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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2022

Saggi brevi

L’impresa sociale come strumento per le CSA. Una nuova opportunità per la restituzione alla comunità dei terreni confiscati

Caterina De Benedictis, Jacopo Sforzi

Introduzione

Il presente lavoro intende riflettere sul potenziale che l’impresa sociale può avere come strumento per le CSA di poter prendere in gestione terreni confiscati alla criminalità organizzata e restituirli alla comunità, attraverso la sua diretta partecipazione.

Le CSA, Comunità che Supportano l’Agricoltura, sono un nuovo modo di organizzare la produzione agricola, un «fenomeno dalle molte sfaccettature, fortemente ancorato a contesti territoriali specifici e quindi lontano da un modello unico» (Genova, Piccoli, 2019, p. 50). Ciononostante, due elementi risultano comuni ai diversi modelli: (1) la presenza di un accordo tra i produttori agricoli e i consumatori che, a partire dalla condivisione di valori, obiettivi e fiducia, è orientato a condividere «responsabilità, rischi e opportunità della produzione agricola» (Genova, Piccoli, 2019, p. 50); (2) l’obiettivo di ricreare una struttura sociale significativa che passa dalla relazione tra produttore e consumatore e dall’intreccio di relazioni che si realizzano tra i consumatori stessi, intesi come membri di una collettività che si riunisce intorno a una nuova infrastruttura sociale. Si creano in questo modo processi di apprendimento e di empowerment collettivo (Zimmerman, Rappaport, 1988) che si traducono a loro volta in processi di capacitazione dei singoli individui (Sen, 1985). A partire da questi elementi, le CSA vengono definite come: «ogni iniziativa di produzione di cibo o prodotti della terra nell’ambito della quale la comunità condivide i rischi e i frutti della produzione attraverso la proprietà, gli investimenti, la condivisione dei costi di produzione o la concessione di mano d’opera» (Saltmarsh et al., 2011, p. 6).

Gli elementi che caratterizzano e distinguono le CSA consentono di individuare l’esistenza di un modello che si fonda e punta su di un ampio coinvolgimento della comunità di riferimento. Grazie a ciò, questo modello sembra adattarsi molto bene alla gestione di beni collettivi e, nello specifico di questo lavoro, alla gestione dei terreni confiscati alla criminalità organizzata.

La confisca e la destinazione dei beni posseduti e utilizzati dalla criminalità organizzata assumono forza e concretezza solo laddove il capitale sociale mafioso viene trasformato in capitale sociale “puro” (David, Ofria, 2014). Inoltre, il loro riutilizzo a fini sociali costituisce uno tra i più importanti strumenti per contrastare il fenomeno mafioso in quanto capace di avviare nuovi e funzionali «processi di rigenerazione della fiducia tra i cittadini e tra questi e le istituzioni, che favoriscono la formazione e l’accrescimento della dotazione originaria di capitale sociale di questi territori» (Mosca, Villani, 2010, p. 49). Tuttavia, affinché ciò si verifichi realmente, la comunità deve avere la possibilità di appropriarsi concretamente del bene in questione, così da interrompere e invertire il processo di legittimazione dell’azione della criminalità organizzata.

Il presente elaborato analizza da un punto di vista teorico come il modello della CSA possa essere utilizzato nella gestione dei terreni confiscati e nella loro effettiva restituzione alla comunità.

A tale scopo, innanzitutto, la riflessione si concentra sui diversi modelli di CSA e sulla forma giuridica che queste dovrebbero assumere per svolgere tanto attività di produzione e consumo quanto attività più prettamente comunitarie per la gestione dei terreni confiscati. Secondariamente, ragionando sulle forme giuridiche esistenti, nell’ottica di non crearne di nuove, ma di “adattare” quanto già presente nell’ordinamento italiano ai modelli di CSA, l’attenzione si sposta sull’impresa sociale, analizzando le sue potenzialità nel rappresentare la veste giuridica idonea per le CSA che intendono svolgere tali attività. Nonostante, ad oggi, nessuna CSA costituita in Italia abbia deciso di assumere la forma dell’impresa sociale, una CSA impresa sociale avrebbe indubbiamente determinati vantaggi: in termini generali, potrebbe assumere la qualifica di ETS, con tutto ciò che ne consegue e, nello specifico, potrebbe gestire i terreni confiscati, restituendoli alla comunità attraverso il pieno coinvolgimento della stessa nella loro gestione.

L’attuale gestione dei terreni confiscati, infatti, passa per alcune attività che – per quanto volte all’aumento della partecipazione dei cittadini – si limitano ad un coinvolgimento marginale (es. organizzazione di eventi spot, organizzazione di visite e campi di pernottamento). Il modello della CSA, con le sue specificità, permetterebbe di realizzare un coinvolgimento dei membri della comunità molto più sostanziale, come soci finanziatori, consumatori, lavoratori e volontari della CSA. Il tutto sia garantendo a coloro che gestiscono il terreno di poter lavorare in modo dignitoso sia offrendo nuove opportunità di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.

Le CSA

Le CSA traggono il proprio fondamento concettuale dall’esperienza dell’agricoltura biologica giapponese, fondata dal filosofo Teruo Ichiraku nel 1971, a partire da un gruppo di cooperative agricole. Dagli anni ’70 in poi le CSA hanno iniziato a svilupparsi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Europa. Sulla base della specifica evoluzione avviata in ogni singolo Paese, le CSA hanno assunto caratteristiche e denominazioni differenti: AMAPs in Francia, Reciprocos in Portogallo, e CSA in America e Canada (Genova, Piccoli, 2019). Per quanto riguarda la dimensione del fenomeno, si osservi come in Europa nel 2015 siano state mappate circa 4.792 CSA, capaci di produrre cibo per almeno un milione di persone (Perényi et al., 2016).

In genere, le CSA nascono sulla base di quattro differenti modelli: (i) su iniziativa dei produttori, (ii) su iniziative guidate dalla comunità, (iii) tramite accordi tra produttori e comunità, (iv) da imprese di proprietà della comunità locale (Saltmarsh et al., 2011).

Nello specifico, il primo modello riguarda quelle CSA che nascono sulla base di iniziative guidate dai produttori quando uno o più produttori offrono una quota della propria produzione (può variare a seconda dagli imprevisti della produzione) alla comunità in cambio di una sottoscrizione fissa (pagata in anticipo rispetto alla produzione), cosicché tanto i rischi quanto i benefici della produzione possano effettivamente essere condivisi egualmente.

Il secondo modello si realizza quando, dinnanzi ad iniziative guidate dalla comunità, viene costituita un’impresa – generalmente in forma cooperativa – gestita dalla stessa comunità che si assume la diretta responsabilità sulla produzione, impiegando nell’attività agricola lavoratori professionisti e/o volontari. In questo caso i frutti della produzione possono sia essere venduti ai non soci con lo scopo di garantire la sopravvivenza dell’organizzazione sia redistribuiti all’interno della stessa.

Il terzo modello si basa su un accordo formale tra i produttori e la comunità: in questo caso i produttori già esistenti decidono di lavorare a stretto contatto con un’organizzazione costituita e gestita in forma cooperativa dalla comunità stessa, con l’obiettivo di approvvigionare nel lungo termine i membri della comunità con prodotti da loro stessi controllati.

Il quarto modello, infine, fa riferimento a quei casi in cui la CSA si basa su un modello di produzione condivisa del cibo, cioè quando un’impresa agricola che vende i suoi prodotti anche all’esterno della comunità viene comunque sostenuta dall’investimento della comunità stessa, diventando di fatto un’impresa controllata dalla comunità locale.

Questa diversità di modelli rende le CSA un «fenomeno dalle molte sfaccettature, fortemente ancorato a contesti territoriali specifici e quindi lontano da un modello unico» (Genova, Piccoli, 2019, p. 50)[1]. Ciononostante, in ogni esperienza è possibile individuare almeno due elementi ricorrenti.

In primo luogo, quando si parla di CSA si fa sempre riferimento a un accordo tra i produttori agricoli e i consumatori che, a partire dalla condivisione di valori, obiettivi e fiducia, è orientato a condividere «responsabilità, rischi e opportunità della produzione agricola» (Genova, Piccoli, 2019, p. 50). Infatti, se questo modello garantisce al produttore il lavoro, un adeguato e sufficiente riconoscimento economico e, dunque, una vita dignitosa, allo stesso tempo consente al consumatore di concordare con il produttore un prezzo giusto, in grado di rispondere a propri bisogni e possibilità economiche.

In secondo luogo, le CSA nascono per soddisfare il bisogno di sempre più persone di produrre e consumare cibo di alta qualità e sostenibile da un punto di vista ambientale, sociale ed economico, nel rispetto tanto delle specificità del territorio nel quale i prodotti vengono realizzati quanto delle persone e della dignità del loro lavoro. Attraverso le CSA è, dunque, possibile sia attribuire un nuovo significato al cibo e ai valori connessi al consumo sia (ri)creare una struttura sociale all’interno della comunità. Un nuovo sistema di relazioni che passa tanto dal rapporto tra produttore e consumatori, quanto nell’intreccio di relazioni che si realizzano tra i consumatori stessi, intesi come membri di una collettività che si riunisce intorno a una nuova infrastruttura sociale.

Si creano in questo modo processi di apprendimento, e di empowerment collettivo (Zimmerman, Rappaport, 1988) che si traducono a loro volta in processi di capacitazione dei singoli individui (Sen, 1985).

Il modello di organizzazione delle CSA si pone, dunque, come alternativo alla produzione/distribuzione agricola tradizionale, non più fondato sui principi utilitaristi e individualisti del mercato, bensì sui principi di solidarietà e reciprocità propri dell’economia sociale e solidale, rappresentando una nuova opportunità per sviluppare competenze e creare posti di lavoro.

In sintesi, a partire da questi elementi, le CSA vengono definite come: «ogni iniziativa di produzione di cibo o prodotti della terra nell’ambito della quale la comunità condivide i rischi e i frutti della produzione attraverso la proprietà, gli investimenti, la condivisione dei costi di produzione o la concessione di mano d’opera» (Saltmarsh et al., 2011, p. 6).

Gli elementi appena descritti che caratterizzano e distinguono le CSA evidenziano come esse si basino su un ampio coinvolgimento delle comunità di riferimento. Queste caratteristiche consentono di riflettere sulla capacità delle CSA di adattarsi tanto alla gestione di beni collettivi in generale quanto, nello specifico di quanto analizzato in questa sede, alla gestione dei terreni confiscati alla criminalità organizzata.

La gestione e il riutilizzo a fini sociali dei terreni confiscati alla criminalità organizzata

Lo strumento atto alla gestione dei terreni confiscati è sostanzialmente quello del riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie, istituito con la L. 109/1996, recante Disposizioni in materia di gestione e destinazione de beni sequestrati o confiscati. Si tratta di una legge arrivata al culmine di un lungo processo di regolazione del fenomeno che si configura come unica nel suo genere, tanto da rappresentare un modello di riferimento per i Paesi europei impegnati nella lotta alle mafie[2].

Nel nostro Paese, lo strumento della destinazione dei beni sequestrati e confiscati è affidato all’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, istituita con la L. 50/2010.

I beni confiscati alle mafie si distinguono in beni mobili, beni mobili registrati, beni immobili e beni aziendali.

Per quanto riguarda i beni immobili, osservando la Tabella 1 è possibile notare come su più di 33.000 beni immobili, il 51% sia rappresentato da beni ancora in gestione e, quindi, amministrati dall’ANBSC, mentre il 49% sia stato destinati per un riutilizzo istituzionale o sociale. Dei beni immobili destinati, l’83% si trova al Sud, mentre il 17% al Centro e al Nord. Dalla distribuzione appare evidente il primato assunto dalle regioni meridionali per la presenza di beni confiscati alla criminalità organizzata. Ciononostante, facendo riferimento alle prime sei regioni che si distinguono per maggiore incidenza di beni immobili, si nota che dopo le prime tre posizioni ricoperte da regioni meridionali (Sicilia, Campania, Calabria), si registri un’incidenza rilevante di beni immobili confiscati alla mafia anche in regioni come la Lombardia e il Lazio (Tabella 1), «a testimonianza del fatto che il fenomeno della criminalità organizzata non può e non deve più essere pensato e – di conseguenza combattuto – come un fenomeno che interessa e colpisce le sole regioni meridionali» (De Benedictis, 2021, p. 181).

Tabella 1. Beni immobili in gestione e destinati per Regione. Fonte: De Benedictis, 2021.

Oltre a ciò, un altro aspetto altrettanto rilevante è la necessità di comprendere che il concetto di criminalità organizzata non può – e non deve – più essere esclusivamente associato all’immagine della mafia “tradizionale”. La criminalità organizzata, specialmente nel mondo agricolo, assume oggi dei connotati differenti, eterogenei, che spesso ne rendono fumosi i contorni. La lotta all’illegalità, dunque, non è solo lotta alla mafia nel senso più proprio del termine, ma lotta al lavoro nero nei campi, al caporalato, allo sfruttamento della forza lavoro, ovvero a fenomeni che riguardano tutta l’Italia, da Nord a Sud.

In merito a quest’ultimo aspetto risulta emblematico il lavoro di numerosi operatori di agricoltura sociale, come ad esempio alcune cooperative sociali friulane ed emiliane, che nelle regioni settentrionali hanno ingaggiato un’accesa battaglia a favore della legalità. Tra queste, la cooperativa sociale Il Piccolo Principe, attiva in Friuli-Venezia Giulia, ha promosso un sistema di intervento a rete tra cooperative sociali e aziende agricole locali per l’inserimento socio-lavorativo di soggetti svantaggiati, prevalentemente migranti, spesso impiegati nel campo dell’agricoltura e costretti a condizioni di lavoro inaccettabili. Il Piccolo Principe parla di legalità, sostenendo che la mafia non è un fenomeno solo meridionale e che, anzi, i temi critici dell’agricoltura e dello sfruttamento del lavoro dei migranti nell’agricoltura riguardano tutta l’Italia.

Un altro esempio è quello della cooperativa For-B in Emilia-Romagna. Impegnata in attività di agricoltura sociale, essa collabora ad esempio con l’associazione Libera. Nomi e numeri contro le mafie per diffondere la cultura della legalità in un luogo come Forlì, poco abituato – diversamente dalle città del Sud – a sentire parlare di criminalità organizzata e mafia. L’attività di For-B dimostra come parlare di legalità sia ancora più importante proprio in quei territori dove l’infiltrazione non è evidente, dove il fenomeno non salta all’occhio ad ogni angolo della strada. E ciò è tanto più vero quanto più emerge la connessione tra la consapevolezza dei fenomeni e la capacità di evitare di agire o di ricevere comportamenti più o meno illegali.

A partire da questi dati e riflessioni, nel presente lavoro si focalizza l’attenzione su una sottocategoria dei beni immobili: i terreni confiscati. Questi, come si può osservare dalla Tabella 2, rappresentano, dopo gli appartamenti in condominio, la principale tipologia di immobili confiscati in Italia.

Tabella 2. Principali tipologie dei beni immobili destinati. Fonte: De Benedictis, 2021.

I beni immobili in generale e, dunque i terreni, vengono gestiti dall’ANBSC fino al momento in cui sono ultimati i procedimenti per la destinazione. A quel punto tali beni vengono destinati in prima battuta – a seconda della finalità individuata per il loro riutilizzo – al patrimonio dello Stato, al patrimonio indisponibile degli Enti locali, alla vendita o a specifici soggetti individuati dal Codice Antimafia (D.lgs. 159/2011).

Facendo riferimento alla gestione per fini sociali dei beni confiscati alla criminalità organizzata, il bene viene destinato dall’ANBSC al patrimonio indisponibile degli Enti locali, ovvero Comuni, Province, Regioni e – dalle modifiche apportate dalla legge n. 132/2018 – Città metropolitane ove l’immobile è sito. Tali azioni di destinazione avvengono prettamente, infatti, per finalità di carattere istituzionale e/o sociale. In questo caso, gli Enti locali possono amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione – con apposita convenzione e a titolo gratuito – a soggetti particolarmente rappresentativi degli Enti locali aventi finalità pubbliche e sociali. In particolare, il riferimento è ai soggetti individuati dall’art. 48, comma 3, lett. c del Codice Antimafia: comunità, anche giovanili, associazioni maggiormente rappresentative degli Enti locali, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti, associazioni di protezione ambientale riconosciute, altre tipologie di cooperative purché a mutualità prevalente, fermo restando il requisito della mancanza dello scopo di lucro, operatori dell’agricoltura sociale riconosciuti ai sensi delle disposizioni vigenti, Enti parco nazionali e regionali. Tali soggetti possono anche ottenere la destinazione del bene – sempre attraverso apposita convenzione – gratuitamente e direttamente dall’ANBSC, qualora – secondo i criteri stabiliti dal Consiglio Direttivo dell’Agenzia – fosse evidente la destinazione sociale del bene.

La confisca dei beni immobili e il loro riutilizzo a fini sociali costituisce uno degli strumenti più importanti per contrastare il fenomeno mafioso e, in particolare, la distruzione di capitale sociale da parte della criminalità organizzata (David, Ofria, 2014). La capacità di presa sociale, prima ancora che economica, della criminalità organizzata deriva, infatti, essenzialmente dal potente e durevole legame che essa stringe con il territorio e con la società in cui agisce. Occorre, dunque, mettere in atto una serie di strategie e di interventi capaci prima di indebolire e poi di distruggere il potere e la legittimazione delle mafie. In questa azione gioca un ruolo fondamentale il tema della destinazione per fini sociali dei beni confiscati, attraverso cui ciò che viene sottratto alle mafie viene restituito alla collettività. Attraverso il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati, infatti, è possibile «avviare dei processi di rigenerazione della fiducia tra i cittadini e tra questi e le istituzioni, che favoriscono la formazione e l’accrescimento della dotazione originaria di capitale sociale di questi territori» (Mosca, Villani, 2010, p. 49).

Una maggiore quantità di capitale sociale e di buona qualità aumenta le possibilità di produzione di ricchezza economica e sociale. Tuttavia, com’è necessario procedere nella manutenzione del capitale fisico, così il capitale sociale deve essere conservato, rigenerato e riqualificato, al fine di innescare e potenziare quei processi virtuosi che generano benessere e sviluppo locale (Mosca, Villani, 2010).

In sintesi, l’istituto della confisca – e successivamente della destinazione – dei beni precedentemente posseduti e utilizzati dalla criminalità organizzata, assume forza e concretezza solo laddove il capitale sociale mafioso venga trasformato in capitale sociale “puro”. Ma affinché ciò possa avvenire realmente, la comunità deve avere la possibilità di (ri)appropriarsi – non solo nel senso metaforico del termine – del bene in questione, interrompendo e soprattutto invertendo il processo di legittimazione dell’azione della criminalità organizzata.

Le CSA in forma di impresa sociale per la gestione dei terreni confiscati

Dopo aver descritto le principali caratteristiche delle CSA e le opportunità esistenti in Italia per la gestione a fini sociali di beni confiscati alla criminalità organizzata, la riflessione si sposta sulle potenzialità che il modello nascente della CSA potrebbe aver nella gestione dei terreni confiscati e, soprattutto, nell’effettiva restituzione di questi ai cittadini delle comunità di riferimento.

Come evidenziato in precedenza – facendo riferimento al già citato art. 48, comma 3, lett. c del Codice Antimafia – alcuni soggetti beneficiano più di altri della possibilità di vedersi affidati i terreni confiscati. Con l’intenzione di non creare nuove forme giuridiche, ma di adattare quelle esistenti ai nuovi modelli, l’impresa sociale potrebbe essere la veste giuridica idonea per quelle CSA che intendono svolgere determinate attività, dall’agricoltura sociale alla gestione per fini sociali dei terreni confiscati. Una CSA che assume la forma giuridica di impresa sociale può, infatti, vedersi affidare terreni confiscati in modo privilegiato, indipendentemente dal fatto che si assuma il riconoscimento e la qualifica di operatori di agricoltura sociale.

Nello specifico, dal momento che le CSA non sono ancora dotate di un modello giuridico ad hoc, queste ultime vengono gestite da altri soggetti giuridici (associazioni, cooperative agricole, patti informali). Le forme più utilizzate sono quella associativa e quella cooperativa (Tabella 3). Più nel dettaglio, quattro CSA hanno assunto la forma di associazioni di promozione sociale (APS), due sono associazioni semplici, una è un’associazione culturale, mentre tre realtà si sono costituite come cooperative, rispettivamente agricola, sociale e di consumo. Infine, tre sono le CSA nate – e tuttora operanti – come patti informali (Euricse, 2022).

Tabella 3. Forma giuridica CSA. Fonte: Elaborazioni Euricse, 2022.

Il requisito fondamentale per la vita di una CSA è l’accesso ad un appezzamento di terreno sufficiente e adatto alla produzione agricola per la comunità coinvolta. Per tale ragione, le CSA nascono prevalentemente da produttori agricoli che possiedono già dei terreni (primo e terzo modello). Assicurarsi un accesso a lungo termine alla terra – e il bisogno di un capitale fisico minimo di base, come gli edifici necessari e gli attrezzi per la produzione e la lavorazione – può rappresentare una sfida significativa, se non addirittura un ostacolo, per nuove CSA guidate dalle comunità (secondo modello)[3].

Da questo punto di vista, una CSA in forma di impresa sociale avrebbe indubbiamente determinati vantaggi: in termini generali, infatti, potrebbe assumere la qualifica di ETS, con tutto ciò che ne consegue e, nello specifico, porsi come attore privilegiato nelle azioni di destinazione dei beni confiscati.

Secondo l’art. 1 del d.lgs. 112/2017, l’impresa sociale esercita la propria attività di impresa «senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività». Ciò significa inevitabilmente accordare un ruolo fondamentale alla capacità, propria dell’impresa sociale, di coinvolgere i membri della comunità, permettendo loro di partecipare attivamente alla realizzazione delle attività e alla gestione delle stesse. Tuttavia, l’attuale gestione dei terreni confiscati passa, in generale, per alcune attività che – per quanto volte all’aumento della partecipazione dei cittadini – si limitano solo ad un loro coinvolgimento “formale” e circoscritto, tanto in termini di tempo che di capacità di incidere sui processi di governance del bene, come ad esempio l’organizzazione di eventi spot, la vendita di prodotti in loco o l’organizzazione di visite e campi di pernottamento. Il modello della CSA, con tutte le caratteristiche messe precedentemente in luce, permetterebbe, invece, di realizzare un coinvolgimento della comunità molto più profondo in quanto capace di aggregare attorno al bene confiscato l’interesse di più categorie funzionali di soggetti (lavoratori, finanziatori, consumatori, volontari, ecc.), tipicamente portatrici di interessi e bisogni eterogenei, da chi è in cerca di soluzioni alternative alle classiche modalità di produzione e acquisto di prodotti agricoli, a chi è interessato a contrastare la criminalità organizzata fino a chi è intenzionato a prendersi cura del proprio territorio e dei beni comuni al suo interno. Tutti questi differenti portatori di interessi potrebbero cooperare tra loro per superare il semplice essere beneficiari passivi di un bene o servizio e partecipare attivamente alla loro produzione, diventando prosumer (produttori e consumatori contemporaneamente) (Kotler, 2010) sul mercato dei beni alimentari. Per fare un esempio: un cittadino potrebbe finanziare l’attività della CSA e acquistarne i prodotti, garantendo al contempo a coloro che gestiscono il terreno di poter lavorare e ciò potrebbe peraltro permettere la creazione di nuovi posti di lavoro e/o l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati; allo stesso tempo, un altro cittadino potrebbe non solo finanziare l’attività della CSA, ma anche offrire la propria manodopera nell’effettiva gestione del terreno in modo volontario. Si tratta di elementi che, indubbiamente, potrebbero consentire una maggiore e più vera restituzione del terreno confiscato alla comunità di riferimento.

Oltre a facilitare l’accesso ai beni confiscati, l’impresa sociale avrebbe anche il vantaggio di poter coinvolgere i volontari all’interno della CSA. Un aspetto questo molto importate per l’operato delle CSA. Tuttavia, questo “vantaggio” non è, però, sufficiente a soddisfare i bisogni di questo nuovo modo di organizzare la produzione e il consumo di prodotti agricoli. Infatti, nonostante la norma attuale sulle imprese sociali (DL 112/2017, art. 13) preveda la possibilità di avere volontari all'interno dell'impresa, questi non devono costituire né la maggioranza dei soci o dei lavoratori né possono avere ruoli complementari a questi ultimi.

Questo rapporto volontari-lavoratori può rappresentare un limite per quelle CSA che nascono sulla base di iniziative guidate dalla comunità e per quelle che prevedono la realizzazione di accordi tra produttori già esistenti e la comunità locale.

In questi casi, come quello di Arvaia a Bologna (Nota 3), anche se la CSA si compone formalmente di due tipologie di soci, i soci fruitori e i soci sovventori, in realtà risultano presenti anche la figura del socio lavoratore – considerato formalmente un socio fruitore che viene assunto dalla stessa cooperativa – e quella del socio volontario – in quanto molti dei soci fruitori prestano ore del proprio tempo all’interno della cooperativa per svolgere le varie attività legate alla produzione agricola.

Rispetto a questi ultimi, da un’intervista condotta con i responsabili di Arvaia, emerge che i volontari siano molti e che partecipano attivamente con entusiasmo e determinazione nelle varie attività pratiche della CSA, che non si esauriscono nel rapporto produttore-cliente, ma che piuttosto spaziano dalla comunicazione all’animazione locale per lo sviluppo e il consolidamento di una comunità che va costruita quotidianamente. Nel modello della CSA ogni socio riconosce come proprio e come appartenente alla collettività al tempo stesso il terreno nel quale produrre i beni che essi stessi consumeranno, investendo di conseguenza il proprio tempo e le proprie risorse economiche nella CSA – di cui ne riconoscono il valore socioeconomico per lo sviluppo del proprio territorio – e nelle sue attività, che hanno una forte valenza sociale e impatto anche sul processo di riappropriazione di spazi collettivi.

Tuttavia, il problema della forma giuridica rischia di limitare questo coinvolgimento della comunità e limitare quindi la funzione sociale della CSA. La legislazione in materia di cooperazione agricola non prevede il riconoscimento della categoria dei soci volontari e quella sull’impresa sociale, ne limita il coinvolgimento. Per cercare di superare formalmente il problema del volontariato, Arvaia ha ottenuto la qualifica di fattoria didattica dalla Regione Emilia-Romagna[4]. In questo modo, i volontari risultano come soggetti che usufruiscono dei corsi teorici e pratici erogati dalla fattoria.

Quanto descritto testimonia l’unicità di esperienze come Arvaia, a metà strada tra l’impresa cooperativa e l’associazione di volontariato. Ma far convivere questi due aspetti nel lavoro quotidiano è una grande difficoltà per un modello sostanzialmente esistente ma formalmente non riconosciuto giuridicamente. Negli ultimi anni si stiano sviluppando anche altri modelli – come le imprese di comunità – che tendono a replicarsi sul territorio con un’intensità e una frequenza sempre maggiore, nei quali il ruolo dei volontari risulta fondamentale. Diventa dunque indispensabile capire – tanto per i protagonisti di queste esperienze quanto per il legislatore – come riconoscerli, come definirli e come regolarli, così da garantire loro l’opportunità di esprimere appieno le proprie potenzialità.

In generale, se la legislazione nazionale sul lavoro ha il giusto scopo di tutelare i lavoratori e di impedire lo svolgimento del lavoro nero, al tempo stesso, in Italia non viene ancora del tutto riconosciuto il valore del volontariato.

Se la limitazione imposta al modello della cooperazione agricola si stempera guardando alla forma giuridica dell’impresa sociale, anche quest’ultima risulta essere non del tutto idonea a gestire i nuovi fenomeni legati all’ampio coinvolgimento della comunità. L’art. 13 del d.lgs. 112/2017 e il successivo comma 2-bis introdotto nel 2018, sostengono che «il numero di volontari impiegati nell’attività d’impresa, dei quali l’impresa sociale deve tenere un apposito registro, non può essere superiore a quello dei lavoratori» (art. 13, co. 2, d.lgs. 112/2017) e, inoltre, «le prestazioni di attività di volontariato possono essere utilizzate in misura complementare e non sostitutiva rispetto ai parametri di impiego di operatori professionali previsti dalle disposizioni vigenti. Esse non concorrono alla determinazione dei costi di servizio, fatta eccezione per gli oneri connessi all’applicazione del comma 2» (art. 13, co. 2-bis, d.lgs. 112/2017). Le imprese sociali, dunque, possono sì avvalersi di volontari, ma solo a patto che questi non rappresentino la maggioranza dei soci e dei lavoratori, rispetto ai quali peraltro non devono svolgere ruoli complementari. Ciò significa che – nel caso specifico – per una realtà come Arvaia, impegnata nella cura di uno spazio collettivo nonché in attività che prevedono ampiamente la partecipazione e il coinvolgimento della comunità, assumere la forma dell’impresa sociale se aiuterebbe nel vedersi affidati terreni confiscati, non sarebbe, però, sufficiente a risolvere il problema connesso all’azione dei volontari. Per concludere, è evidente che nonostante nelle intenzioni del legislatore vi sia chiaramente l’obiettivo di non rischiare che l’attività gratuita del volontario sia “sfruttata” dall’impresa sociale per non fare ricorso al lavoro remunerato, sarebbe altrettanto auspicabile non intendere il concetto del volontariato in ottica meramente economica. Infatti, «l’attività di volontariato deve essere considerata come uno strumento di realizzazione personale e integrazione sociale, capace di contribuire allo sviluppo umano della singola persona e, di conseguenza, in ottica più ampia, del benessere generale della collettività» (Borzaga, Sforzi, 2020, p. 103).

Conclusioni

Le CSA, nuovi strumenti di agricoltura comunitaria, possono essere una validissima opzione per la fruizione dei lotti agricoli confiscati, considerando che spesso uno dei maggiori limiti che si riscontrano al momento dell’avvio di nuove CSA sia proprio quello dell’assenza del capitale minimo, ovvero i terreni da coltivare. Tuttavia, solo alcuni soggetti giuridici possano effettivamente vedersi affidato un bene confiscato: nello specifico della nostra analisi il riferimento è alle cooperative sociali e agli operatori di agricoltura sociale.

E ciò soprattutto alla luce del fatto che, come il presente lavoro ha dimostrato, il fenomeno della gestione e destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, manifesta alcune importanti criticità, con un numero significativo di beni che rimangono in capo all’ANBSC, nonostante la ratio della norma indichi la gestione governativa come transitoria piuttosto che definitiva. Diverse sono le ragioni per cui l’ANSBC riscontra tali criticità nell’allocazione dei beni: tra queste, si ipotizza, la difficoltà di individuare soggetti idonei, dotati di requisiti rispondenti alla legge e che, allo stesso tempo, abbiano un concreto interesse nell’utilizzo dei beni stessi. L’utilizzo cui si fa riferimento, cui cioè è lo stesso Codice Antimafia a fare riferimento, si contraddistingue per essere essenzialmente un utilizzo a fini sociali, che dunque restringe consistentemente il parco dei potenziali destinatari.

Ecco, quindi, lo spunto che questo lavoro vuole condividere: fino ad ora, in Italia, le CSA non hanno mai assunto la forma di impresa sociale, ma alla luce di quanto riportato, questa opzione risulta essere un’importante opportunità non solo per lo sviluppo delle CSA esistenti, ma anche per la nascita di nuove esperienze. Questa opportunità incrocerebbe infatti la domanda (necessità di terreni per le CSA) e l’offerta (beni confiscati). Lo sviluppo di CSA-imprese sociali potrebbe, dunque, essere la chiave per l’implementazione, anche in Italia, di questo modello, fino ad ora limitato a pochi casi di successo. Una simile opportunità, soprattutto al Sud-Italia dove sono ubicati la maggior parte di terreni confiscati, potrebbe avere una duplice funzione legata alla rivitalizzazione del bene: da un lato, generare benefici economici (posti di lavoro e vendita di prodotti agricoli) e, dall’altro, produrre valore sociale fornendo un rilevante impatto simbolico ed educativo come esempio di riutilizzo di beni precedentemente in mano alla criminalità organizzata e poi restituiti alla comunità tramite un modello di uso e gestione nel quale è la stessa comunità a partecipare attivamente.

DOI: 10.7425/IS.2022.03.04

Bibliografia

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Saltmarsh N., Meldrum J., Longhurst N. (2011), The impact of community supported agriculture, Soil Association's project to support CSA.

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Zimmerman M.A., Rappaport J. (1988), “Citizen participation, perceived control and psychological empowerment”, American Journal of Psychology, 5, pp.725-750.

Note

  1. ^ A. Genova, A. Piccoli, Community Supported Agriculture: timid practises of political consumerism, International Journal of Political Ecology, 2019.
  2. ^ https://www.linkiesta.it/2021/04/mafia-confisca-beni-francia/
  3. ^ Al momento, dalle informazioni a disposizione, solo Arvaia, la prima CSA nata in Italia sulle orme della tedesca Garten Coop, è stata costituita su iniziativa guidata dalla comunità (secondo modello) per la gestione di terreni pubblici affidati dal Comune di Bologna attraverso un bando pubblico.
  4. ^ La regione Emilia-Romagna riconosce come fattorie didattiche «le imprese agricole singole o associate, che svolgono oltre alle tradizionali attività agricole, anche attività educative rivolte ai diversi cicli di istruzione scolastica e alle altre tipologie di utenze, finalizzate: a) alla conoscenza del territorio rurale, dell'agricoltura e dei suoi prodotti ed in generale del legame esistente fra alimentazione e patrimonio storico-culturale; b) all'educazione al consumo consapevole attraverso la comprensione delle relazioni esistenti fra produzione, consumi alimentari ed ambiente, nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile; c) alla conoscenza dei cicli biologici animali e vegetali e dei processi di produzione, trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli locali in relazione alle attività agricole praticate in azienda» (L.R. n. 4/2009, Titolo II).
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