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Numero 1 / 2021

Saggi

La misurazione della performance delle piccole e medie cooperative sociali. Un apprezzamento basato sul valore aggiunto

Alessandro Montrone, Simone Poledrini

Introduzione

Tra i vari temi di interesse per la cooperazione sociale che ad oggi non sono stati adeguatamente approfonditi dalla letteratura esistente (e nemmeno da rapporti di ricerca) vi è senza dubbio lo studio delle piccole e medie cooperative sociali (da ora in avanti CS). Con tale termine, ai fini del presente contributo, si intendono tutte quelle imprese che hanno la forma giuridica di cooperativa sociale, così come stabilito dalla L. 381/1991, e una piccola-media dimensione, cioè hanno un numero di dipendenti superiore a 5 ma inferiore a 250. È ormai affermato dalla letteratura e dalla prassi imprenditoriale quanto le PMI si discostino, seppure spesso per opposti motivi, dalle grandi e dalle micro imprese in termini di fabbisogni finanziari, managerializzazione, capacità di reagire ai cambiamenti e così via. Da questa considerazione è nata e si è sviluppata la vasta letteratura, ormai ultra decennale, sulle PMI. A dire il vero, ad oggi gli spazi di novità e di possibile ricerca su questo tema sono molto ridotti rispetto al passato proprio per la ricchezza e profondità delle varie declinazioni già affrontate in letteratura. Tuttavia il segmento delle cooperative sociali all’interno delle PMI non è ancora stato trattato in modo esaustivo e completo.

L’obiettivo del presente contributo è quello di fare più luce su questo tema, in particolare dal punto di vista delle performance economiche e sociali al fine di individuare la più corretta modalità di misurazione e fare un’analisi dello stato dell’arte di questo particolare tipo di PMI.

È giusto ricordare che la peculiarità delle CS è quella di “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”, così come recita l’articolo 1 della già citata legge, attraverso una forma d’impresa vera e propria. Quest’ultima, quindi, in quanto tale dovrà tenere conto anche del raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario affinché possa perdurare nel tempo (Montrone, Poledrini, 2020).

Una questione che, sebbene sia sempre stata di interesse sia scientifico che pratico per gli studiosi e operatori del settore, oggi lo è ancora più oggi vista la crisi economica e sociale conseguente alla pandemia da Covid-19. Pertanto, il presente lavoro vuole rispondere innanzitutto alla seguente domanda di ricerca: quali sono le più corrette misure da utilizzare per la valutazione delle performance economiche e sociali delle piccole e medie cooperative sociali di tipo A?

Nel cercare risposta verrà applicato un approccio induttivo-deduttivo, tipico degli studi aziendalistici.

Deduttivo, in quanto esiste ampia ed autorevole letteratura circa il valore aggiunto e gli indicatori allo stesso correlati, considerati come quelli più idonei al fine dell’apprezzamento dell’esistenza, o meno, nell’azienda non solo di condizioni di equilibrio economico, ma anche di un positivo impatto sociale (Catturi, 1973; Gabrovec Mei, 1994; Haller, Van Staden, 2014; Landis et al., 2014; Mella, 2012; Morley, 1978; Moro Visconti, 1991; Rees, 1990; Renshall et al., 1979; Riahi-Belkaoui, 1996; Rispoli, 1983). Infatti, si ricorda che il calcolo del valore aggiunto è utile per giudicare l’economicità sociale dell’azienda in funzione della sua capacità di produrre risorse in grado di soddisfare le attese dei diversi portatori di interessi che gravitano intorno ad essa.

Induttivo, in quanto, in questa sede è stata condotta un’analisi sui dati di bilancio disponibili nel database di AIDA delle piccole e medie CS di tipo A e delle PMI sotto forma di società a responsabilità limitata (d’ora in poi SRL) allo scopo di effettuare una comparazione tra le due tipologie d’impresa, accomunate dai requisiti dimensionali ma caratterizzate da un diverso finalismo. In particolare, al fine di poter avere due gruppi di aziende il più possibile omogenei, sono state escluse le CS di tipo B perché, trattandosi di imprese che fanno inserimento lavorativo di persone svantaggiate, hanno delle peculiarità tali che le rendono meno facilmente confrontabili con quelle che non fanno tale attività. Diversamente le CS di tipo A e le SRL possono essere più ragionevolmente confrontare e paragonate.

In questo framework, con riferimento al 2019, sono state selezionate tutte le piccole e medie CS di tipo A e le PMI sotto forma di SRL appartenenti ai settori industriali con codici ATECO 87 (servizi di assistenza sociale residenziale) e 88 (assistenza sociale non residenziale). Il motivo di tale ulteriore selezione sta nel fatto che i due settori indicati sono quelli nei quali le CS di tipo A prevalgono sia in termini di numerosità che di volume di affari. Non avendo le CS una marcata differenziazione su base geografica rispetto alle PMI è stata tralasciata la localizzazione geografica come ulteriore dato di caratterizzazione dei due gruppi selezionati (Castelnovo, 2020; Picciotti et al., 2014).

Per ultimo, l’utilizzo del valore aggiunto e degli indicatori ad esso connessi hanno permesso di rendere ulteriormente confrontabile l’analisi dei due gruppi di imprese, consentendo la valorizzazione del ruolo sociale delle CS.

L’articolo è strutturato come segue. Il primo paragrafo affronta la tematica delle caratteristiche economiche e finanziarie delle piccole e medie CS; nel paragrafo successivo, si passa al tema della misurazione della performance nelle CS, individuando nel valore aggiunto e negli indici relativi una possibile soluzione per un più corretto apprezzamento dell’economicità e, al tempo stesso, della socialità. A questo punto, nel terzo paragrafo sono fornite alcune precisazioni sulla metodologia seguita nell’indagine empirica, per poi passare ad analizzare i dati estrapolati e mostrare i risultati della ricerca. Per ultimo, delle brevi conclusioni terminano il presente lavoro.

Piccola-media dimensione, performance economico-finanziarie e cooperative sociali

Il dibattito su quale possa essere la dimensione di impresa migliore prosegue ormai da molti decenni sia tra gli studiosi di economia che tra gli operatori del settore ed i policy maker (Piore, Sabel, 1987). Ad oggi, la risposta più accreditata che è stata data a tale annoso quesito è che non vi sia una dimensione aziendale migliore rispetto ad un’altra, ma che piuttosto a seconda del settore di appartenenza, del ciclo di vita e delle attività che svolge ogni singola azienda cambi il vantaggio che si può ricevere dal possesso di una dimensione rispetto ad un’altra (Pavitt, 1984). Pertanto, gli studiosi concordano nell’affermare che la dimensione aziendale influenza le caratteristiche ed i punti di forza e di debolezza di ciascuna impresa (Balloni, 2000; Cortesi et al., 2004; Preti, 1991). In altre parole, essere micro, piccoli, medi o grandi non è la stessa cosa. Da questo punto di vista ha senso studiare le organizzazioni non solo nelle loro caratteristiche generali, per esempio per l’attività che svolgono o la governance che hanno, ma anche nel loro aspetto dimensionale (Preti, 1991).

Per quanto riguarda le PMI occorre dire che ad oggi è abbastanza assodato il riconoscimento del ruolo che queste imprese hanno svolto, e continuano a svolgere, nello sviluppo economico del Paese e nel sistema economico attuale (Vignali, 2006). Volendo indicare i punti di forza e di debolezza di questa tipologia di imprese si può sicuramente affermare che ogni singolo aspetto positivo ha anche uno o più limiti (Russo, 1996). Per esempio, essere una PMI può dare numerosi vantaggi in termini di flessibilità al cambiamento e di capacità di rispondere ai bisogni emergenti del mercato in modo veloce e secondo le esigenze dei clienti. Quindi, in altre parole, essere più innovativi di una grande azienda. Tuttavia la piccola e media dimensione non permette grandi investimenti in Ricerca e Sviluppo molto spesso necessari per generare un prodotto innovativo (Brunetti, Corbetta, 1996; Epifanio, 1995).

Rispetto alla valutazione delle performance economiche e finanziarie delle PMI si possono effettuare le medesime considerazione; la dimensione d’impresa non è l’unica variabile in grado di influenzare tali valori, perché anche altri aspetti, come la forma giuridica, condizionano il possesso delle risorse finanziarie e la struttura del capitale.

Secondo Borzaga e Fontanari (2017), le cooperative sociali hanno un’elevata solidità finanziaria grazie al vincolo di distribuzione degli utili, alla governance democratica e al possesso di manager qualificati. Particolare attenzione va riservata alle piccole e medie CS che, date le loro dimensioni, soffrono degli stessi problemi delle PMI in termini di solidità finanziaria. Per esempio, Costa e colleghi (2012) hanno evidenziato che le piccole e medie CS hanno problemi di accesso alle risorse finanziarie. Quindi, possono avere una bassa capacità di generare valore per il capitale investito e avere una struttura finanziaria non equilibrata.

Andreaus e Tortia (2007) hanno mostrato che circa il 60% delle CS da loro analizzate ha un grado di capitalizzazione intermedio o alto. Purtroppo non è disponibile il dato disaggregato per dimensione, che in questo caso sarebbe stato molto utile. Tuttavia, è giusto ricordare che il capitale “reale” delle CS non è tanto quello versato, ma le risorse umane che operano all’interno di esse, perché sono alla base dei servizi erogati. Tale affermazione, sebbene sia valida per l’intero mondo della cooperazione sociale, lo è ancora di più per le piccole e medie CS, che sul capitale umano fondano la propria forza.

In termini di performance economica, le CS hanno avuto la capacità di reagire positivamente alla crisi del 2007-2008 e questo potrebbe far ben sperare per quella attuale. In particolare, Costa e Carini (2016) hanno mostrato che le CS hanno aumentato il fatturato complessivo e il totale delle attività nel periodo di crisi precedente a quello attuale (2008-2011). Addirittura, in questo caso tutte le CS (piccole, medie e grandi) hanno avuto performance migliori delle società for profit nello stesso periodo di riferimento. Questo risultato è stato possibile grazie alla capacità delle CS di affrontare il mercato attraverso strumenti innovativi (Borzaga, 2013) e alla loro indipendenza dai contributi pubblici e privati che nei periodi di crisi inevitabilmente sono ridotti. Infatti, come evidenziano Borzaga e Galera (2016) le cooperative sociali italiane hanno beneficiato, nel corso degli anni, solo in modo marginale dei contributi pubblici.

A tale riguardo, Andreaus e Tortia (2007) hanno evidenziato nel loro studio che i ricavi da attività commerciale di tutte le CS, indipendentemente dalla dimensione, erano pari a circa il 93% dei ricavi totali e circa il restante 7% era così suddiviso: 3,8% contributi del settore pubblico, l’1,2% contributi dal settore privato, 0,3% contributi in conto capitale e il 2,3% da altri ricavi.

La misurazione della performance economica e sociale delle cooperative sociali

La misurazione delle performance delle cooperative sociali non può e non deve essere limitata alla sola dimensione economico-finanziaria, non potendo, proprio per la natura stessa dell’impresa, prescindere da quella sociale. E in ottica di valutazione del peso della componente sociale rispetto al contesto socioeconomico di appartenenza, la misurazione andrà attuata con adeguati parametri ed indicatori dell’effettivo impatto della CS in termini di creazione e diffusione di benessere.

Il profitto non è il fine primario di una CS, anche se non se ne vuole in questa sede mettere in dubbio l’utilità e legittimità, soprattutto per il rafforzamento della struttura patrimoniale mediante un’adeguata politica di autofinanziamento. Va peraltro sottolineato che, nella misura in cui le CS non distribuiscono gli utili e non raccolgono capitali iniziali significativi, per esse l’accumulo di riserve rappresenta la via maestra e pressoché obbligata per il consolidamento patrimoniale; in aggiunta, la destinazione dei risultati economici conseguiti all’alimentazione delle riserve ha carattere di patrimonio intergenerazionale intangibile, che è esso stesso indicatore di socialità, considerato che soci che si privano di una parte di soddisfazione economica mutualistica per costruire la solidità patrimoniale dell’azienda, attuano una politica che va pro tempore a loro stesso vantaggio ma prima di tutto a beneficio anche futuro della comunità di riferimento.

Il profitto rimane, invece, elemento qualificante delle società di capitali, anche se si può discutere in merito alla sua “giusta” misura, al suo ruolo in rapporto ad altre possibili finalità ed alla sua diversa destinazione. Infatti, il profitto si dimostra “di qualità” nella misura in cui non deriva dallo sfruttamento opportunistico di una qualche contingenza favorevole, ma in quanto “scaturisce da una superiore capacità di seguire i bisogni del cliente e alimenta una superiore capacità di soddisfare le attese degli interlocutori sociali, la quale, a sua volta, produce fiducia, dedizione, coesione, spinta motivazionale, elementi tutti essenziali ad una superiore performance competitiva” (Coda, 1988). D’altro canto, i problemi della quantità e qualità del profitto sono stati così ampiamente dibattuti e stigmatizzati nella dottrina aziendalistica che pochi sarebbero disposti a difenderlo senza almeno alcune riserve; di conseguenza, non sorprende che si debbano formulare proposte per approcci intesi a sostituire il profitto come misura della performance economica dell’azienda (Egginton, 1984).

Quindi, e a maggior ragione in riferimento alle CS (e soprattutto) di tipo A operanti in settori a forte impatto sociale, occorre intraprendere la ricerca di grandezze alternative al profitto per la misurazione della performance sia economica che sociale, inquadrate in un finalismo che superi una visione strettamente economica, pur senza condurre ad un suo declassamento.

In questo quadro l’economicità proiettata nel lungo periodo assume grande rilevanza, intesa come attitudine dell’azienda ad operare come strumento economico durevole (Ferrero, 1968); ciò significa che può reputarsi anche ammissibile una sua temporanea e transitoria assenza, purché non si protragga nel lungo andare. D’altro canto, l’economicità si connette anche ai principi di consonanza e, quindi, di rispetto e valorizzazione di tutte le risorse (tra le quali il lavoro, il risparmio e lo stesso ambiente naturale), il che le conferisce anche un indubbio rilievo sociale (Coda, 1988).

È pertanto opportuno definire preventivamente i concetti di economicità e di socialità dell’azienda, anche per capire se e come questi siano tra loro compatibili. Si parla di economicità per intendere la conformità a convenienza economica; con il termine socialità si vuole intendere, invece, la conformità al “bene comune”, che non è soltanto “benessere comune”, anche se quest’ultimo ne è condizione fondamentale (Onida, 1961).

Quindi, “l’economicità nell’amministrazione dell’impresa, in quanto favorisce la diffusione del benessere economico, è fondamentalmente conforme al bene comune, risponde a criteri di socialità ed è, anzi, potente strumento di socialità. Amministrare trascurando la buona economia, porre in atto processi d’impresa che sistematicamente distruggono ricchezza, anziché produrne, è di regola opera socialmente dannosa” (Onida, 1961 - p. 6); tutto ciò significa che l’economicità non può essere sacrificata senza compromettere anche la socialità dell’agire d’azienda.

Se, allora, il perseguimento di quella che, sulla base delle precedenti considerazioni, potremmo definire unitariamente come “economicità sociale” deve opportunamente essere un obiettivo di fondo soprattutto di una CS, ne consegue l’esigenza di reperire un adeguato strumento di misurazione, rappresentazione e interpretazione della stessa, in grado di compendiare in sé il ruolo sia economico sia sociale che si richiede di svolgere al sistema aziendale nell’ambiente in cui vive ed opera. Questo strumento può essere individuato in una grandezza economica di primaria importanza, ossia il valore aggiunto (Haller, Stolowy, 1998; Haller,  Van Staden, 2014; Landis et al., 2014; Mella, 2012; Morley, 1978; Moro Visconti, 1991; Rees, 1990; Renshall et al., 1979).

Da un lato, esso può essere inteso come la maggiore ricchezza creata dall’impresa ma, dall’altro (e soprattutto), come fonte di distribuzione della medesima tra i soggetti che hanno preso parte, seppure a diverso titolo, all’attività produttiva (Gabrovec Mei, 1993).

Nell’aspetto della sua creazione, il valore aggiunto può essere concepito come eccedenza dei valori prodotti rispetto all’ammontare dei valori consumati nell’operare dell’impresa (Onida, 1961). In altri termini, esso è espresso dalla differenza tra il valore delle risorse che un produttore acquisisce dall’esterno e il valore dei beni e/o servizi da esso prodotti, con l’impiego del suo ingegno, del lavoro e del capitale (Rispoli, 1983).

Tuttavia, uscendo da una mera ottica produttiva, il valore aggiunto assume il ruolo basilare di fonte di distribuzione di ricchezza tra i partecipanti all’attività aziendale; in questo senso può essere decisamente utile per giudicare l’economicità sociale dell’azienda in funzione della sua capacità di produrre risorse in grado di soddisfare le attese dei diversi portatori di interessi che gravitano intorno ad essa (Moro Visconti, 1991).

Esso, in altri termini, misura il grado di partecipazione o l’apporto di ogni singola azienda alla costituzione del fondo di valore da cui gli individui appartenenti ad una comunità attingono i servizi per soddisfare i bisogni avvertiti (Catturi, 1994).

Si può quindi affermare che la duratura esistenza di un’azienda è possibile solo se essa è capace di creare abbastanza valore aggiunto da soddisfare gli interessi e le attese (economiche e non) di un insieme di stakeholder. Ciò significa che la creazione di valore aggiunto è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la concreta attuazione del noto principio del “going concern”, considerato che in sua assenza, viene fatalmente meno la stessa ragione di esistere dell’azienda e, a maggior ragione, della CS.

Condivisa allora l’esigenza di una misurazione dell’economicità sociale che faccia perno sul valore aggiunto, occorre individuare le concrete modalità di misurazione attraverso adeguati indicatori e, ancor prima, fornire una puntuale definizione di questa grandezza economica.

Infatti, nella dottrina aziendalistica vengono individuate più configurazioni di valore aggiunto ottenibili mediante la riclassificazione del conto economico e, più precisamente (Haller, 1997; Montrone, 2000):

  • Valore aggiunto operativo lordo: deriva dalla contrapposizione di componenti economici positivi, aggregati nel valore della produzione (che ha il significato di ricchezza lorda prodotta dall’impresa nella sua attività operativo-caratteristica), a componenti economici negativi, aggregati nella categoria dei costi di attivazione; questi ultimi rappresentano l’onere sopportato per il consumo di fattori acquisiti da economie terze e distinti dai fattori strutturalmente legati al sistema d’impresa (Montrone, 2000). Questa configurazione di valore aggiunto ha il pregio della ridotta soggettività (connessa alle sole voci riguardanti le variazioni nel magazzino e gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni), atteso che esclude gli ammortamenti e gli accantonamenti, tipicamente oggetto di non sempre limpide politiche di bilancio.
  • Valore aggiunto operativo netto: è una configurazione che, partendo da quella precedente, tiene conto delle esigenze di invarianza delle potenzialità economico-produttive dell’impresa attraverso la sottrazione degli importi relativi agli ammortamenti e agli accantonamenti, qualificabili anche come autofinanziamento improprio. Pur soffrendo di maggiore soggettività rispetto alla analoga misura lorda, questa configurazione rappresenta più correttamente la nuova ricchezza creata, al netto del consumo verificatosi in fattori strutturali del sistema aziendale.
  • Valore aggiunto ordinario netto: non potendosi limitare al solo segmento operativo-caratteristico la misurazione della nuova ricchezza prodotta, alla precedente configurazione vengono rispettivamente sommati e sottratti i componenti economici positivi e negativi rivenienti dai segmenti finanziario ed accessorio della gestione a condizione, comunque, che si tratti di proventi e oneri che provengono da attività aventi carattere di ordinarietà.
  • Valore aggiunto distribuibile: è l’ultima configurazione di valore aggiunto e rappresenta il vero anello di congiunzione tra il processo di creazione della nuova ricchezza e quello della sua distribuzione. Poiché deve trattarsi del valore aggiunto a qualsiasi titolo prodotto, prende in considerazione anche i proventi e gli oneri di natura straordinaria.

In questa sede, per la valenza anche sociale dell’analisi che si intende effettuare, verrà presa a riferimento proprio quest’ultima configurazione che è anche rappresentativa della misura della ricchezza che, una volta creata, si rende disponibile per la distribuzione tra le diverse categorie di stakeholder, ossia tra:

  • lavoratori dipendenti, che ricevono diverse forme di retribuzione, sia diretta che indiretta, in via immediata ma anche differita (si pensi al trattamento di fine rapporto);
  • finanziatori esterni, ai quali vengono corrisposti degli interessi sui capitali concessi in prestito;
  • pubblica amministrazione, che acquisisce una quota della ricchezza prodotta dall’azienda attraverso l’imposizione fiscale;
  • portatori di capitale proprio, remunerati attraverso la distribuzione degli utili (dove presente);
  • sistema aziendale, che, per mezzo dell’autofinanziamento, ricostituisce e/o rafforza la solidità patrimoniale e la potenzialità economico-produttiva.

Venendo alla individuazione degli indicatori da utilizzare va poi premesso che, se la complessiva misurazione della performance aziendale va vista in un’ottica “tridimensionale” (economica, finanziaria e sociale), non si può nascondere che ognuna delle tre dimensioni richiamate mostra una prevalenza (quando non una preponderanza) nelle aspettative dei diversi stakeholder e, in particolare:

  • l’imprenditore ed i portatori di capitale di rischio presenti nelle società di capitali in genere privilegiano l’ottica economica, misurabile nella capacità di reddito attuale ma, soprattutto, prospettica, utilizzando i tradizionali indicatori di redditività come, ad esempio, ROA, ROE e ROI (Invernizzi, Molteni, 1990; Quagli et al., 1994; Spano, 2002; Teodori, 2000; Torcivia, 1990);
  • i terzi finanziatori, portatori di capitale di credito, pur prendendo in esame nelle loro procedure di concessione di finanziamento una pluralità di indicatori economico-finanziari (e non solo), tendono a privilegiare l’aspetto della solvibilità aziendale, facendo riferimento ad indicatori di struttura finanziaria e, soprattutto, cercando di valutare la capacità dell’azienda di generare adeguati cash-flow, presupposto irrinunciabile per consentire il recupero delle somme prestate (Bubbio, 1984; Cescon, 1995, Sostero et al., 2016);
  • il soggetto pubblico e la collettività, sia a livello nazionale che locale, sono prioritariamente preoccupati dell’impatto sociale sul territorio, misurato principalmente, ma impropriamente, in termini di posti di lavoro creati e/o mantenuti.

È quasi superfluo osservare come, in tutti tre i casi, si tratti di ottiche parziali. Pertanto è necessario condurre un’analisi che tenga conto di tutti e tre gli aspetti per evitare valutazioni e azioni fuorvianti. Infatti, il sistema di indicatori proprio delle analisi di bilancio, per essere corretto, efficace e rappresentativo della realtà aziendale e della sua evoluzione, deve “sovrapporsi” al sistema aziendale nei suoi diversi aspetti e componenti, evidenziando la logica di funzionamento, nonché le correlazioni esistenti tra le parti e con le variabili ambientali, del sistema stesso (Avi, 2007; Brunetti et al., 1984; Caramiello et al., 2003; Ferrero et al., 2003; Manzonetto, 2002; Paganelli, 1987; Quagli et al., 1994; Sostero et al., 2016; Terzani, 1996). Quindi, nessun indicatore può essere letto in modo avulso dagli altri, ma deve essere calato nel complessivo contesto e nelle relazioni con le altre risultanze emergenti dall’analisi; per diagnosticare, prima, e curare, poi, le eventuali “malattie” del sistema aziendale occorre ragionare in modo sistemico, non diversamente da quanto fa il bravo medico per il suo paziente (Montrone, 2016).

In aggiunta all’ottica di misurazione sistemica, occorre poi trovare un comune denominatore capace di consentire una corretta valutazione sia nell’ottica interna che in quella esterna all’azienda. Questo comune denominatore può essere rinvenuto nell’indice di produttività del capitale più generale e, al tempo stesso, efficace e corretto, rappresentato dal rapporto tra valore aggiunto e capitale investito (Kwong et al., 1995), affiancato da un indicatore della produttività del lavoro, rappresentato, a sua volta, dal rapporto tra valore aggiunto e numero dipendenti.

Infatti, la produttività, essendo un fattore determinante per un equilibrio economico duraturo dell’azienda, assicura alla stessa le fondamentali condizioni della durabilità, autonomia, solvibilità e profittabilità che, a loro volta, consentono di accrescere la produzione di ricchezza a favore degli stakeholder (Onida, 1961).

Il tasso di ritorno del capitale investito in termini di valore aggiunto, che indica la capacità dell’impresa di generare nuova ricchezza in rapporto al capitale nella stessa impiegato, si calcola secondo la seguente formula:

dove, Va = valore aggiunto, T= capitale investito.

Come sopra argomentato, la configurazione di valore aggiunto inserita al numeratore dell’indice è quella del valore aggiunto distribuibile, risultato ultimo dell’attività di creazione di valore da parte dell’azienda ma soprattutto ricchezza da ripartire a favore degli stakeholder aziendali.

Per quanto concerne invece il denominatore, lo stesso va inteso come il totale degli investimenti effettuati sia nella gestione caratteristica che in quella extra-caratteristica, quindi (e in altri termini) come il totale dell’attivo di stato patrimoniale.

La coerenza, che deve sempre esistere tra numeratore e denominatore di un indice di bilancio, è dunque presente, essendo il primo il risultato in termini di complessiva creazione di ricchezza da parte di tutte le aree della gestione, nessuna esclusa, e il secondo la totalità degli investimenti in essere in tutte le suddette aree.

Ne consegue che tale indice può essere considerato come una misura di produttività del capitale complessivamente investito nell’attività aziendale (Riahi-Belkaoui, 1992); esso ha una elevata valenza sociale, oltre che economica, in quanto evidenzia in che misura il “sistema azienda” accresce le risorse assorbite nell’arco del periodo considerato, mettendone in luce il ruolo costruttivo o dannoso (in caso di assenza di valore aggiunto o, persino, di distruzione di ricchezza) nel quadro del tessuto socio-economico in cui agisce.

L’altro indice di produttività di elevato interesse è, come si è detto, quello che rapporta la medesima configurazione di valore aggiunto al numero medio di dipendenti (Riahi-Belkaoui, 1992):

dove, Va = valore aggiunto, D = numero medio dipendenti.

Fermo restando quanto già precisato sulla grandezza al numeratore, il numero medio dei dipendenti inserito al denominatore è tratto dalla informativa contenuta, ai sensi dell’art. 2427 C.C., punto 15, nelle note integrative ai bilanci, dove il dato inserito tiene correntemente conto di tutte le diverse tipologie di lavoro dipendente impiegate nel corso del periodo amministrativo. In altri termini, il dato utilizzato è quello che viene indicato con la sigla ULA (Unità Lavorative Anno), che le aziende calcolano conteggiando tutti i dipendenti, sia a tempo determinato che indeterminato, legati da forme contrattuali che prevedono il vincolo di dipendenza, fatta eccezione di quelli posti in cassa integrazione straordinaria; i dipendenti occupati part-time sono conteggiati come frazione di ULA in misura proporzionale al rapporto tra le ore di lavoro previste dal contratto part-time e quelle fissate dal contratto collettivo di riferimento; si considerano dipendenti dell’impresa anche i proprietari gestori ed i soci che svolgono attività regolare nell’impresa e beneficiano di vantaggi finanziari da essa forniti (a condizione che percepiscano un compenso per l’attività svolta diverso da quello di partecipazione agli organi amministrativi della società); non sono conteggiati gli apprendisti con contratto di apprendistato e le persone con contratto di formazione o con contratto di inserimento.

Tutto ciò premesso, si può asserire che l’indice Rd, oltre a rappresentare un valido indicatore delle variazioni nell’efficienza e produttività della forza lavoro, può risultare anche utile nell’impostazione di una corretta e sostenibile politica di incremento della remunerazione dei lavoratori (Burchell et al., 1985). Un suo incremento evidenzia un miglioramento nella produttività dei dipendenti mentre allarmante è l’andamento opposto, che segnala l’esigenza di attuare prontamente una serie di interventi miranti a rivedere l’organizzazione del lavoro e le modalità di impiego del personale.

Pur sottolineandone la significatività e affidabilità, non va tuttavia sottaciuto che quelli appena riportati sono indicatori di produttività parziali, che non evidenziano, presi a sé stanti, i legami derivanti dall’essere la produzione una combinazione di più fattori produttivi diversi, alcuni dei quali sono peraltro agevolmente quantificabili e misurabili (si pensi alle quantità di materie prime, alle ore di lavoro diretto o di utilizzo di macchinari, ecc.) mentre altri non possono essere univocamente espressi in quantità ben definite, così come il loro contributo alla produzione sfugge ad una attendibile misurazione (si pensi al lavoro imprenditoriale ma anche a quello impiegatizio e amministrativo); può sorgere allora il dubbio se sarebbe stato più opportuno prendere in considerazione anche indicatori di produttività globali che, pur con tutti i limiti che questo approccio può avere, includano l’insieme degli input impiegati nel processo produttivo.

Tuttavia, non va trascurato che l’interesse attribuito allo studio della produttività, da un punto di vista strettamente operativo trova degli ostacoli per effetto dei limiti che si devono affrontare nella misurazione sia dell’input che dell’output. Un approccio più “globale”, una volta individuati i più significativi indicatori di produttività basati sul valore aggiunto, può essere, comunque, recuperato considerando la correlazione sistemica di questi indicatori di efficienza dei fattori capitale e lavoro tra loro e con le più tradizionali misure di redditività.

Come si può vedere dalla Figura 1, la produttività del lavoro è misurata grazie al valore aggiunto per dipendente (Va/D), le cui risultanze possono essere analizzate attraverso la scomposizione nel fatturato per dipendente (F/D) e nel tasso di ritorno del fatturato in termini di valore aggiunto (Va/F), con i quali si recupera la nozione di ricchezza lorda prodotta dall’azienda e valorizzata attraverso le vendite sul mercato.

Figura 1. Legami sistemici tra indicatori di produttività e di redditività.



A sua volta, la misura della produttività del lavoro (Va/D) si connette a quella della produttività del capitale (Va/T) per il tramite dell’indice dell’intensità di capitale (T/D), capace, fra l’altro, di mettere in luce l’impostazione “labour intensive” o “capital intensive” dell’azienda.

Il passaggio dalla produttività del capitale (Va/T) alla misura di redditività rappresentata dal ROA si ottiene poi grazie al ricorso all’indicatore risultante dall’aggregazione degli indici di composizione relativi alle quote di valore aggiunto distribuibile rispettivamente destinate ai portatori di capitale proprio e al sistema aziendale (Montrone, 2016), il che, in concreto, corrisponde all’appostazione al numeratore del reddito netto; da ciò si comprende come la misura della redditività globale dipenda sia dall’efficienza del processo di creazione del valore aggiunto (misurata da Va/T), sia dalle scelte operate in sede di ripartizione dello stesso (poste in luce da Rn/Va). Infine, e per completezza di trattazione, si ricorda che il tasso di redditività globale è dato dal rapporto tra reddito netto (Rn) e capitale complessivamente investito nella gestione (T). Tale tasso è utilizzabile per misurare il grado di remunerazione degli investimenti effettuati sia nella gestione caratteristica che in quella extra-caratteristica (Montrone, 2016).

Metodologia applicata

Nel presente contributo si è cercato di effettuare un’analisi comparata, impiegando i medesimi indicatori di performance economica e sociale a due gruppi di aziende, il primo formato da imprese costituite in forma giuridica di cooperativa sociale di tipo A e il secondo formato da imprese costituite in forma giuridica di società di capitali for profit, limitandolo alle sole società a responsabilità limitata per avere un termine di confronto analogo per livello di complessità e dimensione. Sono state escluse le CS di tipo B perché queste, operando nell’inserimento lavorativo, possono essere difficilmente comparate con imprese che non svolgono tale attività.

L’analisi è stata circoscritta ai settori industriali nei quali le CS operano prevalentemente: ATECO 87 (servizi di assistenza sociale residenziale) e 88 (assistenza sociale non residenziale). Infatti, confrontare imprese che operano nei medesimi settori rende l’analisi per benchmark più verosimile, anche se occorre ricordare che siamo in presenza di due categorie tra loro disomogenee dal punto di vista dei fini, in quanto le CS hanno la preminenza dell’interesse della comunità, mentre le seconde si caratterizzano per una prevalente tensione verso la realizzazione del profitto. Proprio per questo si è reputato che l’utilizzo del valore aggiunto e degli indicatori ad esso connessi fosse la soluzione più consona per rendere maggiormente corretto tale confronto e, al tempo stesso, meglio valorizzare il ruolo sociale delle CS.

Va altresì doverosamente evidenziato che non si tratta di una analisi attuata su base campionaria in quanto l’estrazione dal database AIDA è stata effettuata sull’intera popolazione delle CS e delle SRL italiane, acquisendo valori di bilancio ed altri parametri significativi delle aziende con più di 5 dipendenti, ma meno di 250. Tutto questo è stato fatto con riferimento all’esercizio 2019. L’esclusione delle realtà produttive fino a 5 addetti, assimilabili alla categoria delle micro-imprese, è stata motivata sia dalla carenza nel database di informazioni di bilancio su grandezze di primaria importanza, sia dall’esigenza di rendere in qualche misura più omogenei dimensionalmente i due gruppi di imprese analizzate; la scelta di restare al di sotto del requisito dimensionale dei 250 dipendenti è stato, in aggiunta, motivato dalla esigenza di mantenere l’analisi nell’ambito delle PMI. Infatti, il confronto con le SRL tenendo anche conto delle grandi imprese avrebbe reso i due insiemi non adeguatamente confrontabili per la minore presenza di aziende di grandi dimensioni tra le CS.

Per quanto concerne poi la diffusione sul territorio delle due categorie di imprese, che potrebbe avere una incidenza in termini di differenti performance a causa del diverso contesto regionale di riferimento, si è reputata non necessaria un’analisi della distribuzione territoriale in quanto questa non varia significativamente in base alla tipologia giuridica tra CS e SRL (Castelnovo, 2020; Picciotti et al., 2014). Infatti, è noto tra le CS vi sono evidenti differenze in termini di loro performance se si considerano i diversi contesti territoriali nazionali, ma queste non si discostano di molto da quello che è il trend regionale seguito dalle SRL (Costa, Carini, 2016; Fusco, Migliaccio, 2018).

Pertanto, il confronto tra i due insiemi di aziende, alla luce della comunanza del settore ATECO, delle analoghe dimensioni e di una distribuzione territoriale, tutto considerato sovrapponibile, può considerarsi corretto e, soprattutto, significativo rispetto alla possibilità di poter apprezzare le performance, non solo economiche, ma anche sociali delle due differenti forme giuridiche che, peraltro, sottendono una netta differenza nel finalismo aziendale e nella attenzione rispetto al ruolo sociale da svolgere.

Depurando, infine, i dati ottenuti da quelle poche situazioni in cui la mancanza di significativi e corretti valori di bilancio nel database avrebbe in qualche misura falsato l’analisi, sono state rispettivamente prese in considerazione 1.153 CS e 801 SRL, comunque appartenenti ai settori ATECO 87 e 88, delle quali sono stati estratti, con riferimento al 2019, i dati relativi a fatturato, capitale investito, numero di dipendenti, utile/perdita di esercizio e valore aggiunto, tutti funzionali a calcolare gli indicatori elencati nel precedente paragrafo, tra i quali, in particolare, due indicatori di performance economica “tradizionali” (ossia ROA e fatturato per dipendente) e due basati sul valore aggiunto (ossia tasso di ritorno del capitale investito in termini di valore aggiunto e valore aggiunto per dipendente).

Analisi e risultati

L’estrazione dei dati sopra descritti ha fatto emergere i valori medi riportati nella Tabella 1, rispettivamente per le 1.153 CS e per le 801 SRL.

Tabella 1. Valori medi (valori monetari in migliaia di euro); CS e SRL, esercizio 2019.

 

Fatturato (F)

Capitale investito (T)

Numero dipendenti (D)

Utile / Perdita esercizio (Rn)

Valore

aggiunto (Va)

CS

1.624

1.574

46

22

1.094

SRL

1.559

1.932

26

53

820


Dai tali valori medi si può, in primo luogo, osservare che, in termini di parametri dimensionali (ossia fatturato, capitale investito e numero di dipendenti) le due categorie di aziende sono pressoché equivalenti in termini di fatturato, mentre le CS sembrano essere meno “capital intensive” delle SRL, ma decisamente più “labour intensive” (46 dipendenti in media contro i 26 delle SRL). Questa è una evidente dimostrazione del più spiccato ruolo sociale delle CS che fa dei dipendenti il punto di forza nell’erogazione dei propri servizi, così come peraltro delineato nel primo paragrafo del presente contributo.

La netta differenza tra le due categorie si conferma anche sul fronte dei risultati economici. Infatti, la meno nitida tensione verso la realizzazione di un profitto è evidente nel peggiore comportamento delle CS in termini di utile/perdita di esercizio (22 migliaia di euro contro i 53 delle SRL) ma, dall’altro lato, la più spiccata socialità e il positivo impatto sul sistema socio-economico di appartenenza emerge con chiarezza dalla migliore performance media in termini di creazione di valore aggiunto (1.094 migliaia di euro contro gli 820 delle SRL).

Ancor più significativa è, tuttavia, la comparazione degli indicatori “tradizionali” con quelli basati sul valore aggiunto, ossia del ROA con il tasso di ritorno del capitale investito in termini di valore aggiunto (Tabella 2) e del fatturato per dipendente con il valore aggiunto per dipendente (Tabella 3).

Tabella 2. Valori medi indicatori di rendimento del capitale investito (valori percentuali); CS e SRL, esercizio 2019.

 

ROA

Va/T

CS

1,42%

69,52%

SRL

2,75%

42,42%


Il ROA, come prevedibile e consequenziale alla più ridotta misura del risultato di esercizio, è di circa la metà nelle CS rispetto alle SRL (1,42% contro 2,75%), ma non può considerarsi corretto giudicare (negativamente) su questa base la performance economica delle CS, le quali più che a creare ricchezza per chi ha conferito il capitale, sono tese a creare benessere per una pluralità di stakeholder, condizione questa che rende di gran lunga più significativo l’indicatore basato sul valore aggiunto, capace di apprezzare la performance economica, ma anche quella sociale. Non deve quindi sorprendere quanto emerge dal confronto tra il tasso di ritorno del capitale investito in termini di valore aggiunto delle CS (pari al 69,52%) e quello delle SRL (pari al 42,42%); questo, peraltro, dimostra come le prime, più che in termini di redditività (ROA) vadano valutate in termini di capacità di creazione di valore aggiunto.

Tuttavia, per rendere il quadro più completo, a questo indice di produttività del capitale, ne va affiancato uno che sia in grado di rappresentare appropriatamente la produttività del lavoro (Tabella 3); in questo ambito, la contrapposizione è tra il più “tradizionale” indicatore dato dal rapporto tra fatturato e numero medio di dipendenti e l’indice che al fatturato (ricchezza lorda creata dall’azienda) sostituisce il valore aggiunto (ricchezza netta creata dall’azienda).

Tabella 3. Valori medi indicatori di produttività del lavoro (valori in migliaia di euro); CS e SRL, esercizio 2019.

 

F/D

Va/D

CS

35,15

23,68

SRL

60,22

31,65


Nella Tabella 3 si può osservare, in prima istanza, come la maggiore intensità del fattore lavoro, che si è detto caratterizzare le CS, si traduca (in entrambi gli indicatori) in una minore produttività dello stesso, non solo con un fatturato per dipendente che nelle CS è di 35,15 migliaia di euro contro le 60,22 delle SRL, ma anche con un valore aggiunto per dipendente di 23,68 migliaia di euro contro le 31,65 delle SRL. Tuttavia, le risultanze potrebbero non essere del tutto correttamente confrontabili considerato che il ruolo del fattore lavoro tende a configurarsi in modo differente nelle due categorie di aziende prese in esame.

La differenza più rilevante nella struttura occupazionale, relativa all’aspetto del regime orario, rispetto alle altre tipologie di imprese è evidenziata nella Tabella 4.

Tabella 4. Regime orario lavoro dipendente (valori percentuali). Fonte: Istat, 2019.

 

Cooperative

Altre imprese

Tempo pieno

55,2

74,9

Tempo parziale

44,8

25,1


In particolare, si può notare che nelle cooperative è decisamente più elevata la percentuale di lavoro a tempo parziale, situazione che, pur correttamente riflessa nel calcolo del numero medio dei dipendenti riportato nei bilanci in termini di ULA, di per sé può incidere in termini di minore produttività, rispetto ad un esclusivo o preponderante utilizzo di lavoro in regime di tempo pieno.

Dall’altro lato, nelle SRL è frequente che nei settori ATECO 87 e 88 una parte del lavoro venga svolto da soci che non compaiono pienamente tra gli addetti e che sono per lo più remunerati attraverso la distribuzione di utili, condizione che riduce la numerosità del lavoro dipendente considerata negli indicatori di produttività dello stesso, amplificandone la misura.

In ogni caso – e tutto ciò premesso in termini di limiti metodologici del confronto – va notato come il divario sfavorevole per le CS sia molto più netto considerando l’indicatore “tradizionale”, mentre è più limitato nella configurazione dell’indice di produttività del lavoro basato sul valore aggiunto.

Infine, allo scopo di rendere il quadro più completo, è opportuno prendere in considerazione anche altri tre indicatori (tasso di ritorno del fatturato in termini di valore aggiunto, indice dell’intensità di capitale e indice di composizione Rn/Va), il cui significato è stato tracciato nel precedente paragrafo, anche nell’ottica di ricostruire i legami sistemici tra gli indicatori di cui alle precedenti Tabelle 2 e 3 ed ottenere una visione più “globale” delle performance in termini di produttività e di capacità di creazione di ricchezza.

Tabella 5. Valori medi altri indicatori (valori monetari in migliaia di euro e percentuali); CS e SRL, esercizio 2019.

 

Va/F

T/D

Rn/ Va

CS

67,38%

34,07%

2,04%

SRL

52,56%

74,62%

6,48%


Nello specifico, e con riferimento ai valori della Tabella 5, si può osservare che:

  • il tasso di ritorno del fatturato in termini di valore aggiunto fa nuovamente notare come la performance delle CS sia superiore a quella delle SRL, a conferma di come un approccio basato sul valore aggiunto sia capace di valorizzare meglio i risultati delle prime;
  • l’indice di intensità del capitale T/D denota nettamente la natura meno “capital intensive” delle CS, risultando, pur in analogia di attività economiche svolte con riferimento ai settori ATECO 87 e 88, la dotazione di mezzi di produzione per dipendente meno della metà di quella presente in media nelle SRL, condizione che, a sua volta, incide negativamente in termini di minore produttività del fattore lavoro;
  • l’indice di composizione che mette a rapporto reddito netto e valore aggiunto (e quindi indica il peso relativo della quota di valore aggiunto che va a remunerare i portatori di capitale proprio e a rafforzare il sistema aziendale in presenza di una politica di autofinanziamento) mostra un prevedibile minore orientamento al profitto delle CS rispetto alle SRL, in coerenza con la loro vocazione sociale;
  • mettendo a sistema tutti gli indicatori riportati nelle Tabelle 2, 3 e 5 si possono evidenziare i legami tra le misure di produttività e di redditività, rispettivamente per le CS (Figura 2) e per le SRL (Figura 3), visualizzati, anche in termini di relazioni quantitative, avvalendosi della rappresentazione grafica proposta nella Figura 1.

Figura 2. Legami sistemici tra indicatori di produttività e di redditività. CS, esercizio 2019.

Figura 3. Legami sistemici tra indicatori di produttività e di redditività; SRL, esercizio 2019.



Come si può vedere più nello specifico dalle Figure 2 e 3:

  • la produttività del lavoro (misurata grazie al valore aggiunto per dipendente), nelle sue risultanze, può essere analizzata attraverso la scomposizione nel fatturato per dipendente e nel tasso di ritorno del fatturato in termini di valore aggiunto; comparativamente, si può osservare che il miglioramento del dato della produttività del lavoro nelle CS (rispetto a quanto evidenziato da F/D) si verifica proprio grazie a quest’ultimo indicatore, che si posiziona su un livello decisamente più elevato rispetto a quello riscontrato nelle SRL (67,38% contro 52,56%);
  • a sua volta, la misura della produttività del lavoro si connette a quella della produttività del capitale per il tramite dell’indice dell’intensità di capitale (T/D); da quest’ultimo indicatore emerge come, nella connotazione più “labour intensive” delle CS, il peggiore dato della produttività del lavoro sia anche dovuto ad una più ridotta intensità di capitale (34,07 contro 74,62 delle SRL) pur a fronte di una superiore produttività dello stesso;
  • infine, il passaggio dalla produttività del capitale alla misura di redditività rappresentata dal ROA si ottiene, per mezzo dell’indicatore di composizione che mette a rapporto il risultato netto di esercizio con il valore aggiunto, il quale dimostra come nelle CS sia decisamente minore (pari a meno di un terzo di quella delle SRL) la destinazione della ricchezza netta creata ai portatori del capitale di rischio ed allo stesso sistema aziendale, favorendo di conseguenza nelle scelte di distribuzione gli altri stakeholder, tra cui in primis i lavoratori; questo, come già evidenziato, si traduce in una misura più contenuta del ROA.

Considerazioni conclusive

In conclusione, sulla base delle precedenti osservazioni e del conforto fornito in via induttiva dalle risultanze dell’analisi comparata sui dati delle CS e delle SRL, si può reputare corretta l’applicazione di un approccio incentrato sul valore aggiunto, nella valutazione della performance economica e sociale di aziende che, come nel caso delle CS, svolgono un ruolo decisamente più rilevante in termini di socialità e di creazione di benessere per la più vasta platea dell’insieme degli stakeholder aziendali.

Peraltro, l’essere in grado di creare una più elevata misura di valore aggiunto, comporta anche l’avere un ruolo più positivo in termini di distribuzione dello stesso, che significa ribaltare maggiore ricchezza (e quindi benessere) su più portatori di interessi, che spaziano dai lavoratori ai beneficiari diretti dell’attività di assistenza sociale, dai portatori di capitale (sia proprio che di prestito) al complessivo sistema aziendale, per arrivare al sistema socio-economico di appartenenza.

In altri termini, si può asserire che il valore aggiunto e gli indici su di esso basati rivestono una notevole utilità nella misurazione della performance sia economica che sociale della cooperazione sociale, i cui risultati vengono così messi in una prospettiva più appropriata, mostrando anche degli indubbi punti di forza rispetto al termine di confronto di società di capitali operanti nei medesimi settori di attività e dalle dimensioni analoghe.

In particolare, la misura monetaria del valore aggiunto creato e quella relativizzata del tasso di ritorno del capitale investito in termini di valore aggiunto mostrano una netta superiorità del modello delle CS; una nota apparentemente meno positiva (ma da “filtrare” sulla base della diversa configurazione del fattore lavoro nelle due categorie di società prese in considerazione) è rappresentata da una produttività del lavoro inferiore, tuttavia ampiamente controbilanciata dalla capacità dimostrata da queste aziende di generarlo e valorizzarlo in maggiore misura, rispondendo così appieno al ruolo sociale che sono chiamate a svolgere.

Ricordiamo peraltro che, nell’ottica dei soggetti esterni ad essa, una cooperativa sociale merita consenso, sostegno, finanziamento e valorizzazione non solo e non tanto se è redditizia, o se crea/mantiene posti di lavoro, perché altre realtà produttive potrebbero essere più efficaci in questa direzione, ma soprattutto se dimostra complessivamente una positiva ricaduta sul contesto economico-sociale attraverso la qualità dei servizi che eroga al fine di soddisfare le legittime attese dei fruitori degli stessi e dell’intera collettività.

In parallelo, ma in un’ottica interna, chi amministra l’azienda deve saper misurare e controllare la performance di ciascuna CS, guardando senza pregiudizi a valutazioni che vadano oltre la sola capacità di reddito, e puntando a un consolidamento nel tessuto socio-economico di appartenenza, condizione che mette al riparo da fasi congiunturali negative e da difficoltà contingenti, godendo di quel consenso che permette di coagulare le risorse migliori (Coda, 1988).

Nel provare allora a rispondere alla domanda di ricerca posta, ossia quali sono le più corrette misure da utilizzare per la valutazione della performance economica e sociale delle piccole e medie CS di tipo A, il contributo che ci sentiamo di fornire consiste nell’invito ad abbandonare gli schemi culturali ad oggi prevalenti, andando a valutare con maggiore appropriatezza la performance di aziende, come quelle costituite in forma di CS, in cui l’economicità non può essere dissociata dalla socialità nella quale trovano contemperamento e valorizzazione le legittime attese dei diversi stakeholder, nell’interesse e, dunque, nel bene comune.

Evidenziati gli spunti di riflessione che emergono dal presente lavoro è però anche giusto soffermarsi su quelli che possono esserne considerati i limiti. A tale riguardo una prima limitazione consiste nell’aver considerato solo i dati relativi ad un esercizio (seppure il più recente disponibile nel database AIDA), mentre sarebbe stato interessante verificare la tesi qui sostenuta su un periodo temporale più ampio. Questo tuttavia rappresenta anche un’opportunità di futuro sviluppo della ricerca, soprattutto quando saranno disponibili i dati relativi all’anno 2020, anche per capire se e in quale misura la risposta delle CS alla crisi pandemica in atto sia stata più (o meno) efficace rispetto al benchmark delle SRL considerato in questo lavoro.

Un secondo limite può poi essere individuato nel non aver approfondito le tematiche connesse alla distribuzione del valore aggiunto tra le diverse categorie di stakeholder, in questa sede solo ragionevolmente ipotizzate. Anche in questo caso, tuttavia, il limite potrà essere spunto per futuri sviluppi nella ricerca incentrati sulle differenti strategie nella distribuzione del valore aggiunto creato.


DOI: 10.7425/IS.2021.01.03

Ringraziamenti

Gli autori intendono ringraziare il professor Carlo Borzaga e Gianfranco Marocchi per aver letto e commentato una prima versione del presente articolo, oltre che ai due anonimi reviewer per i loro utili commenti. Ovviamente, quanto esposto è risultato della ricerca e responsabilità dei soli autori.

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