La funzione dell’impresa e dell’imprenditore è stata ed è tuttora al centro di intensi dibattiti che, molto spesso, travalicano i tradizionali confini settoriali, per coinvolgere ambiti assai diversi. All’impostazione concettuale di studiosi quali Friedman, che vedeva l’impresa quale organizzazione economica per il conseguimento del profitto, oggi si contrappone una visione più ampia che, alle tradizionali e immancabili finalità di ordine economico, attribuisce all’impresa una spiccata funzione di tipo sociale, peraltro quest’ultima associata a una conseguente e importante responsabilità. Il passaggio di paradigma è emblematico di questioni e riflessioni che, evidentemente, sono ben più ampie di quelle tipiche delle discipline economico-aziendali e, soprattutto, investono il vissuto complessivo dei moderni sistemi sociali, non limitandosi alle sole componenti economiche. Alla luce di ciò, è evidente come il dibattito sulle finalità aziendali si sia ulteriormente acceso con la diffusione dell’impresa sociale, proprio a ragione del peculiare, delicato, intricato e complesso rapporto che sussiste in queste particolari organizzazioni aziendali tra caratteristiche specifiche e finalismi perseguiti.
In termini generali, infatti, le imprese, sia astrattamente considerate, sia nella loro sub-specie “sociale”, sono istituti certamente di natura economica, ma che assolvono anche a funzioni sociali oltre che strettamente economiche. In altri termini, l’oggetto economico dell’impresa, che inerisce alla propensione verso l’ottimale combinazione dei fattori di produzione, per la realizzazione e lo scambio di beni e servizi, non è da confondersi con i suoi finalismi che, questa volta, sono anzitutto e sicuramente di tipo economico, anche se vengono tuttavia affiancati anche da altri che potremmo denominare “sociali” nel senso che non risultano strettamente relativi al conseguimento del profitto ovvero di altri traguardi di natura economico-finanziaria, come si vedrà più avanti.
In questo senso, la dottrina aziendale ha sempre messo bene in luce questa caratteristica, a partire dalle numerose e diverse definizioni di impresa tra cui, ai fini del presente lavoro, particolarmente rilevante è la definizione di Airoldi e colleghi, secondo cui «Le imprese sono parte rilevante della società umana generale e secondo condizioni proprie partecipano al raggiungimento del bene comune della stessa» (2005, p. 48). Sostanzialmente assimilabile a tale impostazione è, poi, la posizione di Onida, per il quale «Come istituto sociale, l’azienda deve servire ad elevare il benessere e la personalità dell’uomo e a far meglio realizzare i fini della vita umana associata che sono essenzialmente di natura etica. La concreta condotta delle aziende dev’essere subordinata ai detti fini» (Onida, 1955 - p. 1-2) e «[…] le imprese di ogni specie, pubbliche o private, in quanto producono e distribuiscono ricchezza ed offrono occupazione ai lavoratori, in quanto diffondono il benessere e contribuiscono al progresso economico e civile del paese – lungi dall’essere negate alla socialità – svolgono opera altamente sociale e tanto più concorrono alla crescita del bene comune, quanto meglio sono amministrate» (Onida, 1971 - p. 108).
Come appare evidente, si tratta di approcci definitori che sottolineano la combinazione socio-economica tipica della figura aziendale e imprenditoriale.
Naturalmente, simili visioni dell’iniziativa economica imprenditoriale non sono state oggetto di sole condivisioni, e diversi sono stati gli intendimenti di critica del potenziale carattere di socialità dell’impresa. Tra queste vale per tutte ricordare il pensiero di Amodeo che, sulla questione, così si esprimeva: «Deve anzi avvertirsi che più volte, e in diversi tempi, ma specialmente nei più recenti, si sono presentate tesi […] che, a ben vedere, non tanto incidono sulla dichiarazione delle finalità dell’azienda, quanto sulla finalità dell’attività economica in genere. Mai forse, come in questi tempi, si è assistito a così vaste confusioni di idee: l’economia ha ricevuto e riceve una serie di impossibili aggettivi, e nell’azione economica si vuole rinvenire addirittura una prevalente finalità sociale la quale legittimerebbe perfino limitazioni etiche. […] Sembra superfluo dichiarare che l’autore di questo libro respinge decisamente tali punti di vista, che anzi giudica aberranti» (Amodeo, 1964 - p. 14).
La scarsa rilevanza della funzione sociale dell’impresa, infine, ha contraddistinto anche le posizioni di autori internazionali, tra cui Friedman, che così riteneva: «The view has been gaining widespread acceptance that corporate officials and labor leaders have a ‘social responsibility’ that goes beyond serving the interest of their stockholders or their members. This view shows a fundamental misconception of the character and nature of a free economy. In such an economy, there is one and only one social responsibility of business- to use its resources and engage in activities designed to increase its profits so long as it stays within the rules of the game, which is to say, engages in open and free competition, without deception or fraud» (Friedman, 1962 - p. 133).
Ne deriva, dunque, un quadro generale davvero complesso, all’interno del quale la figura dell’impresa manifesta la sua estrema poliedricità, perdendo, al contrario, la sua sterile concezione di strumento aziendale preordinato alla esclusiva ricerca del profitto.
Partendo da ciò, questo lavoro è inteso a chiarire la figura concettuale dell’impresa sociale che, nella prospettiva degli studi aziendali, è contraddistinta dal potenziale ruolo di superamento della tradizionale concezione della funzione imprenditoriale quale sterile mezzo di produzione di ricchezza economico-finanziaria. Per addivenire a tale scopo, dopo un necessario richiamo all’inquadramento concettuale delle finalità dell’impresa, utile per la definizione delle possibili combinazioni imprenditoriali, lo scritto affronta il delicato rapporto tra impresa e socialità allo scopo di alimentare, nella parte finale, il dibattito sul tema valutativo dell’impresa sociale con alcune riflessioni e considerazioni che non hanno affatto intenzione di essere conclusive, ma solo di stimolo agli studi e alle ricerche sull’impresa sociale, anche in considerazione della oggettiva complessità di tale tematica.
Per quanto affermato in premessa, risulta assai evidente come il ruolo dell’imprenditore e delle organizzazioni imprenditoriali nei moderni sistemi economici costituisca uno degli aspetti più discussi, sia a livello di ricerca scientifica, sia dai practitioner del settore. La contrapposizione di concezioni e vedute in merito alla funzione sociale dell’impresa mette in evidenza la poliedricità della figura dell’impresa e dell’imprenditore. In effetti, nella moltitudine dei possibili ruoli che quest’ultimo può interpretare, diversi di essi hanno nulla o poco a che fare con la funzione costruttiva e innovativa che le teorie economiche tradizionali, come poco prima accennato, attribuiscono convenzionalmente a questo particolare attore economico. In questo senso, Hobsbawm e Wrigley sostengono che:
«It is often assumed that an economy of private enterprise has an automatic bias towards innovation, but this is not so. It has a bias only towards profit. It will revolutionize manufactures only if greater profits are to be made in this way than otherwise» (Hobsbawm, Wrigley, 1999 - p. 18).
Ciò significa che, nella realtà economica, la figura dell’imprenditore può essere rappresentata anche con significati concettuali profondamente negativi, al punto da costituire, addirittura, l’emblema di una possibile funzione parassitaria (Baumol, 1996), in grado di danneggiare profondamente anche sé stesso, gli altri imprenditori e, più in generale, tutti gli attori presenti in un dato sistema economico (più o meno ampiamente, a seconda degli effetti potenzialmente generabili).
A ben vedere, tuttavia, e come accennato nella parte iniziale, il framework teorico relativo all’imprenditore e all’impresa è tutt’altro che imperniato sul perseguimento, esclusivo e incondizionato, del profitto o, comunque, delle sue possibili declinazioni monetarie e finanziarie: risultato economico della gestione, reddito, ricchezza, ecc.
Quanto appena accennato conduce all’intricato discorso riguardante il rapporto tra le condizioni di esistenza delle imprese e gli obiettivi o fini da esse perseguiti. Sul punto, senza pretesa di esaustività, considerando le finalità del presente lavoro, basti ricordare che il dibattito storico si sviluppa con il pensiero marxista (incentrato su logiche di sfruttamento per l’accumulazione del capitale) e quello marginalista (incentrato sulla perfetta razionalità dell’imprenditore al fine della massimizzazione del profitto) tipico dell’Ottocento, per poi progredire con gli studi, tipici della seconda metà del Novecento, di Baumol, Cohen, Cyert, March e Simon, e tendenti a dimostrare come i comportamenti imprenditoriali potessero oscillare tra la massimizzazione del fatturato, della propria crescita dimensionale ovvero del rispettivo potere di mercato, oppure verso l’adozione di comportamenti adattivi verso le condizioni di mercato, della concorrenza o del progresso tecnico, e non, viceversa, solo in funzione esclusiva del profitto (Canziani, 2020). In verità, tuttavia, il punto centrale del discorso è che le imprese non hanno, almeno tendenzialmente, come si vedrà tra poco, obiettivi e fini propri. Esse, invece, realizzano (o, rectius, cercano di realizzare) il raggiungimento di condizioni di esistenza ovvero di equilibrio economico, necessario per assicurare la propria esistenza nonché il perseguimento di una vasta gamma di traguardi specifici. Gli obiettivi o finalismi delle imprese, insomma, rappresentano un insieme di elementi contraddistinti da una relativa soggettività e, in questi termini, rappresentano la traduzione strategica o operativa di volontà, interessi e intendimenti della persona ovvero del gruppo di persone che le guidano, al punto che la dottrina aziendale individua in tal senso la figura del soggetto economico quale soggetto cui è attribuibile il massimo potere volitivo in termini aziendali (Ricci, 2010).
La precisazione in merito ai finalismi imprenditoriali consente di sviluppare il ragionamento secondo una prospettiva differente dalle impostazioni tradizionali, spostando l’attenzione alle funzioni aziendali, caratterizzate dalla seguente duplicità tipologica (Ricci, 2012):
Per conseguenza, queste due funzioni, apparentemente assai diverse o quasi opposte possono, in ogni caso, essere riferibili a due categorie principali di obiettivi imprenditoriali, quali:
Un fondamentale aspetto da sottolineare riguarda il fatto che la appena citata declinazione di obiettivi evidenzia chiaramente la soggettività prima accennata. Per quanto detto, seppur con estrema sintesi, tali finalismi non possono essere attribuibili all’impresa in quanto tale. Al contrario, la convergenza dei comportamenti imprenditoriali verso gli obiettivi economici ovvero sociali rappresenta la proiezione delle finalità determinate dai soggetti deputati a governare l’impresa stessa, come la stessa dottrina aziendale ha più volte sottolineato:
«A ben guardare, e per indurre forse una signifìcazione più netta nella distinzione di cui si discute, potrebbe forse apparire opportuno considerare le aziende, in ogni caso, come dirette alla soddisfazione dei bisogni di coloro che le promuovono. In tal senso, allora, quella finalità che si denuncia come sempre presente alla base della istituzione aziendale, apparirebbe effettivamente come un motivo prossimo «economicamente» giustificabile. Sta di fatto, in realtà, che chi istituisce e conduce un’azienda lo fa precipuamente in vista della soddisfazione dei bisogni suoi propri; e la soddisfazione dei bisogni altrui appare in ogni caso una finalità mediata, seppure necessaria» (Amodeo, 1964 - p. 13).
Sempre in tale direzione:
«La vita dell’azienda di produzione e, in particolare, dell’impresa che produce per il mercato, si esplica in un sistema di scelte: sistema nel quale si risolvono i molteplici problemi di convenienza assiduamente proposti e riproposti dall’organizzazione e dalla gestione, fin dalla prima progettazione e costituzione dell’azienda. […] La varia e mutevole complessità dei giudizi di convenienza e dei criteri di scelta discende dal fatto che le scelte, nella pratica, risultano comunemente determinate da fattori diversi per natura e peso: fattori che operano, ora alternativamente, ora insieme ma in varia combinazione fra di essi, in vario senso e con diverso peso, la connessione ai differenti aspetti nei quali le scelte possono essere considerate (economico-aziendale, economico-sociale, politico, religioso, di costume prevalente, ecc.) ed in relazione ai soggetti e ai centri di potere che concorrono a formare le decisioni» (Onida, 1955 - p. 55).
Come evidente, si tratta di due autori che, sebbene contraddistinti da visioni sostanzialmente differenti in termini di obiettivi specifici dell’impresa, sottolineano entrambi la soggettività dei criteri e dei giudizi alla base delle scelte aziendali. D’altro canto, l’importanza che gli intendimenti e i giudizi soggettivi hanno nel sistema imprenditoriale, rendono assai percepibile il complesso insieme di relazioni che riguarda i finalismi aziendali. Al tempo stesso, naturalmente, ciò non rappresenta affatto una limitazione alle indagini e alle analisi aventi a oggetto l’impresa e l’imprenditore: in questo senso, anzi, la capacità di astrazione assume un ruolo fondamentale per la corretta comprensione dei criteri da adottare per la valutazione dell’operato di tutte le organizzazioni imprenditoriali, a cominciare proprio dall’impresa sociale al centro di questo lavoro.
A questo punto, è bene rimarcare che le distinzioni appena accennate, in special modo quella relativa agli obiettivi, non sono reciprocamente escludenti, rappresentando piuttosto estremi ideali di un continuum lungo il quali sono collocabili combinazioni assai diverse nella realtà:
Come accennato in precedenza, tuttavia, tali preferenze combinatorie rimangono tutt’altro che oggettivamente attribuibili a una realtà aziendale, quanto espressione, ancora una volta, dei desideri delle persone alla guida dell’organizzazione stessa. Ciò nonostante, possiamo considerare che le imprese che producono per il mercato presentino un proprio baricentro tendenzialmente prossimo al primo degli estremi appena elencati. Altri tipi di organizzazioni, quali le pubbliche amministrazioni ovvero le istituzioni non profit, pur conservando la qualifica aziendale, appaiono più attratte dall’opposto estremo, quello che ha nei finalismi diversi da quelli economici il principale riferimento. In quest’ultima categoria è possibile, tuttavia, ricomprendere anche le imprese sociali che, a fronte di un immancabile vincolo di sostenibilità economica necessario ad assicurarne la loro esistenza, sono caratterizzate da conclamate finalità di carattere sociale.
Proprio nella prospettiva appena introdotta, è particolarmente importante ricordare che «Le aziende sono ordinate a fini concernenti la soddisfazione di bisogni umani, in quanto questa soddisfazione esiga consumo di beni economici e quindi anche produzione ed acquisizione degli stessi» (Onida, 1971 - p. 3) ovvero, nella stessa direzione, come esse configurino un «complesso di persone e di beni diretto al soddisfacimento dei bisogni umani» (Amodeo, 1964 - p. 7). La visione dell’azienda che emerge dalle definizioni appena esposte consente di comprendere molto facilmente la sua concreta applicazione a realtà profondamente diversificate, dovendo proprio rimarcare che «le aziende si presentano come corpi intermedi fra gl’individui e lo Stato; servono all’individuo e alla collettività» (Onida, 1971 - p.3).
In buona sostanza, l’azienda è concepibile quale triangolazione di tre elementi: le persone, i mezzi (o beni) a essa necessari per lo svolgimento delle proprie attività e i fini cui tale organizzazione è istituzionalmente preposta. In relazione all’ultimo elemento, ovvero quello dei finalismi, è da ricordare che questi risultano intimamente collegati alle funzioni aziendali prima accennate, potendosi distinguere tra i già richiamati obiettivi economici e fini sociali. Rimandando a quella sede per le opportune riflessioni di dettaglio, è utile qui rilevare che tutte le possibili manifestazioni aziendali incorporano sempre una combinazione di entrambe dette finalità che, d’altra parte, è mutevole e determina organizzazioni maggiormente propense al perseguimento di finalismi economici, ovvero istituzioni che, prioritariamente, attribuiscono maggiore rilevanza ovvero priorità ai fini di tipo sociale o, comunque, non economico. Tale differenziazione non riveste importanza solo sotto il profilo tipologico o definitorio: infatti, la teoria aziendale definisce le organizzazioni aziendali in cui i fini economici hanno una sostanziale prevalenza su quelli di tipo sociale quali imprese. Ne consegue che l’impresa può essere intesa come categoria tipologica dell’azienda in cui si riscontra la preminenza di finalismi economici rispetto a quelli di altro genere.
In tale prospettiva, quanto appena enunciato, seppur per sintesi, inerisce alla tradizionale distinzione, tipica della scienza aziendale (Cavalieri, Ferraris Franceschi, 2010; Ricci, 2012) tra:
Tale ultima distinzione, dunque, sembrerebbe tracciare una netta demarcazione tra le diverse categorie di organizzazioni aziendali, a ragione del differente fine perseguito. Tuttavia, si deve necessariamente sottolineare come la distinzione “profit” versus “non profit” sia tutt’altro che banale e, al contrario, richieda – ai fini di una corretta interpretazione – rigorose puntualizzazioni in merito alla corretta esegesi del concetto profitto: il principale rischio concettuale derivante da una superficiale interpretazione della suddetta distinzione risiede nella erronea assimilazione della dicitura “non profit” alla mera negazione o rigetto del profitto ovvero, addirittura, al vero e proprio abbandono dell’economicità aziendale , generando implicazioni potenziali assai limitanti oltre che discutibili. Anzitutto, qualsiasi tentativo classificatorio dovrebbe essere (correttamente) finalizzato a razionalizzare e sistematizzare analisi tipologiche sia complessive che di dettaglio (Besta, 1932; Zappa, 1956). Al contrario, ogni tassonomia finalizzata alla mera compartimentazione di una realtà composita ed eterogenea come quella delle realtà aziendali, allo scopo di scindere in singole porzioni un fenomeno fortemente complesso, diventa un inutile oltre che sterile approccio nomenclatorio.
A riprova di ciò, basti considerare che alcuni autori (Baumol, 1996) ritengono, più nello specifico, che gli effetti derivanti dall’azione imprenditoriale siano specificamente connessi alle regole del sistema economico e, più in dettaglio, del contesto aziendale. In altre parole, sarebbero le regole del contesto di riferimento, e non la natura degli obiettivi specifici perseguiti, a costituire lo strumento ovvero le leve attraverso cui gli effetti economici si produrrebbero nella loro concretezza.
A ciò, tuttavia, si aggiunga che, recentemente, è sempre più evidente una generale tendenza a enfatizzare l’etica e la morale all’interno del vasto e variegato panorama sociale. Questa tendenza è ancora più evidente nel contesto economico, dove gli aspetti reputazionali delle organizzazioni che ne fanno parte hanno assunto un’importanza decisiva.
D’altra parte, ciò ha anche determinato la necessità di garantire che il raggiungimento di tali traguardi sociali, ambientali, morali ed etici non sia perseguito attraverso la mera aderenza a principi e regole, quanto piuttosto mediante comportamenti concreti che contemplino in maniera intima e diretta ambiziosi obiettivi appartenenti, come è evidente, a una dimensione non strettamente quantitativo-finanziaria (Arjoon, 2005).
È proprio in questa direzione, ad esempio, che concetti quali la responsabilità sociale d’impresa, l’accountability e la sostenibilità hanno cominciato ad affermarsi con sempre maggiore enfasi, al punto da assumere un ruolo chiave (Gonzalez-Perez, Leonard, 2013; Chetty et al., 2015) nella costruzione della disclosure, dell’informativa e della comunicazione di tutte le organizzazioni economiche aziendali, sia di tipo profit-oriented, sia (e, probabilmente, soprattutto) facenti parte del contesto non profit.
In effetti, sono diversi gli studi che sottolineano come, ad esempio, il perseguimento di obiettivi sociali risulti strettamente connesso alla definizione del grado di reputazione aziendale (Surroca et al., 2010; Cho et al., 2012; Tang et al., 2012), nella misura in cui quest’ultimo sia (in parte, almeno) funzione della propensione e della capacità effettiva di un’organizzazione di raggiungere traguardi di carattere sociale, ambientale, etico ovvero di altre simili tipologie. In questa prospettiva, il rapporto di reciproca dipendenza tra azienda e ambiente esterno implica che i citati elementi socio-ambientali non rappresentino un limite alla performance organizzativa ma, al contrario, un’opportunità di sviluppo dell’azienda, capace di generare potenziale valore sia per l’azienda stessa, sia per i suoi diversi stakeholder.
Proprio in questa ultima prospettiva, è bene evidenziare che il valore generato da una organizzazione aziendale può declinarsi sia quale valore economico (Porter, Kramer, 2006), sia quale valore sociale, con quest’ultimo, a sua volta, enucleabile in molteplici e diverse proiezioni. Tuttavia, un aspetto particolarmente delicato concerne proprio la difficoltà di definizione del valore sociale: esso costituisce un termine che ingloba al suo interno concetti particolarmente delicati quali interesse pubblico, valore pubblico e bene comune. Inoltre, la sua misurazione è complessa (Sawhill, Williamson, 2001; Micheli, Kennerly, 2005; Austin et al., 2006; Mair, Marti, 2006; Nicholls, 2008; Nicholls, Cho, 2008; Polonsky, Grau, 2011; Maraghini, Riccaboni, 2019) al punto che anche gli strumenti di accountability non sarebbero in grado a coglierne completamente la sua estrema articolazione e multidimensionalità.
Nello specifico contesto dell’impresa sociale, il valore generato viene interpretato quale espressione di una gamma in cui il valore sociale e il valore dell’attività commerciale ne rappresentano i due estremi: il valore sociale è legato all’incremento del livello di benessere complessivo prodotto, mentre il valore commerciale si riferisce alla capacità di creazione di ricchezza e profitto da parte dell’impresa. Tuttavia, i due estremi sono comunque interdipendenti, nella misura in cui la creazione di valore commerciale è in grado di determinare un miglioramento del livello di benessere, ad esempio, mediante la creazione di posti di lavoro, così come la di valore sociale potrebbe avrebbe ripercussioni positive in termini economici, determinando, ad esempio, maggior reddito da lavoro.
Ne deriva, dunque, un quadro complessivo davvero complesso, all’interno del quale la figura dell’impresa manifesta la sua estrema poliedricità, perdendo – al contrario – la sua sterile concezione di strumento aziendale preordinato alla esclusiva ricerca del profitto.
Il carattere poliedrico dell’impresa prima menzionato è stato evidenziato da diversi studi, alcuni dei quali (Peredo, Chrisman, 2006) hanno cercato di dimostrare come l’azione imprenditoriale possa svolgersi a supporto delle comunità, teorizzando l’organizzazione e la funzione imprenditoriale in termini di organizzazione o processo sociale in cui la comunità ha un potenziale ruolo attivo per il perseguimento di obiettivi comuni: sia economici, che sociali; sia individuali, che di gruppo. In altre parole, l’impresa così concepita sarebbe in grado di perseguire benefici sostenibili nel breve e nel lungo periodo che rappresentano, in sintesi, il concetto di bene comune.
Quanto accennato è particolarmente utile per dimostrare che il ruolo attribuibile al profitto, che rappresenta un elemento fondamentale e necessario, ma non sufficiente per la corretta e completa definizione dell’imprenditorialità (Venkataraman, 2019): come già prima accennato, il concetto di impresa postula una pluralità di finalismi e di obiettivi (Peredo, McLean, 2006) e che possono essere di natura economica ovvero sociale.
Si tenga presente, in effetti, che il profitto non rappresenta una figura logica di facile e immediata definizione.
Alfred Marshall, nel suo libro Principles of Economics, definisce il concetto di “profitto” distinguendolo da quello di “earning of undertaking” (ovvero la remunerazione di impresa) o “management”. In questo senso, il profitto sarebbe la differenza tra i ricavi e i costi relativi a un’organizzazione aziendale, o anche la differenza tra il valore iniziale e finale dei beni aziendali (Marshall, 1890).
Al di là della sua naturale concettualizzazione tipica dell’economia generale, il profitto appare molto spesso contraddistinto da elementi di confusione e varietà, potendosi con esso intendere elementi assai diversi. In alcuni casi, addirittura, esso viene utilizzato anche come sinonimo di reddito ovvero del risultato contabile della gestione aziendale. Per tale e molte altre ragioni appare evidente come essi non possano essere assunti come possibile indicatore assoluti della capacità di creare valore di qualsiasi tipo di organizzazione economica. In questo senso, alcuni autori (Dees, 2001) sottolineano che, sebbene il profitto economico di un’azienda possa essere considerato un indicatore ragionevolmente utile per stimare la capacità di creare valore, si sostiene anche che la considerazione della natura sociale dell’attività economica limiti enormemente questo indicatore perché, in particolare, il profitto non andrebbe visto come l’unica misura assoluta e indiscutibile della capacità di creare valore, anche in funzione del fatto che non sempre, ad esempio, è in grado di misurare inequivocabilmente la soddisfazione del cliente. In questo modo, alcuni studi (Moore, 2000; Ricci, Civitillo, 2018) mostrano che un’indicazione più ampia delle capacità virtuose dell’attività aziendale potrebbe essere l’impatto sociale proprio perché gli indicatori di performance finanziaria sarebbero, in molti casi, parziali e limitanti. Prendendo spunto dalle riflessioni sopra esposte, possiamo sottolineare che il concetto moderno di attività imprenditoriale:
Queste considerazioni consentono di comprendere che l’impresa sociale, pur rappresentando un concetto particolarmente delicato, può essere inteso proprio nella sua espressione di fenomeno aziendale, di tipo economico e sociale, a prescindere dal suo necessario inquadramento definitorio oltre che normativo. In effetti, sebbene lasci intendere una fattispecie organizzativa ben definita, l’impresa sociale implica svariate considerazioni che la rendono una realtà imprenditoriale particolarmente complessa e critica. L’impresa sociale, intesa nell’accezione oggi più comune, è un fenomeno nato nel contesto italiano solo alla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo per riferirsi a organizzazioni aziendali di origine privata per l’erogazione di servizi sociali e per la realizzazione di attività produttive finalizzate all’inserimento lavorativo di categorie svantaggiate di persone. Data l’assenza di una specifica forma giuridica che potesse considerarsi idonea a una simile definizione, le prime forme di impresa sociale in Italia assunsero la tipica veste giuridica delle cooperative (si veda, in particolare la legge n. 381/1991). Successivamente, la diffusione di questa realtà, anche in ambito internazionale, condusse alla inclusione di attività imprenditoriali di produzione, finalizzate alla realizzazione di un insieme sempre più diversificato di beni e servizi. In sostanza, la fase di sviluppo dell’impresa sociale conduce a una sua definizione che non riguarda più le tipologie e le caratteristiche dei beni e servizi offerti, quanto maggiormente in funzione degli obiettivi perseguiti, delle finalità individuate e delle modalità di coordinamento e di organizzazione dei relativi processi produttivi. Si tratta di un approccio definitorio che qualifica l’impresa sociale quale forma imprenditoriale innovativa, e le cui attività di erogazione di beni e servizi non sono preordinate al conseguimento del profitto bensì al raggiungimento di traguardi di carattere etico e sociale.
Quanto appena introdotto mette in evidenza, probabilmente, come l’impresa sociale implichi una connaturata difficoltà nella enucleazione chiara e sistematica dei suoi elementi caratterizzanti e di fondo, per lo più a ragione della vasta gamma di peculiarità specifiche che essa può potenzialmente assumere nella realtà empirica. Uno degli approcci definitori più autorevoli è quello che giunge all’identificazione della figura dell’impresa sociale utilizzando tre tipologie di dimensioni, a loro volta frutto di tre insiemi di elementi o criteri (Borzaga, Defourny, 2001; Defourny, Nyssens, 2012):
La dimensione economico-imprenditoriale delle imprese sociali attiene alla presenza di:
La dimensione sociale, invece, è tipicamente riferibile ai seguenti elementi:
Infine, la dimensione partecipativa che si riferisce a:
La definizione appena illustrata può essere rapportata al portato normativo di impresa sociale, previsto all’articolo 1, comma 2 del D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 112, e che dispone:
«Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del codice civile, che, in conformità alle disposizioni del presente decreto, esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività».
Da tale raffronto è possibile mettere in evidenza, con maggiore analiticità, come la pluridimensionalità prima evidenziata (Borzaga, Defourny, 2001; Defourny, Nyssens, 2012), rappresenti un elemento distintivo e caratterizzante di questo tipo di organizzazione aziendale. Tuttavia, l’aspetto che, probabilmente, vale la pena sottolineare maggiormente in questa sede è che l’impresa sociale, per le sue modalità di concezione e per le sue caratteristiche tipiche, presenta una spiccata capacità di creazione di valore: in effetti, le sue peculiarità se, per un verso, costituiscono elementi di complicazione, d’altra parte, testimoniano una quasi naturale predisposizione a una più efficace gestione anche degli stessi elementi tipici delle teorie classiche dell’imprenditorialità (Say, 1847; Schumpeter, 1974), quali il profitto, il rischio, l’incertezza, la creatività che, dunque, sembrerebbero poter dar luogo a combinazioni produttive particolarmente ricche sotto il profilo valoriale.
Naturalmente, come appena precisato, il coinvolgimento dell’impresa sociale in processi produttivi assai diversificati nel moderno contesto socioeconomico, implicano che tali elementi di dinamicità rappresentino, al contempo, elementi di forza, ma anche di sensibile fragilità.
In tal senso, le caratteristiche di utilità sociale e di partecipazione da parte delle comunità civili ne mettono in evidenza la loro enorme potenzialità, consentendo di rimarcare il loro sviluppo, specie nei tempi a noi più recenti. Tuttavia, come già accennato in precedenza, le tante peculiarità tipiche dell’impresa sociale la collocano in una “zona grigia” di cui è difficile comprendere in maniera chiara, precisa e puntuale le relative dinamiche gestionali: le imprese sociali richiedono uno specifico approccio manageriale che, oltre alle suddette specificità, dovrebbe essere in grado di garantire il miglioramento dell’efficacia della loro governance (Boris, Steuerle, 2017) e il miglioramento dei livelli di sviluppo economico e soddisfazione della comunità (Moore, 2000; Putnam, 2000).
In buona sostanza, si tratta di organizzazioni che esprimono e rappresentano il risultato del contesto sociale e, in generale, dell’ambiente esterno in cui esse operano (Batillana, Lee, 2014).
Le imprese sociali, tuttavia, non rappresentano certamente un caso isolato, in sfocatura dei tipici confini dei diversi attori economici. Negli ultimi anni i confini tra le diverse forme di organizzazione aziendale (quali imprese profit-oriented, organizzazioni e istituzioni di natura pubblica, istituzioni non profit, ecc.) sono diventati sempre meno definiti riguardo a diversi aspetti: attività esercitate, fattispecie organizzative, settori di intervento, ecc. (Weisbrod, 1998; Billis, 2010; Battilana et al., 2012). Sono proprio queste considerazioni che hanno determinato l’emersione di cosiddette “organizzazioni ibride”, in grado di combinare aspetti di forme organizzative diverse (Hoffman et al., 2013) ma, al contempo, rendendo decisamente più complessa la definizione dei diversi aspetti di gestione.
Strettamente correlati a quanto appena detto sono i potenziali risvolti sotto il profilo finanziario. Le imprese sociali, per le caratteristiche prima accennate, devono assicurare una virtuosa convivenza tra necessità assai differenti, se non addirittura opposte. Da un lato, lo svolgimento della loro tipica attività imprenditoriale e commerciale ne richiede una gestione manageriale che, peraltro, dovrebbe essere ispirata dalla massima attenzione. D’altra parte, però, le imprese sociali gestiscono anche risorse a titolo gratuito che richiedono ulteriori e diverse competenze di gestione. In questa prospettiva, il carattere ibrido delle imprese sociali rappresenta un elemento di evidente complicazione. La diversa fonte di provenienza di tali risorse, unita alle caratteristiche assolutamente differenti determinano necessità di contemperamento di non facile soluzione. La gestione aziendale non è indifferente a simili elementi, la cui eterogeneità implica necessità conseguentemente dissimili. In altri termini, anche su questo fronte di analisi, le imprese sociali richiedono capacità specifiche e peculiari e che, naturalmente, non rendono agevole il raggiungimento dei fondamentali equilibri di gestione.
Da ultimo, l’elevato grado di apertura delle imprese sociali rappresenta un ulteriore elemento di attenzione. La dimensione partecipativa prima accennata, consistente nei peculiari processi decisionali e nel carattere democratico della loro organizzazione, non può che richiedere elevati livelli di trasparenza e di condivisione degli obiettivi e delle strategie perseguite.
Tuttavia, l’aspetto probabilmente più rilevante da rimarcare è che questi elementi non si limitano a rendere più difficoltosa la loro organizzazione: si tratta di una sistematica complessità che ostacola la gestione ma anche (o, forse, soprattutto) la loro eventuale valutazione.
Sotto il profilo meramente enciclopedico, il termine “valutazione” esprime il processo di «Determinazione del valore di cose e fatti di cui si debba tenere conto ai fini di un giudizio o di una decisione, di una classifica o graduatoria» (Treccani, 2019). Tuttavia, tale termine, tradizionalmente, è stato sempre riferito all’attribuzione di un valore monetario, mediante l’applicazione di approcci, metriche, metodologie e strumenti sostanzialmente economico-finanziari. Naturalmente, ciò risulta assolutamente logico solo con riferimento a realtà organizzative per le quali simili procedimenti risultino compatibili con l’oggetto della stessa misurazione. Conseguentemente, con riferimento all’impresa profit-oriented, i tradizionali processi di valutazione risultano idonei ad assicurare l’utilità dei risultati dei processi valutativi: poiché la finalità di queste organizzazioni è rappresentata dalla determinazione di un risultato economico di periodo (reddito d’esercizio) oltre all’accrescimento del capitale di funzionamento (e del relativo patrimonio aziendale), la misurazione – di tipo economico-finanziario – è una condizione essenziale per ogni processo valutativo.
Tuttavia, e proprio alla luce della appena menzionata considerazione, le caratteristiche dell’oggetto di osservazione non sono affatto irrilevanti ai fini dei risultati di un’attività valutativa. Conseguentemente, quando la valutazione riguarda una realtà organizzativa che non è ispirata a simili finalità di profitto, la metrica valutativa deve necessariamente tenerne conto e, soprattutto, adeguarsi al contesto di differenti finalità. Quanto accennato è proprio direttamente riferibile al contesto delle imprese sociali: le caratteristiche distintive di queste realtà, come prima più volte osservato, pongono dubbi sull’utilità di valutazioni di tipo esclusivamente economico-finanziario, anche alla luce delle caratteristiche ibride prima accennate.
Proprio in tale direzione, ad esempio, è utile ricordare i processi di valutazione dell’impatto sociale, ripresi anche dalla recente riforma del Terzo settore. Non costituendo il principale obiettivo di questo lavoro e, quindi, rimandando ad altre sedi i necessari approfondimenti sul tema (Barbetta, 2020; Depedri, 2020; Marocchi, 2020; Musella, 2020), è utile comunque ricordare che la legge 6 giugno 2016, n. 106 ha provveduto al riordino e alla revisione organica della disciplina vigente in materia di enti del Terzo settore proprio ponendo attenzione proprio all’impatto sociale con l’obiettivo di valorizzare «[…] il ruolo degli enti nella fase di programmazione, a livello territoriale, relativa anche al sistema integrato di interventi e servizi socio-assistenziali nonché di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale e individuare criteri e modalità per l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale, improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione e nel rispetto della disciplina europea e nazionale in materia di affidamento dei servizi di interesse generale, nonché criteri e modalità per la verifica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni».
A ciò si aggiunga la disposizione di cui al decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 23 luglio 2019 – Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore – che definisce la valutazione dell’impatto sociale come «la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato».
Questi elementi normativi contribuiscono a sottolineare la multidimensionalità del concetto di impatto sociale che, a sua volta, evidenzia la difficoltà della sua misurazione (Nicholls et al., 2015). Tale difficoltà risiede in molteplici elementi (Barbetta, 2020; Depedri, 2020; Marocchi, 2020; Musella, 2020), tra cui val la pena ricordare:
Nonostante tale difficoltà, numerosi sono gli strumenti sviluppati, nel corso di studi e ricerche, per la misurazione dell’impatto generato dalle imprese sociali (Mulgan, 2010; Grieco et al., 2014; Bengo et al., 2015; Nicholls et al., 2015; Zamagni et al., 2015), tra cui:
Non rientra tra le finalità della presente ricerca l’analisi di queste metodologie, rinviando ad altri studi e lavori scientifici i necessari approfondimenti. In questa sede, tuttavia, è importante sottolineare che tutti questi approcci, a prescindere dalle peculiarità specifiche di ognuno di essi, sono accomunati dalla pluridimensionalità più volte citata fino ad ora. Al contrario, nessuno di essi sembra far discendere la valutazione dalla considerazione delle sole variabili economico-patrimoniali.
In effetti, l’accentuato carattere multiforme delle attività erogate da questo tipo di organizzazioni imprenditoriali implica che la crucialità che contraddistingue il sistema informativo-contabile di qualsiasi tipo di realtà aziendale diventa ancor più accentuata con riferimento alle imprese sociali.
Il bilancio e l’intero sistema dei documenti contabili rappresentano il più importante strumento per la rappresentazione della situazione economica, finanziaria e patrimoniale, nonché il mezzo più efficace per soddisfare le esigenze conoscitive dei propri stakeholder e per fornire una visione d’insieme dello stato di salute di qualsiasi tipo di azienda, e ciò vale ancor più per le imprese sociali. Di conseguenza, uno specifico aspetto su cui riflettere è rappresentato dalla necessità di garantire che tale complesso di informazioni sia adeguato alla realtà cui si riferisce, nonché idoneo a garantire la completezza, la coerenza e la trasparenza di esse rispetto alla molteplicità di soggetti, interni ed esterni, in qualsiasi modo relazionati all’impresa stessa. Tale necessità non può che trovare risposta nell’apparato normativo che dovrebbe assicurare un sistema informativo-contabile quantomeno proporzionato alla rilevanza di organizzazioni che, come abbiamo prima accennato, è ormai sempre maggiore. In questa direzione, come tra poco, la disclosure sociale è stata resa obbligatoria da parte del legislatore per diversi enti tra cui proprio le imprese sociali.
Le esigenze di trasparenza informativa appena menzionate, d’altra parte, ineriscono direttamente al fondamentale concetto di accountability, ovvero alla necessità di «riferire sull’utilizzo delle risorse economiche e finanziarie, sulla correttezza con cui hanno agito i soggetti coinvolti nella gestione, sull’adeguatezza e sulla rispondenza dei comportamenti assunti rispetto agli obiettivi stabiliti, ai risultati, diretti e indiretti, effettivamente conseguiti nel breve e nel lungo termine» (Ricci, 2012 - p. 245). Da tale definizione diventa assai agevole intuire come un adeguato grado di accountability, specie per le imprese sociali, sia in grado di assicurare non solo la limpidezza delle informazioni relative all’organizzazione aziendale, quanto soprattutto la dovuta responsabilizzazione degli amministratori riguardo il perseguimento delle finalità proprie di queste organizzazioni.
La capacità relazionale tipica delle imprese sociali, costituita da una fitta rete di relazioni con numerose e variegate categorie di stakeholder, e coniugata con le finalità sociali perseguite, denota una evidente esigenza di trasparenza dell’intera attività gestionale, soprattutto in considerazione delle erogazioni pubbliche di cui esse possono essere destinatarie. Tale necessità di trasparenza, è evidente, non può essere assolta solo mediante i documenti di bilancio ovvero attraverso i tradizionali strumenti di programmazione e controllo finanziario, in quanto questi risultano quasi sterilmente deputati a comunicare solo alcuni ristretti aspetti tipici dell’attività gestionale e, dall’altro lato, non sono in grado di fornire una visione trasparente delle logiche relative alle finalità sociali cui simili organizzazioni sono generalmente ispirate. Tali informazioni, seppur necessarie in quanto di fondamentale importanza e oggetto di normative cogenti, devono essere necessariamente integrate da altri documenti in grado di descrivere, anche dal punto di vista qualitativo, il grado di raggiungimento degli obiettivi delle imprese sociali: la ragione di tale necessità risiede nella constatazione che, per queste ultime, le risultanze contabili e di bilancio non sono in grado di assicurare l’efficace ed efficiente raggiungimento delle finalità che esse cercano di perseguire. In questo senso, la rendicontazione sociale e l’utilizzo degli strumenti di rendicontazione “allargata”, o non-finanziaria, rappresenta un valido supporto per la correttezza informativa e gestionale prima accennate che, d’altra parte, è confermato dalla previsione normativa che impone la redazione di questo documento per tutte le imprese sociali. In questo senso, l’obbligo di redazione del bilancio sociale e conseguente pubblicazione sul sito internet istituzionale dell’organizzazione è stato stabilito ancora dalla citata legge n. 106 del 2016 quale strumento di trasparenza verso tutti i diversi e potenziali stakeholder.
Un aspetto particolarmente rilevante ai fini del presente lavoro riguarda proprio il regime di obbligatorietà di questo report: la sua redazione, seppur differenziata in ragione della dimensione economica dell’attività esercitata ovvero dell’eventuale impiego di risorse pubbliche, diventa assoluto proprio per le imprese sociali (oltre a cooperative sociali, loro consorzi e centri di servizio per il volontariato). Di conseguenza, esse sono tenute alla redazione, pubblicazione e deposito del bilancio sociale, indipendentemente dai predetti vincoli dimensionali, proprio a sottolineare la valenza e l’utilità di questo strumento per la corretta informativa necessaria per queste particolari organizzazioni economiche.
In effetti, l’impiego degli strumenti ispirati da finalità di rendicontazione non meramente quantitativo-contabile, è certamente in grado di garantire benefici potenziali particolarmente rilevanti, rappresentando, in un certo senso, il necessario completamento dei tradizionali sistemi di contabilità aziendale. Al contempo, la rendicontazione sociale assume maggiore efficacia ai fini del controllo delle attività, proprio in quanto essa risulta orientata alla gestione complessiva delle relazioni con gli stakeholder. Infine, l’utilizzo di informazioni aventi natura non strettamente finanziaria consente di fornire una rappresentazione esaustiva del rapporto esistente tra fini statutari delle organizzazioni non profit e le attività necessarie per il loro perseguimento: in tale prospettiva, esse risultano effettivamente utili alla qualificazione della efficacia delle performance aziendali in termini di miglioramento del benessere sociale della collettività.
Nella prospettiva illustrata, il legislatore italiano ha cercato di fornire una risposta all’esigenza appena posta, mediante il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 4 luglio 2019 – Adozione delle Linee guida per la redazione del bilancio sociale degli enti del Terzo settore – che prescrivono l’obbligo di redazione del bilancio sociale per tutte le imprese sociali (e per gli enti del Terzo settore) con ricavi, rendite, proventi o entrate superiori a 1 milione di euro, suggerendo, al contempo, il loro rispetto anche per gli enti che, seppur non vincolati, esprimano la volontà di redigere un bilancio sociale su base volontaria.
La recente previsione normativa in tema di bilancio sociale rappresenta un chiaro e inequivocabile tentativo di risposta alle esigenze valutative delle imprese sociali prima sommariamente esposte.
Il valore sociale sprigionato da un’impresa sociale non può essere sterilmente ricondotto alla mera misurazione della componente monetizzabile, ovvero esprimibili in termini quantitativi o, comunque, finanziari. Gli elementi critici prima sottolineati mettono in evidenza come, invece, un congruo processo di valutazione debba necessariamente riposare nella concreta e sistemica analisi dell’insieme delle attività effettivamente e quotidianamente svolte e, soprattutto, dei beni pubblici forniti, resi disponibili o tutelati. La focalizzazione sulle attività erogate consente il superamento di molte delle perplessità sollevate, a partire dalla cruciale questione definitoria. Molte delle entità di cui si sta discorrendo si occupano dell’offerta di svariate attività, ciascuna con una differente, seppur evidente, utilità di carattere sociale.
In conseguenza, ogni processo valutativo che riguardi il valore sociale generato dall’impresa sociale può essere definito solo ed esclusivamente in riferimento al criterio dell’interesse generale, che rappresenta il presupposto fondamentale della stessa esistenza di un simile tipo di organizzazione. In altri termini, si vuole evidenziare che sarebbe la prossimità dell’attività svolta rispetto al particolare interesse generale perseguito a rendere possibile e conveniente una successiva valutazione di efficacia o di efficienza complessiva nelle organizzazioni economiche quali le imprese sociali.
D’altra parte, inoltre, l’interpretazione della utilità sociale in funzione delle attività svolte consente anche di comprendere che ogni giudizio conclusivo su di essa vada modulato in termini relativi e non assoluti: le fisiologiche ed evidenti peculiarità delle organizzazioni esaminate nonché delle attività da loro svolte permettono di comprendere che ogni qualsiasi valutazione assoluta, che si fondi sulla mera attività di benchmarking di indicatori ovvero risultati di sintesi, non sia né possibile né, ancor più, utile. In questo senso, alcuni autori hanno giustamente sottolineato «che non sia possibile rappresentare in modo esaustivo con un numero, o anche con un vettore di numeri, i risultati attribuibili all’azione, al progetto oggetto della valutazione di impatto. E, con buona pace di chi vorrebbe sapere in modo “oggettivo” e univoco chi è stato il più bravo o anche solo se i soldi impiegati sono stati ben spesi, questa modalità debole di proporre “valutazioni di impatto” rimane solo un elemento valutativo importante che offre indicazioni utili a orientare scelte future, ma non propone giudizi definitivi e con crisma di scientificità assoluta» (Musella, 2020 - p. 28).
Questo lavoro, certamente sintetico, oltre che incompleto per un’esposizione compiuta sul tema dell’impresa sociale e delle connesse tematiche valutative, non vuole affatto rappresentare il tentativo di pronunciare giudizi definitivi, specie su un tema così delicato. La finalità, in effetti, è di tentare di offrire qualche spunto per stimolare una riflessione che si ritiene necessaria, proprio alla luce della rilevanza, attuale e prospettica, dell’impresa sociale. In tal senso, le considerazioni fin qui evidenziate possono almeno consentire di sottolineare che l’impresa sociale si è trovata, sempre più spesso, quale destinataria di logiche e approcci di valutazione tendenti all’espressione di giudizi di sintesi sul suo operato, sulla sua efficienza e sulla sua efficacia. Pur non volendo affatto sminuire la rilevanza di tali strumenti, è comunque necessario incitare riflessioni e pensieri che consentano di interrogarsi sulle ragioni alla base di tali metriche di valutazione, anche allo scopo di chiarire se l’impresa sociale abbia maggiormente bisogno del perfezionamento di tecniche valutative piuttosto che di una riconsiderazione del quadro logico-concettuale di fondo sulla cui base, poi, inserire processi e metodologie di valutazione specifica.
In questo senso, un primo elemento che vale la pena sottolineare riguarda il mutevole contesto nel quale l’impresa sociale si trova a operare, specie nei tempi più recenti. I processi di cambiamenti in atto, sia di tipo sociale che di natura economica, creano un ambiente di profonda incertezza per le imprese sociali, per le quali diventa fondamentale l’introduzione di approcci e logiche di gestione altamente dinamiche. Si tratta di un concetto assolutamente noto negli studi di economia aziendale, che mettono in evidenza la dinamicità delle relazioni che riguardano una azienda ovvero un’impresa e che, a sua volta, implica la necessità di sistematici e costanti interventi correttivi, utili ad allineare i risultati effettivamente conseguiti, rispetto a quelli previsti ovvero a quelli definiti quali target di riferimento, tanto per citare qualche esempio. Questo meccanismo di feedback, naturalmente, coinvolge anche l’impresa sociale ma, probabilmente, con ancora maggiore enfasi rispetto agli altri contesti aziendali, proprio a ragione dei delicati equilibri precedentemente accennati che rappresentano, ancora una volta, un elemento di particolare fragilità di tale particolare fattispecie organizzativa.
Quanto appena detto introduce il delicato tema della valutazione, per il quale l’aspetto più importante da rimarcare riguarda, probabilmente, la stessa essenza dei processi valutativi.
È necessario ricordare, infatti, che «Valutare significa analizzare se un’azione intrapresa per uno scopo corrispondente ad un interesse collettivo abbia ottenuto gli effetti desiderati o altri, ed esprimere un giudizio sullo scostamento che normalmente si verifica, per proporre eventuali modifiche che tengano conto della potenzialità manifestatesi» (Stame, 1998 - p. 9).
La definizione citata consente di evidenziare che l’attività valutativa non può limitarsi alla verifica del grado di raggiungimento di obiettivi programmati: l’eventuale mismatching non è sempre ed unicamente dovuto, come già prima accennato, a inefficienze del processo produttivo, ma potrebbe essere anche dipendente da una cattiva attività di programmazione dei traguardi da raggiungere. Ciò enfatizza ancora una volta il tema dei finalismi, specie con riferimento all’impresa sociale: in questa le caratteristiche intrinseche e la peculiare combinazione di obiettivi creano un contesto davvero singolare, e nel quale l’attività di valutazione descritta prima non può che trovare particolare difficoltà.
A quanto detto si aggiunga la crescente importanza assunta, negli ultimi anni, dal tema della valutazione che dovrebbe rappresentare «un’attività di ricerca sociale, al servizio dell’interesse pubblico» (Stame, 1998 - p. 9) ma che, molto spesso, viene impoverita della funzione di guida appena accennata, per assumere significati altamente limitati, non solo a causa della mera applicazione di tecniche e metriche astratte, ma soprattutto a ragione di un certo snaturamento della sua funzione (Marocchi, 2020).
Ciò porta all’interrogativo inziale, e di cui al titolo di questo lavoro: il tema valutativo, in questa particolare entità aziendale, potrebbe essere oggetto di una discutibile interpretazione, in cui i tentativi quasi ossessivi di raggiungere dei giudizi di sintesi mediante metriche e formulazioni di calcolo potrebbero compromettere il significato stesso della valutazione. In questo senso, il vero problema non sarebbe rappresentato dalla identificazione dello strumento di analisi da ritenersi più corretto, quanto del corretto intendimento del processo valutativo. Su questo aspetto, bisognerebbe svolgere qualche ulteriore riflessione che questo scritto ha cercato solo di stimolare, anche in considerazione della oggettiva difficoltà della tematica. In tal senso, il lavoro si propone quale fase embrionale di un più approfondito e analitico studio della questione valutativa nell’impresa sociale: gli aspetti critici rilevati, seppur necessari, potranno costituire lo spazio di ricerca su cui cercare di sviluppare e affinare il ragionamento complessivo, allo scopo di fornire risposte scientifiche puntuali alle questioni finora sollevate.
DOI: 10.7425/IS.2021.01.08
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