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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2021

Echi

Cogliere l’opportunità del PNRR per sviluppare la democrazia economica in Italia. Consigli del lavoro e di cittadinanza in impresa, e imprese sociali

Lorenzo Sacconi

Perché democrazia economica

Il PNRR presentato al Parlamento dal Governo Conte (Senato della Repubblica, Proposta di piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, gennaio 2021) ha avuto varie versioni a partire dalle prime formulazioni, che si presentavano come una raccolta di progetti senza una chiara finalizzazione, obbiettivi generali e conseguenze attese. Esso ha subìto modificazioni anche grazie ai contributi di idee ed indicazioni di diversi soggetti della società civile collegati al mondo accademico. La stessa versione al vaglio delle Commissioni di Camera e Senato è oggetto di commenti e posposte di miglioramento (si veda il documento del Forum Disuguaglianze e Diversità del 12 gennaio 2021). Ulteriori revisioni ed adeguamenti saranno apportati dal governo Draghi, e a tale proposito l’auspicio è che il metodo del dialogo sociale diventi sistematico e trasparente piuttosto che essere accantonano (c’è qualche ragionevole timore al riguardo) in favore di un approccio che, per brevità, chiamerò “tecnocratico”.

Fin qui il PNRR ha dunque subìto miglioramenti, sia negli obbiettivi che esso persegue sia nella identificazione, denominazione e chiarimento delle “missioni” che includono “componenti” settoriali equivalenti ad aree di macro-progetti, ciascuna finanziata con somme cospicue (digitalizzazione, riconversione verde e tecnologie corrispondenti, infrastrutture ecc.). Una delle difficoltà che permangono è, tuttavia, identificare le finalità strategiche generali che attraversano le varie “missioni” e le relative azioni, le quali devono essere auspicabilmente perseguite facendo attenzione alle modalità, alle regole e ai criteri con cui si attuano le missioni, ossia in relazione alle istituzioni sociali che si contribuisce a creare mediante tali interventi. In modo che dall’attuazione delle missioni settoriali possano conseguire risultati attesi in termini di cambiamenti economici e sociali, e di “benessere generale”. Ricorre spesso a tale proposito la distinzione tra ouput e outcome degli interventi: ciò che in ultima istanza ci interessa ovviamente sono le conseguenze – outcome – di benessere sociale, non gli output immediati. E sebbene sia evidente che le conseguenze di benessere sociale o i “funzionamenti” acquisiti o le “capacità” per raggiungerli sono più difficili da misurare, non per questo bisogna focalizzarsi su ciò che è “più facile da misurare”, cioè gli output, dal momento che i secondi non sono necessariamente una proxy dei primi).

Questi cambiamenti, spesso, non sono il diretto risultato di una singola azione o missione settoriale, ma del cooperare di azioni e missioni diverse, e dal modo col quale ciascuna missione o più missioni vengono perseguite. Per intendersi, se un obbiettivo è la riduzione della diseguaglianza di genere nel mondo del lavoro, è chiaro che ciò non può essere perseguito solo da una “componente” della “missione” per l’inclusione sociale, intesa come area settoriale di finanziamenti. L’uguaglianza di genere deve attraversare l’innovazione tecnologica verde, la digitalizzazione della PA e delle imprese e le stesse opere infrastrutturali, nonché la creazione dell’infrastruttura sociale per il welfare, dato il forte impatto che questi investimenti settoriali possono avere sui livelli occupazionali, le condizioni di impiego e l’organizzazione del lavoro. Lo stesso vale per l’obbiettivo generale della riduzione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza.

Con questo contributo (che prende spunto dal documento di commento del Forum DD già citato, di cui questo articolo sviluppa la parte su “dignità del lavoro e partecipazione strategica dei lavoratori”) intendo presentare una di queste dimensioni strategiche trasversali – la principale secondo me – che dovrebbe caratterizzare le varie missioni e che porterebbe ai risultati attesi grazie alle risorse impiegate nelle diverse “missioni” del piano.

L’idea base è che la co-progettazione, l’attuazione e il monitoraggio dei progetti del recovery plan dovrebbero essere colte come grande opportunità per lo sviluppo della democrazia economica in Italia, con conseguente lotta alle disuguaglianze che in larga misura – prima di diventare diseguaglianze di reddito e di ricchezza – significano iniquità e mancanza di bilanciamento nel riconoscimento di diritti di partecipazione alle decisioni e alla loro formazione (e discussione pubblica, valutazione e monitoraggio) nel tessuto economico dove si prendono le decisioni sulla distribuzione di reddito, ricchezza e riconoscimento sociale (Sacconi 2019). La sola rendicontazione degli impatti dei vari progetti non avrebbe senso se gli stakeholder interessati, a vari livelli, non avessero diritti riconosciuti di informazione, consultazione e, in situazioni rilevanti, di co-decisione. In tal caso essa non sarebbe indirizzata ai soggetti che hanno il diritto di sapere e di intervenire per correggere la gestione. Rischierebbe di restare di facciata, come alle volte accade per la rendicontazione di sostenibilità nelle imprese o aziende (private o pubbliche), se non parla a stakeholder cui sia riconosciuto il diritto di sapere e di avere voce nel processo di governance.

La ragione per insistere su questo punto è duplice: la democrazia economica è il miglior mezzo per riuscire ad evitare che vi sia l’eterogenesi dei fini, cioè che i progetti (e i flussi di risorse pubbliche collegati) non servano agli obbiettivi strategici del piano, alle sue opzioni fondamentali, bensì piuttosto ad ingrassare e remunerare i molti interessi che, pur legittimamente, saranno mobilitati area per area per trarne beneficio (ciò che gli economisti chiamano in gergo rent seeking: ricerca della rendita). Secondariamente, la democrazia economica è un valore e un fine in sé, in quanto promuove l’autonomia e l’autogoverno delle persone, ed è una componente strutturale della riduzione delle disuguaglianze inaccettabili.

Democrazia economica e dialogo sociale multilivello sul PNRR

Lo sviluppo della democrazia economica, in relazione al recovery plan, deve esser visto a due livelli. Il primo è un livello macro/meso: la creazione di forme multilivello organizzate di partecipazione degli stakeholder al dialogo sociale sulla specificazione, attuazione e monitoraggio degli interventi del recovery plan. Una questione che ha a che fare con l’articolazione del dialogo sociale su molteplici gradi: man mano che il piano passerà da grandi obbiettivi e dalle scelte aggregate di allocazione di risorse per area d’azione, alla progettazione di dettaglio e all’attuazione e valutazione di progetti specifici e locali, occorrerà che a livello dei principali soggetti attuatori – Regioni, aree metropolitane, Comuni, strutture che riuniscono gli enti territoriali delle cosiddette aree interne – si creino comitati decentrati di partecipazione al dialogo sociale, che organizzino la democrazia deliberativa attorno alla gestione dei progetti.

Tali comitati dovrebbero garantire, grazie alla partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori, dei cittadini, del terzo settore, delle imprese, delle università e istituzioni di ricerca (oltre che degli enti locali) che i singoli progetti corrispondano effettivamente agli obbiettivi strategici. Ad esempio, che i progetti di supporto all’innovazione d’impresa incorporino gli obbiettivi di crescita dell’occupazione, e della sua qualità (dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, dei livelli retributivi ecc.), della parità di genere, della coerenza tra innovazione produttiva e sostenibilità ambientale (economia circolare, scelte energetiche ecc.). Che i programmi di riqualificazione urbana, con i significativi interventi edilizi, tengano conto degli obbiettivi di politica per la casa per tutti, evitando che le aree verdi siano oasi ambientaliste per le fasce più agiate della popolazione, dimenticando le periferie. Che le infrastrutture fisiche per i beni comuni abbiamo forme di gestione coerenti con la natura di questi stessi beni – cioè riflettano il criterio dell’autogoverno della comunità, in modo da tornare a vantaggio del benessere delle comunità stesse (si noti ad esempio che la mancanza di investimenti sul sistema idrico nazionale è stata presentata in passato come la ragione della “privatizzazione della gestione”: ora che uno straordinario investimento pubblico viene previsto per l’efficienza del sistema idrico non c’è più ragione di non dare attuazione al volere referendario).

Molti altri esempi si potrebbero fare. Tali forme di responsabilità sociale condivisa (potrebbero essere comitati regionali, metropolitani, e territoriali per la responsabilità sociale condivisa nella gestione e attuazione del piano ripresa e resilienza) dovrebbero prevedere la presenza delle autorità pubbliche e delle parti interessante (cioè forme di partecipazione multi-stakeholder), ma non ridursi a meri organi di contrattazione, dove il più forte la fa da padrone. Per questo deve essere chiara la priorità delle finalità pubbliche e degli obbiettivi di benessere e di equità sociale, mentre gli attuatori – che pure hanno interessi legittimi – devono avere voce nella fase strumentale, cioè quando possono essere discussi i mezzi per l’attuazione. Insomma prima dovrà venire la soddisfazione dei bisogni, e solo poi la remunerazione dei contributi (sia pur rilevanti), il che attribuisce un ruolo speciale all’ente pubblico nella conduzione delle forme di partecipazione.

Tuttavia, poiché è difficile pensare a gerarchie formali, che non possano essere superate dalle prassi partecipative, occorre prevedere procedure di partecipazione egualitaria ed equa degli stakeholder, che superino i gap di informazione e potere economico e di condizionamento. E costringano tutti a presentare proposte che soddisfino il criterio dell’imparzialità, dell’accettabilità generale e della coerenza con le priorità pubbliche, senza mai togliere ai più deboli il diritto al dissenso, e imponendo sempre l’accountability pubblica delle scelte. Seguendo in tal modo i requisiti di democrazia deliberativa che attuano l’idea dell’uso pubblico della ragione – sulla scia di quanto suggerito da pensatori come Rawls (1993) e Sen (2009), ben prima della crisi attuale (per una traduzione di questi concetti in forme di governance che attuino la responsabilità sociale condivisa si veda Sacconi 2011a, 2011b).

Democrazia nella governance dell’impresa

In secondo luogo vi è il livello micro, quello delle organizzazioni ed istituzioni economiche – o imprese – che verranno chiamate o parteciperanno all’attuazione e che ne saranno incaricate e finanziate. A questo livello si possono ottenere cambiamenti strutturali permanenti nelle forme di governo del tessuto delle organizzazioni economiche del Paese, siano esse soggetti di diritto pubblico o privato. La logica è analoga al punto precedente: innovazioni produttive, attività industriali nel settore edilizio, sviluppo di infrastrutture fisiche e tecnologiche, progetti di digitalizzazione delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, iniziative industriali nell’ambito delle fonti di energia rinnovabile, creazione di servizi informatici e di piattaforme digitali, sviluppo di tecnologie e prodotti per la mobilità sostenibile (ad es. i mezzi del trasporto pubblico locale, così drammaticamente insufficienti per gestire la mobilità degli studenti), sviluppo di beni strumentali e servizi tecnologici necessari al rafforzare la sanità pubblica territoriale, nonché le organizzazioni per offrire tali servizi, la creazione dell’infrastruttura organizzativa per le attività di cura – saranno tutti ambiti di creazione e attivazione di organizzazioni economiche e imprese di vario tipo e natura giuridica. Che dovranno essere funzionali agli obbiettivi strategici, tra cui la riduzione delle diseguaglianze, e certamente, ma solo dopo, a creare e distribuire valore ai soggetti interessati. La distribuzione più equa dei poteri decisionali è un obbiettivo a sé ed un mezzo per tutti gli altri. In conseguenza in questa logica, si inseriscono le proposte di sviluppo della democrazia economica e della partecipazione dei lavoratori e dei cittadini alla governance delle imprese di varia natura e forma giuridica e organizzativa.

Consigli del lavoro e della cittadinanza

La proposta principale è organizzare la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini alla governance delle imprese (in primis le società di capitali) attraverso l’istituto dei Consigli del lavoro e della cittadinanza. In tal modo si trasferiscono ai lavoratori e agli altri stakeholder delle imprese diritti di informazione, consultazione e co-decisione sulle scelte strategiche (ad es. sulle innovazioni e le conseguenze per l’organizzazione del lavoro) che le imprese prenderanno in relazione all’attuazione delle missioni del recovery plan (secondo come queste saranno declinate per ciascun progetto e influiranno sull’attività ordinaria delle imprese). In concreto, la proposta è che la formazione del consiglio dovrebbe essere obbligatoria per ogni impresa di una certa dimensione (media) che riceva fondi pubblici o benefici derivanti dal piano.

La comunanza tra partecipazione dei lavoratori dell’impresa maggiore e quella dei lavoratori dell’indotto (o rete di fornitura territoriale) – che è il primo aspetto originale della proposta (per i dettagli si veda Sacconi, Denozza, Stabilini, 2019; e inoltre Barca, Luongo, 2020, cap V) – garantirebbe che la partecipazione (non corporativa) sia orientata alla riduzione della diseguaglianza tra gli stessi lavoratori; ovvero a farsi carico della fragilità dei lavoratori che, pur contribuendo al processo di creazione del valore, sono fuori dai recinti organizzativi dell’impresa maggiore, e quindi subiscono l’effetto di precarizzazione dei contratti di lavoro dovuto all’esternalizzazione (sono i lavoratori colpiti in modo più pesante dalla pandemia).

Questo consentirebbe inoltre di affrontare l’impatto sull’occupazione che seguirà alla fine del blocco legale dei licenziamenti. Ci si può infatti domandare: come sarà gestita la fase delle ristrutturazioni? In che modo le risorse del piano genereranno per le imprese non solo opportunità di “efficientamento” dei costi e ritorno ai profitti, ma buona e stabile occupazione, investimento e riconoscimento del valore del capitale umano, protezione del lavoratore dal rischio di eventi avversi e imprevisti (come la pandemia), cui il lavoratore va soggetto non meno dell’imprenditore, senza esserne responsabile e neppure avere la possibilità di proteggersi con decisioni corrispondenti (come può chi ha le redini del governo dell’impresa)?

È necessario che il passaggio dall’emergenza alla gestione della ripresa veda nelle imprese un sistema di governance che dall’interno consenta di gestire in modo co-determinato le ristrutturazioni, sfruttando le opportunità offerte dall’investimento pubblico per creare buona occupazione (questo riguarda sia i lavoratori core dell’impresa, sia quelli dell’indotto o della filiera). D’altra parte, abbiamo visto – i casi Whirlpool e Ilva docunt – quanto le imprese multinazionali abbiano in considerazione gli impegni contrattuali col Governo (sic!) quando si tratti di disinvestire dall’Italia (avendo magari a cuore i loro impegni con gli stakeholder della casa madre). C’è poco da fare: o sei dentro ai processi di presa delle decisioni strategiche, oppure persino al Governo resta solo la possibilità di “metterci una pezza”.

Tuttavia non si deve avere solo una visione difensiva della proposta: la partecipazione dei lavoratori, oltre la funzione preventiva e deterrente di comportamenti opportunistici nell’emergenza, è il miglior garante della compatibilità/sostenibilità sociale e occupazionale dell’innovazione produttiva, della digitalizzazione, dei processi di crescita (fusione e acquisizione), della gestione degli interventi di riqualificazione urbana e delle connesse attività edilizie ecc., e degli stessi impatti occupazionali connessi alla riconversione green delle imprese.

Non esiste nessun serio argomento (anche se non possiamo parlarne qui diffusamente) per negare che la condivisione o la limitazione dell’autorità formale dei detentori del diritto di proprietà sia funzionale alla protezione degli investimenti in capitale umano dei lavoratori, sia nelle imprese “dell’economia della conoscenza” sia in quelle ad alta intensità di lavoro ove il “sevizio reso”, e perciò la produttività, dipende dalle persone. Però ora è giunto il momento di un cambio di modello mentale: l’assetto del governo delle imprese ha effetti sulla distribuzione, non solo della ricchezza ma dello “star-bene” nel lavoro (nel senso delle capacità di funzionare nelle proprie vite), il che è altrettanto importante dell’efficienza produttiva e fa tutt’uno con la creazione congiunta di valore – se si considera che un assetto di governo seleziona sempre una delle molteplici distribuzioni (appropriazioni) compatibili con una certa quantità di valore congiuntamente creato, ma solo alcune soluzioni sono accettabili e quindi legittime dal punto di vista della giustizia (si veda Sacconi, 2019; per una discussione più approfondita del fondamento della corporate governance nella giustizia distributiva si veda Fia, Sacconi, 2019).

Qui ad esempio si vede perfettamente all’opera la natura trasversale della “questione di genere”. La parità di genere nella partecipazione ai consigli (che tenga conto ovviamente della composizione dei lavoratori) aiuterebbe a raggiungere due obbiettivi: (a) il superamento della discriminazione femminile nel mondo del lavoro (effettivo perseguimento dell’uguaglianza di trattamento), e al contempo (b) che il governo di impresa rifletta criteri di maggiore imparzialità, altruismo e apertura al dialogo (che tipicamente, secondo molti studi, accompagnano la partecipazione delle donne al governo delle organizzazioni).

Il secondo aspetto innovativo della proposta dei Consigli del lavoro e della cittadinanza – consistente nella partecipazione al consiglio delle comunità locali aventi interessi ambientali – ha un’ovvia relazione con il fatto che le scelte di innovazione e riorganizzazione delle imprese siano coerenti con l’obbiettivo strategico della sostenibilità ambientale, in modo che innovazione e digitalizzazione corrispondano agli obbiettivi di riconversione ecologica dell’economia, al cambiamento del modello energetico ecc. La presenza del lavoro e dell’interesse ambientale nel consiglio pongono le basi per trovare volta a volta l’equilibrio tra pretese non necessariamente sempre identiche: tra giustizia inter-generazionale e infra-generazionale, tra giustizia sociale e giustizia ambientale.

Queste forme di democrazia economica e industriale possono essere viste come il modo concreto di attuare la responsabilità sociale (o sostenibilità) d’impresa e l’orientamento al perseguimento bilanciato degli interessi di molteplici stakeholder (di cui, dopo la dichiarazione della business rountable di un anno fa, tutti vociferano – anche chi prima era accecato dalla dottrina dello shareholder value). È evidente che tale esigenza di responsabilità si imporrà per le imprese a vario titolo coinvolte nei progetti del recovery plan e che si avvarranno in parte delle risorse o degli investimenti pubblici, o delle agevolazioni in termini di credito ecc. Bisogna evitare che tutto ciò si limiti ad una integrazione di doveri di rendicontazione – con un capitolo in più nei bilanci sociali e di sostenibilità. È certamente bene che questi ultimi divengano obbligatori, ma (come abbiamo detto) la rendicontazione (a meno che non sia intesa come contabilizzazione dell’utilizzo dei fondi pubblici) ha senso se è funzionale all’esercizio dei diritti di partecipazione degli stakeholder al governo dell’impresa.

I consigli possono inoltre essere la base per garantire anche la partecipazione strategica nel consiglio di amministrazione e quindi la co-decisione a livello del CdA. È inverosimile una riforma immediata del diritto societario, che introduca una co-determinazione sostanziale nelle imprese italiane in questa fase (50% dei posti del consiglio di sorveglianza – tolto il presidente – come nel modello più ambizioso in Germania), ma nondimeno una presenza nel CdA di alcuni rappresentanti del consiglio del lavoro e della cittadinanza potrebbe esser ottenuta già ora (invece servirebbe poco ammettere un consigliere minoritario subito inginocchiato allo “scopo sociale” res sic stantibus dell’impresa) (si veda in proposito: Sacconi, Denozza e Stabilini, 2019).

Al contempo si dovrebbe però sostenere che, mentre si avvia un così gigantesco piano di investimenti pubblici che salveranno il tessuto delle imprese private, andrebbe aperto un cantiere sulla riforma “dell’interesse sociale” dell’impresa capitalistica, per passare a un modello in cui lo scopo dell’impresa sia perseguire in modo bilanciato l’interesse dei suoi stakeholder. E che a questo orientamento strategico debbano corrispondere i doveri fiduciari degli amministratori, e la composizione degli organi di governo (CdA incluso, che a tal punto implicherebbe una presenza significativa di stakeholder altri rispetto all’investitore di capitale). Sebbene queste proposte siano ormai risalenti a prima della crisi finanziaria globale (Sacconi, 2004, 2014), esistono finalmente documenti europei che muovono primi passi in questa direzione (Commissione Europea, 2020) e che permettono di considerare modalità diverse di attuazione. La migliore delle quali sarebbe una combinazione tra obbligatorietà delle norme generali, soft-law e self-regulation – che non significano “volontarietà” perché implicano sempre almeno cambiamenti statutari – come già suggerito per i Consigli del lavoro e della cittadinanza nelle proposte del Forum DD (si veda ancora: Sacconi, Denozza, Stabilini, 2019).

Impresa sociale come forma di democrazia economica

La secondo proposta a livello micro è lo sviluppo di forme di impresa sociale democratica (nella forma cooperativa o in altra forma, ma sempre coerenti col criterio della democraticità della governance). Nel caso precedente l’obbiettivo è quello di creare forme di governance che nell’impresa capitalistica garantiscano il bilanciamento tra obbiettivi di profitto e gli obbiettivi di altri stakeholder, i quali in larga misura riflettono gli obbiettivi sociali, ambientali e anche economici (reddito di soggetti altri dall’investitore di capitale) propri del recovery plan. Si dovrebbe tuttavia pensare che l’attuazione del piano richieda (e sia al contempo l’opportunità per lo sviluppo di) forme di impresa e organizzazione dell’attività economica non capitalistiche, in cui gli obbiettivi economici sociali e ambientali del piano siano costitutivi del fine e dello scopo sociale stesso dell’impresa. In altre parole, imprese sociali che escludano lo scopo di profitto (distribuzione degli utili, se non a livelli molto limitati come per i “ristorni” delle società cooperative) e che perseguano obbiettivi di giustizia sociale e di equo bilanciamento, assieme alla particolare missione verso un beneficiario diverso dal produttore.

La missione dell’impresa sociale, l’essere rivolta a un obbiettivo di benessere non egoistico, e al contempo a un’idea di giustizia sociale (l’equa generazione delle capacità di funzionare bene in vari campi per i beneficiari) e di equa partecipazione alla sua identificazione da parte di soggetti diversi – lavoratori, sostenitori, utenti del servizio, volontari, comunità locale – può mobilitare risorse umane e un capitale (sociale) di motivazione e fiducia che è inaccessibile a organizzazioni percepite come aventi uno scopo prevalentemente egoistico.

Questa è la ragione del perché storicamente tanti beni e servizi di social welfare – sia prima che assieme allo sviluppo degli Stati Sociali – sono stati offerti dal settore non profit. Laddove invece l’impresa capitalistica sistematicamente fallisce (la motivazione di profitto diventa la base di comportamenti opportunistici) e l’offerta pubblica (opportuna per garantire universalità, adozione di standard comuni, utilizzo di risorse pubbliche ingenti e impiego delle professionalità più qualificate) tuttavia non garantisce sufficiente differenziazione in risposta alla varietà di capacità/funzionamenti cui le persone aspirano. E soprattutto spesso non consente l’autogoverno e la partecipazione democratica dei lavoratori, volontari, sostenitori etc. Rispetto alla natura gerarchica delle imprese capitalistiche e delle stesse organizzazioni burocratiche pubbliche (fatte salve – forse – le università), l’impresa sociale favorisce maggiormente l’autodeterminazione e l’autogoverno.

La mobilitazione delle risorse di fiducia e motivazione avviene però solo qualora le imprese sociali abbiano effettivamente una base ideale e una governance democratica, in cui si riflettano le idee di autodeterminazione e autogoverno espresse da un patto costitutivo tra le parti interessate, grazie al quale un’ideale di giustizia sociale è condiviso (Sacconi, Grimalda, 2007). L’impresa sociale nella forma cooperativa è certamente quella che garantisce maggiormente il valore dell’autogoverno e quindi la possibilità di mobilitare motivazioni ideali e incentivi unici. Ma anch’essa deve perciò esser veramente democratica, e deve prevedere anche il bilanciamento e la partecipazione oltre che dei lavoratori (la cui partecipazione effettiva non è per altro sempre assodata e va quindi organizzata) di stakeholder ulteriori, ad esempio sostenitori, donatori, volontari, utenti.

Bisogna quindi evitare che tali forme di impresa siano sfruttate opportunisticamente per catturare fondi del recovery plan da parte di soggetti che cerchino di aggirarne i vincoli alla distribuzione degli utili e che non ne rispettino la governance democratica. Ciò vale anche per schemi di governance della relazione contrattuale trilaterale tra imprese sociali, finanziatori privati speculativi ed enti pubblici (come ad esempio i Social Impact Bonds), in base ai quali si cerchino ora di sfruttare gli investimenti pubblici per cavarne la remunerazione dell’investimento finanziario speculativo, presentata sotto le spoglie di remunerazione per l’investimento nel finanziamento dell’impresa sociale. Questi schemi rischiano di avere effetti di “spiazzamento” sulle motivazioni, che comprometterebbero la vera forza dell’impresa sociale, e la ragione della sua coerenza speciale con le finalità pubbliche di uno sforzo straordinario come l’attuale.

L’impresa sociale, specie nella forma cooperativa, può condividere gli obbiettivi del recovery plan nella sua stessa missione istituiva, e quindi può affiancare la pubblica amministrazione nella co-progettazione degli interventi attuativi, nella loro implementazione e rendicontazione. Perciò è una forma di impresa troppo importante per limitarla all’ambito pur essenziale della sola lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Per chi condivide l’idea che uno degli obbiettivi del piano sia sviluppare la democrazia economica, sia per ragioni strumentali agli obbiettivi di benessere, sia intrinseci (per il fatto che l’autogoverno democratico è esso stesso un valore a sé dal punto di vista del benessere delle persone e della riduzione delle diseguaglianze), dovrebbe essere chiaro che ne vada sperimentato l’uso per la governance dei servizi pubblici locali intesi come “beni comuni”. Qui l’insegnamento di Elinor Ostrom (Ostrom, 1990) dovrebbe essere sfruttato per disegnare le forme di autogoverno dell’offerta di servizi pubblici locali (Sacconi, Ottone, 2015), che potrebbero essere utilizzate per la gestione delle infrastrutture fisiche e tecnologiche a supporto dello sviluppo economico locale. Nonché per far cooperare diversi soggetti dediti all’innovazione e al trasferimento di conoscenza alle piccole imprese, oppure per sviluppare le forme della sanità territoriale, basata sulla collaborazione tra medici e altri operatori sanitari, nonché – ad ulteriore esempio – per garantire un futuro migliore alle organizzazioni di ricovero e cura per gli anziani, che le sottragga agli abusi derivanti dalla subordinazione al potere politico locale o agli interessi “di mercato”.

DOI: 10.7425/IS.2021.01.10

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