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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2021

Saggi

La recente esperienza napoletana sui beni comuni, tra governance istituzionale e output sociali. Il caso dell’Ex Asilo Filangieri

Armando Vittoria, Leandro Mazzarella

Abstract

Negli ultimi vent’anni, il tema dei beni comuni ha conosciuto una larga diffusione nel dibattito accademico internazionale. Spesso discusso più come retorica politica che per la sua operatività – sia dal punto di vista concettuale che tassonomico – la teoria originariamente sviluppata dal premio Nobel Elinor Ostrom offre un framework utile per decifrare le tendenze in atto nella partecipazione urbana dal basso e, principalmente, nel riuso di beni pubblici abbandonati.

Questo saggio cerca di mettere in evidenza l’esperienza italiana sui beni comuni (commons), analizzando la politica sostenuta dal Comune di Napoli a partire dal 2011. La base empirica è costituta da interviste semi-strutturate somministrate ad attivisti e cittadini della comunità che fa perno attorno all’Ex Asilo Filangieri, un ex convento benedettino del XVI secolo situato nel centro storico di Napoli, considerato e istituzionalizzato come bene comune dall’ente pubblico locale. Le conclusioni mettono in evidenza alcune considerazioni sulla governance e sui risultati sociali di questa iniziativa partecipativa.

Keywords: beni comuni, urban commons, Ex Asilo Filangieri, grassroots social policy

DOI: 10.7425/IS.2021.01.06

La politica dei beni comuni in Italia: retoriche, evidenze, modelli locali

Il tema dei beni comuni ha conosciuto nell’ultimo ventennio, anche in Italia, una larga diffusione. E tuttavia mentre per la scholarship internazionale i new commons, particolarmente quelli urbani, hanno stimolato framework e modelli volti ad estendere con coerenza il campo di applicazione del modello creato da Elinor Ostrom (Crawford, Ostrom, 1995; Ostrom, 2007; Jeffrey et al., 2012; Pieraccini, 2015), in Italia la discussione sugli (ex) beni pubblici che realizzano diritti di cittadinanza più o meno pieni è stata sovente oggetto di retoriche politiche, interpretazioni ambigue, tassonomie confuse.

Un tipico esempio di tutto questo è rintracciabile nella discussione sulla cosiddetta democrazia dei beni comuni, intesa quale «modello alternativo di democrazia che destrutturi la dimensione autoritaria della sovranità [...] spostandola verso la moltitudine» (Lucarelli, 2013 - p. 67). Questa meritevole e necessaria ricerca di nuovi e progressivi orizzonti per la partecipazione politica nella condizione post-democratica (Crouch, 2003) ha infatti finito per contribuire – eccetto che per alcuni casi (Pennacchi, 2012; Lucarelli, 2013) e per alcuni lodevoli tentativi di sintesi in ottica di economia politica (Sacconi, Ottone, 2015) – a torcere in senso “discorsivo” la teoria dei commons (Negri, Hardt, 2010; Dardot, Laval, 2014), allontanandola dalla sua vera natura ostromiana di fondo.

Questa tendenza alla narrazione politica sui beni comuni ha prodotto un costante richiamo alla cosiddetta democrazia dei beni comuni, «senza però chiarire come dovrebbe esattamente configurarsi» tale modello e in «cosa si differenzierebbe dalle forme odierne di democrazia rappresentativa» (Diciotti, 2013 - p. 357). La necessità di produrre una sistemazione organica sui beni comuni si è così scontrata, da un lato, con la disomogeneità degli approcci e dei contributi presenti in letteratura, dall’altro, con le numerose e assai variegate esperienze di gestione collettiva di beni pubblici elevati a “comuni”.

Del primo, è esempio, in Italia, sia la gran confusione concettuale sul tema, che la sovrapposizione tra dimensione politica e dimensione retorica dei beni comuni. Un riflesso è negli approcci eterogenei della letteratura in materia, che è andata dalla dibattuta questione tassonomica (Diciotti, 2013; Ancona, 2014; Cerulli, De Lucia, 2014; Dani ,2014) alle ricadute per la teoria del diritto e dei diritti (Cacciari, 2010; Rodotà, 2011; Marella, 2012; Ferrajoli, 2013; Lucarelli, 2013; Genga et al., 2015), dalla sostenibilità dei beni pubblici (Regini, 1994; Bravo, 2001, 2002; Pupolizio, 2014) fino ai rapporti tra commons e dimensione politica postmoderna (Pennacchi, 2012; Lucarelli, 2013; Vittoria, 2020).

Del secondo, rilevano le esperienze-pilota locali, che pur tra tanti interessanti obiettivi raggiunti, si sono spesso caratterizzate, anche nella loro diversità, per una elevazione “a comune” di pratiche in realtà comunque distanti, per natura e governance del bene, dalla gestione di una common-pool resource in senso ostromiano. Il dibattito sui beni comuni in Italia ha insomma espresso tassonomie più flessibili rispetto alla categoria di beni che ne sono state oggetto, il cui perimetro economico, sociale e politico è apparso troppo spesso ambiguo, sfumato, onnicomprensivo, per quanto comunque individuato sulla scorta della «relazione costitutiva e reciproca che si intesse tra risorsa e comunità» e della gestione «partecipata del bene» (Marella, 2012 - p. 23).

Da qui il frequente e astratto allargamento a risorse e ambiti di natura generale quali l’ambiente, le risorse naturali, lo spazio urbano ma anche le istituzioni, i diritti sociali, l’informazione, il lavoro (Marella, 2012 - p. 17-19). Al tempo stesso è possibile cogliere nel panorama divulgativo alcuni elementi che, se uniti, paiono costituire una fisionomia di bene comune: l’inalienabilità commerciale del bene e la presenza di un gruppo sociale a cui questo fa riferimento, in cui ad essere discriminanti sono la funzione e destinazione d’uso dello stesso piuttosto che il vincolo di proprietà nonché di una struttura istituzionale indipendente da autorità e risorse esterne – forse l’aspetto più controverso, sul piano teorico e ancor di più nel riscontro delle esperienze pratiche – attraverso cui tale gruppo gestisce, cura e gode del bene in forma diretta e democratica, ovvero dando a ciascun membro la possibilità di partecipare ai processi che portano alla costituzione, modifica e cessazione delle regole condivise sulla fruizione del bene. Di là, tuttavia, della vexata quaestio sulla natura della proprietà del bene, tali esperienze – e i frame teorici che vi sono sottesi – hanno spesso non afferrato la natura a-moderna del bene “collettivo” di stampo ostromiano.

Va però anche detto che le sperimentazioni a livello locale – Bologna e Napoli su tutte – hanno fatto emergere la rilevanza delle politiche locali sui beni comuni, almeno in due sensi: quello della istituzionalizzazione di forme partecipate di gestione dei beni e quello relativo alle esperienze di produzione ascendente di interventi sociali, o meglio di politiche sociali auto-prodotte per via comunitaria and place-based (grassroots social policy). Il caso napoletano presenta, da questo punto di vista, molti spunti interessanti, perché pare cogliere l’intera gamma di sfumature tassonomiche, politiche e analitiche che caratterizza l’esperienza italiana in materia di beni comuni.

Obiettivo di questo contributo è quindi approfondire la politica locale sui beni comuni intrapresa dall’amministrazione De Magistris dopo il 2011, cercando di comprendere in che misura questa abbia contribuito a stimolare micro-modelli di governance e di produzione degli output sociali in qualche modo assimilabili a una logica di common-pool resources, cioè ricalcante «forme di autogoverno e autogestione dell’azione collettiva» (Ostrom, 2015 - p. 22-23 e 25).

Nel prossimo paragrafo tale vicenda viene letta alla luce di un frame basato sulle arene di policy urban commons based (Vittoria, 2020) e cerca di considerare se e in che misura il modello dei beni comuni napoletano abbia “funzionalizzato” arene di commons per governance e produzione di output sociali. Nel successivo paragrafo, è invece descritto il caso studio rappresentato dall’Ex Asilo Filangieri sito nel Centro Antico della città di Napoli. A seguire, i dati sulle interviste ai residenti della comunità in cui il bene è “nidificato” sono rielaborati per misurare, essenzialmente tre aspetti: la percezione della natura del bene e della sua integrazione nella comunità, quella della governance interna e dell’istituzionalizzazione e l’impatto della grassroots social policy prodotta dal bene sul territorio. Nelle conclusioni sono discussi i risultati della ricerca.

Beni Comuni ed usi civici: l’esperienza napoletana

Ad oggi in Italia non è presente un quadro normativo che disciplini organicamente ed esaustivamente la nozione di beni comuni. Un tentativo in tal senso è riconducibile alla proposta di riforma del Codice Civile dalla Commissione sui Beni Pubblici del 2007, presieduta da Stefano Rodotà, progetto che allora mirava ad introdurli come «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona», per i quali vigerebbe un vincolo di destinazione d’uso pubblico inclusivo e irreversibile, la messa al di fuori del commercio e l’acquisizione da parte di ciascun cittadino fruitore di poter agire in tutela nei confronti del bene (Chirulli, 2013 - p. 20). Tale impostazione perseguiva una molteplicità di obiettivi, primo fra tutti la soddisfazione di nuovi bisogni individuali e collettivi mediante una «piena ed effettiva costituzionalizzazione della nozione di proprietà» (Capone, 2016 - p. 602 e 611) basando questa più sul valore d’uso più che su quello di scambio (Mattei, 2011 - p. 83; Cerulli, De Lucia, 2014 - p. 17-19; Marella, 2012 - p. 26). In secondo luogo, il lavoro della Commissione mirava a codificare il regime amministrativo di tali beni, per preservare il patrimonio pubblico dal deterioramento e dalle politiche di alienazione dilaganti tra gli enti pubblici, e favorirne l’utilizzo, la fruizione e il godimento da parte della cittadinanza (Chirulli, 2013 - p. 20), nonché al potenziamento in sede giurisdizionale della tutela degli interessi cosiddetti “diffusi”.

Come noto, quanto proposto in quella sede non fu mai discusso in Parlamento e resta oggi un disegno di riforma inattuato, sebbene abbia fortemente influenzato tanto il dibattito politico quanto numerose sperimentazioni e pratiche incentrate sui beni comuni. Di quel dibattitto restano, anche, intatte le premesse costituzionali da cui traeva ispirazione e legittimità, nel tentativo di conferire un respiro sociale alla costituzionalità materiale dell’art. 42 (utilità sociale della proprietà), dell’art. 43 (servizi pubblici essenziali) e dell’articolo 118 riformato nel 2001 (sussidiarietà orizzontale).

Superata la Commissione Rodotà, il dibattito italiano sui commons ha però ripreso a ripiegarsi sul lato retorico, lasciando poco spazio a risvolti più interessanti come quello relativo al rapporto tra democrazia di prossimità e welfare locale (Vittoria, 2014), e all’impegno per favorire esperimenti di riattivazione civica dei beni pubblici locali che proprio le opportunità̀ del decentramento metropolitano previsto dalla Legge 56 del 2014 favorivano – opportunità ad esempio colte dal Regolamento bolognese del 19 maggio 2014, poi replicato in oltre duecento comuni italiani. Quest’ultimo, promosso dalla piattaforma Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà), ha introdotto sul piano amministrativo locale forme pattizie di cogestione tra privati, principalmente cittadini singoli e associati, ed enti pubblici, questi ultimi in veste di facilitatori per l’uso riqualificante e non esclusivo del proprio patrimonio da parte dei primi (Albanese 2020 - p. 20), declinato attraverso i principi di accessibilità, fruibilità e inclusività. Di base, infatti, questo tipo di regolamento prevede l’obbligo per le parti di integrare differenti proposte di cura e utilizzo dei beni, laddove quelle presentate, anche in momenti diversi, siano molteplici. I patti di collaborazione previsti da tali regolamenti, a metà strada tra contratti atipici e provvedimenti amministrativi, presuppongono una ripartizione chiara e concordata degli oneri di gestione del bene individuato tra le pubbliche amministrazioni che ne sono titolari e le collettività civiche che se ne interessano; talvolta possono esserne oggetto anche beni privati aventi una destinazione d’uso pubblico o, come nel caso della clausola di “Community land trust” prevista nel regolamento approvato dal Comune di Chieri, beni pubblici le cui progettualità di gestione partecipata ne prevedono un eventuale trasferimento di proprietà con vincolo permanente sulla destinazione d’uso (Albanese, 2020 - p. 270-272). In generale, tale approccio “amministrativo” pare aver restituito un discreto feedback, specie nel Nord Italia, nel rilancio del patrimonio pubblico, aree verdi e arredo urbano su tutti, e nello sviluppo di forme durevoli di co-gestioni ed auto-gestioni “controllate” che vedono protagonisti gruppi di cittadini, più o meno stabili e strutturati.

Un secondo filone di esperienze, oltre a quello bolognese “dei regolamenti per l’amministrazione condivisa” ispirati da Labsus – che ha certamente aperto una pista sulle politiche dei beni comuni – è stato quello napoletano. Figlio di una interpretazione estensiva di istituti tradizionalmente circoscritti ai contesti agro-silvo-pastorali – come ribadisce anche la recente Legge n. 168/2017 – tali esperienze hanno inteso estendere i diritti e gli usi collettivi al contesto urbano, traducendosi in una serie di sperimentazioni volte a ridisegnare il rapporto tra cittadinanza, pubbliche amministrazioni e proprietà pubblica, con l’orizzonte di garantire l’inalienabilità ed il vincolo di destinazione, da un lato, l’accessibilità e la fruibilità da parte dei cittadini del bene, dall’altro, sempre ricorrendo a momenti di policy locale, ovvero i regolamenti d’uso (Capone, 2016 - p. 626 e 629). Più che la proprietà è il «possesso collettivo» (Parascandalo, 2016 - p. 8) che diviene categoria giuridica e sociale attraverso cui garantire il godimento e la tutelabilità del bene ritenuto comune.

Il laboratorio civico-politico sviluppatosi sotto l’amministrazione guidata da De Magistris fornisce in tal senso spunti interessanti circa la “emersione” e la “istituzionalizzazione” di questi usi civici correlati a ex beni pubblici, nell’ottica di destinarli ad una gestione e una fruizione vagamente interpretabili come comunitarie.

Un’esperienza molto interessante, che non è tuttavia rimasta immune dall’overload retorico sul tema dei commons. Infatti, anche considerando la specificità del dibattito italiano, l’iniziativa del governo municipale ha dal principio sovraccaricato politicamente esperienze molto vagamente riconducibili agli urban commons e alla democrazia dei beni comuni, a partire dalla stessa identificazione del bene (Vittoria, 2020).

Infatti, anche volendosi distanziare dalla tassonomia della Ostrom, se intendiamo per beni comuni quei «beni il cui uso, al fine di garantire la loro conservazione o una loro fruizione collettiva [...] è disciplinato da regole prodotte da un potere democratico, il quale, in ragione del suo oggetto, può essere etichettato come un potere democratico su beni» (Diciotti, 2013 - p. 351), chiamare in causa la democrazia dei commons implicherebbe verificare in che misura, partendo da questo “potere democratico sui beni”, sia possibile sviluppare un’arena democratica che soddisfi i fondamenti morali e gli assiomi della scelta collettiva costruita attorno al bene (Ostrom 2015, 90). E, pur tenendo ferma la valida attività di recupero dei beni e le ricadute sociali prodotte dalle politiche sui cosiddetti “beni comuni” della giunta napoletana tra il 2011 e il 2017, va ribadito che tutte queste realtà non si configurano come commons e non funzionano esattamente come tali, per quanto siano rappresentate come tali nel messaggio politico: dal punto di vista del bene, come si è notato (Vittoria, 2020 - p. 114), si tratta più che di urban commons di ex-beni pubblici tangibili e accidentali (edifici comunali abbandonati, siti postindustriali, aree coltivabili di quartiere o beni confiscati) che possono attivare micro-arene sociali e «forme di governo mutualistico e cooperativo» (Micciarelli, 2014 - p. 69) sul bene; dal punto di vista della governance, di modelli non autosufficienti né indipendenti dalla coercizione esterna, e comunque realizzativi di diritti non necessariamente primari, per usare la formula della Commissione Rodotà.

L’adozione dei provvedimenti amministrativi sui beni comuni inizia nel 2011, con l’introduzione all’art. 3 dello Statuto Comunale della nozione di beni comuni come «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali» - preceduta da una delibera di Consiglio Comunale per la costituzione Acqua Bene Comune, organismo pubblico per la gestione del servizio idrico nel capoluogo campano – poi richiamati in una successiva delibera di Giunta del 2013 in quanto «beni a consumo non rivale, non escludibile ma esauribile [...] qualificabili come ‘beni a titolarità diffusa’ per i quali occorre prevedere una maggiore tutela e garantirne la fruizione collettiva e, nel contempo, la loro preservazione a vantaggio delle generazioni future».

Nell’applicare concretamente tali indirizzi, la delibera di Giunta n. 258/2014 approva poi una procedura per l’emersione dei “beni comuni” cittadini e la stesura di una convenzione che ripartisse gli oneri di gestione tra Comune e comunità, mentre con la delibera numero 7/2015 individua all’interno del patrimonio immobiliare quei beni «percepiti dalla comunità come beni comuni e suscettibili di fruizione collettiva», andando a riconoscere l’insediamento preesistente di una serie di «gruppi e comitati di cittadini» in alcuni spazi pubblici (otto in tutto) divenuti «luoghi di forte socialità, elaborazione del pensiero, di solidarietà intergenerazionale e di profondo radicamento sul territorio»; scelta suffragata dalla constatazione che proprio in tali luoghi avvenisse una «messa a reddito civica» (Pascapè, 2019 - p. 164-166).

Di fatto, le misure dell’amministrazione napoletana consentono che una serie di occupazioni abusive vengano “legalizzate” a patto di garantire i principi di accessibilità, fruibilità, inclusività e imparzialità del bene mediante assemblee di gestione aperte e democratiche.

Dal punto di vista della governance, dell’istituzionalizzazione e degli output sociali – e politici – prodotti attraverso questo schema di esercizio del “potere democratico sul bene”, quella realizzata è sostanzialmente una politica di affidamento in gestione a privati sociali autopromossi, non espressione dell’interesse generale né di comunità (se questo esiste), di beni comunali abbandonati “emergenti” – come recitano alcune delibere – più che accidentali; emergenti perché l’autopromosso gestore ne chiede una nuova valorizzazione e destinazione d’uso a fini – questi sì di impatto collettivo – di riconversione civile e di utilità sociale. Quanto al modello di istituzionalizzazione, alla nidificazione e alla governance dei beni, le politiche approvate dall’amministrazione napoletana – soprattutto tra il 2012 e il 2016, incluse quelle relative all’Ex Asilo del 2012 e 2015 di cui si dirà – non istituzionalizzano né la constituency né lo spazio di decision-making tipici di un’arena politica di common. Considerando, poi, obblighi funzionali dei gestori dei beni e la loro dipendenza dalla coercizione esterna, più che di autogoverno dei beni comuni si tratta in fondo di una politica onerosa di affidamento degli spazi e manufatti altrimenti inutilizzati a soggetti sociali non necessariamente emergenti dal territorio, né connessi al bene. Un modello, insomma, che soddisfa molto poco i design principles della Ostrom, e configura un qualcosa che non troppo difficilmente potrebbe scivolare verso un bene di comunità (ivi, 114) o quello che la Ostrom definirebbe un bene di club, per escludibilità.

E tuttavia va riconosciuto, senza dubbio, alla politica messa in campo dall’amministrazione arancione il merito di aver promosso la riattivazione della partecipazione civica costruita attorno alla riconversione civile, più che sociale, di beni ed aree altresì destinate all’abbandono e comunque potenziali cluster di marginalità e degrado urbano. A questa esperienza di politica dei beni comuni, come a quella bolognese, va ascritto il merito di aver qualificato il dibattito politico e culturale attraverso concrete sperimentazioni e forme di istituzionalizzazione di un certo interesse su due versanti: il primo è la promozione di momenti di autogoverno territoriale, il secondo è lo stimolo a rendere i beni urbani incidentali dei clusters di possibili forme di politica sociale ascendente.

Il caso dell’Ex Asilo Filangieri

Una delle esperienze più significative della politica dei beni comuni napoletana è senza dubbio rappresentata dalla nascita, o meglio dalla istituzionalizzazione, de “L’Asilo”, organismo di gestione dello storico Ex Asilo Ugo Filangieri situato nel quartiere di San Lorenzo. Questo sorge originariamente nel XVI secolo come luogo di esercizio di arti e mestieri appartenente al convento benedettino di San Gregorio Armeno (la storica strada alla quale è adiacente), poi divenuto un orfanotrofio nel primo dopoguerra per iniziativa, appunto, di Giulia Filangieri. L’area è ubicata in pieno centro storico napoletano, di cui il quartiere di San Lorenzo rappresenta la parte più antica, risalente al periodo di fondazione greca della città, ove si concentra una parte rilevante del vasto patrimonio artistico e culturale partenopeo, nonché una fetta importante dei residenti napoletani: quasi 50 mila abitanti in poco meno di 1.42 chilomentri quadrati (Figura 1).

Figura 1. Collocazione dell’Ex Asilo Filangieri nel Centro Antico di Napoli.

Abbandonata in seguito al terremoto del 1980, solo molto tempo dopo, nel 1995, è stata dichiarata Patrimonio dell’Unesco ed avviata in un lungo percorso di riqualificazione, fino alla sua assegnazione come sede principale per il Forum delle Culture nel 2013. L’anno prima, tuttavia, lo stabile era stato occupato dal collettivo di lavoratori dello spettacolo La Balena, considerata per rilanciarne l’effettivo uso nel tessuto urbano e sociale.

Il bene insiste su oltre 5 mila metri quadri, articolati tra un ampio chiostro interno, in parte adibito ad orto urbano, e numerosi spazi interni riconvertiti, nel corso del tempo, allo svolgimento di diverse funzioni: teatro, sala cinema, sala danza, biblioteca, galleria espositiva, laboratorio di scenotecnica, camera oscura, sartoria e laboratorio digitale. Sin dai primi mesi l’operato degli occupanti ha cercato di consolidarne la vocazione di common artistico-culturale, basata sulla messa in comune degli spazi e dei mezzi di produzione ed improntata ai princìpi di accessibilità, fruibilità ed inclusività, permettendo cioè a chiunque di poter adoperarli all’interno di una cornice di regole e di intenti condivisi. L’esperienza è andata consolidandosi, e il confronto con l’Amministrazione per l’identificazione dell’immobile come bene comune e della sua “comunità di riferimento” ha trovato una sua prima istituzionalizzazione nella delibera di Giunta n. 400/2012. Quest’ultima si rifaceva alla volontà di individuare per la struttura un percorso di gestione ispirato al citato art. 3 dello Statuto, ed è poi stata la stessa “comunità di riferimento”, attraverso la stesura di una Dichiarazione di uso civico e collettivo, ad elaborare un indirizzo gestionale acquisito dal Comune di Napoli con delibera di Giunta n. 893/2015 come strumento di regolamentazione dell’Ex Asilo.

La Dichiarazione, oltre ad essere divenuta in tutto e per tutto un regolamento specifico di una struttura pubblica riconoscendone la legittimità ed il processo di auto-normazione, rappresenta la “costituzione” dell’Asilo e di chi ne fa uso. In particolare, essa:

  1. Definisce dei livelli di partecipazione e di cura del bene, distinguendo tra “abitanti”, con pieni diritti di partecipazione ai processi decisionali in seguito alla partecipazione costante ad un minimo di assemblee (status revocabile in caso di assenza prolungata e ingiustificata), e alla sottoscrizione del “documento di corresponsabilità in cui ci si impegna al rispetto della Dichiarazione e alla cura del bene; gli “ospiti”, anch’essi vincolati al documento di corresponsabilità, proponenti attività od usi estemporanei degli spazi dell’Asilo; i “fruitori”, ovvero i semplici partecipanti alle iniziative proposte dai soggetti sopracitati.
  2. Sancisce la struttura dei processi decisionali in seno all’Asilo Filangieri, individuate nelle “Assemblee di indirizzo e di gestione”, per la definizione e calendarizzazione delle iniziative, la gestione ordinaria dell’immobile e gli impegni di spesa correlati per quanto concerne la prima, la cura dei rapporti con associazioni e istituzioni, delle raccolte fondi, delle controversie e la vigilanza sul perseguimento della Dichiarazione altro ancora per la seconda; nei “Tavoli tematici” come sedi esecutive per l’implementazione dei progetti e delle azioni concordate in Assemblea; nel “Comitato dei Garanti” come organo gestione (in ultima istanza) in caso di controversie, ammissione ed esclusione di membri della comunità ed avente funzione consultiva per l’Assemblea, composto da 7 membri tra cui è prevista la presenza di un rappresentante dell’amministrazione comunale;
  3. Stabilisce le “garanzie di accesso e fruizione collettiva”, ovvero di turnazione nell’accesso e nell’utilizzo degli spazi, di divieto di assegnazione come sede operativa di qualsivoglia soggetto, di attività a fini elettorali o di lucro, salvo diverse deliberazioni da parte dell’Assemblea da cui dipende in ogni caso l’approvazione di ogni progetto (Figura 2).

Figura 2. La governance internaFonte: www.exasilofilangieri.it

Quello istituzionalizzato dall’Asilo Filangieri è riconosciuto come uso collettivo pur non vantando una lunga tradizione consuetudinaria: questo è un primo punto. La scelta di appellarsi ad una pluralità informale di persone, non definita giuridicamente secondo gli strumenti ordinari dell’associazione, della fondazione, del comitato di scopo ecc. riconduce ad uso della proprietà collettiva che, nei termini della Dichiarazione stessa, realizza una «demanialità rafforzata dal controllo popolare» dello stabile, riconoscendone una vocazione artistico-culturale perseguita mediante norme e strutture democratiche che garantiscono accesso, fruibilità, inclusività e possibilità di partecipazione, anche a livelli diversi, alla gestione e uso dello stesso. In termini di iniziative, servizi ed “utenti” coinvolti, i primi quattro anni e mezzo di autogestione dell’immobile sembrano segnalarne una vivacità gestionale (Tabella 1).

Tabella 1. Output interni ed esterni dell’Asilo (l’anno di attività è calcolato da settembre ad agosto). Fonte: www.exasilofilangieri.it e Delibera 493/2015, Allegato 1.

Attività de L’Asilo

2012-2013

2013-2014

2014-2015

2015- 2016

Totale

Assemblee di gestione

42

42

42

44

190

Tavoli di lavoro

120

160

250

250

830

Soggetti produttivi

270

320

695

550

1.985

Giorni di prove

314

418

267

334

1.383

Giorni di formazione

134

251

451

670

1.536

Dibattiti/seminari

51

64

154

146

435

Gruppi musicali

57

73

66

95

321

Compagnie teatrali

58

60

65

118

321

Proiezioni

61

36

94

68

289

Mostre

24

30

48

102

206

Presentazioni di libri

17

19

29

22

97

Iniziative per bambini

18

84

13

60

185

Attività sociali

 

 

 

112

112

Fruitori totali

37.477

38.352

53.363

59.472

206.159


La Tabella 1 enuclea i momenti della governance del bene (“assemblee” e “tavoli di lavoro”) tenutisi annualmente, ai quali partecipano sostanzialmente gli abitanti e, a seconda dei casi, gli ospiti; riporta inoltre il numero di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo (“soggetti produttivi”), gruppi musicali e compagnie teatrali coinvolti nell’uso dei luoghi e dei mezzi dell’Asilo per una qualche forma di produzione artistica e culturale. Essa, inoltre, contabilizza anche le iniziative svoltesi al suo interno (giorni di formazione, dibattiti/seminari, proiezioni, mostre, presentazioni di libri, attività rivolte ai bambini, attività sociali) e infine le “presenze” registrate durante queste ultime (fruitori totali). Le attività svolte all’interno dell’Asilo sono tassativamente non a scopo di lucro e fondate sui contributi volontari di chi vi partecipa; ogni eventuale entrata, di qualsiasi natura (crowdfunding, donazioni, baratti) diviene investimento nei mezzi e nella struttura condivisi; ogni iniziativa infine è fruibile gratuitamente da chiunque, abitante, ospite o fruitore che sia.

Per quanto concerne l’amministrazione ordinaria dello stabile, il Comune di Napoli conserva un ruolo fondamentale nel sostegno economico-finanziario dell’Ex Asilo Filangierioltre che nel suo “monitoraggio”, dato che la Delibera del 2015 prevede «che l’Amministrazione comunale possa procedere con apposito regolamento alla eventuale compensazione degli oneri di gestione, laddove giustificato dall’alto valore sociale creato, prevedendo regolamenti di uso civico o altra forma di autorganizzazione civica da riconoscere in apposite convenzioni», tradotte nel caso di specie in un investimento annuale di risorse pubbliche per il pagamento di utenze e Wi-Fi, delle spese di pulizia, per opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché nell’impiego di alcune unità di personale svolgenti mansioni di vigilanza presso l’edificio, addetto anche alla sua apertura e chiusura.

Sotto questo profilo va delineandosi, più che un’autogestione, una cogestione tra pubblico e privato (comunità) in relazione a un bene producente esternalità positive sul territorio sul piano dell’aggregazione, promozione sociale e culturale, oltre che di empowerment civico, con risultati anche più efficienti rispetto ad altre strutture aventi finalità simili gestite direttamente dal Comune, in termini costi-benefici (Pascapè, 2019 - p. 168). Tale modello pare attribuire ai cittadini una doppia qualifica, di “privati” autonomi redattori della Dichiarazione d’uso civico e al contempo di “organi sui generis” della città riconosciuti, tramite delibera, come attori nel perseguimento di interessi di natura pubblica (Albanese, Michelazzo, 2020 - p. 253-254); se da un lato ciò individua maggiori responsabilità in capo al settore pubblico con più libertà d’azione per gli utenti, dall’altro ciò potrebbe rendere in futuro l’intera esperienza, così come altre simili già esistenti o potenzialmente tali, soggette alle vicende politiche contingenti (ibidem).

Governance e output sociali dell’Ex Asilo Filangieri: qualche evidenza

Non può tralasciarsi come la nascita stessa dell’Asilo derivi da un particolare allineamento di forze e volontà politiche, sociali ed amministrative. A distanza di quasi dieci dalla sua “fondazione” può allora risultare interessante raccogliere un feedback da parte dei napoletani circa la consapevolezza, il gradimento ed il coinvolgimento verso una delle «teorpratiche dei beni comuni» (Capone, 2016 - p. 629) più conosciute e per certi versi strutturate, in Campania e in Italia. E tuttavia, questo non indica un percorso di commoning, se si osservano al tempo stesso le dinamiche relative ai processi di autogestione interna e la nidificazione comunitaria del bene, attraverso cui si colgono poche identificazioni con gli otto design principles proposto da Elinor Ostrom.

Una prima evidenza emerge dai dati raccolti attraverso la somministrazione dei questionari agli abitanti del quartiere (110, solo in parte attivisti del bene comune). Il test è stato concepito come semi-strutturato. Una prima parte è stata pensata per raccogliere un set di dati anagrafici e territoriali, mentre una seconda sezione è stata sviluppata con domande a scelta multipla a una sola risposta unite ad altre graduate mediante scale di Likert. L’analisi delle interviste, unitamente alla parte descrittiva, è stata usata per determinare anche le eventuali correlazioni tra la prossimità spaziale al bene degli intervistati e le risposte relative alla “pervasività” de L»’Asilo nel tessuto sociale – la capacità di nestling del common, per usare la categoria della Ostrom (2015) – come anche per mappare le tendenze nella governance interna e, in ultimo, la percezione degli output sociali prodotti dall’Asilo.

L’universo da cui sono state estratte le interviste è riferito alla popolazione del Comune di Napoli (948.850 abitanti al 2019 secondo il dato Istat) ed il campione casuale è stato poi suddiviso per le tre fasce di prossimità, che seguono il quartiere di residenza degli intervistati: dal quartiere di San Lorenzo (poco meno di 50 mila abitanti) in cui insiste fisicamente il bene, ai quartieri limitrofi del Centro Antico (Avvocata, Montecalvario, Mercato, Pendino, Porto, Poggioreale, San Carlo all’Arena, San Ferdinando, San Giuseppe, Stella, Vicaria, Zona Industriale) che raggruppano le municipalità centrali di Napoli, con una popolazione residente che si attesta attorno alle 300 mila unità, fino ai restanti quartieri “periferici” e limitrofi rispetto all’Ex Asilo Filangieri. I gradi di spazialità residenziale sono stati inclusi, come accennato, a fini analitici. Uno dei pilastri del modello di governance dei commons è infatti quello della nidificazione comunitaria del bene, e si è inteso così “pesare” un fattore potenzialmente rilevante per l’analisi delle dinamiche sociali ricollegabili ad usi collettivi ed esperienze di commoning. Dati i vincoli imposti alla ricerca sul campo dalla crisi pandemica scoppiata nel marzo 2020, il campionamento a cascata “in presenza” è stato integrato con l’utilizzo di strumenti digitali per la somministrazione; parte della compilazione dei questionari è avvenuta attraverso l’invio di un link o la consegna di un QR-code collegati ad un Google Form compilabile online. La soluzione ha però agevolato il raggiungimento di un N soddisfacente (110), più 15 non residenti nel Comune che non sono stati processati.

L’incrocio tra i dati descrittivi e quelli provenienti dall’analisi qualitativa fa emergere diversi aspetti sul radicamento del modello di cogestione dell’Ex Asilo Filangieri nel contesto, sia sul piano del suo riconoscimento che in particolare degli output sociali percepiti dal tessuto urbano circostante. Certo, sono riscontrabili livelli di consapevolezza importanti, specie per quanto concerne le iniziative e le attività poste in essere dagli appropriators della struttura; meno evidente pare essere la tendenza a partecipavi in modo diretto più o meno frequentemente, mentre il tasso di coinvolgimento nella governance del bene stesso (e dunque anche di un suo pieno godimento in termini di utilizzo dei suoi spazi per la produzione artistico-culturale) risulta nettamente più basso.

Dei 110 intervistati residenti nel Comune di Napoli oltre la metà (60) ha dichiarato di essere consapevole dell’esistenza dell’esperienza di autogestione dell’immobile situato nel centro storico e di esserne venuto a conoscenza per mezzo di una delle sue attività, (23) perché raggiunti da iniziative volte alla sua promozione come volantinaggio, campagne social, articoli di giornale ecc. (19) perché in contatto diretto o indiretto con un suo abitante (17). Di questi 60 la maggior parte (39) conosce l’Asilo da oltre cinque anni, altri (11) da più di tre anni, i pochi restanti da meno tempo, cioè 6 da più di un anno e 4 da meno di un anno (Figura 3).

Figura 3. Conoscenza dell’esperienza di autogestione de L’Asilo.

Sul piano del coinvolgimento effettivo, da queste 60 testimonianze emergono livelli diversi di coinvolgimento per quanto concerne la frequenza di partecipazione alle attività ed iniziative poste in essere dall’Asilo (hanno indicato: in 8 “spesso”; in 17 “a volte”; in 16 “raramente”; in 19 “mai”) ed un più omogeneo quanto spiccato disinteresse a prendere parte direttamente alle sue dinamiche di governance (partecipazione alle Assemblee di indirizzo e di gestione: in 4 “spesso”; in 1 “a volte”; in 9 “raramente”; in 46 “mai”) come illustra la Figura 4.

Figura 4. Intensità di partecipazione alle attività (engagement sociale) e alla gestione (engagement di governance) nell’Asilo.

Per quanto riguarda le valutazioni di coloro che hanno goduto almeno una volta in maniera diretta del bene e delle iniziative lì tenutesi, ovvero 41 delle suddette 60 testimonianze, la percezione circa il contributo apportato alla collettività in termini di promozione sociale, culturale e civico da un lato, di effettiva fruibilità e manutenzione degli spazi dell’Ex Asilo Filangieri dall’altro, in una scala da 1 a 7 risulta essere omogenea per entrambi gli aspetti: ‘positiva’ (5-6) o ‘estremamente positiva’, rispettivamente a questi, (7) per 34 e 31 degli intervistati; ‘discreta’ (4) od anche ‘insufficiente’ (1-3) per 7 e 11 degli stessi, mostrando un gradimento lievemente maggiore rispetto agli output prodotti all’interno dell’Asilo piuttosto che alla gestione e fruibilità dei suoi spazi pulizia, manutenzione, accessibilità.

In riferimento alla possibilità che tale esperienza di autogestione sia replicata per altri beni cittadini considerati “comuni” (parchi, edifici abbandonati) e che simili contesti godano di benefici economici da parte dell’amministrazione comunale, queste due eventualità paiono essere altrettanto apprezzate, sempre in una scala da 1 a 7, dalla maggioranza degli stessi 41 intervistati: rispettivamente alle due proposizioni, “assolutamente d’accordo” (7) o “d’accordo” (5-6) in 36 e 33 casi; “titubanti” (4) o “in disaccordo” (1-3) in altri 5 e 8.

Volendo estendere questi ultimi riscontri a tutti i 60 cittadini a conoscenza dell’esistenza dell’Asilo, includendo anche il giudizio di coloro che non ne sono mai stati direttamente coinvolti, le valutazioni complessive sul bene e sulla sua gestione continuano ad essere positive o estremamente positive per 43 di questi, evidenziando un’incidenza lievemente maggiore di quelle “neutrali” (in 4 hanno votato “4”) e negative (in 13 hanno espresso un voto tra “1” e “3”).

Un ultimo confronto significativo risiede nelle risposte fornite circa la disponibilità a prendere parte a eventuali comitati con lo scopo di autogestire un bene comune nel proprio quartiere, considerando dapprima i 41 fruitori dell’Ex Asilo Filangieri e successivamente la totalità degli intervistati: si riscontra, in proporzione, una risposta nettamente più positiva nel primo campione rispetto al secondo (il 58,5% contro il 45,3%), poco meno titubante (39% rispetto al 42,2%) e decisamente meno negativa (0,5% contro il 12,5%).

Per corroborare le evidenze descrittive sull’istituzionalizzazione sociale, l’autonomia percepita, la governance interna e gli output sociali dell’Asilo il totale delle risposte fornite è stato sviluppato con una regressione OLS.

Tabella 2. Modello OLS usando le 92 osservazioni, ovvero scartate le mancanti o incomplete delle 100.

 

Y = Openness de L’Asilo

Età

0.354573*

(0.185651)

Quartiere

0.952675***

(0.322389)

Status

1.72614***

(0.169256)

Engagament nelle attività de L’Asilo

0.847755**

(0.324115)

Engagement nella governance de L’Asilo

−0.123833

(0.433036)

N

92

R2

0.860985

*p < 0.10, **p < 0.05, ***p < 0.01. Errori standard robusti rispetto all’eteroschedasticità, variante HC1, in parentesi. Eliminando i questionari incompleti e quelli relativi a cittadini non residenti nella città di Napoli, le 92 interviste (N) sono state riordinate sul dato di spazialità (Q) - dal quartiere di insediamento San Lorenzo (valore 2), agli altri del centro(1), a quelli periferici (0) - di status - dagli attivi (2) fino agli inattivi (0) - per livello di conoscenza del common o community acknowledgement - da no (0) a più di 5 anni (3) - per engagement sociale e nella governance - da mai (0) a spesso (3) - per riconoscimento dei social output e percezione dell’apertura del common alla comunità (openness) e sua fruibilità - scala di likert - e infine per età - dove 18-25 è 0, 26-35 è 1, 36-50 è 2, over 50 è 3.

Come evidenzia la Tabella 2, è interessante notare come il giudizio sulla fruibilità e l’apertura dell’Asilo al territorio, che è in qualche modo una misura della sua nidificazione sul territorio, ma anche del suo livello di escludibilità o chiusura “comunitaristica” (Vittoria, 2020 - p. 114), sia molto correlato al quartiere e allo status. In sostanza, il bene viene percepito come “aperto” quanto più si è vicini ad esso e quanto più si è in una posizione socialmente attiva; in parte, questo giudizio si rafforza anche con il coinvolgimento di chi risponde nelle attività ordinarie – non di governance – dell’Asilo. Non c’è qui spazio per illustrarlo pienamente, e tuttavia questa dinamica è anche corroborata dai dati sulla percezione degli output sociali dell’Asilo, ovvero su quello che esso restituisce socialmente all’esterno: anche in questo caso è il segmento più “sicuro” socialmente ed occupazionalmente – e anche più coinvolto nelle attività – degli intervistati, non necessariamente di quartiere, a percepire il dato di restituzione sociale del common.

Conclusioni

L’esperienza napoletana sui beni comuni presenta, come ogni innovazione sociale e di prossimità, luci ed ombre. Certamente lontana dal produrre modelli di commoning urbano, e spesso sovraccaricata di una narrazione politica, gli interventi di riconversione avviati dopo il 2011 dall’amministrazione cittadina ha tuttavia ha avuto il merito di sottrarre ad un probabile abbandono – se non ad altri appetiti ben più minacciosi – edifici storici e spazi di desertificazione urbana attivando un percorso di collaborazione con realtà associative territoriali e, soprattutto, legittimando di fatto esperienze di squatting già presenti.

Di questa efficace ed utile politica di istituzionalizzazione di ex beni pubblici urbani, molto poco “comuni” e ancor meno gestiti come tali, co-diretta, se si vuole, l’Ex Asilo Filangieri situato nel pieno Centro antico della Città rappresenta l’esperienza più datata e rodata. Il complesso delle evidenze descrittive e l’analisi delle interviste restituisce l’esperienza di un bene in affidamento che produce grande vivacità interna e si configura come un common culturale. E tuttavia, né la percezione territoriale della natura “comune” del bene né la sua integrazione nella comunità evidenziano quel carattere di “nidificazione” comunitaria tipica della governance di una common-pool resource. La percezione comunitaria dell’istituzionalizzazione del bene come comune appare alta, la governance del bene invece molto poco aperta, quasi a riprodurre quella trappola del settarismo tipica delle micro-arene urbane self-governed a densa alfabetizzazione degli attivisti. Quanto alla politica sociale grassroots restituita dal bene sul territorio appare, forse per la sua vocazione “culturale-artistica”, meno pronunciata di altre esperienze del ciclo napoletano, come ad esempio l’Ex OPG “Je so’ Pazzo”.

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