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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2022

Opinioni

Il RUNTS e le sue criticità

Sergio Silvotti

Cosa sta accadendo

Con l’attuazione della riforma del terzo settore c’è il rischio di un impoverimento del tessuto sociale delle comunità locali (e non solo locali). La legge di riforma si propone di promuovere compiti e funzioni del terzo settore nell’organizzazione e svolgimento di attività di interesse generale. Passaggio cardine per conseguire tale obiettivo è il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS), che va a sostituire i registri regionali (e delle province autonome) istituiti sulla base delle precedenti leggi di settore. Gli incentivi, le facilitazioni e più in generale le regole introdotte dalla riforma valgono per gli Enti di Terzo Settore (ETS), ovvero per le organizzazioni iscritte al RUNTS.

Il RUNTS è stato costituito il 23 novembre 2021 e da allora le organizzazioni iscritte nei registri preesistenti stanno trasmigrando in quello nazionale; due mesi dopo anche gli enti che non erano oggetto delle procedure di trasmigrazione hanno potuto avanzare richiesta di iscrizione. Oggi, quindi, si inizia a disporre dei primi dati sugli enti che scelgono di trasmigrare.

L’analisi dei dati delle organizzazioni che a partire da novembre 2021 sono o stanno entrando nel RUNTS ci indica come solo una piccola parte delle “istituzioni non profit” (così l’ISTAT definisce l’insieme delle organizzazioni di terzo settore oggetto dei censimenti) che avrebbero facoltà di farlo entreranno nel RUNTS, saranno riconosciuti come Enti di Terzo Settore e quindi avranno la possibilità di cogliere le opportunità disposte dalla legge di riforma e dai suoi decreti attuativi.

I dati che utilizzerò per sostenere questa affermazione sono quelli della Lombardia (aggiornati a fine luglio 2022). Lo faccio perché, di questo contesto, ho dati che sono al tempo stesso aggiornati e abbastanza specifici per capire quali tipi di enti stiano entrando nel RUNTS e quali no. I confronti che ho potuto fare con dati nazionali e di altre regioni non mostrano differenze sostanziali rispetto al caso lombardo: è quindi presumibile che le analisi condotte per questa regione valgano anche per il resto d’Italia. In ogni modo, la rilevanza del terzo settore in Lombardia, sia numericamente che per ruolo esercitato anche a livello nazionale, giustifica un’attenzione particolare[1].

L’ultimo censimento ISTAT sul non profit (31 dicembre 2019) contava in Lombardia 58.124 soggetti; le Associazioni di Promozione Sociale (APS) e Organizzazioni di Volontariato (OdV) iscritte nei relativi registri regionali (ovvero interessate dal processo di trasmigrazione al RUNTS) sono 11.592. Di queste il 29 luglio 2022, 1.895 avevano trasmigrato (venivano iscritte al RUNTS) e le pratiche di altre 6.931 erano in istruttoria. Una stima attendibile delle richieste di nuove iscrizioni (ovvero di organizzazioni che non risultavano iscritte ad alcun registro e hanno presentato autonomamente la richiesta di iscrizione) alla stessa data consiste nel 61,5% del totale delle APS e OdV (ovvero poco più di 7.000 enti). Le cooperative sociali in Lombardia sono 2.172. Ipotizzando che tutte le pratiche in istruttoria abbiano esito positivo, che tutte le richieste di nuova iscrizione vengano accolte e aggiungendo a questa somma le cooperative sociali in Lombardia, il RUNTS risulterebbe popolato da 18.127 enti. In questo scenario ottimistico gli ETS saranno meno del 32% delle istituzioni non profit censite dall’ISTAT diciannove mesi prima.

Questi dati rimangono significativi anche qualora, rispetto ai dati di fine 2019, il numero di enti totali sia diminuito (anche se nessun dato lo fa supporre) e anche ipotizzando che il dato ISTAT contenga soggetti oggi non più attivi ma non cancellati e pur assumendo che ci siano enti che stanno attendendo la produzione di atti attuativi per decidere se e a quale sezione del RUNTS iscriversi. Pur tenendo conto di tutti questi aspetti, difficilmente gli Enti di Terzo settore – e quindi i soggetti a pieno titolo attori del terzo settore promosso dalla legge di riforma – saranno più della metà delle realtà private cui fino a ieri cittadini, imprese, pubblica amministrazione potevano rivolgersi per l’organizzazione e lo svolgimento di attività di cura dei beni comuni.

Qual è il problema?

Bastano questi dati per preoccuparsi e cercare dei correttivi? Nel porsi questa domanda va esplicitato che un rischio da evitare è di aspettarsi dall’attuazione della legge di riforma del terzo settore un esito gattopardesco: che tutto cambi perché tutto resti come prima. È logico che la legge di riforma ridisegni il perimetro dell’insieme dei soggetti del terzo settore. Era da mettere in conto che qualcuno sarebbe entrato nel nuovo alveo così delineato, che altri non ce l’avrebbero fatta, ed altri ancora magari non avranno la forza per rimanervi. Ma qualche approfondimento va fatto, se il terzo settore italiano (lombardo) nell’applicazione della prima legge approvata in Italia per riconoscerlo e promuoverlo si riduce alla metà o a un terzo delle sue dimensioni originarie.

Nella fase in cui siamo, ovvero mentre sono in corso le verifiche sui requisiti per l’ingresso al RUNTS sia dei soggetti che vi trasmigrano dai precedenti registri di APS e ODV sia di altri enti che hanno fatto richiesta di iscrizione, è comprensibile che le attenzioni di chi opera o si occupa di terzo settore siano concentrate su aspetti formali e procedurali. Ma non vorrei che ci si dimenticasse o che si arrivasse troppo tardi ad affrontare le conseguenze sostanziali che comporterà la costituzione del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore. Perché, soprattutto a livello locale, la costituzione del RUNTS avrà un impatto sia per il terzo settore che nei rapporti delle organizzazioni di terzo settore con la Pubblica Amministrazione, con le cittadine e i cittadini, con le imprese. Non è tempo di cominciare a chiedersi cosa cambierà concretamente per chi vorrà occuparsi della cura dei beni comuni? Per essere conseguente, provo un affondo chiedendomi: è possibile capire quali sono le organizzazioni che rimarranno fuori dal RUNTS? Ma, soprattutto, in caso di esclusione, semplicemente spariranno? E, se questo è il caso, che cosa comporterà questa assenza per il terzo settore e per le comunità ed il territorio? Oppure continueranno ad operare nello stesso modo o, ancora, continueranno ad operare ma in modo diverso?

Chi rischia di restare escluso dal RUNTS?

Per cercare di rispondere alla prima domanda riprendo i dati relativi al processo di trasmigrazione di APS e OdV in Lombardia. Abbiamo detto che 11.592 sono le organizzazioni interessate dal passaggio dai registri regionali a quello nazionale. Le procedure con cui avviene questo passaggio sono condotte dagli uffici RUNTS regionali (in Lombardia organizzati su base provinciale e di area metropolitana). Abbiamo visto che le organizzazioni che al 29 luglio scorso risultavano iscritte erano 1.895. Gli uffici RUNTS stavano processando le pratiche di altri 6.931 enti. 6.931 + 1.895 = 8.826: e i 2.766 rimanenti? Sappiamo che 632 pratiche sono state cancellate perché frutto di errori della piattaforma su cui operano gli uffici e che 82 sono state respinte o sono in corso di respingimento. Anche sottraendo ai “rimanenti” la somma di respinti e pratiche cancellate ne rimangono 2.052 per cui gli uffici non hanno un destinatario a cui chiedere l’integrazione dei documenti o la modifica di un atto. Ovvero il 17% degli enti iscritti in un registro regionale (e che hanno anche dimostrato negli anni di mantenere i requisiti per permanere iscritti) rischiano di non entrare nel Registro Unico Nazionale del Terzo Settore semplicemente perché non rintracciabili.

È possibile capire chi sono questi “clandestini”? Nell’insieme costituito dagli enti iscritti – più quelli la cui pratica è in lavorazione – vi sono tutti gli enti associati o collegati a una rete regionale o nazionale. Infatti, sono stati i coordinamenti, le federazioni o altre forme di collegamento a fornire i dati che mancavano agli uffici per poter entrare in contatto con gli interessati e giungere, se non all’iscrizione, all’avvio del percorso istruttorio per il passaggio al RUNTS. Chi non è stato possibile raggiungere sono pertanto organizzazioni non collegate ad alcuna rete regionale e nazionale. Organizzazioni che avevano i requisiti per comporre i registri precedenti, ma che non hanno le informazioni e sono in deficit di competenze per affrontare un cambiamento straordinario come quello del passaggio al RUNTS e non hanno una rete di sostegno che le informi e a cui appoggiarsi. Con assenza di informazioni e deficit di competenze intendo cose semplicissime: non sanno che devono fornire i dati della loro anagrafica all’ufficio RUNTS del territorio ove hanno sede, che esiste un portale nel quale sono depositate le informazioni che devono produrre, a volte nemmeno che la fantomatica “trasmigrazione” è un processo che li riguarda.

I collegamenti o – come li chiama la riforma – le reti associative, quelle informazioni, le hanno sia perché hanno al loro interno chi si incarica di seguire questi processi, sia perché trovano nel Forum del Terzo Settore della Lombardia o nei propri riferimenti nazionali il modo per rimanere aggiornati e fornire indicazioni tempestive ai loro aderenti. Lungi da me lasciare intendere che la riforma del terzo settore e la sua attuazione è stata studiata per le organizzazioni più strutturate e a discapito di chi non ha potuto o voluto collegarsi ad alcuna rete regionale o nazionale. Mi limito a osservare che le 2.052 organizzazioni che gli uffici preposti non riescono a contattare e che rischiano perciò di vedersi escluse dal RUNTS – magari senza saperlo – hanno quelle caratteristiche.

Che fine farà chi resterà fuori dal RUNTS?

Ci dobbiamo quindi aspettare che queste realtà – e a maggior ragione i numerosissimi enti che non hanno mai sentito il bisogno di iscriversi ad alcun registro – spariranno? Per uscire dal generico, è possibile calcolare in modo abbastanza preciso quante sono le organizzazioni non profit censite dall’ISTAT che “non hanno mai sentito il bisogno di iscriversi ad alcun registro” (o magari hanno frainteso l’essere componenti di una “consulta comunale” con l’essere iscritte a un registro). Ai componenti dei registri APS e OdV possiamo sommare enti iscritti a registri con altre forme giuridiche, fondazioni, cooperative sociali e arriviamo a 21.646 soggetti ovvero meno del 38% delle realtà censite dall’ISTAT.

Detto questo la risposta si trova nella domanda: così come per decenni i numerosissimi enti che non hanno sentito il bisogno di iscriversi ad alcun registro hanno portato avanti le loro attività, perché in futuro il fatto di non essere iscritte al RUNTS dovrebbe determinare l’impossibilità di proseguire la propria attività?

Se in questi anni tali enti hanno continuato a operare è, in ultima analisi, per la capacità di essere utili nel perseguire le finalità per cui sono stati costituiti. Ad esempio, associazioni che aggregano bisogni, facendo sentire meno sole le persone che li provano, o che si prendono cura di beni comuni; in ogni caso si tratta di soggetti che hanno svolto un ruolo nel costruire relazioni o nel sostenere le persone nell’affrontare i propri bisogni e nel relazionarsi con interlocutori istituzionali.

Pensiamo ad esempio ai genitori i cui figli soffrono della sindrome di Asperger; associandosi non mirano immediatamente a realizzare servizi, ma si aggregano per unire le forze e capire come avere risposte adeguate dai servizi sanitari o sociali, chiedendosi magari quale contributo può venire dalla loro autonoma iniziativa per ottenerle. O – ancora e più importante – a sensibilizzare, a diffondere empatia circa la loro situazione, perché ci sia anche la loro voce e le loro esigenze nell’organizzazione della vita della loro comunità. I loro primi interlocutori – per portare esigenze e accreditare proposte – sono quasi sempre le istituzioni locali della pubblica amministrazione e le realtà di terzo settore del territorio.

Chi perde cosa?

Insomma: tutto risolto! Gli ETS (enti iscritti al RUNTS) impareranno a confrontarsi con regole diverse e in più potranno cogliere le opportunità offerte dalla riforma mentre le organizzazioni che resteranno fuori continueranno a svolgere le proprie attività senza godere delle nuove opportunità e dover rispettare le nuove regole?

Sappiamo bene che così non è: solo gli enti iscritti al RUNTS potranno proseguire, e anche sviluppare, il rapporto con la pubblica amministrazione, i cittadini, le imprese in continuità con la loro storia. Muteranno, e profondamente, le modalità con le quali gli enti non iscritti al RUNTS potranno relazionarsi con gli altri attori sia pubblici che privati. Il nodo non è che i soggetti non iscritti al RUNTS non potranno stipulare convenzioni (art. 56 del Codice del Terzo settore) con le pubbliche amministrazioni. Il rischio è che vengano completamente esclusi dalla costruzione delle soluzioni ai problemi, magari di quei problemi che hanno contribuito a portare all’attenzione delle comunità. “Esclusione” equivale a leggerli come parte del “problema” e non anche della soluzione. Il patrimonio di conoscenze o l’aggregazione di interessi e bisogni di cui sono portatori rischiano di giocare un ruolo attivo solo fino alla fase di denuncia del problema senza poterne giocare alcuno in quella successiva di attivazione delle dotazioni per la costruzione delle soluzioni.

In questo cambiamento:

  • La pubblica amministrazione rischia di perdere un interlocutore essenziale nella raccolta di informazioni sui bisogni e le risorse delle comunità. Il collegamento con i cittadini e le comunità assicurato dalle formazioni sociali più piccole e capillarmente diffuse (ma anche più fragili organizzativamente e che perciò difficilmente riusciranno a entrare nel RUNTS) potrebbe venire meno: troppi gli ostacoli e i pericoli per un ente pubblico a collaborare condividendo risorse e strumenti con chi pure ha giocato un ruolo essenziale nella presa in carico del problema da parte della comunità e saprebbe sicuramente attivare dotazioni preziosissime in termini di conoscenze, interessi e motivazioni.
  • I cittadini continueranno a frequentare le organizzazioni sulla base del problema di cui si occupano o dei desideri che aggregano, ma non troveranno più in quelle realtà una porta d’accesso ad uno spazio di relazioni più ampio in cui allacciare alleanze e collaborazioni per moltiplicare le possibilità di risolvere i problemi e rispondere ai bisogni.
  • Le comunità perderanno la funzione di antenne che quelle realtà svolgevano: antenne sintonizzate sui bisogni o sulla libertà di svolgere autonomamente attività di interesse generale.
  • Il terzo settore perderà le sue “radichette”: se pensiamo al terzo settore come al sistema radicale di quella che il Giudice delle leggi definisce società solidale[2], il rischio e che vengano tagliate le radichette: le esperienze capillarmente diffuse in grado di mettere in circolo le dotazioni delle comunità, di connettere bisogni e risorse.
  • La stessa riforma, infine, rischia di perdere elementi cardine per sviluppare a pieno le possibilità aperte dai suoi istituti più innovativi e promettenti. Un’attività di co-progettazione parte da un quadro condiviso dei problemi da affrontare e degli obiettivi da realizzare; una fase che trova nell’empatia fra i diversi attori una condizione essenziale per essere svolta. Quelle che al punto precedente abbiamo definito le “radichette” sono fattori essenziali di produzione di un quadro empatico in cui trovare convergenza di interessi e aggregare le risorse.

E allora? Come andare avanti?

Per fare un passo avanti credo sia necessario assumere che il “polo dell’interesse generale” – costituito dalle organizzazioni in cui le cittadine e i cittadini trovano strumenti ed occasioni per esprimere la propria autonoma iniziativa e contribuire alla cura dei beni comuni – è una categoria composita, complessa e plurale. Una categoria che contiene sia gli enti che domani saranno – e permarranno – iscritti al RUNTS, sia chi rimarrà fuori o non riuscirà a permanervi.

Una categoria composita, perché abitata da soggetti diversi per natura, finalità, capacità organizzativa.

Complessa, perché quelle diversità diventano un contributo positivo alla vita delle comunità se e solo se potranno agire le loro complementarità, cioè se saranno messe nelle condizioni di potenziare le relazioni fra loro e con i soggetti del settore pubblico e del mercato. Plurale, perché l’eterogeneità della composizione e la complementarità che la definisce trova solo e soltanto in una pluralità di prospettive di osservazioni, di interessi e di risorse il fattore di promozione della coesione sociale e di sviluppo del quadro empatico in cui è possibile far convergere gli interessi verso obiettivi comuni e aggregare le risorse.

Sarebbe inutile, prima ancora che sbagliato, attuare la riforma con una logica che sopra ho indicato come “gattopardesca”. Il processo di implementazione della riforma deve piuttosto essere l’occasione per identificare sfide abbordabili dalle diverse realtà del polo dell’interesse generale e contemporaneamente aver cura di non ostacolare – ma anzi di favorire – la loro complementarità e il rafforzamento delle relazioni collaborative con i soggetti del primo e soprattutto del secondo settore.

Se le decretazioni attuative della riforma guardano principalmente a rafforzare il ruolo degli enti di terzo settore nello svolgimento delle loro attività e nel programmare il loro sviluppo organizzativo, vanno ricercati strumenti in grado di funzionare da meccanismi di connessione con le moltissime formazioni tanto gelose dei compiti che si sono dati quanto interessate e disponibili a condividere le funzioni che esercitano.

Strumenti amministrativi utilizzabili a tutti i livelli dalla pubblica amministrazione: dal Ministero al piccolo Ente locale di un’area interna; strumenti nei quali le realtà di terzo settore più piccole e destrutturate possano trovare la concreta possibilità di collaborare anche a una programmazione ampia e complessa.

I patti di collaborazione, promossi da Labsus[3] e utilizzati per centinaia di alleanze fra Pubblica Amministrazione (soprattutto Enti Locali) e cittadini nelle attività di cura di beni comuni possono funzionare da strumento che connette i soggetti del polo dell’interesse generale che non entreranno nel RUNTS con il Pubblico e gli Enti di Terzo Settore.

Ma non bisogna cadere nell’errore di pensare di aver così risolto tutti i problemi: è necessario arricchire la strumentazione grazie alla quale cittadine e cittadini sono messi in grado di esercitare concretamente la loro libera iniziativa di contribuire allo svolgimento di attività di cura dei beni comuni.

Con tutto ciò, stante che siamo all’inizio di una riflessione sulla partecipazione non solo del terzo settore, ma delle cittadine e dei cittadini attivi allo sviluppo del futuro delle comunità e dei territori, penso sia necessario confrontarsi con un’ultima questione. Laddove si valorizzi appunto un “Polo dell’interesse generale” i cui confini sono più ampi rispetto a quelli del Terzo settore, per quale motivo un’organizzazione dovrebbe scegliere di entrare nel RUNTS, facendosi quindi carico dei relativi obblighi e oneri? Se, in fondo, si continua ad operare bene al di fuori del RUNTS, non si rischia di renderlo di fatto superfluo?

È evidente che nessuno può obbligare un Ente di Terzo Settore o dei cittadini a impegnare tempo ed energie per l’interesse generale, ma è anche vero che sono troppi gli esempi che dimostrano che i loro comportamenti non vengono dettati dalla possibilità di avere o meno un tornaconto. Come si spiegherebbe altrimenti l’impegno, tanto celebrato quanto rapidamente dimenticato, di singoli e organizzazioni per superare emergenze come quella recente determinata dalla pandemia o in precedenza da catastrofi naturali, ma soprattutto come si spiegano le energie quotidianamente in campo per rispondere ai bisogni e per costruire un futuro migliore?

La possibilità più entusiasmante aperta dalla riforma del terzo settore è di rimettere al centro le comunità, sia come oggetto di cura sia come risorsa di cambiamento. Come dice nel podcast di commento alla sentenza 131 del 2020 il Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato – La rivoluzione del ruolo del Terzo settore nella sentenza 131/2020 – la co-progettazione è, per la PA, una possibilità di tornare anche a fare – dopo anni passati a far fare – riavvicinando così il personale pubblico alle dotazioni (di bisogni e risorse) delle comunità. Anche per il terzo settore la riforma rappresenta un’occasione per affrontare le cause dei problemi e co-programmare il futuro dei territori mettendo in gioco fino in fondo – finalmente – il proprio essere strumento ed espressione della libertà delle cittadine e dei cittadini di impegnarsi per il bene comune.

In altre parole, gli Enti di Terzo Settore hanno la responsabilità e il riconoscimento connesso all’essere parte dei processi di co-programmazione e di co-progettazione. Sono quindi soggetti che contribuiscono a pieno titolo a dare forma alle politiche e agli interventi e al tempo stesso a valorizzare autenticamente il contributo di formazioni sociali più ridotte, anche non iscritte al RUNTS. Organizzazioni che, per esempio attraverso dei patti di collaborazione, sono in grado di svolgere un ruolo essenziale nell'attuazione di percorsi di co-programmazione e co-progettazione. In questa prospettiva vanno cercati con progressività e determinazione gli strumenti per allargare le condotte della partecipazione, aggregare le risorse e coinvolgere le disponibilità: una direzione uguale e contraria a quella che porta al pericolo di esclusione. Per questi obiettivi il terzo settore ha speso molto in passato e continua a investire: ha dimostrato e dimostra di crederci; non sarà il “farsi carico di nuovi oneri e adempimenti” a fargli cambiare rotta.

Note

  1. ^ In Lombardia risiede il 16% delle organizzazioni non profit italiane e lavora il 22,5% dei loro dipendenti (dati ISTAT 2019).
  2. ^ Corte costituzionale, sentenza n. 131 del 2020, pag. 7.
  3. ^ Laboratorio per la Sussidiarietà (https://www.labsus.org)
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