Era già accaduto durante la prima ondata della primavera 2020. Poi, dopo un’estate trascorsa con un atteggiamento ottimistico, cullati dall’illusione che il virus fosse sotto controllo, la seconda ondata di contagi ha sommerso e travolto il sistema sociosanitario in quasi tutto il Paese.
Anche là dove, come in Lombardia, eravamo convinti di avere un sistema eccellente e solido, ma che sostanzialmente, come molte costruzioni imponenti, era stato costruito nell’illusione che tecnologia avanzata e l’alta specializzazione ci mettesse al riparo da qualsiasi evento; ma senza avvedersi che ciò era avvenuto erodendo le basi su cui tale costruzione si dovrebbe dovuta fondare.
E così il sistema sociosanitario lombardo si è dimostrato un gigante dai piedi d’argilla: prevenzione, medicina di base, reti assistenziali di territorio da oltre vent’anni erano la cenerentola del sistema, con DRG poco remunerative che sostanzialmente hanno spinto gli operatori, pubblici e privati, a concentrare gli investimenti in prestazioni sanitarie ospedaliere ad alta intensità terapeutica, ma, a ben vedere, a basso contenuto assistenziale e di cura. La cultura dell’assistenza e della cura si era trasformata in cultura della prestazione, gli interventi sanitari sono stati denominati “produzioni”, mentre prevaleva un approccio manageriale centrato sui budget e sulle trimestrali di cassa.
E infatti, nel sistema lombardo dell’Assistenza Domiciliare Integrata, la presa in carico dei pazienti, operata dagli enti accreditati, viene valuta in relazione ai “livelli di produzione”, da collocare dentro piani costruiti in reazione al budget assegnato, più che all’effettiva rilevazione dei fabbisogni. Emblematica anche la definizione scelta per descrivere le situazioni in cui un operatore accreditato realizza una presa in carico di pazienti superiore a quella programmata dai budget, che non viene indicata come “incremento della domanda” ma come “sovrapproduzione”.
A pensarci bene pare un’aberrazione: chi si prende cura di bisogni crescenti determina un’inefficienza del sistema poiché produce più cura, più assistenza, più servizi ai cittadini. Queste sovrapproduzioni in molti casi sono state sanzionate come “sforamenti di budget” da non remunerare, determinando di conseguenza atteggiamenti di prudenza o di elusione dei una domanda crescente che sarebbe stato doveroso prendere in considerazione nei primi mesi del 2020 come un campanello di allarme: la medicina di territorio e il sistema assistenziale e di cure domiciliari erano l’argine che l’ondata di piena dei contagi stava erodendo.
La questione qui sollevata non è riconducibile, come qualcuno afferma, alla presenza di operatori privati nel sistema sanitario sociosanitario: basterebbe considerare come si sono mobilitati molti gestori privati – per citarne uno su tutti, il Gruppo Humanitas Gavazzeni – così come molti gestori di RSA, cooperative sociali impegnate nella gestione di Centri Residenziali o Diurni per anziani o persone con disabilità o nell’Assistenza Domiciliare Integrata, per testimoniare che non è nella distinzione tra pubblico e privato che si devono cercare le ragioni di una crisi, ma nella rinuncia, da parte dei decisori politici e dei programmatori del sistema sociosanitario lombardo, ad esercitare una funzione di programmazione-controllo attenta all’evoluzione dei bisogni, prima che alla gestione dei budget.
La conseguenza è stata che il Pronto Soccorso degli ospedali è diventato il canale di scolmo esploso: la pandemia è andata fuori controllo in misura superiore al resto d’Italia, sino all’immagine che rimarrà impressa nella memoria collettiva delle bare trasportate dai camion dell’esercito.
La risposta all’ondata di piena è stata eroica e tempestiva, con una mobilitazione enorme da parte di tutte le istituzioni locali e da parte della società civile: sindaci e funzionari comunali, ATS e operatori sanitari, ospedali pubblici e privati, imprese ed enti di Terzo settore, cooperative sociali e singoli cittadini. Una risposta grandiosa che ha visto realizzare operazioni emblematiche, come l’ospedale costruito presso la Fiera di Bergamo da Alpini e Artigiani, i Covid Hotel allestiti dalle cooperative sociali insieme ad alcuni albergatori, le reti di volontariato per assicurare una tenuta relazionale e assistenziale capillare. Fino ad arrivare alla impressionante capacità di raccolta fondi e alla grande quantità di donazioni in denaro che si sono realizzate e che hanno consentito la realizzazione di buona parte delle risposte all’emergenza appena citate.
Grazie a questo e, ovviamente, alle misure di controllo della pandemia, siamo quindi arrivati all’estate e tutto sembrava essersi rivolto al meglio: sembrava realizzarsi la profezia “andrà tutto bene” esposta su molti balconi delle nostre città e dei nostri paesi.
Si è quindi iniziato a parlare di piani per preparare la possibile ripresa dell’epidemia nei mesi autunnali, a prevedere interventi per prevenire e contenere la seconda ondata; ma la tensione vista qualche mese prima pareva esaurita: sono ricomparsi i distinguo e le difese corporative di aree di interesse o di “primariato” e si è ritornati ad un modello decisionale tradizionale e viziato da tutte le limitazioni già prima evidenziate. Gradualmente la società civile, il terzo settore, le forze sociali protagoniste imprescindibili della risposta all’emergenza sono state dimenticate e messe da parte nei luoghi ove si riorganizzava la risposta sociosanitaria a possibili nuove ondate, così come sono stati messi da parte medici ed infermieri di base, celebrati con la retorica come eroi e poi guardati con fastidio ogni volta che segnalavano la pericolosità degli assembramenti estivi: cassandre che rovinavano il clima da “after-hours”.
Le successive ondate, con le varianti del virus, hanno portato nuovi confinamenti e restrizioni. Con centinaia di morti ogni settimana, gli ospedali ancora sotto una pressione preoccupante e una medicina di territorio e soprattutto un sistema di cure domiciliari insufficiente.
Insomma, l’impronta organizzativa del nostro sistema sociosanitario è rimasta immutata ed è come se dalla lezione della primavera scorsa non avessimo imparato nulla. I piedi del gigante sono ancora d’argilla e un serio approccio alla domiciliarità è ben lontano dall’essere diventato una priorità condivisa.
Le organizzazioni del terzo settore e dell’economia sociale vengono ancora prevalentemente considerate come ancillari o utili solo per rispondere all’emergenza o alle situazioni marginali, ma non si vede un cambio di paradigma nelle forme del coinvolgimento da parte delle istituzioni pubbliche, né da parte dei grandi player della sanità privata.
Fortunatamente, in questo mesi si sono via via trovate migliori tarature delle cure, i protocolli di gestione dell’emergenza sono stati consolidati, una parte dei cittadini appare molto più consapevole e prudente; ma quello che lascia attoniti, oltre all’immobilismo nell’organizzazione del sistema sociosanitario, è ancora il prevalere, da parte di molti di decisori politici, di una logica di schieramento ideologica, una ricerca di annunci ad effetto o di posizionamento sull’onda mediatica, che il fiuto di questo o di quel politico, individua come più remunerativa sul piano del consenso immediato.
Prendiamo il caso degli “Infermieri di comunità”, che sono stati presentati come un intervento straordinario per rinforzare la rete di assistenza sanitaria sul territorio, arruolati in tempi stretti soprattutto da parte di strutture pubbliche, che in gran parte hanno “attirato” infermieri che lavoravano nelle RSA o nella rete dell’Assistenza Domiciliare Integrata, determinando un effetto di spostamento di risorse più che un vero e proprio potenziamento del sistema. Non sarebbe stato molto più efficace aumentare semplicemente la dotazione di risorse economiche, finalizzate ad una migliore implementazione dei servizi infermieristici territoriali e delle RSA?
Ma poter vantare l’assunzione di qualche migliaio di infermieri nel sistema pubblico, potendo tra l’altro sostenere di aver invertito la tendenza degli ultimi anni di tagli al Fondo Sanitario Nazionale e al Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, è un esito più spendibile da un punto di vista comunicativo, è più efficace nel trasmettere l’idea che “si sta facendo qualcosa”. E questa mossa contribuisce anche a dare risposta ad alcune generalizzazioni e luoghi comuni persistenti, come quello rilanciato da Milena Gabanelli che nella rubrica “Data-Room” del Corriere della Sera del 2 novembre denunciava che “l’assistenza ai più fragili è appaltata ai privati con infermieri pagati meno”. Insomma, pochi (se raffrontati al reale fabbisogno) infermieri di comunità assunti dalle ASL (ATS e ASST per la Lombardia) diventano una risposta politica la cui principale utilità risiede proprio nella efficacia sul piano della comunicazione, più di quanto non risponda alla necessità di riorganizzazione del sistema sociosanitario.
Quello di cui la pandemia avrebbe dovuto renderci consapevoli, con l’ecatombe di decessi tra la popolazione anziana e tra le persone ricoverate nelle RSA, è che il nostro sistema di welfare è da tempo inadeguato, questione che non può essere affrontata con provvedimenti di facciata e che richiede di intervenire non solo sul piano delle risposte, ma prima ancora sul piano dell’analisi: ciò che va contrastato è in primo luogo la marginalità politica attribuita al welfare, ben testimoniata dall’infelice frase del presidente di Regione che ha sminuito l’impatto dei morti per Covid-19 in considerazione del fatto si tratta prevalentemente di persone anziane e quindi sostanzialmente improduttive.
In sostanza, una diversa cultura del welfare richiede in primo luogo di superare la lettura superficiale della nostra società che non coglie le fratture sociali che attraversano il mondo contemporaneo e legge la fragilità, il disagio e i bisogni assistenziali come fenomeni marginali.
I bisogni sociali, in questa visione, non riguardano potenzialmente ciascuno di noi, ma persone “sfortunate” (quando si guardano con un occhio benevolo, tra il caritativo e il paternalistico) o “devianti” (quando lo sguardo è quello giudicante, che condanna il povero o il malato).
Quello che la pandemia ha mostrato e che una parte rilevante della politica pare non cogliere, è che il bisogno di cura e assistenza è un’esperienza trasversale che interessa tutti gli strati sociali; e sarebbe compito della politica rimuovere gli ostacoli che rendono fortemente diseguale la risposta a questa esigenza universale: le “fragilità sociali” e i bisogni di cura assistenziale e relazionale, attraversano sempre più frequentemente le esistenze normali e le “fratture” che in passato ritenevamo si collocassero ai margini degli strati sociali oggi si trovano sempre più vicine alla vita e alla quotidianità di ciascuno.
Questa sensazione di insicurezza, di essere esposti a rischi sociali da cui ci credevamo immuni, è probabilmente tra i motivi che portano alla crescita dei sentimenti di paura e risentimento tra la popolazione: diminuiscono i reati, ma ci sentiamo più esposti alla criminalità; ci sentiamo minacciati da stranieri che sono però presenti in misura inferiore a quella percepita; ci sentiamo più poveri, ma i depositi bancari aumentano.
Non si tratta tuttavia di semplici distorsioni tra percezione e realtà, tantomeno di vittimismo, ma di segnali della presenza di una serie di faglie profonde che rischiano di far esplodere nei prossimi anni un livello inedito di diseguaglianze che potrebbero ulteriormente fratturare un Paese, che, proprio in tema di qualità e diffusione del welfare, è attraversato ancora da troppe distanze. In sostanza, il sentirsi soli di fronte a problemi che avvertiamo non essere più così distanti da noi, genera timori e risentimenti.
Distanze tra generazioni e territori, con un sistema che protegge molto gli anziani e poco i giovani, protegge i bambini, ma non sempre le famiglie, raggiunge i problemi più noti e consolidati, ma non capta i bisogni emergenti e le nuove fragilità. Arriva in alcune zone, ma ne lascia scoperte altre. Ampi sono infatti i divari tra aree geografiche: fra nord e sud, in primo luogo, ma anche fra aree centrali e metropolitane e periferie, urbane o rurali.
Sono cresciuti i bisogni, ma sono diminuite la capacità di presa in carico complessiva e i sistemi di welfare faticano a mantenere un legame di fiducia tra istituzioni e cittadini.
Da alcuni anni si rileva il continuo ampliarsi del divario tra i bisogni che emergono e le risorse pubbliche disponibili: ad esempio il tasso di presa in carico delle persone non autosufficienti è in media nazionale del 10% considerando le strutture residenziali – circa 300 mila posti letto – e diurne (il che significa che in ben 9 casi su 10 le famiglie sono lasciate sole); salirebbe al 30% considerando anche le persone che fruiscono di una qualche forma di intervento domiciliare, che ha però una intensità assistenziale media di 17 accessi all’anno per ogni utente: di fatto un aiuto inconsistente, che risponde ai bisogni delle persone solo in modo trascurabile.
Un livello di copertura che crolla ulteriormente in molte regioni del Sud, dove i servizi per domiciliari sono ancora poco presenti. Per questi motivi si è ampiamente diffuso, in tutto il Paese, un ampio mercato informale delle prestazioni di cura in cui operano circa un milione di assistenti familiari (più comunemente chiamate “badanti”), di fatto la principale forma di risposta che gli italiani hanno “auto-organizzato” per rispondere alle loro esigenze oltre alla presa in carico diretta da parte dei familiari e in particolare delle donne.
Questo numero appare ulteriormente significativo se consideriamo che complessivamente i dipendenti del Sistema Sanitario Nazionale sono circa 600 mila e che i dipendenti delle cooperative sociali italiane, il più significativo soggetto che si occupa di servizi socioassistenziali, sono 355 mila. Le assistenti familiari – quindi una risposta in gran parte esterna al sistema dei servizi di welfare, che le famiglie trovano e pagano da sole – in altre parole, sono da sole in numero pari ai lavoratori pubblici e privati del nostro welfare.
Esiste quindi una grande “frattura” che percorre il sistema di welfare italiano, dove una parte dei cittadini può beneficiare della presa in carico pubblica o comunque assicurata dalla rete dei soggetti pubblici e privati che operano nel nostro welfare e un’altra si affida al lavoro di cura informale e spesso sommerso. In questa frattura il virus si è infiltrato e ne ha provocato la deflagrazione.
Nei prossimi decenni – come dimostrano le analisi sulla demografia – invecchiamento della popolazione, aumento delle aspettative di vita e aumento delle situazioni di non autosufficienza porteranno una pressione ulteriore sul sistema di welfare, che incrociate con la diversa conformazione delle famiglie e il sistema previdenziale riformato, rischia di aprire voragini nella possibilità di molte persone di potersi assicurare una vecchiaia dignitosa e protetta. E non è certo con la manovra un po’ ipocrita di assegnare priorità alle persone con più di 80 anni nelle vaccinazioni che assicuriamo protezione agli anziani, che si potrebbero proteggere con la permanenza in casa e una sistema di cure domiciliari più capillare. Mentre forse sarebbe stato più efficace vaccinare prima giovani, insegnati e studenti che con una maggiore mobilità moltiplicano anche le occasioni di contagio.
L’orientamento alle soluzioni individuali (le badanti) ha dato risposte importanti, ma la sua sostenibilità nel tempo è limitata, inoltre rappresenta una soluzione che finisce per isolare ancora di più le persone fragili o con bisogni sociali intensi.
Questo processo è ulteriormente enfatizzato se consideriamo la crescente frammentazione dei nuclei familiari: il 44% dei nuclei familiari italiani hanno un solo adulto in casa e 8 milioni di persone vivono sole. E, sempre sul fronte della sostenibilità, un sistema di protezione sociale basato largamente su trasferimenti monetari alle famiglie e non su servizi reali in funzione dei bisogni, su cui fino ad oggi si è basata anche tanta parte della tenuta della coesione sociale del nostro Paese, non sarà più in grado di reggere a fronte delle proiezioni demografiche ed economiche, in un Paese in cui già oggi le pensioni hanno l’incidenza più alta d’Europa sul totale della spesa pubblica di welfare (circa il 50% in Italia contro il 35% medio di altri Paesi).
Oltre a non essere sostenibile, un welfare basato prevalentemente sul trasferimento monetario non è in grado di assicurare una presa in carico dei bisogni sociali e rischia invece di alimentare una deriva inerziale della spesa senza produrre innovazione.
La spesa per prestazioni di invalidità civile e assegni di accompagnamento supera i 16 miliardi di euro – più della spesa di welfare totale degli enti locali – ed è in costante crescita, a conferma che la nostra spesa sociale si concentra su assegni di invalidità e accompagnamento e non su servizi; una spesa certamente necessaria allo stato attuale, ma poco correlata al grado effettivo di bisogno delle persone, cioè non è connessa al bisogno assistenziale reale di ogni beneficiario.
In sintesi, si verifica una dinamica che spinge la spesa a crescere, perché crescono i bisogni incomprimibili determinati dall’invecchiamento della popolazione e la fragilità delle famiglie. Ma a fronte dell’aumento di spesa, non si riesce ad arginare che in minima parte il bisogno e non si riescono a definire percorsi di fuoriuscita dalla condizione di disagio, che trova nella dimensione della presa in carico da parte dei servizi e della comunità il vero antidoto e la vera risorsa. Per questo ci sarebbe bisogno di gettare le basi per agire di più nella direzione di responsabilizzare ed orientare verso soluzioni condivise, più difficili da organizzare e culturalmente distanti dalla consuetudine che si è instaurata, ma che sono la strada da percorre se vogliamo dare sostenibilità e qualità ad un sistema di protezione sociale sempre più appesantito.
Come si diceva in apertura, la pandemia del Covid-19 ha messo a nudo l’inadeguatezza del nostro welfare. Il tempo intercorso tra la prima e la seconda ondata avrebbero potuto costituire il tempo per iniziare a dare avvio a tale transizione. Avrebbero potuto esserlo, se avessimo utilizzato meglio i mesi scorsi per lavorare a questo disegno, mentre si è invece nuovamente stati raggiunti dall’emergenza dalla quale ancora oggi non riusciamo ad uscire.
Così le differenze di competenze, capacità economiche, capitale di relazioni delle persone e distanze culturali, rischiano di alimentare ulteriori forme di “segmentazione” della società dove crescono diseguaglianze molteplici, determinate dalle diverse capacità di interloquire con i servizi, di reperire le informazioni e di attivare le competenze necessarie per accedere alle prestazioni e intercettare i trasferimenti monetari. Crescono così nuove forme di inequità nell’uso dei servizi di welfare, soprattutto per la difficoltà a ricomporre i servizi e spesa sociale privata con la spesa sociale pubblica.
Si avverte il bisogno di ricostruire un sistema di welfare innovativo e composito che, oltre ad essere strumento di coesione sociale, sappia essere anche una chiave per nuove occasioni di sviluppo: il welfare non è un costo ma un investimento e oggi nelle economie mature il sistema di welfare e protezione sociale è indispensabile ad assicurare la tenuta e la competitività del sistema produttivo ed economico.
Questa visione, tra l’altro, contribuisce a vedere da una prospettiva diversa il dilemma ostinatamente riprodotto in questa epoca di pandemia: dobbiamo salvare l’economia o la salute, come se le due questioni non fossero collegate. È invece utile ed opportuno assicurare un sistema di cura assistenziale sanitario e sociale adeguato a permettere al sistema imprenditoriale e del commercio di funzionare.
Per questo sarebbe necessario lavorare per promuovere e favorire i legami sociali e il rafforzamento delle relazioni, non soltanto come dimensione tipica dell’agire fra persone, ma come cifra del comportamento tra enti e istituzioni, tanto a livello locale quanto regionale e statale, fino a raggiungere una prospettiva europea delle politiche di welfare.
Serve per questo rilanciare un’idea di giustizia sociale e di coesione, dove una maggiore responsabilità delle persone verso il bene comune, diventa la base su cui costruire un modello di sviluppo economico e sociale sostenibile ed inclusivo, che ha bisogno di un progetto di città e territori che sappiano valorizzare la prossimità, le reti relazionali solidali, riscoprire il mutualismo e una diversa idea di economia, che riparta dalla creazione di valore e smetta di rincorrere l’estrazione di valore.
Serve promuovere un’idea di welfare comunitario che unisca i contesti locali e i sistemi produttivi, che integri welfare municipali e regionali con le reti di protezione mutualistiche e contrattuali, con quelle di welfare aziendale e di responsabilità solidali.
Serve ribadire che un sistema economico in trasformazione non deve e non può considerare le politiche sociali come forme della carità o della sicurezza sociale pubblica, bensì come il basamento che regge una società e il suo sistema produttivo.
Dobbiamo saper costruire una società che rovesci il rapporto tra economia e welfare, poiché dalla nostra capacità di reinventare i sistemi di cura, protezione sociale, assistenza educazione e formazione deriva la tenuta del sistema economico e produttivo.
Impossibile, infatti, immaginare che un continente di anziani, famiglie vulnerabili e giovani che diventano adulti sempre più tardi possa incrementare l'occupazione, la produttività e il progresso sociale se a questa popolazione non sapremo assicurare un sistema di cura e protezione. Saranno cioè welfare e lavoro a reggere l’economia e la possibilità di continuare a fare attività per molte imprese: insomma, uno scenario molto diverso da quello talvolta preconizzato della fine del lavoro. Certamente cambieranno tipologie e forme del lavoro, come le abbiamo conosciute negli ultimi secoli e welfare, cultura e formazione, salute e cura dell’ambiente devono diventare fattori essenziali per una crescita economica sostenibile che torni a considerare l’equità un valore fondamentale.
Pensare ai territori, alle città, alle comunità locali come luoghi di relazione è la condizione necessaria per costruire dimensioni di lavoro e di incontro per le persone, che sono il fondamento della coesione sociale. Realizzare queste intenzioni oggi, in un’epoca di grandi trasformazioni, richiede di immaginare le istituzioni come organizzazioni aperte di incontro per realizzare innovazione sociale.
Il welfare ha definitivamente smesso di essere un tema esclusivo delle politiche pubbliche così come ha smesso di riguardare esclusivamente fasce di popolazione marginali. Il welfare riguarda tutti ed è un potente strumento di sviluppo oltre che un settore fondamentale di investimento e crescita occupazionale. Un bene comune a tutto tondo.
DOI: 10.7425/IS.2021.01.11
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