Il presente saggio sintetizza i principali risultati di una ricerca realizzata da Iris Network nel 2020 e raccolta nel IV Rapporto Iris Network sull’Impresa Sociale in Italia, curato dal Carlo Borzaga e Marco Musella e in uscita nel mese di marzo 2021.
La crisi indotta dalla diffusione del Covid-19 e dalle conseguenti misure restrittive che si sono rese necessarie fin dai primi mesi del 2020 ha colpito duramente l’Italia, causando il blocco delle attività produttive in una gran parte delle imprese del Paese e cambiando radicalmente le abitudini di vita e consumo delle persone. In questo scenario, fatto di paura, sconforto e aumento della povertà e delle disuguaglianze, l’Italia si è scoperta solidale. Si è infatti assistito ad una moltiplicazione delle iniziative solidali da parte delle organizzazioni della società civile, a partire dalle organizzazioni di volontariato più consolidate, le quali si sono repentinamente attivate per offrire aiuto alla popolazione. Di questa nuova e spontanea ondata solidale se ne sono accorti alcuni media, i quali tuttavia hanno focalizzato la loro attenzione quasi esclusivamente sul mondo del volontariato, dimenticandosi invece della galassia, assai più complessa e strutturata, del terzo settore e, in particolare, di cooperative e imprese sociali.
È invece di fondamentale importanza chiedersi come queste organizzazioni abbiano reagito alla prima ondata da Covid-19, indagando che tipo di atteggiamento abbiano avuto e quali strategie abbiano attivato per far fronte alle conseguenze della crisi sanitaria, presto divenuta anche crisi economica e sociale. Rispondere a queste domande è quanto mai rilevante, soprattutto per cercare di prevedere quali saranno le conseguenze della pandemia sul nostro sistema dei servizi di welfare del futuro e sulle organizzazioni stesse, nonché sulle migliaia di posti di lavoro che da esse dipendono.
Per rispondere a queste e altre questioni, nella seconda metà del 2020 è stata realizzata un’indagine qualitativa, in corso di pubblicazione all’interno del IV Rapporto Iris Network sull’Impresa Sociale in Italia.
La ricerca, della quale si vogliono qui presentare i risultati più significativi, si basa su due fonti dati: da una parte, un database “storie di resilienza” di 118 esperienze di organizzazioni di terzo settore costruita sulla base delle informazioni rinvenute in rete; dall’altra, oltre cinquanta interviste in profondità a dirigenti di imprese sociali ed enti di terzo settore, nonché a responsabili a livello nazionale e regionale.
Confermando quanto già emerso nelle cronache dei mesi di lockdown, ambedue le indagini suggeriscono innanzitutto che – dopo un comprensibile momento di spaesamento iniziale dovuto al caos creato dal vortice di nuove leggi e normative poco chiare e talvolta contraddittorie che si sono susseguite a ritmo frenetico nelle prime settimane di emergenza e, allo stesso tempo, alla mancanza di indicazioni su come comportarsi concretamente in alcune aree di intervento e specifiche circostanze – le imprese sociali in primis, ma più in generale gli enti di terzo settore tutti, hanno mostrato un comportamento decisamente resiliente. Chiamate in prima linea a fronteggiare l’emergenza, hanno saputo trasformarsi, talvolta in maniera radicale, per portare avanti le proprie attività e continuare ad essere protagoniste attive e punti di riferimento per i propri utenti e le comunità in cui operano. Alle imprese sociali, dunque, va riconosciuto il merito non solo di essere state resilienti nell’accezione passiva del termine, adattandosi cioè alle mutate condizioni senza soccombere, ma di aver attuato un vero e proprio ripensamento creativo delle proprie attività e dei servizi senza rinunciare alla propria mission sociale e alla sussistenza economica.
Nello specifico, le imprese sociali e altri enti di terzo settore hanno messo in atto tre diverse strategie di resilienza. La prima – che è anche quella maggiormente diffusa tra le storie di resilienza analizzate – è consistita nella riprogrammazione delle attività dell’ente, che sono così proseguite in sicurezza. Questa rimodulazione – che spesso in termini operativi si è tradotta nel passaggio al digitale dei servizi prima previsti in presenza – ha permesso alle organizzazioni di garantire, per quanto possibile, la continuità nell’erogazione dei servizi, elemento di non poca importanza specialmente per alcune categorie di utenti come malati cronici, disabili e anziani. Sono molte, infatti, le imprese sociali che hanno reso fruibili online i propri servizi, permettendo il prosieguo, ad esempio, delle attività di stimolazione cognitiva per gli anziani, percorsi di accompagnamento allo studio per bambini e ragazzi, attività di riabilitazione motoria per disabili fisici e molto altro ancora.
La seconda strategia è consistita invece nell’attivazione – attraverso la conversione delle linee produttive e delle attività delle organizzazioni – di nuovi servizi o prodotti. Per fare alcuni esempi – da non intendersi però come elenco esaustivo delle modalità attraverso le quali questa strategia di resilienza si è concretizzata – durante la prima ondata dell’emergenza sanitaria non sono mancate imprese sociali operanti nel settore tessile che hanno iniziato a produrre mascherine riutilizzabili. O, ancora, sono diverse le organizzazioni che hanno attivato servizi di supporto psicologico telefonico e online per i propri utenti o per chiunque sentisse la necessità di parlare.
In ultimo, una terza strategia è coincisa con l’ampliamento dei servizi, del personale, delle risorse economiche e del tempo a disposizione degli utenti per poter far fronte alle aumentate fragilità e ai nuovi bisogni che la pandemia ha portato con sé. È il caso, ad esempio, di molte strutture residenziali per anziani e disabili o dei centri antiviolenza per le donne, i quali, oltre a dover rimodulare il proprio operato per poter agire in sicurezza, hanno intensificato le attività e i servizi.
Grazie all’adozione di queste strategie, imprese sociali e altre organizzazioni di terzo settore hanno così contribuito in maniera concreta ad alleviare vecchie e nuove situazioni di povertà, ad esempio fornendo alimenti e pasti pronti, farmaci, dispositivi di protezione individuale e altri beni di prima necessità. Non solo: particolare attenzione è stata rivolta anche al benessere fisico e psicologico dei cittadini, provati della mancata socialità e dall’essere costretti entro le mura domestiche. Da sottolineare anche come molte imprese sociali siano state in grado, nonostante tutto, di operare contemporaneamente su più fronti, offrendo servizi multipli in risposta all’emergenza. Non sono infatti mancate organizzazioni che hanno attivato nuovi servizi di natura diversa pur di stare vicino alla propria comunità.
Dalle storie di resilienza e dall’analisi delle interviste emerge quindi in tutta la sua evidenza la capacità del settore di dare risposta a un’ampia gamma di vecchi e nuovi bisogni sociali, assumendo un atteggiamento proattivo, innovativo e di grande flessibilità che ha permesso alle imprese sociali, seppur con difficoltà e sacrifici, di trasformare un evento così negativo come una pandemia in un’occasione di apprendimento e di riorganizzazione.
Ed è proprio l’inattesa velocità di reazione del settore ad essere stata più volte sottolineata da molti partecipanti all’indagine, ai quali in sede di intervista è stato poi chiesto di indicare quali fossero, secondo il loro parere, i principali fattori che, indipendentemente dall’ambito di attività dell’impresa, hanno reso possibile la reazione resiliente di queste organizzazioni. Si è cercato dunque di capire sotto quali condizioni le imprese sociali e gli enti di terzo settore hanno potuto agire in maniera più resiliente.
Il primo elemento significativo è la solidità patrimoniale dell’organizzazione. Avere un più forte impianto patrimoniale, infatti, ha permesso, a detta di molti, una maggiore tenuta delle organizzazioni, facilitando la necessaria riorganizzazione delle attività a fronte delle nuove normative sanitarie per il contenimento del virus. L’idea diffusa è che siano state le imprese sociali maggiormente patrimonializzate ad aver retto meglio all’onda d’urto della crisi, favorendo non solo la continuità nell’erogazione dei servizi, ma anche permettendo, ove necessario, di anticipare le integrazioni salariali per i dipendenti, apportando dunque concreti benefici non solo agli utenti, ma anche ai lavoratori stessi.
Alla solidità economico-imprenditoriale si aggiunge un ulteriore elemento che, a detta degli intervistati, è in grado di spiegare la tenuta del settore, ossia la determinazione dei lavoratori e dei volontari che prestano servizio nelle imprese sociali e negli altri enti di terzo settore. Ci si riferisce alle motivazioni intrinseche degli operatori del settore, le cui azioni continuano ad essere mosse da una “spinta ideale”, rendendoli determinati nel continuare, nonostante le difficoltà e i rischi, ad offrire un aiuto concreto agli utenti. Quello dell’imprenditoria sociale è stato infatti definito come un mondo fatto da «gente che ci crede, che sta in connessione con i bisogni [di utenti e cittadini] e che non può fare finta di non vederli». Una passione che, secondo il parere degli intervistati, ha spinto gli operatori, nonostante le innegabili paure, ad affrontare l’emergenza sanitaria in prima linea, a prescindere dalle normative o da obblighi derivanti da accordi di tipo contrattualistico. Il forte orientamento alla persona e al suo benessere avrebbe quindi giocato un ruolo di estrema rilevanza nel determinare la capacità di resilienza di queste organizzazioni, le quali spesso, pur potendo decidere di chiudere almeno temporaneamente e sospendere i servizi in attesa di tempi migliori, hanno deciso di proseguire le attività. Nella narrazione degli intervistati, tale determinazione di operatori e volontari deriverebbe anche dal forte senso di appartenenza all’ente in cui essi prestano la loro opera. Molti sottolineano il fatto che i lavoratori hanno mostrato un atteggiamento più collaborativo soprattutto nelle cooperative sociali con una base associativa ampia e aperta ai soci lavoratori, a differenza delle organizzazioni con base associativa più ristretta, dove sono spesso prevalse rivendicazioni di tipo sindacale e il senso di appartenenza all’impresa è passato più in secondo piano.
Connessi al punto precedente, altri due fattori hanno fatto la differenza: da una parte, il forte radicamento delle imprese sociali e degli altri enti di terzo settore nel territorio in cui operano e, dall’altra, il contatto che in virtù di questo hanno stretto con le comunità di riferimento. Le imprese sociali, infatti, usando le parole di un intervistato, «vivono pancia a terra il territorio, conoscono la comunità, vi sono pienamente inserite e si sentono coinvolte nei loro destini». Ed è esattamente questo sentire come proprio il destino della comunità, lo stare «in mezzo ai problemi» della gente che si è rivelato un fattore cruciale nell’attivazione di strategie di resilienza. Grazie a questo radicamento sul territorio e ai forti legami di fiducia e stima con le comunità, le imprese sociali hanno una posizione privilegiata che, come confermato dalla recente sentenza 131/2020 della Corte costituzionale in tema di co-progettazione e co-programmazione, permette loro di rilevare e interpretare prima e meglio di altri attori le necessità degli utenti e di disporre quindi delle informazioni necessarie per la predisposizione di interventi mirati ed efficaci. Durante la prima ondata dell’emergenza sanitaria, dunque, le imprese sociali sono state in grado di capitalizzare i contatti e le relazioni con i cittadini e gli altri attori del territorio instaurate e coltivate nel tempo, diventando ancora di più un riferimento per la comunità. Ciò è testimoniato dai numerosi casi in cui le persone, di fronte a situazioni anche estreme di necessità, si sono rivolte alle imprese sociali anche se queste in precedenza non si sono occupate, nello specifico, di attività come la distribuzione di dispositivi di protezione individuale o di alimenti.
Queste capacità e caratteristiche degli enti di terzo settore da molti non sono state invece rilevate nell’operato delle Pubbliche Amministrazioni e degli enti locali, percepiti come distanti e incapaci di prendere decisioni celeri e d’impatto. Non solo: alle imprese sociali e agli enti di terzo settore è riconosciuto il merito di essere, per loro natura, organizzazioni più duttili e maggiormente in grado di immaginare soluzioni creative rispetto agli apparati pubblici, troppo attenti al rispetto della forma e timorosi di prendersi la responsabilità di sperimentare nuovi interventi e dare risposte inedite ai mutati bisogni dei cittadini. Dunque, essere organizzazioni flessibili, capaci di prendere decisioni efficaci e in tempi rapidi, è un ulteriore elemento chiave che ha permesso alle imprese sociali di rispondere prontamente all’emergenza sanitaria e, allo stesso tempo, ha differenziato il loro operato da quello degli enti pubblici.
Anche il rapporto con le Pubbliche Amministrazioni è stato più volte indicato come uno dei fattori che ha avuto una significativa influenza sull’agire delle imprese sociali. A riguardo, dall’analisi delle interviste emerge un quadro ambivalente, nel quale talvolta le Pubbliche Amministrazioni sono dipinte come attori in grado supportare – sia in termini economici che organizzativi – il lavoro delle imprese sociali e degli altri enti di terzo settore, talvolta sono invece descritte come assenti, negligenti, se non addirittura come elementi di ostacolo per l’operato di queste organizzazioni. Non mancano infatti testimonianze di enti che hanno attivato (o sfruttato preesistenti) collaborazioni con la Pubblica Amministrazione rivelatesi molto proficue e nelle quali la Pubblica Amministrazione stessa si è fatta carico di un importante lavoro di regia e di coordinamento tra gli enti del territorio, raccogliendo risorse e instaurando un prezioso dialogo con le imprese sociali. La maggioranza degli intervistati, tuttavia, ha lamentato l’impossibilità di sostenere un efficace interlocuzione con l’attore pubblico e ha sottolineato quanto questo non sia stato in grado di fornire risposte concrete ai bisogni dei cittadini. In questo scenario, le imprese sociali si sono ritrovate in completa solitudine nella progettazione e nell’implementazione degli interventi per fronteggiare le conseguenze della crisi sanitaria e la percezione generalizzata è che gli enti locali si siano di fatto serviti delle imprese sociali e degli altri enti del terzo settore, senza tuttavia fornire loro indicazioni adeguate in merito alle procedure da adottare e con l’obiettivo ultimo di evitare l’assunzione di qualsivoglia responsabilità.
In ultimo, un altro elemento più volte citato nel corso delle interviste come uno tra i fattori che spiegano la pronta capacità di reazione delle imprese sociali è la presenza di giovani all’interno dell’organizzazione, siano essi dirigenti, dipendenti o volontari. A loro, infatti, è riconosciuto il merito – anche in virtù della loro maggior propensione e abilità nell’utilizzo degli strumenti tecnologici, divenuti cruciali per mantenere i rapporti con gli utenti senza rinunciare al necessario distanziamento fisico – di aver contribuito significativamente all’ideazione e implementazione di soluzioni creative durante la prima ondata pandemica.
Dall’analisi delle interviste emerge dunque chiaramente quanto, all’interno del settore, vi sia una forte consapevolezza rispetto al ruolo ricoperto dalle imprese sociali e dell’importanza di queste organizzazioni nei momenti più critici dell’emergenza sanitaria. In quanto “collettori di connessione”, queste imprese sono in grado di comunicare in maniera efficace non solo con cittadini e utenti ma anche con il sistema amministrativo e politico e hanno svolto un’importante funzione di advocacy, ossia di orientamento e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, da una parte, e delle azioni di Governo, dall’altra, mantenendo alta l’attenzione nei confronti di determinate fragilità che altrimenti rischiavano di essere dimenticate. Un ruolo, dunque, autonomo e assolutamente non ancillare rispetto all’ente pubblico.
Allo stesso tempo, però, nelle parole degli intervistati sono rintracciabili anche sconforto e talvolta addirittura rabbia per non aver sentito il proprio ruolo riconosciuto, valorizzato e supportato dai media e dal Governo. La percezione è che i lavoratori del terzo settore siano di fatto stati dimenticati nella narrazione pubblica, che ha visto come unici eroi gli operatori sanitari (che, senza alcun dubbio, eroi lo sono stati davvero) e non ha invece considerato l’apporto e i relativi sacrifici degli operatori e volontari delle imprese sociali e degli altri enti di terzo settore, “eroi dimenticati” in questa emergenza sanitaria, economica e sociale.
Discorso a parte merita invece il riconoscimento delle imprese sociali da parte del Governo. In merito, opinioni e pareri degli intervistati sono ambivalenti, con una parte di essi che ha percepito un progressivo aumento dell’attenzione politica nei confronti del settore e un’altra parte che invece continua a vedere nell’esecutivo un attore che bistratta il terzo settore e lo confina in un ruolo secondario di mero esecutore delle direttive pubbliche. Il Governo, secondo questi intervistati, seppur in alcune occasioni abbia riconosciuto anche pubblicamente il valore del terzo settore, tende poi a dimenticarlo una volta superati i momenti più critici dell’emergenza. Nonostante sia possibile rinvenire all’interno del campione pareri meno critici, appare evidente come la percezione dominante classifichi come insufficiente, non adeguato o, semplicemente, troppo tardivo il riconoscimento del ruolo del settore da parte del Governo. Anche tra gli intervistati che hanno espresso un parere meno critico, non manca la consapevolezza della grande fatica che ogni piccola “vittoria” del settore ha comportato. Queste vittorie, infatti, sono percepite come il frutto di una lunga ed estenuante battaglia, portata avanti principalmente dalle organizzazioni di rappresentanza, alle quali viene riconosciuto il merito di aver sostenuto nei confronti del Governo delle proposte valide e di aver compreso le difficoltà degli enti sui territori. Un compito tutt’altro che facile, considerando anche la grande eterogeneità che caratterizza il settore.
In molti si sono sentiti supportati dalle associazioni di rappresentanza, anche e soprattutto sul piano operativo, essendo queste state in grado di offrire un aiuto concreto nel reperimento dei DPI e nell’interpretazione delle varie normative, spesso confuse e poco comprensibili, che si sono susseguite nel periodo di emergenza. Tuttavia, accanto ai meriti riconosciuti al Forum del Terzo Settore e alle Centrali Cooperative, gli intervistati non mancano di rimarcare alcune criticità, prima fra tutte l’eccessiva frammentazione delle visioni al loro interno. In virtù di ciò, gli intervistati sottolineano la necessità di un rinnovamento di leadership all’interno delle organizzazioni di rappresentanza, che dovrebbero accrescere il loro peso politico e farsi carico delle esigenze del settore nel suo complesso, ponendo quest’ultimo al centro dei nuovi piani politici del Governo.
Come già accennato, secondo la maggior parte degli intervistati il Governo ha ignorato, specialmente nelle prime settimane di emergenza, le necessità del settore e ha predisposto misure difficilmente accessibili e con tempi di implementazione eccessivamente lunghi. Tuttavia, il più severo limite riscontrato nell’azione di Governo è forse di non aver tenuto debitamente conto delle differenze interne al comparto e, di conseguenza, nell’avere previsto sostegni assolutamente non sufficienti specialmente per gli enti non aventi natura di impresa. Le imprese sociali, infatti, rientrando nell’ambito tipico dell’impresa, nei decreti emergenziali hanno ricevuto lo stesso trattamento riservato alle imprese for profit, mentre il terzo settore non imprenditoriale è stato in larga parte dimenticato.
Anche nei confronti del ben noto articolo 48 del Decreto “Cura Italia”, che autorizzava le amministrazioni locali a corrispondere ai gestori privati il pagamento per servizi interrotti a causa dell’emergenza sanitaria dando la possibilità agli stessi di convertirli e rimodularli nel rispetto delle nuove misure di sicurezza, non mancano critiche severe. L’articolo, infatti, a detta degli intervistati, è stato applicato a macchia di leopardo dalle amministrazioni, le quali hanno spesso approfittato della situazione per “fare cassa”, abbandonando non solo gli enti – lasciati da soli ad affrontare i problemi legati alla negata liquidità – ma gli stessi utenti, molti dei quali, senza il sostegno delle imprese sociali e degli altri enti di terzo settore, avrebbero vissuto gravi situazioni di abbandono e solitudine.
Altri fattori di criticità sono stati rilevati anche in merito alla fornitura dei tanto indispensabili quanto difficilmente reperibili DPI, così come nella predisposizione dei fondi destinati alla copertura delle spese necessarie per la messa a norma dei locali e dei servizi in base a quanto previsto dalle nuove disposizioni sanitarie. Gli intervistati hanno infatti paragonato l’emergenza DPI ad una vera e propria “guerra”, soprattutto nei primi mesi della pandemia, definendo come scandaloso l’operato del Governo che, incurante della grande quota di enti di terzo settore e imprese sociali che lavorano in ambito sociosanitario e che sono fornitori di Livelli Essenziali di Assistenza, ha dirottato i dispositivi solo verso il Sistema Sanitario. Ciò ha costretto molte organizzazioni a provvedere alla sicurezza dei propri lavoratori e volontari in modo autonomo, comprando – talvolta a prezzi improponibili – i DPI sul libero mercato oppure producendoli in proprio, senza alcuna garanzia della loro effettiva efficacia.
Oltre all’approvvigionamento dei DPI, gli intervistati lamentano un’insufficiente attenzione alle esigenze di liquidità delle organizzazioni da parte sia del Governo sia delle Regioni che, secondo i più, non hanno previsto misure adeguate almeno per compensare la mancanza di flussi da autofinanziamento che hanno registrato in molte imprese sociali un brusco calo dovuto non solo alla diminuzione delle entrate provenienti dagli utenti ma anche sul fronte delle donazioni private e istituzionali, dirottate sul Sistema Sanitario. Si richiedono, dunque, maggiori e migliori misure per favorire la capitalizzazione e la patrimonializzazione delle imprese sociali, così come di strumenti più adeguati di tutela dei lavoratori.
Tra le misure mancate segnalate dagli intervistati vi sono infine anche alcuni provvedimenti che non riguardano strettamente l’emergenza sanitaria ma che erano attesi da ben prima dello scoppio della pandemia. In primis, la completa applicazione della riforma del terzo settore, specialmente per quanto riguarda la messa in opera effettiva del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS), che si auspica di vedere compiuta a breve, e l’approvazione della normativa fiscale prevista dalla riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale. Chiari ed adeguati benefici fiscali per gli enti iscritti al RUNTS sembrano dunque essere percepiti come prioritari dalla maggior parte degli intervistati.
Altro tema particolarmente sentito è quello del Servizio Civile, considerato come strumento con potenzialità enormi ma che vengono, a detta di molti intervistati, sistematicamente sottovalutate dall’esecutivo. Si richiede non solo una concreta semplificazione delle procedure amministrative, ma anche maggiori investimenti economici. Tuttavia, è necessario evidenziare che, anche grazie all’appello “Servizio Civile, Non si può dire di no”, promosso dal magazine Vita con il supporto di numerose organizzazioni del terzo settore e di esponenti del mondo accademico, civile e religioso, il Governo ha recentemente stanziato 400 milioni di euro per il biennio 2021/2022.
Ciò che emerge dall’indagine, dunque, è che l’esperienza della crisi ha contribuito a rafforzare tra i responsabili intervistati la consapevolezza non solo della rilevanza delle imprese sociali nel garantire i livelli di welfare individuali e comunitari, ma anche delle necessità del settore e di quanto sia importante avere una visione politica unitaria, di lungo termine e che porti all’effettivo riconoscimento delle specificità, punti di forza, potenzialità e risultati già ottenuti.
Nella reazione all’emergenza, un ruolo fondamentale è riservato alla filantropia, istituzionale e non. Anche questa, confermano gli intervistati, ha fatto fatica a capire come reagire alle immediate conseguenze della crisi. Nonostante ciò, la maggior parte degli intervistati è comunque concorde nell’affermare che gli enti filantropici hanno svolto un ruolo fondamentale durante l’emergenza sanitaria, sapendo mettere a sistema un mix di risorse economiche, intellettuali, relazionali ecc., e contribuendo a sopperire talvolta alle mancanze del sistema pubblico. Non mancano però anche opinioni più critiche nei confronti dell’operato di questi enti, in primis legate all’eccessiva frammentazione degli aiuti da essi predisposti. Le raccolte fondi e gli altri interventi di natura filantropica sono infatti spesso stati giudicati come poco ragionati e, a detta di molti, la moltiplicazione di quest’ultimi ha creato una forte dispersione delle risorse, minandone l’efficacia. In secondo luogo, torna il tema della polarizzazione delle donazioni, dirottate anch’esse – così come successo per i dispositivi di protezione individuale – a favore del Sistema Sanitario Nazionale. A causa di ciò, le imprese sociali e gli altri enti di terzo settore si sono visti improvvisamente privati di una fonte di risorse di fondamentale importanza su cui potevano invece contare prima della pandemia. Una polarizzazione che, secondo alcuni, è stata del tutto “naturale” nei periodi più acuti dell’emergenza, ma che avrebbe potuto essere gestita meglio da parte degli enti filantropici. Ulteriore elemento di criticità è da rintracciarsi nelle modalità attraverso le quali questi aiuti vengono erogati, basandosi, nella maggior parte dei casi, su logiche di breve periodo che prevedono il finanziamento di singoli progetti e non garantiscono un sostegno continuativo alle organizzazioni. Viene dunque richiesto dalla maggioranza degli intervistati il superamento della logica dei bandi e dei progetti a favore della creazione di alleanze solide e durature tra filantropia e impresa sociale, a sua volta chiamata a sviluppare strategie di integrazione stabile, attuabile, oltre che nella forma consolidata del consorzio territoriale, anche con strumenti più leggeri quali ad esempio il contratto di rete. C’è chi rinviene nell’operato di alcuni enti filantropici – pre-pandemico e ad emergenza sanitaria in corso – un effettivo sforzo in questa direzione, ma la percezione dominante è che questa cultura non sia ancora un elemento sistemico e continui a essere applicata a macchia di leopardo. Con la creazione e il rafforzamento di legami di rete, le imprese sociali e le altre organizzazioni di terzo settore avrebbero infatti la possibilità di assumere un ruolo ancora più incisivo per i propri utenti e la comunità in cui operano e, allo stesso tempo, vedrebbero accrescere il loro peso politico per disegnare, anche insieme all’ente pubblico, i necessari interventi.
L’analisi condotta ha mostrato, inoltre, quanto le imprese sociali e gli altri enti di terzo settore – indipendentemente dalla loro forma giuridica, provenienza territoriale e settore di intervento – durante l’emergenza sanitaria abbiano iniziato a fare sempre più affidamento su due specifici strumenti, che sembrano destinati ad assumere un ruolo di importanza strategica anche quando (finalmente) ritroveremo un po’ di normalità: l’utilizzo della tecnologia e la creazione di reti e partenariati.
Le strategie di resilienza messe in atto dalle imprese sociali e dagli altri enti di terzo settore hanno infatti beneficiato, nella stragrande maggioranza dei casi, di un utilizzo anche intenso della tecnologia. Gli strumenti digitali e tecnologi hanno avuto infatti un ruolo fondamentale nel supportare l’azione sociale di queste organizzazioni, grazie alle quali hanno potuto rimodulare alcuni dei propri servizi e attività. Di certo, quello della digitalizzazione è un processo che era già in atto in molte organizzazioni ben prima della diffusione del virus ma che, avendo giocato un ruolo chiave nel determinare la capacità di resilienza delle imprese, ha subìto un’accelerazione importante. Grazie ad essa, molte organizzazioni coinvolte nella ricerca hanno potuto non solo rimanere in relazione con i propri utenti, ma ne hanno anche raggiunti di nuovi, ampliando dunque il bacino dei beneficiari dei servizi. Inoltre, la tecnologia ha contribuito a migliorare il dialogo e il confronto sia con i beneficiari e tra il personale delle organizzazioni, sia tra le diverse realtà del territorio, facendo diminuire sensibilmente i costi – in termini economici e di tempo – necessari per incontrarsi in presenza. A fronte di questi vantaggi, non vanno tuttavia dimenticati né sottovalutati i possibili rischi che l’introduzione delle innovazioni tecnologiche porta con sé. Molti dei partecipanti all’indagine hanno infatti sottolineato quanto la mancanza di competenze digitali così come la carenza o l’inadeguatezza dei dispositivi tecnologici o della connettività abbiano di fatto rappresentato uno dei principali problemi, sia tra gli utenti che tra il personale dipendente e i volontari. Sono diverse, infatti, le organizzazioni che hanno attivato servizi ad hoc – sia internamente, sia per gli utenti e i cittadini – per offrire formazione e strumenti utili a colmare questo divario tecnologico. In ultimo, sebbene la maggior parte dei rispondenti sia concorde nell’affermare che il processo di digitalizzazione meriti di trovare il giusto spazio all’interno del settore e si dichiari desiderosa di investire risorse per il miglioramento dell’infrastruttura tecnologica dell’organizzazione in cui operano, significativa è anche la quota di intervistati che ha mostrato un atteggiamento scettico nei confronti dell’utilizzo – specialmente nella relazione con gli utenti – della tecnologia, vista come una modalità di intervento che rischia di far diminuire le possibilità di instaurare relazioni di prossimità con i beneficiari. La pandemia in questo senso ha dunque da una parte sollecitato la trasformazione tecnologica ma, dall’altra, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza di “stare dentro” le comunità e di essere vicini – anche fisicamente – ai beneficiari. Ed è proprio questa irrinunciabile prossimità che, secondo i più, caratterizza l’operato delle imprese sociali, che si distingue dunque da quello più “freddo” e standardizzato tipico della Pubblica Amministrazione. La sfida, dunque, è quella di far rimanere la persona al centro della relazione, sia che essa si instauri nel mondo reale, sia che si svolga in quello virtuale.
Infine, la pandemia ha agito da stimolo per la creazione di nuove reti e il rafforzamento di quelle già in essere, sia tra enti di terzo settore, sia con la Pubblica Amministrazione e le imprese for profit. Durante l’emergenza sanitaria, lo sforzo coordinato degli attori coinvolti in queste reti ha giocato un ruolo di fondamentale importanza nel garantire che nessuno venisse lasciato solo. Il fare rete, già da molti considerato un elemento fondante dell’azione delle imprese sociali – si pensi all’esperienza dei consorzi territoriali tra cooperative sociali – è stato infatti percepito come una necessità, fattasi ancora più pregnante ed evidente a causa dell’emergenza sanitaria. Collaborazioni, partenariati e reti hanno avuto un chiaro ruolo strategico durante la prima ondata pandemica e sembra esserci la consapevolezza di quanto questi siano destinati ad averne ancora in più in futuro.
In virtù della loro importanza, la ricerca si è soffermata anche sulle collaborazioni tra Pubblica Amministrazione ed enti del terzo settore. Nello specifico, alcune domande dell’intervista si sono concentrate sugli strumenti della co-programmazione e co-progettazione, e di amministrazione condivisa tra Pubblica Amministrazione ed enti del settore disciplinati alla luce dell’art. 55 del Codice del Terzo settore (d.lgs. 117/2017). Nei confronti di questi nuovi strumenti di amministrazione condivisa, gli intervistati – soprattutto quelli impegnati in organizzazioni di rappresentanza – esprimono un generale apprezzamento e valutano positivamente la modifica del Codice degli appalti, avvenuta proprio durante l’emergenza sanitaria con il Decreto Legge n.76 del 16 luglio 2020 (Decreto Semplificazioni), in cui si definiscono co-programmazione, co-progettazione e partenariato come strumenti aventi la stessa dignità degli altri strumenti contrattuali. Tale cambiamento è stato definito come una vera e propria «rivoluzione copernicana», anche dal punto di vista culturale, destinato a tracciare la via per il futuro. Ancora una volta, però, accanto a commenti più positivi non mancano quelli più critici e diffidenti. Molti intervistati ritengono infatti che, ad oggi, non vi sia un’idonea cultura della collaborazione nella Pubblica Amministrazione, abituata a pensare alle organizzazioni del terzo settore, citando un intervistato, come «fornitori [di servizi] piuttosto che come partner». Sarà quindi necessario un vero e proprio cambio di mentalità tra i funzionari pubblici, che devono convincersi della validità – non solo dal punto di vista legale ma anche e soprattutto di efficacia nella predisposizione degli interventi – di questi strumenti. Inoltre, c’è chi ritiene che il cambiamento non possa unicamente riguarda la Pubblica Amministrazione e sottolinea l’importanza che esso investa anche le stesse organizzazioni di terzo settore. A queste ultime viene chiesto un maggiore investimento per acquisire rinnovate competenze sul tema e di assumere uno sguardo più lungimirante, in grado quindi di prevedere e di interpretare gli scenari di sviluppo futuri. A dover cambiare, dunque, non è solo la Pubblica Amministrazione, ma anche il terzo settore, pena la perdita della possibilità di instaurare collaborazioni preziose per il Paese. L’augurio è chiaramente che gli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione, così come le logiche cooperative ad essi sottese, diventino strutturali.
E se la tecnologia e le reti sembrano essere i due elementi destinati ad avere un peso rilevante nel futuro, molto altro di ciò che ci aspetta rimane ancora oscuro ed incerto. Gli effetti pervasivi di questa crisi hanno esacerbato disuguaglianze socioeconomiche e territoriali preesistenti, facendo ulteriormente scivolare la classe media in situazioni di povertà. Di fronte a queste prospettive, il ruolo delle imprese sociali nel post-pandemia assumerà un’importanza nuova: «avremo più bisogno che mai, proprio nei prossimi mesi, del terzo settore», afferma una intervistata. In questo senso, la pandemia ha rappresentato una finestra di opportunità, un momento di sperimentazione ed un’occasione rara per fare emergere, ancora una volta, il valore di queste organizzazioni. Quella che le imprese sociali e gli altri enti di terzo settore dovranno affrontare è quindi una sfida unica, a cui potranno dare un contributo concreto in quanto soggetti in grado di intercettare situazioni di fragilità, anche latenti e meno visibili, grazie al rapporto solido e basato sulla vicinanza ai cittadini e alla fiducia di cui godono. Devono saper consolidare l’ondata solidale registrata nei mesi più duri della pandemia. Devono capitalizzare il nuovo set di competenze acquisite. Devono nuovamente ripensare ai propri servizi e alle modalità di erogazione degli stessi, che si sono adeguate alla nuova situazione sanitaria talvolta in maniera un po’ frettolosa, come “toppe” emergenziali e senza considerare quanto (ahinoi!) l’emergenza sanitaria si sarebbe prolungata nel tempo. Devono anche riuscire ad accedere ai tavoli decisionali più importanti per la definizione delle strategie di ripartenza, e devono farlo con una visione politica di lungo termine. Devono essere consapevoli (e la ricerca ha mostrato quanto già lo siano) dell’importanza del settore ed essere riconosciuti per ciò che sono: un’infrastruttura sociale d’eccellenza del Paese.
DOI: 10.7425/IS.2021.01.04
Il IV Rapporto Iris Network sull’Impresa Sociale in Italia, curato dal Carlo Borzaga e Marco Musella, è in uscita nel mese di marzo 2021.
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