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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2022

Saggi

Teoria e strumenti per un’amministrazione condivisa efficiente, innovativa e generativa

Leonardo Becchetti, Emanuele Bobbio, Luca Raffaele, Lorenzo Semplici

Il local multistakeholder network building process e il Patto di Rete® e Patto di Comunità® di NeXt Economia

Abstract

I percorsi di amministrazione condivisa (co-programmazione, co-progettazione e co-gestione) sono l’applicazione del modello cooperativo per la definizione e l’implementazione delle politiche di intervento sui temi di interesse generale di un territorio tra i diversi attori locali (pubblici, privati e di terzo settore). Tali percorsi sono in grado di apportare importanti vantaggi in termini di empowerment e fiducia delle e tra le realtà territoriali, riduzione delle asimmetrie informative e conseguente allocazione efficace ed efficiente delle risorse multidimensionali locali, visione politico-strategica condivisa e di lungo periodo. Questo è vero soprattutto se confrontati con le carenze dimostrate dai modelli competitivo-concorrenziali, troppo spesso incapaci di rispondere in modo innovativo e generativo alle reali esigenze della comunità. Tuttavia, per giungere a tali risultati è necessario tenere in considerazione tre aree di rischio proprie di ogni percorso di amministrazione condivisa: 1) la costruzione della partnership, intesa come fattori di rischio legati all’engagement dei partecipanti, alle loro motivazioni e alla definizione del perimetro d’intervento; 2) la gestione della partnership, che riguarda i fattori connessi con le condizioni di fiducia, con il fenomeno della partnership overload e con la capacità di concretezza della partnership stessa; 3) l’evoluzione della partnership, che concerne la scalabilità successiva del processo. Risulta quindi indispensabile utilizzare strumenti funzionali a un percorso di amministrazione condivisa effettivamente generativo perché capace di gestire i fattori di rischio presenti in ciascuna area. In questo articolo si propone, come esempio concreto che muove in tale direzione, il modello del Patto di Rete® e Patto di Comunità® ingegnerizzato da NeXt - Nuova Economia Per Tutti APS ETS alla luce della sua decennale esperienza teorica e pratica nell’elaborazione culturale sui temi del local multistakeholder network building.

DOI: 10.7425/IS.2022.03.09

Introduzione

Cambiare il paradigma economico verso un modello più sostenibile e più responsabile nei confronti della società, che rimetta al centro la persona in una lettura multidimensionale, passa dalla necessità di cambiare i principi su cui vertono le relazioni tra Stato, mercato e comunità e i loro corrispettivi soggetti microeconomici sul territorio. Questo comporta, però, non solo ripensare come i modelli di business si debbano strutturare alla luce degli altri due soggetti e quale debba essere il grado di intervento del pubblico nell’economia, ma anche capire in quale modo la comunità debba essere coinvolta nei processi decisionali e gestionali, in particolare quelli che riguardano i temi di interesse generale.

Prima di andare ad analizzare la modalità e le forme che tale programmazione e progettazione deve assumere è bene definire cosa si intende con temi di interesse generale, così da poi poter meglio comprendere per quali motivi è necessario intraprendere determinati percorsi di coinvolgimento.

La Commissione Europea nel 2011 attraverso il “Quality Framework for Services of General Interest in Europe” ha definito i temi di interesse generale come quell’ambito dove lo Stato è obbligato a intervenire, direttamente o indirettamente. Di questi fornisce una categorizzazione divisa in servizi di interesse economico generale, servizi non economici e servizi sociali di interesse generale. I primi sono i servizi di base forniti dietro pagamento, come i servizi postali, che devono essere gestiti secondo le norme di concorrenza e mercato interno europeo, con possibili deroghe. I servizi non economici sono rappresentati dal mantenimento dell’ordine pubblico, dal sistema giudiziario e dal regime previdenziale previsti dalla legge, che, al contrario dei primi, non possono essere soggetti alla normativa di concorrenza e mercato. Infine, i servizi sociali di interesse generale, basandosi sui principi di solidarietà e accesso paritario, riguardano tutti i servizi volti a rispondere alle esigenze dei cittadini vulnerabili, come ad esempio i sistemi pensionistici, i servizi per l’occupazione e l’edilizia sociale. Per quest’ultima tipologia, la normativa europea specifica che possono essere sia di natura economica, e quindi soggetti ai principi di concorrenza, sia di natura non economica, e quindi non soggetti a tali principi.

L’idea che taluni settori di attività debbano avere un inquadramento specifico per la loro valenza di interesse generale è ben presente anche nel nostro ordinamento dove, a partire dal d.lgs. 460/1997 sino poi alle normative attuative della Riforma del Terzo settore, viene considerato qualificante l’operare in taluni settori che, pur nella loro eterogeneità, sono accomunati appunto dall’essere decisivi per determinare la qualità della vita dei cittadini e della comunità e non demandabili pertanto unicamente alla dimensione del mercato.

Accanto all’impostazione normativa data dal legislatore comunitario e da quello nazionale, è necessario svolgere una lettura teorica che permetta di comprendere il quadro più ampio all’interno del quale il concetto legato ai temi di interesse generale si è evoluto. Per molto tempo questo ambito è stato letto attraverso una connessione diretta o indiretta al concetto di bene comune, nelle sue forme tangibili o intangibili, con sfumature diverse rispetto ai vari filoni di letteratura. Un approccio che ha portato all’inclusione di nuovi settori nel campo, ma che è risultato inevitabilmente parziale, in quanto obbliga comunque a tracciare dei confini intorno ai temi di interesse generale, elemento incompatibile con una lettura multidimensionale del benessere e della vita sociale. In questa direzione si muove il contributo di David Harvey (2012), il quale afferma che il concetto di bene comune, e quindi – per la precedente connessione – quello di interesse generale, non debba essere limitato ad un particolare elemento, sia esso tangibile o intangibile, ma debba essere allargato a qualsiasi relazione sociale che un individuo e un gruppo ha con il contesto territoriale e sociale che abita, che risulti cruciale per la sua vita o per il suo benessere. Dunque, Harvey propone il bene comune come una pratica relazionale, la quale essendo collettiva e difficilmente identificabile e limitabile non può essere in alcun modo considerata una merce, con la conseguente impossibilità di applicarvi le logiche di mercato, pena l’inevitabile inefficacia delle stesse su di essa. Considerazioni queste che non sono esclusive dell’autore, e che emergono anche dalla letteratura sul bene comune, visto come frutto di azioni collettive, che quindi non possono che passare per un interesse di tipo generale degli attori del territorio (Zamagni, Venturi, 2017).

Alla luce di tali considerazioni è possibile definire i temi di interesse generale come tutti quegli ambiti della vita – relazionale e materiale – della comunità e del singolo che risultino essere critici per la sua stessa esistenza e benessere, considerato sempre in un’ottica multidimensionale.

L’allargamento di tale concetto è fondamentale per capire come la modalità di gestione di questi aspetti non possa che essere oggetto di un percorso partecipato e inclusivo. Il rischio di svolgere programmazioni e progettazioni rispetto a temi di interesse generale che non tengano in debita considerazione queste caratteristiche, ha come conseguenza la perdita del capitale sociale del territorio con la successiva inadeguatezza dei servizi sviluppati e lo spreco dell’intelligenza collettiva locale.

Obiettivo del presente articolo è quello di illustrare come i percorsi di amministrazione condivisa (co-programmazione, co-progettazione e co-gestione) siano un’applicazione del modello cooperativo funzionale a una definizione e ad una implementazione partecipata e inclusiva delle politiche di intervento sui temi di interesse generale di un territorio, capace di coinvolgere con gli strumenti di processo adeguati tutti i diversi attori locali (pubblici, privati e di terzo settore). Per conseguire tale scopo il lavoro è articolato in cinque sezioni, incluse introduzione e conclusioni. Nella seconda, dopo aver confutato l’adeguatezza del modello competitivo in favore di quello cooperativo per l’elaborazione di politiche e azioni volte al conseguimento dell’interesse generale, vengono delineate le peculiarità dell’amministrazione condivisa e i suoi vantaggi. Nella terza sezione si analizzano le aree e i fattori di rischio che devono essere presi in considerazione per costruire un percorso di accompagnamento capace di realizzare un’amministrazione condivisa efficiente, innovativa e generativa. Nella quarta sezione si presenta lo strumento del Patto di Rete® e Patto di Comunità®, ingegnerizzato da NeXt - Nuova Economia Per Tutti APS ETS alla luce della sua decennale esperienza teorica e pratica nell’elaborazione culturale sui temi del local multistakeholder network building. Tale strumento rappresenta un modello operativo a supporto dei processi di amministrazione condivisa, funzionale anche alla gestione dei rischi di cui alla sezione precedente, e capace di attenuare i costi di gestione (in termini di tempo e risorse) e parallelamente di amplificare i vantaggi dell’amministrazione condivisa.

Dal modello competitivo al modello cooperativo: gli strumenti dell’amministrazione condivisa

Le recenti crisi finanziarie, economiche, sociali, sanitarie e ambientali hanno posto importanti quesiti sul modello di relazione tra gli attori pubblici, privati e di terzo settore, che sul territorio concorrono, a vario titolo e con diverse funzioni e competenze, alla definizione delle strategie e all’attuazione delle azioni sulle questioni connesse ai temi di interesse generale. Per molti decenni il paradigma competitivo – gerarchico, verticale, improntato alla delega come sostituzione e non come valorizzazione delle competenze e ad accordi bilaterali – ha avuto un ruolo predominante nella costruzione del modello di gestione dell’interesse generale e di definizione dei rapporti fra pubblico e privato (anche sociale). Tuttavia, negli ultimi decenni un nuovo paradigma cooperativo – orizzontale, partecipativo e ricco di capitale sociale bonding, linking e bridging (Putnam, 2000) – sembra emergere con forza.

Sulla base di questa premessa, nella presente sezione, dopo aver brevemente definito qual è la visione dell’approccio competitivo e descritto qual è stata la sua parabola, si analizzano le caratteristiche dell’approccio cooperativo e i vantaggi della sua applicazione nell’amministrazione condivisa. Quest’ultima pratica viene inquadrata anche da un punto di vista della sua evoluzione normativa all’interno dell’ordinamento italiano.

Un’impostazione meramente competitiva dei rapporti tra pubblico e privato per rispondere agli interessi di carattere generale risulta essere coerente con la teoria del New Public Management (Dunleavy, Hood, 1994) e rende l’attore statale locale neutro ed evanescente, godendo però di un ruolo gerarchico superiore agli altri soggetti del territorio (Osborne, Gaebler, 1995). In particolare, ad esso vengono affidati due compiti fondamentali: la definizione dei bisogni di interesse generale e la regolamentazione della competizione per assegnare la delega di chi dovrà portarli a termine (Peters, 2005). Da una parte, l’amministrazione è infatti chiamata a delineare in un rapporto gerarchico verticale i bisogni locali, senza mai costruire e sperimentare quotidianamente una relazione profonda con il territorio, pena la creazione di un conflitto di interesse. Dall’altra, è preposto a garantire eque regole del gioco tra i diversi attori che vogliono ricevere l’incarico retribuito per portare a termine tali attività. Questi ultimi hanno il diritto di essere inseriti in una “giusta” gara per capire chi può al meglio soddisfare le necessità individuate ex ante e top down dall’amministrazione, ma senza alcuna possibilità di meglio definire gli obiettivi da perseguire e con un limitato margine di manovra sulle modalità operative di conseguimento degli stessi.

In altri termini e da un punto di vista operativo, tale modello vede il pubblico definire una commessa per il tramite di una procedura di gara, attraverso la quale egli delega l’adempimento del perseguimento dell’interesse generale – definito in apposite direttive contenute nella commessa di cui sopra – alla quale i singoli soggetti privati (ETS o imprese) partecipano rispondendo con la presentazione di offerte competitive finalizzate all’aggiudicazione esclusiva della gara.

Tale impostazione va analizzata, nei suoi diversi step, da un punto di vista relazionale. Come si può notare dalla Figura 1, il modello competitivo nella fase di emersione del bisogno (Fase 1) è privo di qualsiasi tipologia di relazione, tanto tra soggetti simili, quanto tra soggetti di natura diversa. Nella seconda fase, quella di programmazione delle attività, si ripropone uno schema similare. L’amministrazione pubblica infatti può emettere una commessa, la quale però non genera alcun tipo di relazione, dato che il singolo attore privato, impresa o ETS, può solo recepirla e non intervenire in alcun modo su di essa, dato il vincolo gerarchico presente. Nella terza fase, quella della progettazione delle attività, l’analisi relazionale fa emergere un rapporto unidirezionale tra gli enti singoli e il comune che prevede l’esclusiva creazione di offerte, in competizione tra di loro, che saranno giudicate secondo gli schemi già presenti all’interno della commessa da parte dell’attore pubblico. In questa fase si concretizza l’effetto escludente che tale modello presenta verso alcuni degli attori del territorio, che possono non essere in condizione di presentare un’offerta. Da questa dinamica consegue una rilevante perdita di biodiversità sociale in termini di capitale informativo, umano, culturale e di risorse multidimensionali. Nella quarta e ultima fase questo dato si acuisce: l’attore pubblico conferisce l’incarico al soggetto privato che ha presentato l’offerta più conveniente, il quale sarà chiamato a supplire al ruolo del Comune nell’azione che lo stesso ha programmato e poi appaltato.

Dunque, per quanto detto e come già sostenuto da Polanyi nel 1944, il modello competitivo non mette a sistema le capacità e conoscenze intrinseche del territorio, in quanto non permette loro di svilupparsi anche in una logica di reciprocità e mutuo vantaggio. L’elemento motivazionale è debole, dato che il parametro principale per la partecipazione e la selezione è sovente solo quello di natura economica, che in una logica di costi-benefici, all’interno di una dinamica di offerte al ribasso in cui le risorse umane sono strumentali a quelle economiche (Bunger et al., 2014), non produce azioni e risultati efficaci ed efficienti per il territorio nel complesso, ma solo risultati di compromesso (livelli di prestazione essenziali e non necessariamente ottimali), che non mirano alla massima soddisfazione, ma alla minore insoddisfazione di tutti i soggetti (Pisani, Salvatori, 2021). L’unico vantaggio del modello sono i bassi costi di coordinamento, dato che sono pochissime le relazioni costruite. Tuttavia, a questo elemento si affianca un rischio profondo legato all’effettiva capacità di definizione tecnica corretta degli elementi necessari per rendere la commessa e, conseguentemente la fase di attuazione, effettivamente funzionali alla risoluzione del bisogno di partenza. Difatti, l’assenza di dinamiche relazionali di reciprocità non facilita l’eventuale e necessario aggiustamento in corso d’opera della ri-programmazione e ri-progettazione delle azioni.

Figura 1. Il Modello Competitivo. Fonte: Elaborazione propria.

La de-socializzazione dell’economia ha spinto l’affermazione e la diffusione del modello competitivo e delle sue dinamiche appena descritte (Touraine, 2007), portando non solo a una deriva utilitaristica e meramente strumentale delle relazioni fra pubblico e privato, ma anche all’applicazione spesso indiscriminata degli strumenti delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni anche nei settori di interesse generale (Salvatori, 2020). Questo processo ha anestetizzato la fioritura del capitale sociale fra pubblico e privato, impoverendo i percorsi di ascolto del territorio, limitando o annullando la partecipazione dei diversi soggetti al bene comune e conducendo, nei fatti, a una standardizzazione di programmazione, progettazione, gestione e azione viziata sia in termini di vicinanza e adesione alle dinamiche territoriali, sia in termini di condivisione data all’assenza di un percorso bottom-up.

Le crepe appena evidenziate del modello competitivo hanno consentito l’inevitabile emersione di un altro modello relazionale, legato al paradigma della cooperazione. Tale modello, come descritto da Ansell e Gash (2008), garantisce una larga e diffusa generazione di capitale sociale – bridging, linking e bonding – come emerge graficamente dalla Figura 2.

A partire dalla fase di emersione dei bisogni del territorio si mette in moto il percorso di fioritura relazionale multilaterale tra realtà pubbliche e private, anche se in questo primo step i rapporti inter-organizzazione risultano essere ancora fragili e accompagnati da un perimetro della comunità in via di definizione. Nelle fasi successive di programmazione, progettazione e attuazione, queste dinamiche embrionali si rafforzano andando a definire progressivamente legami forti e una comunità riconosciuta e riconoscibile, coesa e operativa da un punto di vista tanto di elaborazione programmatica e progettuale, quanto di capacità di agire il cambiamento. In questo senso si può parlare di co-emersione, co-programmazione, co-progettazione, co-gestione e co-attuazione. Difatti, in tutte le fasi il prodotto dell’elaborazione perde il carattere personalistico (mono-stakeholder) e unidirezionale (top-down), tipico invece del modello competitivo – nel quale, vale la pena ricordare, la programmazione è il risultato esclusivo del pensiero dell’amministrazione pubblica, così come la struttura generale della progettazione, mentre invece l’attuazione della progettazione è di proprietà/responsabilità esclusiva e del soggetto privato (ETS o impresa). 

Figura 2. Il Modello Cooperativo. Fonte: Elaborazione propria.

Tale modello mette a sistema le capacità e conoscenze intrinseche del territorio, in quanto tutti sono chiamati a partecipare e sono stimolati da relazioni con soggetti diversi. L’elemento motivazionale è alto in quanto da un lato la componente meramente economica, seppur di entità probabilmente inferiore, risulta legata a un maggior livello di certezza – non ci sono gare – e, dall’altro, le relazioni costruite faciliteranno sia lo sviluppo di percorsi futuri condivisi, sia logiche di mutuo vantaggio all’interno delle dinamiche economiche e sociali quotidiane – a prescindere da ulteriori percorsi condivisi. L’unico limite del modello sono gli alti costi di attivazione e coordinamento, dato che sono moltissime le relazioni. Tuttavia, queste ultime permettono di ridurre il rischio derivante da un livello non adeguato delle competenze tecniche di programmazione e progettazione dell’amministrazione, non solo ex post, ma anche ex ante e in itinere, facilitando l’eventuale e necessario aggiustamento in corso d’opera della ri-programmazione e ri-progettazione delle azioni.

Ampio è il filone di letteratura che si è sviluppato per analizzare i vantaggi del modello cooperativo anche alla luce delle numerose sperimentazioni. In particolare, Gilman e Schmitt (2022) arrivano a identificare tre grandi vantaggi derivanti dalle relazioni tra pubblico e privato proprie di tale modello, volte alla definizione delle strategie e al successivo impianto operativo.

Il primo vantaggio è rappresentato dalla capacità di empowerment che queste pratiche hanno rispetto alle organizzazioni del territorio, che non si percepiscono più su di un livello inferiore rispetto all’amministrazione, come nel caso dei contratti e appalti pubblici o delle assegnazioni di servizio, ma alla pari, co-definendo la direzione degli interventi. Questo comporta, non solo un vantaggio in termini di risultato finale, ma anche in termini di creazione di fiducia all’interno del territorio con conseguente maggiore scambio di conoscenze e spunti tra le organizzazioni coinvolte (Moore, Westly 2011; Del Giudice, Maggioni, 2014). Inoltre, Moore e Westerly (2011) hanno sottolineato come, grazie a tale impianto, sia possibile sommare anche i flussi informativi, garantendo una maggiore conoscenza dei bisogni sul territorio e una più efficace e utile risposta, ipotizzando anche un ruolo proattivo dei beneficiari all’interno del percorso di co-programmazione e co-progettazione (Neumeier, 2012; Del Giudice, Della Peruta, 2013; Mulgan, 2013), per il tramite del trasferimento diretto di conoscenze specifiche riguardo i loro bisogni ed esperienze (Ogawa, Piller, 2006; Martins, de Souza Bermejo, 2015).

Il secondo vantaggio che emerge è la maggiore capacità e precisione di allocare risorse, anche alla luce di una riduzione dell’asimmetria informativa tra attore statale e attore privato. Il fatto che l’istituzione pubblica abbia bisogno di aiuto e di supporto esterno, soprattutto alla luce delle limitazioni di spesa e delle rapide trasformazioni socioeconomiche è un elemento evidenziato da molti autori (Murray et al., 2010; Guerini, 2021). In questa direzione, la pratica collaborativa permette nella sua fase più operativa di definire una migliore allocazione delle risorse finanziarie, sia in termini di direzione, che di dimensione e di logistica, garantendo una migliore efficienza. È infatti dimostrato come pratiche di amministrazione condivisa, grazie alla fiducia creata e alla presenza forte della componente locale, abbiano minori costi di attivazione e di adattamento (Gilman, Schmitt, 2022).

Il terzo e ultimo vantaggio evidenziato è legato alla natura stessa della relazione che viene generata. Secondo gli autori viene promossa una visione di lungo termine, al contrario delle pratiche competitive che prediligono logiche di breve periodo, e si favorisce la creazione di un supporto locale sul tema, che può portare ad un intervento anche su un bisogno di interesse generale differente. Come sottolineano Carayannis e Rakhmatullin (2014), le pratiche di amministrazione condivisa favoriscono la complementarità degli attori compresi nel procedimento, i quali possono creare in determinate circostanze anche un movimento e addirittura un soggetto nuovo. Questi processi sono alla base di un nuovo approccio non più di matrice competitiva (Waasdorp, de Ruijter, 2011).

Alla luce di tali vantaggi è possibile comprendere la rapida evoluzione della normativa legata agli strumenti dell’amministrazione condivisa che si è verificata anche in Italia negli ultimi anni, a partire dalla promulgazione del Codice del Terzo Settore (d.lgs. 117 del 3 luglio 2017). In particolare, i suoi articoli 55, 56 e 57 regolamentano gli strumenti propri dell’amministrazione condivisa, rispettivamente dati dalla co-programmazione, dalla co-progettazione e dall’accreditamento. Il primo è finalizzato all’individuazione: 1) dei bisogni da soddisfare, 2) degli interventi a tal fine necessari, 3) delle modalità di realizzazione degli stessi e 4) delle risorse disponibili. Il secondo, la co-progettazione, è dedicato alla definizione delle eventuali pratiche di realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti in fase di co-programmazione. L’ultimo strumento, l’accreditamento, rappresenta una forma peculiare di “individuazione degli enti di Terzo Settore con cui attivare il partenariato” e con cui poi co-gestire la fase operativa e attuativa.

Questa innovazione nei rapporti fra pubblico e privato e nel conseguente modello di intervento nei confronti dei temi di interesse generale, trova i suoi fondamenti all’interno del comma 4 dell’art. 118 della Costituzione italiana, entrato in vigore a seguito della riforma del 2001. Questo passaggio costituzionale prevede l’inserimento del principio della sussidiarietà orizzontale all’interno del nostro ordinamento, sottolineando l’importanza dell’autonoma iniziativa che i cittadini, singoli o associati, svolgono nelle attività di interesse generale e indicando come sia responsabilità dello Stato, delle regioni, delle province, delle città metropolitane e dei Comuni favorire tale iniziativa.

Tuttavia, all’interno del nostro ordinamento, proprio a partire dal 2017, vi è stato un acceso dibattito tra il modello cooperativo e quello competitivo. In favore di quest’ultimo si è appellato il Parere del Consiglio di Stato n. 2052 del 20 maggio 2018, dopo la richiesta avanzata dall’Agenzia Nazionale Anti Corruzione (ANAC), riguardo al rapporto tra gli articoli 55, 56 e 57 del titolo VII del d.lgs. 117/2017 e il Codice dei Contratti Pubblici. In ogni caso, a queste posizioni a favore della visione concorrenziale, ha risposto in modo definitivo la sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020, la quale ha sancito la validità dell’art 55 in quanto espressione del principio di sussidiarietà orizzontale dell’art. 118 della Costituzione. Tale sentenza ha consentito di apportare la necessaria modifica del Codice dei contratti, con la legge 120 dell’11 settembre 2020, grazie alla quale è stato riconosciuto il ruolo del Codice del Terzo Settore. Infine, con la recente approvazione del D.M. n. 71 del 31 marzo 2021 sulle sue Linee Guida, si affrontano compiutamente gli aspetti applicativi relativi ai precedentemente citati articoli del Codice del Terzo Settore. Dato questo sviluppo della normativa, che ha modificato profondamente l’ordinamento, anche la giustizia amministrativa, con il parere 802/2022 del Consiglio di Stato, ha riconosciuto la piena legittimità delle pratiche di amministrazione condivisa.

Alla normativa di livello nazionale devono essere affiancati anche gli interventi normativi locali, quali, ad esempio, la legge n. 65 del 2020 della Regione Toscana, che ha definito gli strumenti di amministrazione condivisa come ordinari in tutti gli ambiti di interesse generale, prevedendo infatti, attraverso l’art. 9, che l’ente pubblico giustifichi il motivo per cui non può, in un determinato frangente e dimensione, attivarla.

Un simile fermento culturale, normativo ed esperienziale rende ancor più necessario l’analisi e la comprensione dei fattori di rischio da governare, affinché gli strumenti dell’amministrazione condivisa possano rendere la stessa efficiente, innovativa e generativa, impedendo ai suoi detrattori, fautori del modello competitivo, un ritorno al passato che i nostri territori non possono permettersi. La prossima sezione è interamente dedicata a questo aspetto.

Le aree e i fattori di rischio

La co-programmazione e la co-progettazione dimostrano un marcato vantaggio rispetto al modello competitivo degli appalti, ma non è sufficiente la loro adozione al fine di raggiungere i risultati auspicati.

Tali strumenti di amministrazione condivisa devono essere accompagnati da un procedimento corretto e attento, capace di tenere in considerazioni possibili elementi di rischio che possono, direttamente o indirettamente, influenzare la qualità finale.

In questo paragrafo si prenderanno in considerazione aspetti legati a fasi differenti dello sviluppo di queste forme di partnership multilaterali, per poi mostrare, nel successivo, come il Patto di Rete® e Patto di Comunità® di NeXt Economia intervenga su di essi. È necessario, infatti, passare dal campo giuridico e teorico a quello pratico e operativo, affinché tali innovazioni procedurali possano diventare pratiche di governo e sviluppo di un territorio. Interventi non correttamente diretti potrebbero infatti condurre a mete opposte, quali la certificazione di uno status quo non funzionale, una maggiore opacità del procedimento, una maggiore esclusione degli attori del territorio con una conseguente perdita di capitale multidimensionale locale (Fazzi, 1996; Boydell et al., 2008).

I fattori da tenere in considerazione sono inquadrabili in tre macroaree di rischio: 1) i rischi legati alla costruzione della partnership, 2) i rischi legati alla gestione della partnership e 3) i rischi legati all’evoluzione della partnership. Di seguito (Tabella 1) una tabella di sintesi per inquadrare tali aree, i loro principali fattori di rischio, con i rispettivi elementi da tenere in considerazioni e, infine, la letteratura di riferimento sugli stessi.

I rischi legati alla costruzione della partnership

All’interno dell’area di rischio legata alla costruzione della partnership vi sono tre particolari fattori di rischio da considerare: la scelta dei partecipanti, la motivazione degli stessi e la delimitazione e declinazione del campo preso in analisi.

Decidere chi deve essere incluso all’interno di tali percorsi deliberativi e altamente partecipativi, con attori di natura differente, è un tema centrale. Un lungo filone di letteratura (Franklin, 2001) ha proposto visioni differenti rispetto a questo tema: dalle visioni pluraliste (Stake, 1983), attente a mantenere alto il grado di democraticità e legittimazione del processo, a quelle più elitiste (Boschken, 1994) e contingenti (Whole, 2004), volte a cercare di massimizzare l’efficienza del processo anche correndo il rischio di sacrificare la rappresentatività sul territorio.

Gli elementi da tenere in conto per la gestione di tale fattore di rischio sono tre: i criteri di selezione, il livello di rappresentatività e il ruolo del moderatore.

Tabella 1. Le aree e i fattori di rischio legati agli strumenti della co-programmazione e co-progettazione. Fonte: Elaborazione propria.

I criteri di selezione sono un tema centrale. Infatti, se la scelta ricade su caratteristiche riguardanti la conoscenza specifica del tema, è possibile che il processo perda parte del suo grado di innovazione, correndo il rischio di ripetere schemi già in precedenza attivati. Viceversa, un approccio più inclusivo potrebbe portare a un tavolo eccessivamente numeroso con l’impossibilità del dialogo, che rischia di essere minato anche dall’assenza di un framework comunicativo condiviso.

L’eguale rappresentanza tra soggetti dotati di quantità di risorse, capacità e status differenti è il secondo tema legato all’accesso al tavolo. È importante infatti (Fazzi, 2021) garantire che uno sbilanciamento di potere non comprometta un positivo risultato finale e dunque è necessario adottare contromisure affinché coloro che sono dotati di un minor quantitativo di potere, possano comunque esprimersi e influenzare il processo.

Il terzo elemento capace di incidere su questo fattore di rischio è il ruolo del moderatore, il quale è in grado di garantire un corretto ed efficace svolgimento potendo anche incidere sul precedente elemento di rischio. La letteratura in materia suggerisce come la presenza di una parte terza faciliti la creazione di un senso di coesione tra i differenti attori del territorio e la successiva spinta a rapportarsi l’uno con l’altro (Chrislip, Larson, 1994; Ozawa, 1993; Pine et al., 1998; Reilly, 2001; Susskind, Cruikshank, 1987). Lo stile della moderazione dipende profondamente dal contesto e dal livello di coesione precedente della rete. L’attività della parte terza deve svolgersi nel ruolo meno invasivo possibile nei contesti dove è alto il grado di collaborazione, mentre si intensifica dove le organizzazioni non sembrano essere in grado di vedere processi win-win. De Ambrogio (2022) mette però in guardia i potenziali moderatori dalla “Sindrome di Stoccolma” della rete verso la terza parte. La presenza di questa deve infatti facilitare la creazione di capitale sociale tra le parti, ma non deve permettere che esso si costruisca in via esclusiva attraverso la sua mediazione. Tale evenienza potrebbe minare il futuro della relazione, che risulterebbe essere non autonoma e quindi destinata a crollare una volta conclusa l’azione della terza parte.

Alla prima area di rischio afferiscono altri due fattori: la motivazione con cui l’attore si siede al tavolo e la delimitazione del campo di intervento del processo.

Scegliere i partecipanti del percorso non è infatti sufficiente per garantire il risultato ottimale, il grado di commitment al processo risulta essere un fattore determinante per spiegare il successo o il fallimento di tali procedimenti. L’attore locale può partecipare per motivi utilitaristici o per motivi relazionali legati al contesto territoriale. La tipologia della motivazione è importante rispetto alla capacità innovativa. Infatti, se un soggetto è interessato meramente a presidiare il tema o partecipa per un obbligo istituzionale, la sua volontà di attivarsi sarà minore e questo inciderà sul risultato finale. Il livello di adesione è centrale anche considerando la prospettiva secondo cui la singola organizzazione dovrà sottostare successivamente alle policy create dal procedimento, anche se queste dovessero andare in una direzione che l’attore del territorio non supporta pienamente (Ansell, Gash, 2008).

Ultimo fattore di rischio in questa prima area (la costruzione della partnership) è la delimitazione dei temi oggetto del procedimento (Fazzi, 2021) e la loro declinazione. L’ampiezza del campo di lavoro non risulta essere un particolare fattore di rischio sull’efficacia del patto a meno che non vi sia eccessiva eterogeneità, che rappresenta, al contrario, un fattore estremamente destabilizzante. Essa, infatti, comporterebbe la presenza di realtà operanti in campi totalmente differenti di interesse generale. Questo potrebbe minare la relazione in quanto le diverse organizzazioni rischiano di dover essere chiamate a fare una scala di priorità su obiettivi afferenti a campi dell’interesse generale eterogenei e da loro considerati non negoziabili.

A questo si affianca la questione della declinazione del tema, che deve permettere la messa in discussione critica di tutta la struttura delle precedenti programmazioni e progettazioni, così da impattare in maniera innovativa sui bisogni del territorio alla base del percorso.

I rischi legati alla gestione della partnership

Alla seconda area, quella riguardante la gestione della partnership, appartengono invece tre fattori di rischio: il grado di fiducia tra i partecipanti, il rischio di partnership overload e l’assenza di concretezza del processo e dei risultati.

Affinché le pratiche di amministrazione condivisa raggiungano gli obiettivi prefissati è necessario che si generi fiducia tra i partecipanti all’interno del percorso. La letteratura suggerisce come questi processi debbano essere “trust-building oriented”, piuttosto che “consensus finding oriented”. Una maggiore fiducia si traduce in un maggiore disponibilità a trovare convergenza sui propri interessi, rendendo più fluida la comunicazione e più efficace l’azione congiunta. Elementi che riducono il costo materiale, ma anche l’effort in termini di energie e tempo. Elementi che incidono sulla capacità del processo di generare fiducia sono il passato relazionale del contesto e il numero di occasioni di confronto. Un passato di collaborazione e dialogo tra le organizzazioni facilita una più veloce generazione di fiducia, anche alla presenza di posizioni differenti, mentre un pregresso di conflittualità può minare il percorso anche davanti ad interessi quasi convergenti (Andranovich, 1995; Gray, 1989; Margerum, 2002). Allo stesso tempo la costruzione di tali legami richiede un tempo mediamente lungo e una pratica di incontro e confronto ripetitiva nell’azione, così da permettere uno stabilizzarsi del rapporto e una conoscenza profonda (Kreps et al., 1982). Le iniziative volte a creare fiducia potrebbero dover prevedere azioni diverse dal dialogo e dalla negoziazione sui temi del procedimento (Ansell, Gash, 2008), per poi in un momento successivo generare risultati anche su questi fronti.

Il fattore di rischio della partnership overload (Douglas, 2008) si presenta: 1) quando emerge un disequilibrio tra il livello di aspettative dei partecipanti alla rete tale da mettere in discussione la direzione dell’intero processo; 2) quando uno o più partecipanti percepiscono a proprio carico un’eccessiva richiesta in termini di risorse (umane, materiali e relazionali) tale da mettere in discussione la sua volontà di prosecuzione delle attività nella rete. Elementi in grado di diminuire il rischio di partnership overload sono la costruzione di processi capaci di non far sentire i partecipanti “in trappola”, grazie alla presenza di possibili “vie di fuga” dal procedimento. Anche la definizione di momenti dedicati a regolari revisioni degli obiettivi o momenti di pausa possono mitigare tale rischio. Infine, un ulteriore elemento che permette di ridurre l’entità di tale fattore è quello connesso con l’assenza di sistemi sanzionatori amministrativi formali per eventuali comportamenti scorretti o contro la partnership. Tali procedure risultano essere una notevole fonte di stress e di inasprimento del percorso in quanto minano ex ante e spesso senza giusta causa il delicato legame di fiducia tra le parti. Proprio per tale ragione, sono un deterrente indiretto, ma significativamente più efficace, le sanzioni informali connesse agli aspetti relazionali-reputazionali che, a valle di azioni scorrette o di mancanza di protagonismo all’interno del percorso di amministrazione condivisa, comportano un indebolimento non prescritto, ma fisiologico, dei propri rapporti sia con il territorio, sia con gli altri soggetti della partnership con conseguente riduzione di opportunità presenti e future di collaborazione mutuamente vantaggiose.

L’ultimo fattore di rischio all’interno dell’area di gestione della partnership è rappresentato dall’assenza di concretezza rispetto alla direzione e rispetto ai risultati. In particolare, programmazioni e progettazioni di ampio spettro e di lunga durata possono provocare nei partecipanti un senso di spaesamento rispetto a dove il percorso sta andando e quale sarà il reale impatto dello stesso. Nel primo caso, il rischio può essere ridotto grazie alla definizione di progetti/step intermedi, con la misurazione e il monitoraggio dei relativi risultati conseguiti, che permettano una tangibilità e una concretezza di quanto fatto non troppo lontana nel tempo (Chrislip, Larson, 1994; Roussos, Fawcett, 2000; Warner, 2006; Weech-Maldonado, Merrill, 2000). Inoltre, l’inevitabile effetto di questa asimmetria temporale può essere limitato e/o accompagnato con l’adozione di sistemi di valutazione e previsione su dove sarà generato l’impatto finale (sistemi di programmazione e progettazione esplicitamente impact oriented).

I rischi legati all’evoluzione della partnership

L’ultima area di rischio riguarda l’evoluzione della partnership lungo i diversi step dell’amministrazione condivisa e alla fine della stessa, nel caso in cui sia svolta per intero. Il principale fattore di rischio rispetto all’evoluzione della partnership di un’amministrazione condivisa completa nelle parti di co-programmazione e co-progettazione è rappresentato dal senso di frustrazione che si può sviluppare nel caso in cui, dopo un percorso dispendioso e proficuo, tale sforzo rimanga isolato a quella specifica occasione di policy, senza avere ulteriori prospettive per la creazione di un soggetto di rete interamente nuovo (Carayannis, Rakhmatullin, 2014). Per mitigare il rischio che si sviluppi tale sentimento è possibile promuovere pratiche quotidiane, che continuino nel tempo e che mantengano attivo il canale cooperativo.

Questo è possibile attraverso sistemi di co-responsabilizzazione (Marocchi, 2022) in grado di permettere la sopravvivenza di un soggetto di rete presente sul territorio con un conseguente minor costo di attivazione in futuro, quando la comunità dovrà ri-attivarsi per affrontare con il medesimo modello una nuova questione di interesse generale. Il senso di frustrazione è presente anche nel caso in cui alle diverse fasi non seguano le successive con la conseguente interruzione del percorso di amministrazione condivisa. In altri termini, la capacità di costruire una logica di evoluzione, anche formale, diventa un elemento imprescindibile del processo stesso dell’amministrazione condivisa, necessario sia per dare continuità e sistematicità, sia per creare sentimenti di partecipazione e cooperazione orientati alla reciprocità e all’interesse generale.

Come affrontare i rischi del partenariato: cosa insegnano il Patto di Rete® e il Patto di Comunità®

NeXt Economia per provare a risolvere o mitigare i rischi legati allo sviluppo del partenariato ha elaborato un modello di Patto di Rete® e Patto di Comunità®, ispirato alla theory of change, che prevede uno svolgimento che si articola nelle seguenti sei fasi: start-up della rete (emersione del bisogno; costruzione della rete; definizione del bisogno sul quale la rete sarà attivata); definizione degli obiettivi; co-programmazione; co-progettazione; co-attuazione e co-gestione; co-valutazione d’impatto.

Si sottolinea, sin da subito, come il Patto di Rete® e Patto di Comunità® agisca sulle tre aree di rischio con diversi livelli di efficacia e in differenti momenti del suo percorso. In altri termini, la corretta gestione dei rischi non dipende esclusivamente da una scelta, ma dal mix di scelte che vengono compiute più o meno trasversalmente e coerentemente in tutte le fasi del percorso.

Tabella 2. La gestione dei rischi nel Patto di Rete® e Patto di Comunità® di Next Economia. Fonte: Elaborazione propria.

Uno degli elementi strategici che è stato sperimentato in alcune delle esperienze locali che hanno utilizzato il Patto di Rete® e Patto di Comunità® è stato quello di aumentare il grado di adesione alla costruzione della partnership attraverso una doppia premialità: collettiva e soggettiva. Da una parte attraverso l’utilizzo del NeXt Index®, un set di indicatori di sviluppo sostenibile comuni a tutti gli aderenti alla Rete, con i quali è possibile condividere bisogni e obiettivi condivisi e anche strategie di crescita in sostenibilità da parte delle singole organizzazioni. Dall’altra parte con la costruzione di un flusso d’impatto che ha l’obiettivo di mostrare dove le idee di sviluppo genereranno il cambiamento, perché la chiarezza, la concretezza di obiettivi e l’impatto aumentano il livello di motivazione e, quindi, di adesione e partecipazione.

Nel processo di co-programmazione, infatti, è importante attenzionare il fattore di rischio legato a un’eccessiva assenza di concretezza rispetto ai risultati e alla direzione del processo, e una soluzione possibile potrebbe essere proprio quella di impostare fin da subito con i partecipanti al Patto un processo di Comunità che sia impact oriented. Questo permetterà al partecipante di sapere dove il cambiamento generato dalle sue azioni andrà a concretizzarsi, grazie alla connessione che l’intero processo ha con il bisogno comunitario di partenza e con il territorio di riferimento. Inoltre, per aumentare la concretezza del percorso e dei benefici generati, bisogna sempre immaginare di costituire un percorso modulare per step, che prevedono sia nella co-programmazione, quanto nella co-progettazione dei passaggi più dettagliati e degli indicatori quali-quantitativi intermedi. Questa metodologia non ha uno schema perfetto e prestabilito ma delle linee guida che se adottate permettono alla Comunità di correggere l’azione collettiva, dove il contributo coordinato degli attori della rete è fondamentale per moltiplicare i risultati e l’impatto di tutte le organizzazioni. Si rimanda a ulteriori approfondimenti l’analisi dei casi di successo e di fallimento in cui questi strumenti sono stati applicati.

In generale si può dire che la costruzione di fiducia rappresenta il fattore più importante da tenere in considerazione, in quanto è fondamentale anche nella prevenzione di ulteriori criticità. Per questo, a prescindere dagli strumenti utilizzati, è necessario costruire un percorso di natura modulare capace di aumentare il numero di incontri e dialogo tra le parti, così da stimolare la costruzione di capitale sociale step by step, in modo formale e guidato ma anche informale e occasionale, e non vincolando tale scambio al solo tema in oggetto del procedimento, ma anzi stimolando il lavoro anche su altri temi e iniziative di interesse comune.

Numerosi sono i casi in cui, a causa dell’assenza di indicatori di partenza ben definiti e di un percorso di accompagnamento non orientato all’impatto che si vuole generare sul territorio di competenza, la costituzione della rete rischia di rimanere solo sulla carta, o alla fase di co-programmazione non dare seguito a quella di co-progettazione e co-attuazione capaci di durare nel lungo periodo.

Conclusioni e prospettive future

In sintesi, si evidenzia come il Patto di Rete® e Patto di Comunità® di NeXt Economia può rappresentare una delle soluzioni ai fattori di rischio presenti un processo di amministrazione condivisa che, anche se non vengono risolti completamente, possono portare a modelli di collaborazione generativa e di reciprocità, così come definiti da Gilman e Schmitt (2022).

L’empowerment del territorio e dei soggetti coinvolti nella Rete e nella Comunità, può essere raggiunto solo da percorsi inclusivi e decentralizzati, che tendono a connettere e a valorizzare le diversità.

A questo si deve affiancare anche la capacità di garantire una strategica allocazione di risorse finanziarie, che può essere attivato attraverso percorsi di co-emersione dei bisogni locali, ulteriormente rafforzato dalla valutazione impact oriented del cambiamento che si va a generare, oltre che alla misurazione dello scostamento del grado di sostenibilità integrale dei singoli enti (o della Rete) prima e dopo il procedimento. Il processo non è più guidato dalla singola amministrazione pubblica, ma è trainato dal territorio tutto. Questo non si traduce in una semplice sommatoria delle informazioni, delle capacità e delle proposte dei singoli, ma in una loro co-incubazione e co-elaborazione costante, capace di condurre a risultati nei quali il margine di errore nella fase di attuazione risulta minimo, mentre massimo è il livello di condivisione e di aggiustamento in tutte le fasi (dalla programmazione all’esecuzione).

Il terzo vantaggio fondamentale per qualsiasi percorso comunitario è quello di mettere al centro dei processi di una Rete le relazioni che si generano in un dato territorio di riferimento. Questo meccanismo sia nel Patto di Rete® e Patto di Comunità® che in altri strumenti di amministrazione condivisa, permette la valorizzazione e creazione di fiducia e quindi l’aumento del livello di capitale sociale del territorio. Tale processo è favorito dagli step modulari e dall’alto numero di occasioni di incontro, oltre che dai percorsi collaterali volti a sviluppare rapporti mutualistici – come la consulenza amica – e dagli strumenti di co-responsabilità – come il marchio, la sede condivisa e il fondo comune.

Tutti i processi di co-programmazione e co-progettazione strategici e di Comunità presentano non solo vantaggi importanti per le persone e le organizzazioni partecipanti ma anche dei costi di attivazione, coordinamento e gestione maggiori di un modello esclusivamente competitivo. È infatti vero che al crescere del livello di decentralizzazione e del numero di relazioni generate tra le parti, aumenti anche la quantità di risorse, materiali e non, per gestire tali legami affinché essi non degenerino (Jennings, Crane, 1994). Ed è questa in particolare la critica che i promotori del modello del New Public Management, approccio meramente competitivo e gerarchico (Gruening, 2001), muovono agli impianti cooperativi, sottolineando come i costi e i rischi di un percorso di tale natura siano eccessivamente alti e accompagnati da una grande incertezza in quanto esso dipende da numerosi elementi, come visto anche in questo lavoro.

Tuttavia, strumenti come il Patto di Rete® e Patto di Comunità® e altri modelli di co-programmazione partecipata, prendendo in considerazione tali elementi in maniera sistematica e preventiva, risulta avere costi e rischi minori rispetto ad altre applicazioni del modello cooperativo che, al contrario, non tengono sistematicamente in conto i fattori di rischio precedentemente descritti.

A questo è necessario aggiungere come solo un percorso realmente cooperativo, possa conseguire i risultati di maggiore di efficienza, efficacia, innovazione e generatività sul territorio, dato che essi sono il frutto proprio dello sviluppo di capitale sociale locale (Ackerman, 2004; Putnam, 1993). Sono molti i case study nel mondo – Brasile (Ostrom, 1996), Taiwan (Lam, 1996), Scozia (Strokosch, Osborne, 2020), Italia (Putnam, 1994) – che hanno dimostrato come l’elemento partecipativo abbia permesso di raggiungere una risposta più efficace generando un maggiore coordinamento, una più elevata capacità di risposta al bisogno locale, un’avanzata complementarietà tra gli attori locali e, in ultima analisi, anche un minor costo complessivo dato dalla migliore allocazione delle risorse.

Dunque, sembra evidente come il modello competitivo non possa vantare alcun vantaggio relativamente all’impianto cooperativo, nonostante i minori costi di coordinamento, in quanto, non prevedendo lo sviluppo di capitale sociale, non può raggiungere i risultati che invece possono essere garantiti dalle pratiche di amministrazione condivisa. In questa cornice, le risorse necessarie per il corretto funzionamento del modello cooperativo, non possono essere considerate costi evitabili con l’applicazione del modello competitivo, poiché i due approcci non conducono allo stesso livello di efficienza, efficacia, innovazione e generatività delle azioni. In questo il Patto di Rete® e Patto di Comunità® si inserisce come utile supporto capace di ridurre parte della nebbia di incertezza sul risultato finale, mitigando i rischi nelle diverse fasi di sviluppo della partnership e, di conseguenza, limitando i costi di coordinamento.

Alla luce di quanto detto si prospetta un lungo sentiero di ricerca per approfondire tale lavoro in diversi ambiti. Resta infatti ancora da dimostrare attraverso una ricerca empirica e di case study nazionali, se il modello cooperativo, e in particolare il Patto di Rete® e Patto di Comunità®, anche davanti a differenti caratteristiche del contesto socioeconomico italiano possa garantire tale risultato. C’è anche la necessità di dimostrare attraverso una corretta modellistica la dimensione del beneficio dell’impianto proposto in questo articolo rispetto a quello competitivo e quale sia il vantaggio, in termini di mitigazione dei rischi, che il Patto di Rete® e Patto di Comunità® prova ad attenzionare particolarmente. A questo si deve aggiungere un’ulteriore analisi capace di fornire importanti spunti all’applicazione pratica, ma anche alla legittimità dei processi di amministrazione condivisa nel nostro ordinamento. Sarebbe infatti proficuo leggere criticamente, alla luce dei fattori emersi in questo lavoro, gli strumenti di carattere giuridico attualmente offerti, così da valutare quali modifiche potrebbero essere inserite all’interno dell’attuale impianto per aiutare un’automatica presa in carico dei rischi ad essi connessi. Interessante sembra anche essere la prospettiva di studio per un possibile rapporto fra l’impact finance, in particolare con riferimento ai social impact bond (SIB), e i procedimenti di amministrazione condivisa: entrambi rispondono alla logica di efficienza, innovazione, generatività a favore dell’interesse generale. In questo senso, i SIB potrebbero diventare strumento finanziario per favorire la diffusione della co-programmazione e co-progettazione.

In definitiva, un impegno di ricerca tanto verticale, quanto multidisciplinare, in queste direzioni è fondamentale, anche alla luce del fiorire di esperienze di amministrazione condivisa in tutto il territorio nazionale, per rendere questo modello di governance sempre più capace di soddisfare i bisogni territoriali di tutti e di ciascuno, valorizzando al contempo intelligenza collettiva e competenze specifiche.

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