativa sia partecipata e democratica e quindi in grado di far discendere dal mutuo accordo tra gli stakeholder lo scopo sociale stesso.

Le imprese sociali correttamente intese hanno quindi tutte le caratteristiche per contribuire non solo al rafforzamento dell’offerta di servizi, ma anche alla democratizzazione dei sistemi di welfare.

Quella dell’impresa sociale è tuttavia una forma imprenditoriale che, benché nata nell’ambito dei servizi di welfare e di inserimento lavorativo di persone con gravi difficoltà di accesso al lavoro, sta guadagnando terreno anche al di fuori dei confini di questi servizi – in particolare nella cultura, sport, attività ricreative ma anche formazione e ricerca – e si sta proponendo come forma organizzativa in grado di gestire – in modo democratico a variamente partecipato – servizi comunitari di vario tipo, incluse iniziative per il rilancio economico sia di comunità in declino (come le aree interne), che di quartieri urbani in situazione di degrado.

Essa è una forma di impresa troppo importante per limitarla all’ambito pur essenziale della sola lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Per chi condivide l’idea che uno degli obbiettivi del PNRR sia sviluppare la democrazia economica – sia per ragioni strumentali agli obbiettivi di benessere che perché l’autogoverno democratico è esso stesso un valore in sé – dovrebbe essere chiaro che vada sperimentato il ricorso all’impresa sociale nella gestione di tutti i servizi pubblici locali intesi come “beni comuni”: per la gestione delle infrastrutture fisiche e tecnologiche a supporto dello sviluppo economico locale, per far cooperare diversi soggetti dediti all’innovazione e al trasferimento di conoscenza alle piccole imprese, per sviluppare le forme della sanità territoriale, basata sulla collaborazione tra medici e altri operatori sanitari, nonché – ad ulteriore esempio – per garantire un futuro migliore alle organizzazioni di ricovero e cura per gli anziani, che le sottragga agli abusi del potere politico e agli interessi “di mercato”.

L’impresa sociale si viene quindi qualificando come un nuovo soggetto produttore con potenzialità molto interessanti in tutti gli ambiti dove è necessario o quantomeno efficiente combinare organizzazione imprenditoriale e perseguimento dell’interesse generale. Infine, oltre che alla democratizzazione del sistema di welfare l’impresa sociale contribuisce anche alla libertà che essa offre alle persone sia di realizzare le proprie motivazioni all’impegno sociale che di concretizzare le loro capacità imprenditoriali.

Molte delle condizioni favorevoli ad una decisa crescita delle imprese sociali – da una regolamentazione coerente con il modello alla conoscenza dello stesso – sono già acquisite. Vanno invece riviste le modalità di rapporto con le amministrazioni pubbliche e potenziate le politiche di sostegno. Nell’ottica di rafforzamento dei servizi di welfare – specie se l’orientamento è verso la creazione di infrastrutture sociali complesse - l’urgenza maggiore è quella della revisione radicale dei rapporti con le amministrazioni pubbliche che negli ultimi due decenni sono stati gestiti in modo autoritario, spesso con il solo fine di contenere i costi e di imporre modalità di prestazioni tipiche del modello burocratico tipico del pubblico. Gli strumenti per questa revisione radicale sono disponibili e sono rappresentati dall’articolo 55 del Codice del Terzo settore recentemente dichiarato dalla Corte Costituzionale coerente sia con la Costituzione che con il diritto eurounitario.

Otto proposte

Rafforzare il sistema di welfare sostenendo le imprese sociali è quindi possibile e necessario ma richiede alcuni interventi mirati. Quelli che a noi sembrano più urgenti sono i seguenti.

1. Applicare in modo generalizzato al disegno dei servizi di welfare le modalità previste dall’art. 55 del Codice del Terzo settore. Con il diffondersi e il consolidarsi di esperienze di co-programmazione e co-progettazione, sta emergendo una nuova frontiera dell’amministrazione condivisa: alleanze composite di enti pubblici, enti di Terzo settore ed altri soggetti della società civile che danno vita a funzioni “di territorio”, cioè che operano nell’ambito di progetti partecipati da un’ampia alleanza territoriale pubblico-privata; tali funzioni possono riguardare la progettazione di nuovi interventi, la ricerca di fondi presso bandi comunitari o soggetti filantropici, l’analisi e l’individuazione dei bisogni, la valutazione degli interventi, ecc. La portata rivoluzionaria di queste pratiche sta nel fatto che soggetti diversi individuano nel territorio una dimensione unificante dei propri sforzi, superando così interessi di parte e determinando un aumento, altrimenti impensabile, della competitività territoriale. Queste esperienze vanno sostenute e diffuse, ma proprio perché molto innovative rispetto alle prassi competitive consolidate richiedono – sino a che i meccanismi di reperimento di risorse aggiuntive non entrerà a regime – un certo investimento. Si propone pertanto di individuare, tra i casi di co-programmazione o co-progettazione già attivi e di maggiore qualità, 100 casi pilota equamente divisi sul territorio nazionale, ove supportare tali funzioni trasversali con un cofinanziamento in misura non superiore ai 300 mila euro in due anni.

2. Completare la riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale. Con l’entrata a regime, ormai prossima, del Registro Unico, il tempo per la completa attuazione della riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale s’è fatto breve e si stanno inesorabilmente evidenziando una serie di problematiche, principalmente di natura fiscale, che sino ad ora sono state mantenute sopite. La notifica all’Unione europea dei regimi previsti nel Codice del Terzo settore, come condizione per la loro applicazione, non è stata – dopo oltre tre anni – ancora inoltrata. Si tratta di una inerzia che non ha giustificazione e che, peraltro, potrebbe essere sanata all’origine: basterebbe sopprimere l’onere di notifica, visto che la stessa Commissione europea riconosce la legittimità di specifici regimi fiscali per imprese con finalità diverse dal profitto. Il punto è particolarmente rilevante per tutta l’area del Terzo settore di natura produttiva e imprenditoriale, che oggi appare diviso in più componenti ognuna con vantaggi e obblighi fiscali diversi. Una situazione che, tra l’altro, sta rallentando il passaggio alla forma di impresa sociale di quelle organizzazioni di Terzo settore che di fatto operano in tutto e per tutto come imprese. È chiaro quindi che per favorire la piena operatività delle imprese sociali è necessario intervenire con la massima urgenza, per ragioni di coerenza sistemica e di equità, ma anche per evitare che il vantaggio fiscale continui ad essere all’origine di scelte organizzative e operative che rischiano di risultare del tutto improprie, soprattutto dal punto di vista della corretta organizzazione dell’attività. Soltanto con un pieno allineamento del regime fiscale, riguardante le imposte sia dirette che indirette, l’universo dell’imprenditoria sociale potrà dispiegare appieno le sue potenzialità.

3. Rafforzare la patrimonializzazione delle imprese sociali, orientando verso investimenti in imprese ed attività a esplicita vocazione sociale una parte dei quasi 1.800 miliardi di euro oggi depositati sui conti correnti, in larga parte senza alcuna remunerazione. E facendo questo in modo diretto, cioè offrendo ai risparmiatori la possibilità di investire con basso rischio in imprese sociali del territorio, senza passare per forme di “finanza di impatto” che, anche quando non perseguono scopi speculativi, hanno comunque dei costi elevati e meccanismi di allocazione dei capitali complessi. Ciò consentirebbe di rafforzare la struttura patrimoniale delle imprese sociali, indebolita dalla pandemia, e di favorire la loro ripresa e sviluppo. La misura che proponiamo per ottenere un tale risultato consiste nella creazione di un fondo ad hoc che garantisca il raddoppio del capitale sociale raccolto presso privati dalle imprese sociali operanti nelle regioni centro-settentrionali e triplichi quello delle imprese sociali operanti nelle regioni meridionali. La quota statale andrà ad incrementare le riserve indivisibili, che costituiscono fisiologicamente un patrimonio intergenerazionale, che non potrà mai essere privatizzato e che rimarrà come una permanente leva per lo sviluppo delle iniziative future. Con una simile incentivo le imprese sociali sarebbero sicuramente in grado di raccogliere una quota dei risparmi privati disponibili nelle loro comunità di riferimento, riconoscendo ai sottoscrittori un decoroso rendimento. Una simile misura potrebbe poi generare ulteriori processi moltiplicativi in iniziative a corredo messe in campo sia dal movimento cooperativo, sia dal mondo della filantropia istituzionale.

4. Valorizzare il lavoro sociale, introducendo meccanismi automatici di adeguamento dei contratti con le amministrazioni pubbliche. La pandemia ha reso evidenti le distanze in termini di tutele e retribuzioni tra i lavoratori pubblici ed i lavoratori delle imprese sociali impegnati nell’erogazione dei servizi di welfare. Differenze che non trovano giustificazioni né nella formazione degli operatori né nelle attività svolte, in quanto frequentemente si tratta di mansioni simili, se non in molti casi identiche. Per ridurre queste diversità è necessario introdurre una norma che assicuri in tutto il territorio nazionale l’adeguamento dei contratti in essere tra attori pubblici e imprese sociali e l’aggiornamento automatico delle rette dei servizi accreditati in seguito al rinnovo del CNNL di settore. Oggi, in assenza di un adeguato quadro nazionale, solo una minoranza degli attori pubblici adegua celermente contratti e tariffe. Negli altri casi, maggioritari, la conseguenza è l’inesorabile penalizzazione dei lavoratori sociali a fronte delle difficoltà economiche delle organizzazioni impegnate nella produzione dei servizi di welfare di cui fanno parte.

5. Promuovere la digitalizzazione dei servizi e delle imprese sociali. L’esperienza della pandemia ha reso imprese sociali e organizzazioni di Terzo settore consapevoli dell’importanza delle tecnologie digitali nel contribuire sia al miglioramento dei servizi offerti che al contenimento dei costi. Le sperimentazioni portate avanti durante il lockdown della primavera del 2020 da diverse imprese sociali ha inoltre mostrato che esse hanno al loro interno (o sono in grado di attivare) risorse umane con una forte propensione all’utilizzo in senso innovativo di queste tecnologie. Emerge quindi con chiarezza che una sistematica adozione di tecnologie digitali da parte delle imprese sociali può dare un contributo significativo al rafforzamento di molti servizi di welfare e di interesse generale, all’introduzione di nuovi servizi e all’incremento della produttività di servizi finora considerati soggetti alla malattia dei costi. Poiché proprio l’aumento della produttività sarà uno degli obiettivi principali del PNRR, si propone che all’interno del più generale sostegno alla digitalizzazione in esso previsto sia istituita una linea di azione e di finanziamento specifica per le imprese sociali.

6. Promuovere la nascita e sostenere lo sviluppo di nuove imprese sociali. Ormai è chiaro che una delle conseguenze della pandemia sarà la riduzione significativa delle imprese attive soprattutto nei settori maggiormente colpiti dalle misure di contenimento del Covid-19 e nei territori economicamente più deboli. Per questa ragione sono necessarie politiche volte a promuovere la nascita di nuove imprese capaci di valorizzare le energie e le competenze presenti nelle comunità. Questa sfida, centrale per il Paese, ha bisogno anche del contributo delle imprese sociali che può essere attivato replicando oggi un programma nazionale di sostegno alla nascita ed allo sviluppo di nuova imprenditorialità sociale realizzato con successo nei primi anni Duemila: il progetto Fertilità. Un’esperienza riuscita di proliferazione – soprattutto nelle regioni meridionali – di forme di impresa sociale che già avevano dimostrato di funzionare in altre zone del Paese, realizzata combinando aiuti economici allo start-up con la tutorship di imprese sociali già consolidate e finanziata con i fondi strutturali. Una simile spinta alla diffusione di iniziative già collaudate e il loro accompagnamento, superando la vuota e fuorviante retorica della “innovazione” a tutti i costi, è quello che oggi serve all’Italia. Per questo proponiamo che nel PNRR sia previsto un fondo da hoc con questa finalità.

7. Predisporre un piano per il sostegno alla formazione sul lavoro dei lavoratori svantaggiati e applicare in modo esteso l’art. 112 del d.lgs 50/2016. La ricerca ha ormai dimostrato che le pratiche di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati realizzate dalle imprese sociali, oltre a produrre positivi risultati sociali, determinano un risparmio netto di denaro pubblico stimato in circa 4 mila euro all’anno per lavoratore. Partendo da questa evidenza le imprese sociali vanno considerate a tutti gli effetti attori di politiche attive di formazione sul lavoro più efficaci – almeno per le persone svantaggiate – della formazione in aula. Questa funzione comporta l’impiego di risorse umane – i tutor e i responsabili sociali – ad oggi non riconosciute. Si propone quindi che vengano previsti – sotto la voce formazione sul lavoro – contributi economici adeguati, sotto forma di importi mensilil, per ogni lavoratore svantaggiato assunto. Collegato a questo intervento è poi opportuno prevedere una norma nazionale che impegni tutte le amministrazioni pubbliche ad utilizzare l’articolo 112 del d.lgs. 50/2016 che consente agli attori pubblici di effettuare gare o concessioni riservate ad imprese il cui scopo principale è l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate. Questa misura, se applicata in modo diffuso, garantirebbe l’inserimento lavorativo delle fasce più deboli della popolazione senza ulteriori costi per le casse pubbliche; inoltre, se combinata con la precedente proposta innescherebbe un circolo virtuoso dalle grandi potenzialità. Purtroppo, questa misura è ancora utilizzata poco e solamente in alcune aree territoriali. Di qui la proposta di stabilire in modo chiaro e definitivo che le amministrazioni pubbliche e le società controllate dalle stesse non solo possano ma debbano applicare l’art. 112 per almeno un decimo del valore delle procedure totali di affidamento poste in essere annualmente.

8. Garantire la possibilità di svolgere il servizio civile a tutti i giovani che ne fanno domanda. In questi anni le imprese sociali, insieme agli altri enti di Terzo settore, hanno maturato una grande esperienza nell’accoglienza e organizzazione dei giovani in servizio civile. Come l’esperienza e alcune valutazioni dimostrano, imprese sociali ed enti di Terzo settore sono in grado di offrire a questi giovani sia un’esperienza significativa di impegno sociale, sia un’importante occasione di professionalizzazione e di acquisizione di nuove abilità e competenze, nonché – in non pochi casi – il passaggio ad un’attività lavorativa, all’interno o all’esterno delle stesse organizzazioni, al termine del servizio. Poiché i prossimi anni saranno certamente caratterizzati da un aumento delle difficoltà di accesso dei giovani al mercato del lavoro, con il rischio di una progressiva perdita di capitale umano a seguito dell’inattività forzata, si propone un deciso ampliamento delle risorse destinate al sostegno del servizio civile in modo da garantire che tutti coloro che faranno domanda possano partecipare all’esperienza. L’aumento delle risorse non è tuttavia sufficiente: è anche necessaria una decisa semplificazione delle procedure, rendendo automatica l’assegnazione dei giovani agli enti accreditati che hanno dimostrato, in modo certificato, di ben operare, senza costringerli a passare sempre attraverso farraginose procedure legate ad elaborazioni annuali di progetti solo in apparenza innovativi e selezioni progettuali attuate con criteri discutibili.

DOI: 10.7425/IS.2021.01.01

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