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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-1-2021-la-dimensione-sociale-nel-processo-europeo-di-integrazione-economica-la-commissione-delors-i-1985-1989

Numero 1 / 2021

Saggi

La ‘dimensione sociale’ nel processo europeo di integrazione economica. La Commissione Delors I (1985-1989)

Lorenzo Innocenti

Abstract

È ormai cosa nota e ampiamente dibattuta che l’avvento di Jacques Delors alla guida della Commissione europea, nel gennaio 1985, costituì una tappa fondamentale all’interno del lungo processo dell’integrazione europea. Sotto la sua presidenza, l’istituto trovò infatti nuova centralità politica, proprio nel momento in cui gli effetti più evidenti della globalizzazione dei mercati cominciavano a manifestarsi sul continente, conducendo la Comunità di fronte a un bivio: accettare le sfide poste dalla modernità o rassegnarsi a un ruolo secondario sul piano internazionale. Dei due mandati di Delors è più spesso ricordato il secondo, quello cioè attraverso cui la sua Commissione raggiunse il risultato epocale della firma del Trattato di Maastricht, nel 1992. Eppure, nel primo quinquennio di lavoro, vennero poste le basi per i successi futuri, in una fase storica fortemente problematica, i cui lineamenti non erano ancora così chiari come sarebbero apparsi circa un lustro più tardi, con la caduta del Muro di Berlino. Analizzando sia fonti primarie che secondarie, il presente scritto si propone di indagare un aspetto specifico dell’azione della Commissione Delors I, ossia l’esistenza di una forte “dimensione sociale” all’interno del suo disegno politico, economico e monetario; l’importanza, cioè, che per Delors assumevano concetti come solidarietà, benessere, qualità della vita, pur all’interno di un contesto sempre più volto alla competizione e alla liberalizzazione dei mercati. Più volte, nei suoi interventi, Delors parlò di «difesa del modello europeo», un modello che, sì, tutelava l’iniziativa privata e la libera concorrenza, ma che trovava nell’estensione dei diritti dei lavoratori, nella cura delle fasce più fragili di popolazione e nella difesa del bene pubblico un carattere distintivo, importante al pari. La difficile coesistenza tra concetti apparentemente opposti come profitto e solidarietà risulta un aspetto centrale dell’esperienza del Jacques Delors presidente e della stessa storia dell’integrazione europea, dal 1985 sino ai giorni nostri.

Keywords: integrazione europea, politica industriale, privatizzazioni, sviluppo sostenibile, ambiente

DOI: 10.7425/IS.2021.01.05

Introduzione

L’Unione europea, come si sa, è il risultato ultimo di un processo iniziato poco tempo dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale e che ha affrontato, nel suo lungo dipanarsi, varie fasi e momenti, anche estremamente complessi. Un percorso ancora lontano dalla conclusione, del resto, come ricordano all’osservatore d’oggi eventi epocali come la vittoria del Leave nel Regno Unito (2016) e l’approvazione del pacchetto di aiuti Next Generation EU (2020).

All’interno di un simile, composito processo sono molte le storie che si potrebbero mostrare ed altrettante le prospettive che parlano di un grande progetto politico, economico, monetario e culturale. A guardarla in retrospettiva, quasi un’utopia divenuta realtà[1].

Un punto di vista interessante, all’interno di questa macro-narrazione, sembra essere la forte dimensione sociale presente nella struttura portante del processo di integrazione. Per quanto l’accordo che dà forma all’Unione (il Trattato di Maastricht, 1992) abbia in effetti conosciuto la propria genesi in un momento storico estremamente particolare per il mondo, in generale, e l’Occidente, in particolare, sotto la spinta pressante della globalizzazione, la montante richiesta di liberalizzazione dell’economia e la cultura del “meno Stato più Mercato”, le attuali società europee sono comunque caratterizzate da sistemi assistenziali ancora molto forti e radicati e da una cultura appunto sociale dell’impresa decisamente superiore a quella americana (Bitumi, 2018) o anche asiatica (che pure presenta notevoli eccezioni, come il Giappone).

Nel presente scritto si cercherà dunque di approfondire tale peculiare carattere, con l’intento fondamentale di indagare cause ed effetti di una simile dicotomia. Come e perché conciliare aspetti apparentemente distanti come massimizzazione del profitto e solidarietà, riduzione delle inefficienze e tutela delle fasce più fragili, lavoro e benessere?

Per farlo, si osserverà un momento particolare e decisivo della storia europea: quello compreso fra il 1985 e il 1989; gli anni, cioè, che simbolicamente passarono tra l’avvento della globalizzazione e la caduta del Muro di Berlino; tra l’insediamento della Commissione Delors I e la pubblicazione del rapporto omonimo, che dettò di fatto tempi e modi per il compimento dell’Obiettivo 1992 fissato ambiziosamente ancora prima che l’unificazione tedesca spianasse in maniera definitiva la strada a una simile prospettiva di unione economica e monetaria. Un lasso di tempo, questo, in cui si confrontarono con urgenza due esigenze fondamentali: quella di far cogliere all’Europa il decisivo passaggio della globalizzazione e aumentarne la competitività interna ed esterna, da un lato, e quella di garantire alti livelli di occupazione (specie tra le fasce più fragili di popolazione) e di uguaglianza sociale, dall’altro.

Nelle pagine che seguono si affronteranno dunque i temi sopra esposti, con una prima parte più storica, in cui si ricostruiranno brevemente le tappe fondamentali della Commissione Delors I e il particolare contesto storico in cui si venne a inserire, a cui seguirà un’ampia disamina della «dimensione sociale» insita in tale, peculiare «idea di Europa».

Per documentarsi sono state utilizzate sia fonti secondarie che primarie. Nel primo caso attingendo soprattutto da volumi e saggi già editi e articoli di giornale del tempo; nel secondo, consultando documenti conservati presso l’Archivio Storico dell’Unione Europea di Firenze e l’archivio della Margaret Thatcher Foundation.

La Commissione Delors I. Contesto storico e tratti fondamentali

È cosa nota che l’origine del sistema economico e monetario oggi vigente in Europa possa essere individuata in due momenti fondamentali: l’insediamento della Commissione Delors I (1985), che diede nuovo impulso al processo di integrazione continentale; la caduta del Muro di Berlino (1989), che condusse in maniera rapida e imprevista (Varsori, 2013 - p. 28) all’unificazione tedesca. In particolare, dopo quest’ultimo avvenimento, il già fissato Obiettivo 1992 divenne un traguardo concreto nelle agende della Comunità e delle varie cancellerie europee, trasformandosi quindi in pratica con la ratifica del Trattato di Maastricht e la conseguente nascita dell’Unione Economica e Monetaria europea.

Ora, sembra importante comprendere le ragioni fondamentali del menzionato nuovo attivismo della Commissione Europea sotto la presidenza Delors. Perché proprio in quel momento storico si scelse di dare una così forte sferzata all'istituto? E perché si decise di concentrare la sua opera verso una progressiva liberalizzazione dell'economia europea? E ancora: che conseguenze comportò tale liberalizzazione? Fu accolta, come altrove, in maniera acritica o venne piuttosto mitigata da adattamenti peculiari?

Una prima risposta (relativa alle cause) va certo cercata negli enormi squilibri economico-finanziari che negli anni '70 giunsero a colpire i Paesi capitalisti e che condussero lentamente ma inesorabilmente all'abbandono del modello industriale fordista nonché ad una progressiva finanziarizzazione dell'economia (Parboni, 1985; Crozier et al., 1975). La svalutazione del dollaro e il trasmettersi del suo effetto inflattivo sulle valute dei suoi principali partner economici (i Paesi della CE, con in testa la Germania, ed il Giappone) fu in qualche modo il motore di questi squilibri, che condussero ai due “shock petroliferi” del '73 e '79 e a quella che la storiografia ricorda come “la guerra delle valute”. La reazione europea a tali criticità fu dapprima il così detto Serpente monetario (1973) e poi il Sistema monetario europeo (1979); due accordi questi volti a vincolare tra loro le monete dei Paesi della CE, il secondo dei quali accompagnerà per altro gli Stati aderenti sino al 31 dicembre 1998: all'adozione, cioè, proprio dell’UEM. Tali sconvolgimenti, del resto, agevolarono l'affermazione di nuove teorie economiche, una delle quali – quella così detta neoliberista riconducibile alla “Scuola di Chicago” di Milton Friedman – si sarebbe presto imposta come dottrina dominante proprio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, condizionando in maniera decisiva le scelte economiche dei Paesi capitalisti nei decenni Ottanta e Novanta. A tutto ciò sopra detto va aggiunta poi la fortissima accelerazione dello sviluppo tecnologico, all'interno di quella che è conosciuta come la Terza rivoluzione industriale. Questo complesso di fattori, unito, aprì le porte alla globalizzazione, con tutto ciò di buono e meno buono che avrebbe portato con sé. Significativo per dare una risposta a ciò che ci siamo domandati inizialmente e per comprendere poi anche quello che sarebbe avvenuto di lì a un decennio nella Comunità Europea, è quanto affermato nelle proprie memorie dallo stesso Delors:

«L’avanzata dei mercati e la deregolamentazione si faranno con o senza di noi. Il vento è là e soffia forte. Si tratta di sapere se il capitano della nave può resistere al vento e trovare una traiettoria che sia un buon compromesso fra, da una parte, l’evoluzione e lo sviluppo internazionale e delle idee, dall’altra, la difesa dei nostri interessi e del modello europeo» (Delors, 2004 - p. 203. La traduzione è dell’autore).

La crescita spasmodica dei mercati attraverso la deregolamentazione, lo sviluppo tecnologico, l'affermarsi di paradigmi economici nuovi imponevano delle scelte drastiche anche in Europa, se i Paesi della Comunità volevano reggere l'urto della globalizzazione, dunque, che lo si desiderasse oppure no. Occorreva adeguarsi ad un mutamento già avviato, in atto, che nessun attore internazionale poteva, da solo, pretendere di governare. Una prospettiva particolare e interessante su tale prospettiva e sulla stessa reazione di Delors da presidente della Commissione viene dalle carte personali dell’ex Primo ministro inglese, Margaret Thatcher, e in particolare da una missiva a lei inviata da David Eccles – in passato membro della Camera dei Lord e ministro in vari governi di Sua Maestà (MTFA, aprile 1989). Eccles sosteneva lui pure che «la dimensione degli eventi» fosse «improvvisamente, irreversibilmente» divenuta globale. Del resto, una simile evoluzione non era stata condotta in maniera cosciente o deliberata da qualcuno: la tecnologia aveva «inconsapevolmente» creato un unico mondo, perfettamente interdipendente e interconnesso, un mondo nel quale nessun Paese, per quanto ricco e influente, poteva «pensare di recuperare il potere posseduto prima della rivoluzione elettronica». Secondo Eccles, tuttavia, una nazione che in quel preciso momento si andava nutrendo di una simile illusione era la Francia, la quale appariva allora spinta dalla concreta «volontà di pareggiare la forza economica americana». Se, infatti, fino a che la minaccia di una invasione sovietica era stata concreta, la preoccupazione francese di una «sudditanza economica nei confronti degli USA» era rimasto di conseguenza «sullo sfondo», adesso che l’URSS risultava fatalmente indebolita, tale «xenofobia» riviveva invece, facendosi particolarmente sentita tra gli stessi sostenitori di Delors. La Francia, insomma, approfittando della debolezza tedesca (siamo prima del novembre ’89) stava cercando di porsi a capo di un’Europa forte, che avesse «una voce abbastanza robusta per competere con gli americani, da una parte, ed i russi, dall’altra».

Punto di vista interessante questo, che ci dà una declinazione in certa misura nuova e «nazionalistica» dell’operato dello stesso Delors, secondo Eccles dunque impegnato a ridare «grandeur» alla Francia attraverso uno sviluppo politico ed economico comune del continente europeo.

Quale che fossero le ragioni ultime che spingevano il presidente Delors, ai fini della presente ricostruzione va notato, tuttavia, che questi, pur riconoscendo il mutamento del contesto internazionale e concentrando appunto la propria opera politica nella direzione imposta dal fenomeno della globalizzazione economica, ormai pienamente in atto, pose molta attenzione sulla necessità di un compromesso tra lo sviluppo economico-produttivo del continente e il rispetto di quei principi di solidarietà su cui si basava il «modello europeo». Questo aspetto particolare ci aiuta a dare risposta, in parte, ai successivi quesiti che ci siamo posti. Socialista francese di formazione cattolica, ministro dell'Economia e delle Finanze nel primo governo Mitterrand, Delors non poteva certo sposare alcuni eccessi dogmatici del liberismo di allora. Nelle sue stesse parole:

«Occorre distinguere tra liberalismo politico e quello economico. Benché abbia a lungo militato nelle correnti sindacali e socialiste, ho sempre rispettato il liberalismo politico. La mia posizione sul liberalismo economico è differente: i suoi sostenitori ritengono che il Mercato sia il giudice supremo. Io non condivido tale dottrina, poiché ha provocato disastri economici […]. Io sostengo che l'economia di mercato non possa funzionare senza regole; quindi, è necessaria una combinazione tra il Mercato, che è il miglior selezionatore delle attività economiche, il dialogo tra i partners sociali e, infine, gli interventi dello Stato per far fronte alle distorsioni provocate dal Mercato: ciò rappresenta la socialdemocrazia, vale a dire un compromesso tra il Mercato e l'interventismo statale» (Anta, 2006 - p. 106).

Per il presidente della Commissione, dunque, “Europa sociale” ed “Europa industriale” dovevano convivere (Delors, 1985) in un equilibrio che già allora si presentava come difficile, ma allo stesso tempo necessario.

La 'dimensione sociale' alla vigilia dell’Unione Economica e Monetaria

La risposta europea a Terza rivoluzione industriale e globalizzazione fu dunque individuata, come è noto, nel progetto di unione economica e monetaria tra i Paesi della Comunità. Un disegno grandioso questo, che venne realizzato in uno spazio di tempo relativamente ristretto per quanto contenesse, nei propri lineamenti fondamentali, grandissima complessità. Una parte di tale complessità, come detto sopra, risiedeva nel conciliare due tratti apparentemente divergenti come massimizzazione della produttività e del profitto e, dall’altra parte, solidarietà sociale.

Riferimenti all’aspetto umano del lavoro e alla necessità di difesa delle fasce più fragili della popolazione europea abbondano nei discorsi e negli indirizzi del Jacques Delors presidente. Se ne trovano, ad esempio, negli indirizzi pronunciati ad un incontro preparatorio del COREPER (MTFA, novembre 1985), durante il quale Delors affermò l’importanza, contestualmente alla creazione di un mercato unico, di garantire «la salute dell’uomo, degli animali, delle piante» ai cui «più alti standard» non si sarebbe potuto in alcun modo derogare.

Ancora, eloquenti riferimenti compaiono nello stesso testo del citato Rapporto Delors del 1989 – sorta di manifesto dell’UEM e riassunto programmatico dei passi successivi da compiere, in vista del suo secondo mandato alla Commissione. Nel testo leggiamo infatti che, sì, la nascente unione monetaria avrebbe dovuto essere fondata su saldi «principi economici orientati al Mercato», ma che, d’altra parte, una «caratteristica comune del sistema economico europeo» – aldilà delle singole, pur diffuse, specificità territoriali – era proprio «la coesistenza tra una vasta libertà concessa ai mercati e all’iniziativa privata e il ruolo del Pubblico nel fornire determinati servizi socialmente utili» e di garantire i «beni pubblici». Coesistenza che, evidentemente, andava mantenuta e implementata, pur in un contesto economico generale sempre maggiormente rivolto alla competizione e al libero mercato.

Visione questa che emerge poi da certe note autobiografiche personali, conservate presso l’Archivio Storico dell’Unione Europea, di Firenze (HAEU, febbraio 1989). Di fronte all’inarrestabile espansione dei mercati, se «gli europei [avessero] proseguito individualmente nel proprio cammino, il ruolo del loro continente sulla scena internazionale [sarebbe inevitabilmente risultato] sminuito». Era quella dunque – come Delors si trovava del resto di frequente a ripetere, durante i suoi viaggi istituzionali – «una questione di sopravvivenza». D’altra parte, però, un mercato sempre più fondato su principi liberali doveva al contempo garantire «un clima di giustizia sociale» forte e ben regolamentato, anche nelle aree meno sviluppate del continente; una simile combinazione offriva a suo avviso «la più grande occasione all’individuo, come alla nuova Europa, di progredire».

La prospettiva sociale di Delors affiora poi facilmente anche dalle cronache dell’epoca. Nel 1985, ad esempio, si iniziò a discutere di una contrattazione a livello europeo per la riduzione dell’orario di lavoro, specie per quegli impieghi ritenuti usuranti. Leggiamo infatti (La Repubblica, 1985) che, a maggio di quell’anno, a Milano si riunirono, per discutere di questo, 35 organizzazioni di 20 paesi in rappresentanza di 43 milioni di iscritti. L'assise era dedicata, significativamente, alla “Solidarietà nell’azione per il lavoro e la pace”. All’incontro risultò presente lo stesso Delors, il quale si disse apertamente favorevole alla prospettiva, sottolineando ancora una volta come la rivoluzione tecnologica ed economica allora in atto offrisse, oltre a nuove sfide, opportunità senza precedenti in tema di qualità della vita e di inclusione sociale – soprattutto in relazione al tema preoccupante della disoccupazione giovanile. Leggiamo:

«Nelle fabbriche e negli uffici della vecchia Europa bisognerà cominciare a lavorare un po’ di meno per consentire ai giovani di trovare un’occupazione. La settimana di 35 ore resta un obiettivo strategico cui i sindacati devono puntare per ridare una prospettiva all' intero movimento operaio. Lungo questa via è stato già trovato un compagno di viaggio prestigioso come il presidente della commissione esecutiva Cee, Jacques Delors, il quale proprio ieri a Milano ha riconosciuto che le trasformazioni in corso nel modo di produrre beni e servizi rendono indispensabile la riduzione del tempo di lavoro. […] È necessario – ha aggiunto Delors – che le parti sociali si incontrino per trovare una risposta adeguata ai problemi posti dalle innovazioni tecnologiche e dalla riforma dei sistemi di produzione».

Conferme in questo senso le ricaviamo poi dal successivo viaggio di Delors in Italia, durante il quale il presidente della Commissione europea discusse con il Primo ministro italiano, De Mita, dell’importanza di «un Mercato unico con valore non solo mercantilistico, [ma] che serva a costruire l’Europa dei cittadini e non solo a favorire la circolazione dei beni e dei capitali» (La Repubblica, 1988). Ancora, poi, rileviamo una certa pionieristica attenzione per il tema ambientale, con il primato importante di far entrare appunto «per la prima volta la dimensione ambientalista nella legislazione Cee», attraverso delle limitazioni alla circolazione, sul territorio comunitario, delle auto maggiormente inquinanti (La Repubblica, 1989). Attenzione questa che, del resto, emergeva con chiarezza anche dal testo dell’Atto Unico Europeo – primo importante traguardo della Commissione Delors I. Al Titolo VII troviamo infatti la seguente dichiarazione:

«L'azione della Comunità in materia ambientale ha l'obiettivo: di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell'ambiente; di contribuire alla protezione della salute umana; di garantire un'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. […] L'azione della Comunità in materia ambientale è fondata sui principi dell'azione preventiva e della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga". Le esigenze connesse con la salvaguardia dell'ambiente costituiscono una componente delle altre politiche della Comunità» (Gazzetta ufficiale, 1987).

Atto Unico che pure conteneva abbondantemente riferimenti alle condizioni di lavoro e di salute dei cittadini della Comunità, oltre che al proposito di sviluppo del dialogo tra le parti sociali e a quello materiale delle aree maggiormente arretrate (Sottosezione III – Politica sociale).

È da un discorso pronunciato dallo stesso Delors presso il Trade Union Congress britannico, nel settembre del 1988, che ricaviamo tuttavia il maggior numero di elementi utili a discernere il ruolo che l’aspetto sociale della crescita economica assumeva negli intendimenti della Commissione durante il suo primo mandato. Tale documento, significativamente intitolato 1992: The Social Dimension (MTFA, 1988) si apriva con la constatazione di stare vivendo in quella precisa fase storica «una rivoluzione pacifica» a cui ognuno doveva a suo modo adattarsi.

Nel proprio discorso Delors si sarebbe concentrato su quattro temi principali, tra loro strettamente interrelati.

Primo: i potenziali benefici derivanti da un mercato comune. L'obiettivo, sotto questo punto di vista, era sì di «massimizzare i benefici e minimizzare i costi», ma non solo dal punto di vista economico. Delors teneva infatti a sottolineare quanto fosse necessario, al contempo, «preservare, promuovere e stimolare quell’eccezione sistema sociale» rappresentato dal «modello europeo».

Secondo: gli europei dovevano tornare «padroni del proprio destino», ancora una volta. Questo aspetto particolare si riallaccia certo a quanto già affermato riguardo alle convinzioni di Delors, il quale riteneva che, di fronte a una situazione di grande fermento internazionale e di inevitabile avvento della globalizzazione, l’Europa dovesse trovare la propria originale via, senza lasciarsi travolgere dagli eventi.

Terzo: «stretta cooperazione, solidarietà e competizione» erano – senza deroghe – le condizioni indispensabili per un comune successo europeo.

Quarto e non ultimo: «la dimensione sociale è un elemento vitale».

Caratteristica fondamentale del «modello europeo» erano in effetti, secondo Delors, «un evoluto equilibrio tra i benefici per la società e quelli per gli individui». Un simile modello si differenziava logicamente tra i diversi Stati europei e talvolta anche all’interno delle differenti regioni di un medesimo territorio nazionale, ma in tutto il continente si potevano «incontrare simili meccanismi di solidarietà sociale, di protezione dei più deboli e di contrattazione collettiva». Un simile sistema era certo figlio di tre decadi di espansione economica successive alla Seconda guerra mondiale; ma era fondamentale che sopravvivesse ancora, nel tempo a venire, nonostante le grandi minacce che si riuscivano a intravedere all’orizzonte. Le crisi economico-finanziarie degli anni Settanta e lo stesso avvento della globalizzazione avevano infatti comportato – e avrebbero seguitato a comportare, ancora – un aumento della vulnerabilità dell’Europa, la quale non poteva ormai più fare affidamento che sulle proprie stesse forze (il riferimento agli Stati Uniti qui sembra evidente). La globalizzazione dei mercati e le nuove tecnologie riguardavano, sempre secondo Delors, «la nostra percezione delle cose, la nostra cultura e il nostro modo di vivere». Di conseguenza, tutto ciò che concerneva l'organizzazione della società europea si sarebbe dovuto adeguare a tale evento epocale.

Un tratto comune, peculiare e significativo della reazione al contesto contingente, da parte dei vari Paesi europei, era stato tuttavia – secondo il presidente della Commissione – «il rifiuto di drastiche riduzioni dei salari e dei livelli di protezione sociale» sul continente. In Europa, nell’ultimo periodo, si era tentato di adattarsi al «nuovo mondo» attraverso un aumento della produttività, piuttosto che da un abbassamento delle garanzie dei lavoratori.

Ora, se a una simile politica era pure derivato qualche successo era vero anche che questo era giunto al caro prezzo di una «imponente disoccupazione». «La disoccupazione è la nostra maggiore sfida, oggi» proseguiva Delors. Disoccupazione, del resto, che coinvolgeva «in particolare i giovani e gli svantaggiati, le persone più fragili che stanno soffrendo» e che per questo appariva tanto pericolosa.

Data l’ampiezza della sfida, si rivelava dunque necessario – nella visione di Delors – dare una cornice più vasta all’azione cooperativa comunitaria; azione che doveva necessariamente «coinvolgere le varie parti sociali», tutte quelle fasce di popolazione, cioè, «coinvolte nella produzione di beni»: industriali e operai, proprietari e lavoratori. Il dialogo: una sorta di topos dell’azione politica di Delors. Un dialogo che, del resto, il presidente si era preoccupato di rilanciare «sin dal gennaio 1985», data del suo insediamento alla Commissione. La cornice più vasta a cui questi si riferiva era logicamente, poi, il Mercato Unico Europeo, «delineato in maniera solenne nell'approvazione dell'Atto Unico Europeo», nel 1987.

Avviandosi verso la conclusione del proprio ragionamento, Delors ribadiva a quel punto quanto un simile processo fosse ormai «irreversibile» e quanto i potenziali benefici che ne derivavano fossero «enormi», ma ammoniva al contempo sui rischi potenziali insiti nello stesso:

«La Comunità europea sarà caratterizzata dalla cooperazione tanto quanto dalla competizione, dall'iniziativa individuale così come dalla solidarietà. Se tutte queste caratteristiche non saranno presenti gli obiettivi [che ci siamo posti] non potranno essere raggiunti».

Un «vasto mercato di 320 milioni di cittadini» avrebbe aumentato la competizione e a beneficiarne sarebbero stato in primo luogo i consumatori, così come, più in generale, l'intera industria europea, messa finalmente nella condizione «di competere su una scala mondiale». Tutto questo avrebbe «creato nuove e maggiori opportunità di lavoro e contribuito a migliorare lo stile di vita delle persone».

Come riuscire in simili, ambiziosi progetti? Come fare in modo che la ricerca della massimizzazione del profitto non comportasse appunto, assieme, danni al tessuto sociale diffusi e irreversibili?

Delors indicava innanzitutto i circa 40 miliardi di sterline che, sino al 1992, sarebbero stati immessi nell’economia europea, indirizzati verso i seguenti, specifici obiettivi: «lo sviluppo delle regioni più arretrate nella comunità; la ristrutturazione delle regioni in declino industriale; la lotta contro la disoccupazione di lungo termine; l’offerta di lavoro per i giovani; lo sviluppo delle aree rurali». Simili politiche riguardavano tutti gli Stati membri e rappresentavano una sfida tanto rilevante quanto quella di competere con colossi industriali come Stati Uniti e Giappone. La cura degli ultimi, lo sviluppo delle aree arretrate, la crescita individuale delle persone più fragili: tutto ciò era compreso nello sguardo complessivo di Delors. Leggiamo:

«Sarebbe inaccettabile che pratiche scorrette distorcessero la corretta interrelazione delle forze economiche. Sarebbe inaccettabile che l'Europa diventasse fonte di una regressione sociale proprio nel momento in cui sta cercando di riscoprire la strada per la prosperità e l’occupazione».

Soprattutto, secondo Delors, le misure adottate per completare il Mercato unico non avrebbero dovuto diminuire il livello di protezione sociale già raggiunto nei diversi Stati membri, specie quelli più evoluti sotto tale profilo. Il mercato interno avrebbe dovuto essere disegnato infatti «per il beneficio di ogni singolo cittadino della comunità» e sarebbe dovuto servire per «migliorare le condizioni di vita e di lavoro» dei suoi cittadini e a «fornire migliore protezione per la loro salute e sicurezza sul luogo di lavoro».

Oltre al sostegno finanziario allo sviluppo, altre misure fondamentali individuate da Delors per ottenere tali alti livelli di protezione sociale erano soprattutto la contrattazione collettiva e un adeguato quadro normativo, creato ad hoc. Una categoria che ad esempio andava tutelata maggiormente era quella dei «lavoratori precari», cui in futuro avrebbero dovuto essere assicurate maggiori garanzie rispetto a quelle contingenti; mentre fra i nuovi diritti da estendere a tutti i lavoratori c’era, secondo il presidente della Commissione, quello alla così detta «life-long education», ossia la possibilità, per il singolo lavoratore, di continuare a formarsi lungo tutto il proprio cammino professionale. Questo chiaramente rappresentava un adeguamento ai nuovi tempi che si andavano affermando e che richiedevano una formazione sempre maggiore e anche una flessibilità notevole da parte dei singoli, vista la grande velocità a cui si muoveva il mercato del lavoro. Aspetto importante, questo, per comprendere appieno quanto si affermava prima, in riferimento alle grandi opportunità che la situazione globale metteva in campo, assieme ai rischi correlati.

Conclusioni

Se pure la svolta decisiva nel processo di integrazione economica e monetaria europeo venne impressa dalla caduta del Muro di Berlino e dai suoi successivi sviluppi, abbiamo visto come non si possa certo trascurare, per rilevanza, il periodo immediatamente precedente. I processi fondamentali della globalizzazione si manifestarono sul continente, infatti, in maniera piena ed evidente proprio a partire dalla metà degli anni Ottanta. L’aumentato grado di consapevolezza riguardo ad essi, che si andava allora mostrando in certa parte della classe dirigente europea, condusse poi alla netta sferzata che l’insediamento della Commissione Delors impresse al processo di integrazione continentale e che si tradusse in indirizzi sia politici, che economici, che sociali molto netti. Ma se i primi due, evidentemente, andavano di pari passo (era questa la base, del resto, della teoria funzionalista), non altrettanto scontata era la successiva interrelazione, quella cioè con la “dimensione sociale” che lo sviluppo europeo avrebbe dovuto assumere nel prossimo futuro. In un contesto storico di grande frenesia e incertezza, con una competizione internazionale crescente ed un settore pubblico sempre più sminuito e depauperato dall’ideale neoliberista di un mercato che andava lasciato libero di agire in maniera efficiente, l’idea di tutelare le fasce più deboli e meno produttive della popolazione risultava, sotto un profilo teorico, apparentemente inconciliabile. Eppure, si è visto quante volte e con quanta determinazione Delors intervenne sul tema durante il suo primo mandato da presidente, indicando anche precisi modelli e politiche che avrebbero potuto garantire quello che oggi definiremmo uno “sviluppo economico sostenibile”. In effetti, oltre all’attenzione dimostrata nei confronti delle tutele ai lavoratori, ai loro diritti e agli incentivi all’impiego per le fasce più fragili della popolazione, troviamo in Delors segni di una preoccupazione che riguardava un ideale di benessere umano più ampio, che giungeva a ricomprendere ambiti allora non così comunemente riconosciuti come fondamentali quale, ad esempio, il tema ambientale. A fianco alla spinta per la riduzione della settimana lavorativa a 35 ore in tutti i territori della Comunità incontriamo dunque i primi interventi legislativi volti a diminuire le emissioni di anidride carbonica nell’aria; allo stesso modo, all’inquietudine per gli alti tassi di disoccupazione giovanile vennero a unirsi richiami alla dignità di esseri umani, animali e piante.

Una visione complessiva, dunque, abbastanza ampia da ricomprendere aspetti che esulano l’ambito prettamente materiale, tradizionale, beni inestimabili – da ogni punto di vista – quali: tempo, salute, autostima, dignità. Segni questi di una concezione di benessere molto moderna e che si potrebbe definire, ancora oggi, pienamente attuale.

Una concezione che non rimase del resto fissa su di un piano teorico o (peggio) ideologico, ma che appunto cercò di adattarsi fattivamente al mutato contesto produttivo e sociale, sia interno che internazionale. Prova di questo sono, senz’altro, gli indirizzi pronunciati nel documento Iniziative locali di sviluppo e occupazione: inchiesta nell’Unione Europea, prodotto in un momento immediatamente successivo al noto Libro bianco Crescita, competitività, occupazione, del 1993. Tale rapporto, in effetti, che pure venne pubblicato ufficialmente nel 1995 – un periodo che esula dunque da quello che abbiamo scelto di trattare – fu, tuttavia, elaborato a partire dal 1988 e proprio sulla base di quelle «reti di informazione o cooperazione transeuropee realizzate grazie alle politiche strutturali dell'Unione» e impostate, appunto, dalla prima Commissione Delors (Commissione Europea, 1995 - p. 8).

Nel rapporto, oltre alle più generali constatazioni relative alle opportunità che i nuovi tempi recavano con sé – come, ad esempio, «una concezione più umana della società dell'informazione» e della società stessa, nel suo complesso, o anche della possibilità di conciliare «esigenze mercantili e non mercantili» – troviamo precisi indirizzi volti a stimolare la crescita di una vera e propria impresa sociale. L’idea di fondo era infatti che, in un contesto di tendenziale declino dell’occupazione, nei Paesi occidentali, esistessero del resto «giacimenti occupazionali derivati da esigenze ancora da soddisfare nei settori dei servizi», che potevano portare a coniugare tra loro, appunto, sviluppo economico e benessere sociale. I mutamenti affrontati dal tessuto economico e sociale europeo, negli ultimi decenni, infatti, risultavano, da questo punto di vista, estremamente eloquenti: la popolazione europea era sempre più anziana; le donne impiegate nel lavoro avevano raggiunto il 44% del totale, nel 1992, «contro il 30% nel 1980 e il 22% nel 1960»; la percentuale di urbanizzazione della popolazione europea era passata dal 71% del 1965 all'82% del 1988; il tempo dedicato all’attività professionale in Europa era calato «dalle circa 3.000 ore [lavorative] all'anno di un secolo fa alle circa 1.700 di oggi»; il livello d'istruzione sul suolo continentale, infine, si era innalzato notevolmente, vedendo crescere il numero degli studenti europei dai 3,5 milioni del 1970 ai 7,2 milioni nel 1989. «Tali mutamenti» si concludeva «si riflettono nella trasformazione profonda delle strutture della spesa delle famiglie europee in atto da una ventina di anni».

A fronte di una situazione in grande e costante evoluzione sul lato della domanda, tuttavia, si assisteva in quel preciso momento storico a un adeguamento ancora troppo lento, all’opposto, da parte dell’offerta. Il rapporto, in questo caso, parlava esplicitamente di «esigenze nuove ancora insoddisfatte» e descriveva un contesto in cui:

«in numerosi casi, la creazione di posti di lavoro e l'offerta di servizi si sviluppano lentamente, se comparate con la rapidità delle evoluzioni demografiche e dei cambiamenti socioculturali. Tale ritardo causa una tensione crescente. La distanza tra domanda potenziale e offerta reale diventa percettibile quando si esaminano alcuni squilibri che caratterizzano le nostre società.  Per esempio, gli europei aspirano a nuove strategie di gestione del tempo e ad un riequilibrio della divisione delle attività tra uomini e donne. In tutti i paesi europei, nuovi equilibri demografici mettono in discussione la solidarietà tra generazioni, che permetteva in particolare di garantire la presa a carico delle persone anziane. Indipendentemente da qualsiasi giudizio di valore sulle condizioni ottimali di tale presa in carico […]. Atteggiamenti diversi sono riscontrabili in materia di istruzione; essi sono legati tanto ad una volontà di socializzazione crescente dei bambini, fin dalla loro più giovane età, quanto ad una nuova concezione della nozione di insuccesso scolastico e dei suoi effetti sull’insieme della società. Gli esempi addotti danno soltanto una prima indicazione della portata delle esigenze insoddisfatte, ma lumeggiano la rilevanza che avrebbero giacimenti occupazionali celati dalle nostre economie, se si volesse realmente migliorare la qualità di vita degli europei. Di conseguenza, occorrerà certamente pervenire a innovazioni sostanziali nell'organizzazione delle nostre società, tali da incoraggiare appieno lo sviluppo di servizi a forte contenuto di manodopera».

Ancora una volta, il concetto alto e di difficile quantificazione legato al miglioramento della qualità di vita degli europei, si conciliava dunque con l’indicazione – al contrario, estremamente pragmatica – della possibilità di sfruttare nuove opportunità professionali e coniugare in tal modo produttività e sostenibilità.

Nel documento venivano individuate 17 precise aree in cui intervenire, in quest’ottica: «i servizi a domicilio, la custodia dei bambini, i servizi commerciali di prossimità e l'artigianato, l'aiuto ai giovani in difficoltà e l'inserimento, il miglioramento delle condizioni abitative, la sicurezza, i trasporti collettivi locali, la rivalutazione degli spazi pubblici urbani, il turismo, l'audiovisivo, il patrimonio culturale, lo sviluppo culturale locale, la gestione dei rifiuti, la gestione delle risorse idriche, la protezione e la manutenzione delle zone naturali, la regolamentazione, il controllo dell'inquinamento e gli impianti correlati, le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione».

Di nuovo, possiamo notare l’attualità della proposta delorsiana, per quanto sicuramente alcuni dei settori economici sopra individuati soffrano, nella fase contingente, gli effetti più severi della crisi economica innescata dalla drammatica pandemia oggi in atto. Una crisi che non pare strutturale, del resto, ma legata a un fattore prettamente sanitario, risolvibile grazie ai vaccini e alla conseguente immunizzazione di massa. Una crisi che offre poi ulteriori possibilità di adattamento e anche di miglioramento di domanda e offerta, nel senso di una ulteriore maggiore sostenibilità (pensiamo anche solo al turismo e alla necessità di ripensarlo radicalmente in luoghi dotati di ecosistemi particolarmente “fragili” quali, fra i tanti, Venezia). Una crisi, infine, che sembra aver dato ulteriore slancio allo stesso processo di integrazione europeo, attraverso la storica approvazione del pacchetto di aiuti noto come Next Generation EU. I fondi ad esso legati risulteranno necessari per un nuovo, ulteriore rilancio non soltanto economico, ma anche – e soprattutto – ecologico, sociale, culturale della società europea, in una fase di intenso e complesso passaggio da un’era a un’altra, nuova e differente. Esattamente come accaduto trent’anni fa.

Bibliografia

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Note

  1. ^ Il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Testo del 22 gennaio 1944.
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