La stagione che stiamo vivendo è segnata da una crisi profonda che non è solo economica, politica e sociale, ma investe anche i modi di vivere e di valutare cosa conta davvero nella vita.
Qui vogliamo far riferimento ad una sola questione: il rapporto con il lavoro, soprattutto delle giovani generazioni; potremmo dire, in altre parole, che la questione è quella delle nuove caratteristiche che l’offerta di lavoro ha assunto dopo la fase più acuta della pandemia da Covid-19. Sono tanti i segnali di questo cambiamento – ovviamente saranno da comprendere meglio e studiare con più attenzione di quanto si sia potuto fare fino ad oggi – che il mercato del lavoro, sia a livello globale (Cina inclusa) che nel nostro Paese, ha registrato in questo ultimo anno e mezzo. Essi ci dicono a chiare lettere che il rapporto di scambio tra forza-lavoro (ore di tempo messe a disposizione del datore di lavoro dal lavoratore dipendente) e salario (che è stato alla base della crescita economica del ‘900) sta profondamente cambiando. Tanti imprenditori, soprattutto piccoli e di alcuni specifici settori, lamentano una grande difficoltà a trovare lavoratori disposti a lavorare, anche quando i salari offerti non sono proprio bassissimi (in un Paese, il nostro, dove i salari sono oggettivamente bassi) e, per citare un altro importante fenomeno che sta accadendo da un po' di tempo, molti, soprattutto giovani, lasciano il lavoro alle dipendenze perché stanchi di una vita nella quale vi è poco spazio per esprimere le loro potenzialità, i loro interessi e per realizzare i loro sogni. O, per dirla in altro modo, molti giovani, come indicano le osservazioni più recenti, non sono più disponibili a mettere il lavoro e la carriera al primo posto e prestano crescente attenzione alla ricerca di un nuovo equilibrio tra lavoro ed altri aspetti della vita, riducendo l’impegno sul lavoro al livello minimo richiesto dal contratto. E questo specialmente in lavori caratterizzati da scarsa rilevanza sociale e in imprese con basso livello di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione. Un fenomeno a cui è già stato dato il nome di quiet quitting.
Per qualcuno che tende a ragionare per slogan, tutto ciò, che fra l’altro accade in un periodo non particolarmente florido dell’economia italiana, è da attribuire al reddito di cittadinanza che ha elevato così tanto il cosiddetto “salario di riserva” (quel livello del salario che rappresenta la soglia sotto la quale non si accettano proposte di lavoro) da mettere in difficoltà un sistema produttivo per niente abituato a fenomeni generalizzati di eccesso di domanda di lavoro.
La nostra impressione, suffragata da alcune indagini – sia sui dati relativi ai percettori del reddito di cittadinanza (vedi studio INAPP e articolo sulla voce.info)[1] sia sul fenomeno dei licenziamenti di massa di lavoratori dipendenti (vedi la stampa di qualche mese fa)[2] – è che le accuse alla misura del reddito di cittadinanza siano quanto meno esagerate. E lo dimostra anche il fatto che questo nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro non è solo un fenomeno italiano. Anche se – ma questo è un altro tema che non trattiamo qui – quell’istituto introdotto in Italia con il D.L. n. 4 del 2019 andrebbe migliorato con radicali interventi di modifica.
A noi, in queste brevi note, preme sottolineare un’altra cosa: che cooperazione, cooperazione sociale e impresa sociale – in quanto impresa che comunque esalta le motivazioni pro-sociali e la partecipazione dello stakeholder “lavoratore” – sono strumenti per organizzare attività produttive (e non più solo, o soprattutto, nel ristretto ambito dei servizi sociali e socio-sanitari) che possono essere assai utili per coinvolgere le energie positive e le potenzialità di giovani, e non solo, che si sono stancati di pensare la propria vita e la propria sopravvivenza come necessariamente legata a filo doppio ad un reddito che proviene da un lavoro dipendente che ti succhia l’anima e le energie vitali.
Sono infatti numerose le ricerche fatte negli ultimi due decenni in diversi paesi, tra cui l’Italia – alcune pubblicate anche su Impresa Sociale – che hanno mostrato come i lavoratori nelle cooperative sociali, nelle imprese sociali e nelle organizzazioni non profit, in generale, si dichiarino più soddisfatti dei lavoratori impiegati in attività simili in altre imprese private e soprattutto in istituzioni o servizi pubblici. Tanto da avere spesso rifiutato offerte più remunerative e tanto da dichiarare, in larga maggioranza, di voler restare più a lungo possibile con l’organizzazione in cui erano occupati. Scoprendo inoltre che le ragioni di questa maggior soddisfazione e fedeltà sono la natura prosociale del lavoro, il coinvolgimento nei processi decisionali, l’elevata autonomia sul lavoro e la possibilità di meglio combinare le esigenze lavorative con quelle personali. Tutti aspetti che vanno a comporre quello che alcuni studiosi hanno definito una forma particolare di contratto psicologico.
Anche solo per queste ragioni, queste forme imprenditoriali andrebbero utilizzate, oggi e nel futuro, al massimo delle loro potenzialità. Da questo punto di vista dobbiamo purtroppo constatare che si è sprecato più di un decennio, non consentendo alle esperienze imprenditoriali di terzo settore di decollare nel modo in cui avrebbero potuto. E, d’altra parte, le non poche esperienze di successo stanno a testimoniare che, per parafrasare il titolo del bel film diretto da Giulio Manfredonia con protagonisti principali Claudio Bisio e Anita Caprioli, “si poteva (si può) fare”. L’analisi di quanto accaduto in questi ultimi quindici anni fa emergere come sia stato soprattutto il rapporto con le Pubbliche Amministrazioni – pensato da queste ultime troppo spesso nell’ottica quasi esclusiva di contenimento della spesa – a condizionare in negativo una evoluzione dell’imprenditoria sociale – ma forse della stessa cooperazione tout court – che già negli anni passati avrebbe potuto aprire con più forza una prospettiva di maggiore benessere per il Paese, sia migliorando le condizioni di lavoro, sia orientando l’economia verso uno sviluppo dal volto più umano.
Guardando avanti è oramai chiaro che, se si vuole mettere l’impresa sociale e la cooperazione in condizione di agire in modo significativo rispetto ai fenomeni, indicati in precedenza, che stanno attraversando il mercato del lavoro, sono necessarie alcune attenzioni e molti cambiamenti: sia dentro il terzo settore imprenditoriale e la cooperazione, sia da parte delle Pubbliche Amministrazioni e degli altri attori del sistema, in primis la filantropia.
Al mondo delle imprese sociali e della cooperazione è richiesta una attenzione diversa e maggiore alla partecipazione di chi in esse lavora; significa, per esempio e per dirla in modo banale, applicare meno le logiche e le regole del lavoro dipendente e dare più spazio alla partecipazione nella gestione dell’impresa, più attenzione alla democrazia interna, puntare a far crescere un management più attento ai lavoratori e ai loro bisogni, inclusi i loro sogni.
Al mondo delle Pubbliche Amministrazioni si deve chiedere un salto culturale indispensabile perché le esperienze di autoimprenditorialità sociale abbiano ossigeno per vivere la loro diversità rispetto allo schema capitalistico. L’art. 2 della Riforma del Terzo settore delinea istituzioni con “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”, alleate delle Pubbliche Amministrazioni nel perseguire l’interesse pubblico e obiettivi di benessere. Per questo ha senso una revisione radicale delle forme di rapporto tra terzo settore e Pubblica Amministrazione secondo i principi della co-programmazione e della coprogettazione introdotti dal Codice del Terzo Settore; si tratta di forme peraltro già sperimentate in passato, ma poi abbandonate in nome dell’assolutizzazione della concorrenza come unico strumento per garantire l’interesse pubblico, che ha portato di fatto alla diffusione di affidamenti aggiudicati secondo la logica non dell’offerta economicamente più vantaggiosa – quindi contemperando aspetti economici e di qualità – ma del prezzo più basso. Quello che le nostre Amministrazioni Pubbliche devono capire e interiorizzare è, in primo luogo, che, soprattutto dopo la Riforma del Terzo settore, il concetto di “azione di interesse generale” non va riferito solo delle istituzioni pubbliche, ma anche a quella delle organizzazioni della società civile. È ragionevole pensare che Enti di Terzo Settore impegnati in una coinvolgente costruzione comune di politiche e di interventi di interesse generale siano più in grado di offrire spazi di lavoro creativi e appaganti rispetto ad organizzazioni che devono ripetutamente sottoporsi a faticose ristrutturazioni e razionalizzazioni con l’obiettivo di rimanere in mercati caratterizzati da ribassi insostenibili e che spesso, di conseguenza, offrono ai lavoratori trattamenti economici inadeguati.
Al mondo della filantropia – che nel nostro Paese ha potenzialità enormi oggi non sfruttate quasi per niente – si chiede di abbandonare una logica assistenziale che lo caratterizza ancora troppo e, piuttosto che continuare nella logica di bandi, commissioni di valutazione e proceduralizzazioni varie, di avere il coraggio di scegliere iniziative sociali potenzialmente feconde e rischiare insieme al terzo settore imprenditoriale aiutandolo sia a dotarsi delle risorse necessarie che a fare scelte intelligenti. Anche in questo caso, lavorare in partenariati che costruiscono prospettive di cambiamento sociale di medio periodo è molto più stimolante che strutturarsi come destinatari dell’attività di progettifici che rincorrono risorse perdendo il senso complessivo del proprio lavoro.
Queste sfide evocano cambiamenti senz’altro impegnativi per tutti i soggetti coinvolti. Si tratta, in altre parole, da parte del terzo settore di riscoprire e sviluppare la propria vocazione alla valorizzazione delle persone che vi operano e da parte degli stakeholder di mettere il terzo settore in condizione di operare in forme non mortificanti come quelle odierne. È infatti ragionevole pensare che una parte non trascurabile della disaffezione nei confronti del lavoro si generi entro organizzazioni sottoposte a forme di relazione con gli stakeholder stressanti, poco rispettose dell’interlocutore, tese all’estrazione di vantaggi economici di breve periodo. Ma al tempo stesso questi cambiamenti sono realistici e sperimentati in misura crescente dalle imprese sociali e dai loro interlocutori. È questa la direzione da intraprendere. Non si tratta di prendersela con i giovani, considerandoli immaturi e incapaci di reggere il lavoro, né bisogna ricercare cause semplicisticamente nel reddito di cittadinanza: l’impegno è invece quello di costruire condizioni di lavoro capaci di offrire al tempo stesso un reddito adeguato ed una risposta alle esigenze di senso e alla volontà di profondere il proprio impegno per costruire un futuro in cui riconoscersi.
DOI: 10.7425/IS.2022.03.06
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