La sentenza n. 131 del 2020 è destinata a divenire una pietra miliare del diritto costituzionale del Terzo settore, in quanto espressione chiara dei presupposti (e dei limiti) in base ai quali il legislatore ordinario è intervenuto per delimitare il «perimetro» degli enti del Terzo settore ed il relativo regime di promozione e controllo. Si tratta di una sentenza con un evidente intento didascalico, nella quale l’ampiezza ed il tenore delle argomentazioni è decisamente sovrabbondante rispetto alla questione che la Corte è stata chiamata a risolvere (sarebbe bastato un itinerario argomentativo ben più snello). Ciò è – come è stato notato – un tratto caratteristico della giurisprudenza costituzionale su volontariato e, più in generale, Terzo settore: infatti, «sembra quasi che la Corte enfaticamente ‘alzi il tono’, in un modo che potrebbe ritenersi eccessivo e retorico», ma ciò avviene poiché si coglie che si tratta di decisioni che riguardano un «elemento connotante della forma di stato e di democrazia impressa nella Corta costituzionale» (Pizzolato, 2020).
Ma si tratta pure di una sentenza bilancio, che riannoda ed aggiorna i fili di una giurisprudenza costituzionale che, a partire (almeno) dalla fondamentale sentenza n. 75 del 1992 resa a proposito della legge-quadro sul volontariato (n. 266 del 1991), attualizzandoli alla luce del mutato contesto della riforma del Terzo settore. Letta in questa prospettiva, infatti, la pronuncia si caratterizza per costituire un approdo sia dal punto di vista dell’inquadramento della disciplina del Terzo settore, sia nel quadro della Parte I della Costituzione, sia del riparto di competenze fra Stato e Regioni, secondo una linea di continuità giurisprudenziale e con una apprezzabile capacità di cogliere i mutamenti che, più di recente, hanno contrassegnato la legislazione e la prassi sociale. Si potrebbe ritenere, quindi, che la sentenza n. 131 del 2020 segni l’affermazione di un paradigma interpretativo che è in grado di orientare sia il legislatore, statale e regionale, sia l’amministrazione sia, infine, gli attori del Terzo settore. In effetti, il bilancio che la sentenza trae – pur essendo già oggetto di dibattito in dottrina – è destinato a portare nuova luce sull’interpretazione del Codice del Terzo settore e, più in generale, sul diritto del Terzo settore (il quale non coincide con il Codice – che ne è comunque il “cuore” – ma “guarda”, più ampiamente a tutta la disciplina normativa che, più o meno direttamente, tocca il Terzo settore), introducendo degli elementi interessanti di dinamismo in grado di guardare avanti, ipotizzando alcune linee di consolidamento e di sviluppo di linee interpretative ed orientamenti di politica legislativa. È noto, infatti, che il diritto del Terzo settore procede per codificazioni successive della prassi sociale, cui il legislatore deve guardare con senso della misura al fine di preservare l’autonomia e tutelarne la spontaneità: la griglia concettuale che la sentenza offre è di sicura utilità per consentire questo inevitabile sviluppo e adeguamento della norma alle nuove esigenze del Terzo settore.
Un primo elemento da sottolineare è costituito dall’esplicitazione – in un passaggio che potrebbe apparire come un obiter dictum – del rapporto esistente fra diritto del Terzo settore e diritto dell’Unione europea. Si tratta di un rapporto, obiettivamente, “tormentato”. Manca, attualmente, una nozione corrispondente a quella di «Terzo settore» e di «ente del Terzo settore» all’interno del diritto dell’Unione europea.
Quest’ultimo, infatti, si muove secondo categorie (almeno apparentemente) differenti e bisognose di essere “riconciliate” con quelle nazionali, costruite, invece, intorno a principi e valori di primario interesse e rilievo costituzionale (gli ETS, appunto). In particolare, è necessario far emergere dalla ampia platea degli «operatori economici», nell’accezione così ampia accolta del diritto euro-unitario, quella porzione di soggetti che operano senza scopo di lucro e in possesso di caratteri distintivi costituzionalmente rilevanti, e, successivamente, configurare per loro, anche sul piano europeo, una disciplina ad hoc. La difficoltà di costruire questo dialogo europeo fra la nozione di «ente del Terzo settore», oggi finalmente unitaria[1], e quella di «operatore economico» si è scaricata principalmente sull’attività giurisdizionale, anche del giudice europeo[2]: ciò ha rappresentato uno dei principali fattori di criticità della costruzione della disciplina giuridica interna del Terzo settore[3], la quale ha conosciuto seri momenti di tensione e tentativi di ricomposizione (come avvenuto con il parere del Consiglio di Stato n. 2052 del 2018, ma non solo) alimentati dall’irrisolta ambiguità fra le categorie dogmatiche e normative[4].
Nella sentenza n. 131 del 2020, sebbene limitatamente alla questione del rapporto fra pubblica amministrazione e Terzo settore, la Corte costituzionale afferma che vi è una tendenza, nella recente normativa euro-unitaria in tema di servizi pubblici, «a smorzare la dicotomia conflittuale fra i valori della concorrenza e quelli della solidarietà» e che è possibile, per ciascuno Stato, «apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)». Questo passaggio, apparentemente introdotto ad adiuvandum nell’impianto argomentativo della sentenza, in realtà costituisce, sul piano interpretativo, un decisivo fattore di “sblocco” in tema di rapporti collaborativi fra enti del Terzo settore e pubblica amministrazione, pesantemente messi in dubbio, in punto di legittimità, proprio alla luce del diritto dell’Unione europea. Pare condivisibile l’opinione di chi ha affermato che la Corte, nel riconoscimento del pregio costituzionale del volontariato e del Terzo settore, abbia inteso fissare un «nesso di co-essenzialità tra la promozione di questo fenomeno sociale e i principi fondamentali della Costituzione, quasi si trattasse dell’affermazione preventiva di un controlimite al primato del diritto europeo, soprattutto della concorrenza» (Pizzolato, 2020). Ed in effetti, a proposito di certe interpretazioni restrittive della possibilità degli ETS di concorrere, insieme alla pubblica amministrazione, alla realizzazione di attività di interesse generale ispirate a finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, si è invocata alla possibilità di ricorrere alla dottrina dei c.d. controlimiti, affermando che il principio solidaristico ben avrebbe potuto legittimare la sottrazione, da parte del legislatore, di determinate attività o di talune modalità di svolgimento di quelle attività dalle regole concorrenziali di matrice europea[5], contribuendo altresì a definire un nuovo e diverso modo di esercizio delle funzioni amministrative improntato al principio di solidarietà e di sussidiarietà, profondamente radicato nel testo costituzionale.
La Corte ripristina una visione armonica, e non polemica, di questo rapporto fra diritto interno e diritto europeo, creando una tessitura equilibrata fra il Codice dei contratti pubblici ed il Codice del Terzo settore e rifiutando supposte sovra-ordinazioni fra i due corpus normativi, in nome del principio di competenza[6]. Al contrario, afferma che ciascuno di essi costituisce, in forme diverse, l’attuazione del diritto euro-unitario in armonia col quadro costituzionale nazionale. Ciò consente, oggi, che siano approvate leggi regionali e di regolamenti locali (sul modello della legge regionale della Toscana n. 65 del 2020) in grado di dare corpo, nelle diverse attività di interesse generale, al modello di «amministrazione condivisa», portando a compimento così una parabola iniziata con la legge n. 328 del 2000, in tema di servizi sociali, e che trova oggi una sistemazione giuridica. Si apre, quindi, il “cantiere” regionale e locale nei prossimi mesi ed anni per realizzare «per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria» (così la sentenza): la sfida è sintonizzare il modello di amministrazione condivisa sulle reali esigenze del territorio, modificando il comportamento tanto dell’attore pubblico quanto di quello privato, al fine di non trasformare gli istituti del c.d. “coinvolgimento attivo” in un mascheramento di gare o di affidamenti diretti, bensì in un reale, efficace spazio alternativo alla logica pubblicistica ed a quella tipica del mercato (beninteso, tutte e due pienamente legittime, forse non le migliori per affrontare la complessità delle sfide poste dalle attività di interesse generale).
La sentenza n. 131 del 2020 contiene un interessante approfondimento anche del contenuto proprio degli istituti di «amministrazione condivisa» di cui all’art. 55 CTS. Quest’ultima disposizione definisce, principalmente, i fini della co-programmazione e della co-progettazione e non il preciso contenuto del procedimento (presupposti, contenuti ed effetti). L’antecedente, sul piano normativo, è rappresentato dal D.P.C.M. 30 marzo 2001 (art. 7, in attuazione dell’art. 5 della legge n. 328 del 2000) che, tuttavia, necessitava di essere completato a livello regionale[7].
Questa laconicità del Codice del Terzo settore ha reso necessaria una lettura del dato normativo dell’art. 55 integrato alla luce della determinazione ANAC 20 gennaio 2016, n. 32: così, attraverso la prassi delle amministrazioni, la giurisprudenza amministrativa e la soft law si è venuto via via delineando il profilo giuridico proprio dell’amministrazione condivisa[8].
Nella sentenza n. 131 del 2020, la Corte precisa che «il modello configurato dall’art. 55 CTS (…) non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico». Tale affermazione, che nella sua chiarezza non ha corrispondenti normativi (almeno fino alla L.R. Toscana n. 65 del 2020) connota co-programmazione e, soprattutto, co-progettazione come istituti radicalmente diversi dall’affidamento di un servizio ai sensi del Codice dei contratti pubblici, e li distingue sulla base della condivisione di risorse di diverso tipo (economiche, materiali o immateriali), in grado di offrire una risposta a bisogni sociali complessi[9]: spetta quindi al legislatore e all’amministrazione definire una scansione procedimentale affinché tale condivisione sia possibile, nel rispetto dei principi delineati dall’art. 55 CTS medesimo, a garanzia della «effettività terzietà» dei soggetti partecipanti. Mancando una dimensione tipicamente sinallagmatica fra ente pubblico e soggetti privati, si accoglie una prospettiva nella quale le risorse private e le risorse pubbliche si sommano per arrivare all’obiettivo comune e condiviso prefissato in sede di co-programmazione, con una “responsabilità istituzionale pubblica” (che non può tracimare nella compiuta e totale predeterminazione dello stesso, si tratterebbe quasi di una gara d’appalto sotto mentite spoglie) e con spazi significativi di intervento da parte degli ETS.
L’effetto chiarificatore della sentenza è innegabile. Pur essendosi coerentemente inserita nel corso della consolidata riflessione, soprattutto dottrinale, sugli strumenti di co-programmazione e co-progettazione, la pronuncia conferisce un profilo giuridico più nitido e suscettibile di essere declinato dalla legislazione regionale e dall’autonomia regolamentare degli enti locali. La pluralità di strumenti coi quali la condivisione può realizzarsi[10], tuttavia, apre la strada ad una pluralità di modelli di co-programmazione e di co-progettazione, concettualmente riconducibili ad una matrice unitaria, ma adattabili ai diversi contesti, alle diverse attività di interesse generale, ecc.
All’indomani dell’approvazione dell’art. 55 CTS, si è posta la questione se tale disposizione non fosse da interpretare attraverso la “chiave di lettura” dell’art. 7 del D.P.C.M. 30 marzo 2001 il quale prevede, quale requisito per l’utilizzo della co-progettazione, che si tratti di «interventi innovativi e sperimentali su cui i soggetti del terzo settore». L’art. 55 CTS non contiene alcun riferimento a tale ulteriore requisito ed ha ad oggetto, al contrario, la «definizione» ed eventualmente «realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti» alla luce degli strumenti di co-programmazione.
Una impostazione interpretativa che ritenga di leggere la nuova disposizione del Codice del Terzo settore alla luce dell’art. 7 del D.P.C.M. 30 marzo 2001 non convince. L’art. 55 CTS – sia per la fonte primaria nella quale è contenuta, sia in relazione all’applicazione di un principio cronologico nella successione delle norme nel tempo – ha un ambito applicativo ben più ampio, ed è configurato come un modulo relazionale ordinario fra Terzo settore e P.A., di per sé idoneo a generare relazioni e risultati innovativi e sperimentali, nella misura in cui ciascuno dei soggetti si attiva ed “apporta” risorse. Non è, quindi, il progetto o l’intervento che, a monte, deve avere caratteristiche innovative (rispetto all’ordinario) e sperimentali (cioè non dotate di ancora di una verifica): è piuttosto il metodo che consente ai progetti ed agli interventi di rinnovarsi, mediante il conferimento di nuove risorse o la partecipazione di nuovi soggetti, evitando l’appiattimento sull’ordinarietà e la standardizzazione (Marocchi, 2018). In tal modo, si rifugge da una idea – che pare essere estranea al Codice del Terzo settore, ma non a certi ambienti che lo interpretano – di configurare l’art. 55 CTS come norma eccezionale a fronte di progetti o servizi che non siano già stati incorporati all’interno dell’offerta pubblica di servizi. I quali, una volta “stabilizzati”, dovrebbero transitare nell’orizzonte del Codice dei contratti pubblici.
La sentenza n. 131 del 2020 conferma l’ipotesi qui sostenuta, parlando di una strutturazione e ampliamento di «una prospettiva che era già stata prefigurata, ma limitatamente a interventi innovativi e sperimentali in ambito sociale, nell’art. 1, comma 4, della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) e quindi dall’art. 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 marzo 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona ai sensi dell’art. 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328)». Il passaggio che l’art. 55 compie, se letto nella prospettiva dell’art. 118, u.c. Cost., è quello di una diffusione del metodo dell’amministrazione condivisa in tutti gli ambiti di attività di interesse generale ed in tutti i rapporti fra ETS e P.A. che si connotano per la loro appartenenza al metodo dell’amministrazione condivisa, a prescindere dalla spasmodica ricerca di una eterna innovatività e sperimentalità quale tratto giustificativo ex ante della relazione di condivisione: al contrario, l’innovatività e la sperimentalità si configurano come esito atteso dell’amministrazione condivisa per rispondere alle necessità della «società del bisogno».
La sentenza n. 131 del 2020, però, dischiude anche una prospettiva più ampia. Il riconoscimento degli ETS è da ricondurre, nella prospettiva dell’art. 117 Cost., alla potestà legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile, preordinata a «garantire l’uniformità di trattamento sull’intero territorio nazionale, in ossequio al principio costituzionale di eguaglianza (…)» (C.cost. n. 185 del 2018), oltreché ad assicurare l’«essenziale e irrinunciabile autonomia» che deve caratterizzare i soggetti del Terzo settore» (C. cost. n. 75 del 1992). Questo titolo di competenza si estende, pertanto, dalla «connotazione essenziale delle attività e delle organizzazioni» di questo insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (C.cost. n. 131 del 2020), «alla definizione del tipo di rapporti che devono intercorrere tra le varie istanze del potere pubblico e le organizzazioni dei volontari» e, infine, «alla determinazione delle relative modalità dell'azione amministrativa» (C.cost. n. 75 del 1992). Spetta altresì allo Stato definire finalità e modalità dei sistemi di controllo sull’effettivo possesso dei requisiti dettati dal legislatore (argomento centrale nella sentenza n. 131 del 2020).
La ratio costituzionale del riconoscimento di tali enti è da ricondurre, secondo la Corte, al fatto che gli ETS sono espressione di «un ambito di organizzazione delle “libertà sociali” (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle “forme di solidarietà” che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente” (sentenza n. 309 del 2013)». Gli ETS «costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”».
Eppure, però, la sentenza fa emergere in filigrana un problema ulteriore. Come la Regione Umbria ha fatto con il riconoscimento delle cooperative di comunità, le Regioni, nell’ambito della loro competenza legislativa, possono definire, in attuazione dell’art. 118, u.c. Cost., proprie forme di promozione di determinati enti collettivi o di attività di interesse generale, non coincidenti con la definizione di ente del Terzo settore stabilita dal legislatore statale. In altri termini, non può considerarsi inibito all’autonomia legislativa regionale riconoscere determinate espressioni del pluralismo sociale ritenute meritevoli nella prospettiva costituzionale, differenti rispetto a quanto previsto dal perimento del Terzo settore statale, al fine di promuoverle (ad es., associazioni sportive dilettantistiche, non appartenenti al novero degli ETS; le imprese di comunità; i condomini solidali, ecc.). In tal senso, ciò che la sentenza n. 131 del 2020 vieta alle Regioni è di prevedere una «omologazione tra un soggetto estraneo al Terzo settore e quelli che vi rientrano», ma non impedisce di intervenire istituendo nuove categorie di enti destinatari di una disciplina promozionale: quest’ultima, però, deve poggiare su basi diverse da quella accordata agli ETS.
Il nodo problematico ruota intorno al significato di attribuire all’espressione omologazione. Quest’ultima è da interpretare senz’altro come estensione sic et simpliciter degli istituti di promozione previsti dalla legge come esclusivi per gli ETS (o anche solo per alcuni di essi[11]), o come creazione di nuove tipologie di ETS “regionali”, in aggiunta a quelle previste dal legislatore statali. Al contrario, non potrebbe discorrersi di omologazione qualora le Regioni stabiliscano forme di promozione, in ipotesi anche analoghe a quelle previste per il Terzo settore, ma basate su presupposti di riconoscimento diversi all’interno dell’ordinamento regionale, pur sempre – come è ovvio – nel rispetto delle competenze legislative statali; oppure, nel caso in cui siano definite qualifiche e registri, connessi a determinate caratteristiche definite dalle Regioni o per esigenze politiche regionali, che non siano equiparabili (e neppure confondibili) con gli enti del Terzo settore.
Ne risulta, quindi, un quadro complesso che ci consegna un Terzo settore, dotato di riconoscimento giuridico statale radicato all’interno della competenza legislativa esclusiva, ed un (possibile) terzo settore in senso lato (giuridicamente irrilevante), che – sul piano di fatto – potrebbe comprende anche tutti quegli enti (o, comunque, manifestazioni del pluralismo sociale) che, non potendo essere ricondotti giuridicamente al genus degli ETS, stante la tipicità di quest’ultimi, sono connessi per finalità, ambiti di attività di interesse generale, modalità di svolgimento delle stesse, capacità di generale impatto sociale[12].
Tale dinamica del “riconoscimento” può essere letto come un interessante spazio a disposizione delle Regioni per riconoscere le nuove manifestazioni della vitalità dell’attivismo civico, prima del riconoscimento statale: così, la sentenza n. 131 del 2020 se, da un lato, costruisce un solco fra ETS e non ETS, dall’altro non esclude che certe prassi sociali, strutturatesi a livello territoriale, possano trovare un riconoscimento della legislazione regionale che si connoterebbe come una sorta di laboratorio (ciò che è avvenuto, effettivamente, con le imprese di comunità e, in prospettiva, potrebbe avvenire per altri casi: condomini solidali, gruppi informali, ecc.).
Fra gli effetti più interessanti della sentenza n. 131 del 2020, a giudizio di chi scrive, vi è quello di rendere più arduo giustificare, nell’equilibrio complessivo della riforma del Terzo settore, la delimitazione degli ambiti di attività di interesse generale in cui possono essere concluse le convenzioni con ODV e APS (art. 56 CTS) e le convenzioni per il trasporto di emergenza ed urgenza (art. 57 CTS).
Ai sensi dell’art. 56 CTS, le amministrazioni pubbliche possono sottoscrivere con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, iscritte da almeno sei mesi nel Registro unico nazionale del Terzo settore, convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi (quindi, non degli associati) di attività o servizi sociali di interesse generale, a condizione che tali convenzioni si rivelino – secondo la formulazione del legislatore – «più favorevoli rispetto al ricorso al mercato».
Quanto agli effetti diretti, pare che la lettura complessiva del rapporto fra ordinamento europeo ed ordinamento nazionale – di cui si è detto in precedenza – proposta nella sentenza n. 131 del 2020 consenta di escludere che si producano gli effetti di contrasto paventati dal più volte ricordato parere del Consiglio di Stato n. 2052 del 2018 (e che erano risolti mediante un invito alla disapplicazione parziale dell’art. 56 CTS[13]). In quella visione armonica proposta dalla Corte, infatti, pur non essendo citati espressamente, gli artt. 56 e 57 sono da ricondurre agli istituti dell’amministrazione condivisa e, forti dell’approccio collaborativo e della finalità solidaristica che li connota, possono leggersi in un’ottica di alternativa rispetto al ricorso al mercato.
La sentenza, peraltro, col suo forte richiamo alla «effettiva “terzietà” (verificata e assicurata attraverso specifici requisiti giuridici e relativi sistemi di controllo) rispetto al mercato e alle finalità di profitto che lo caratterizzano» conferma la bontà di una interpretazione del presupposto che legittima il ricorso alle convenzioni - «se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato» - non già in termini di mera comparazione fra operatori economici diversi (e fra loro incomparabili: una vera e propria probatio diabolica!), bensì in una prospettiva più ampia che tenga conto dei maggiori benefici conseguibili per la collettività in termini di maggior attitudine del sistema a realizzare i principi di sussidiarietà, universalità, solidarietà, accessibilità, adeguatezza[14].
La limitazione soggettiva (ODV ed APS) si giustifica in ragione della peculiarità che i soggetti così qualificati presentano nello scenario della riforma del Terzo settore. Infatti, si tratta di enti che si avvalgono prevalentemente dell’attività dei propri associati-volontari ed esprimono quindi una «connotazione di tipo solidaristico più marcata rispetto agli altri enti del Terzo settore[15]». L’art. 56 CTS prevede, altresì, una limitazione oggettiva alle sole attività o servizi sociali di interesse generale: è un ambito più ristretto rispetto a quanto previsto dall’art. 5 CTS, da interpretare alla luce sia del diritto interno (legge n. 328 del 2000), sia nella prospettiva, ben più ampia e comprensiva, tracciata dal diritto dell’Unione europea (ed alla quale il legislatore evidentemente si è ispirato: così nella COM(2006), Attuazione del programma di Lisbona: i servizi sociali d’interesse generale nell’Unione). Una siffatta limitazione oggettiva – richiesta dal Consiglio di Stato (in sede di espressione del parere sullo schema di decreto legislativo; cfr. parere n. 1405 del 2017) – mira a “restringere” (non senza qualche diffidenza nei confronti dello strumento, che si evince chiaramente dal successivo parere del medesimo Consiglio di Stato n. 2052 del 2018[16]) l’area del ricorso alle convenzioni: eppure, nella logica sistematica complessiva del Codice del Terzo settore, è poco comprensibile giustificare questa partizione interna alle attività di interesse generale. Si tratta di una scelta che non ha – almeno apparentemente – di una solida ratio giustificatrice in termini costituzionali, specie se letta alla luce dell’impostazione della sentenza della Corte, la quale valorizza fortemente la capacità degli ETS di lambire ogni spazio della “società del bisogno”[17].
Nella stessa prospettiva, l’art. 57 CTS delimita significativamente il proprio ambito di applicazione ai soli casi di servizio di trasporto sanitario di emergenza ed urgenza. La soluzione normativa traduce, quasi pedissequamente, il dictum della Corte di giustizia dell’Unione europea (e della direttiva UE 2014/24/UE) a proposito dell’affidamento dei servizi di trasporto sanitario di emergenza ed urgenza, ponendo fine ad una lunga querelle[18]. Ma c’è da chiedersi se tale restringimento sia davvero necessario, alla luce della giurisprudenza europea e “ragionevole” nel quadro costituzionale. Già l’ANAC – in sede di consultazione sulle nuove Linee guida per l’affidamento di servizi sociali – si è interrogata su una possibile estensione dell’ambito applicativo dell’art. 57 CTS anche a trasporti di organi, sangue ed emoderivati, farmaci ed antidoti salvavita («indispensabili a salvaguardare le fondamentali funzioni vitali dei pazienti»), proposta che appare pienamente giustificata e, anzi, da espandere ulteriormente. L’espressione che utilizza il CTS – «servizi di trasporto sanitario di emergenza e urgenza» – se letta alla luce della giurisprudenza euro-unitaria, legittima il ricorso alle procedure ivi indicate per tutti i casi in cui vi sia la necessità di assicurare la tutela della salute e della vita umana, in condizioni di obiettiva urgenza, imprevedibilità o in cui sia impossibile, per il soggetto destinatario del servizio, provvedere autonomamente. Ma allargando lo sguardo ad un orizzonte più ampio, viene da chiedersi se esista una specificità tale di questa materia – il trasporto sanitario – da legittimare un diritto speciale così configurato, oppure se non si tratti semplicemente di norme figlie della storia e destinate ad essere riassorbite all’interno di un paradigma più ampio e comprensivo.
Ecco che la “forza” – per così dire – delle attività di interesse generale di cui all’art. 118, u.c. Cost. si manifesta, portando – carsicamente – ad un allargamento degli istituti dell’amministrazione condivisa in ogni spazio in cui si riconosca l’esistenza di un interesse siffatto.
La sentenza – così pare – legittima una lettura estensiva: se le attività sono di interesse generale, ai sensi dell’art. 118, u.c. Cost., l’obbligo di favorire getta una nuova luce sugli strumenti tramite i quali l’amministrazione condivisa può avvenire, senza introdurre segmentazioni artificiose.
Dunque, la sentenza n. 131 del 2020, al di là del suo rilevantissimo significato più proprio di fondamento costituzionale del Terzo settore, si rivela assai più complessa e da meditare con attenzione. Dalla migliore “messa a fuoco” della specificità della co-progettazione, alla “pacificazione” con l’ordinamento euro-unitario, alla definizione di un profilo regionale di Terzo settore e pluralismo sociale, al consolidamento di un paradigma interpretativo: la forza propulsiva di questo pronuncia è destinata a realizzarsi in una pluralità di direzioni, consentendo di sviluppare – in una prospettiva europea – una serie di strumenti promozionali e di relazioni, all’interno del Terzo settore e con gli altri settori.
Così solidamente radicato nella Costituzione (Rossi, 2019 - p. 50 ss.), però, il Terzo settore – nella veste assunta successivamente alla riforma – esige di entrare all’interno dell’agenda politica. La sentenza n. 131 del 2020, infatti, diradando taluni importanti dubbi di legittimità, determina una significativa chiamata alla responsabilità sia della politica, sia dell’amministrazione sia, infine, del Terzo settore medesimo, i quali non hanno più alibi per rispondere alla domanda su come si intenda dare corpo, in forma sistematica, al principio di sussidiarietà.
La riconferma delle radici costituzionali, soprattutto, potrebbe o mettere a nudo le povertà di una politica che, priva di ogni visione e chiave di lettura, non sa più leggere la realtà sociale (si vedano talune recenti proposte in tema di volontariato e Covid-19); oppure, al contrario, valorizzare quell’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale che ha rappresentato il vero e proprio collante, sociale e politico, in una stagione così difficile.
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