Sin dalla sua entrata in vigore nell’agosto 2017, giuristi e operatori del settore non hanno mai smesso di interrogarsi sull’inquadramento teorico e sul perimetro applicativo del Codice del Terzo Settore, specialmente nei rapporti con la Pubblica Amministrazione e con il Codice dei Contratti Pubblici. Al Codice del Terzo Settore è toccata, almeno inizialmente, una sorte non semplice, dovendo scontare resistenze culturali[1] e affrontare una condizione di minorità e di residualità rispetto al fratello maggiore Codice dei Contratti Pubblici, che non è stato agevole superare.
Va però detto che oggi, dopo innumerevoli convegni, saggi scientifici, interventi su forum, confronti su prassi applicative, pronunce giudiziali, linee guida, il quadro appare sostanzialmente meglio delineato; e che i punti fermi sono più dei dubbi interpretativi, come peraltro dimostrano il ridottissimo contenzioso in materia e le rare occasioni che hanno visto pronunciamenti della giurisprudenza amministrativa[2]. Nondimeno le tappe di una definitiva stabilizzazione degli orientamenti in materia non sono state ancora interamente percorse, tenuto conto del recente parere n. 802/2022 del Consiglio di Stato reso sullo schema di linee guida Anac relative agli appalti di servizi sociali[3], nonché di alcune questioni applicative sorte con il diffondersi di prassi ed esperienze di co-progettazione.
Non sorprende la lentezza del cammino di affermazione e accreditamento del Codice del Terzo Settore; sono molteplici i profili coinvolti dal tema dell’impresa sociale, che spaziano dagli aspetti organizzativi e lavorativi a quelli fiscali, dalla dimensione economica a quella comunitaria. L’impresa sociale rappresenta un fenomeno di crescente rilevanza in ciascuno di tali ambiti, tanto che sta letteralmente riplasmando interi settori dell’economia e sta ridefinendo modelli di relazione e di erogazione, allargando peraltro il suo ambito di intervento anche a settori nuovi e di recente emersione, come la rigenerazione urbana, l’innovazione tecnologica e digitale e la transizione ecologica.
Come ogni fenomeno sociale di analoga portata, esso ha richiesto la messa a punto di articolati meccanismi di regolazione normativa. Uno degli ambiti di maggiore complessità – rectius: l’ambito di maggiore complessità – ha riguardato proprio il rapporto con le Pubbliche Amministrazioni, rapporto che costituisce, in molti casi, un elemento essenziale dell’attività, se non della stessa “sopravvivenza”, di molte realtà sociali[4]. La storia di questa relazione privilegiata risale nel tempo, ma è soprattutto a partire dalla legge n. 381 del 1991[5] e dalla legge 328 del 2008 che si è avviato un percorso che ha generato esiti proficui, ponendo le basi e le premesse per l’approvazione del Codice del Terzo Settore.
Una complessità figlia, soprattutto, prima, di quella che è stata chiamata “l’onda lunga dello statalismo post-risorgimentale”[6] e, poi, di una cultura pro-concorrenziale ed euro-unitaria delle nostre amministrazioni, forgiata in decenni di orientamenti normativi e giurisprudenziali (comunitari e nazionali), che tuttavia mal si concilia con un settore che, per definizione, non vive di competizione ma di cooperazione[7]. Già prima dell’entrata in vigore del Codice del Terzo Settore, erano evidenti i limiti delle logiche di gara rispetto all’affidamento dei servizi sociali e, a maggior ragione, rispetto alla costruzione di un sistema articolato e omnicomprensivo di protezione sociale[8]; ed infatti già allora erano numerosi i percorsi creativi e alternativi per giungere al risultato di individuare partner privati per l’erogazione dei servizi. Ma l’itinerario non è stato affatto lineare, anche perché ci si è dovuti e ci si deve misurare con l’eterogeneità delle realtà che operano nel settore, con la distribuzione asimmetrica delle stesse, e con la difficoltà di ripetere moduli standardizzati di erogazione dei i servizi nei diversi ambiti territoriali.
Il Codice del Terzo Settore, negli artt. 55-56-57, rappresenta, in tal senso, un punto avanzato di tali processi di regolazione normativa, ed offre soluzioni che, se valorizzate correttamente, ben possono consentire la sintesi proficua delle opposte esigenze che si confrontano nell’ambito dei rapporti tra Pubblica Amministrazione e imprese sociali.
Non è questa la sede per ripercorrere le resistenze iniziali e le loro presunte ragioni, perché a tutti note. Una parte rilevante degli equivoci che è stato necessario chiarire deriva da una malintesa e impropria associazione di idee (se non vera e propria confusione) tra terzo settore e concetto di gratuità[9]: ove l’apporto del terzo settore fosse stato all’insegna del volontariato e non avesse implicato l’utilizzo di risorse pubbliche, tranne il puro rimborso delle spese sostenute, si sarebbe potuto derogare alla logica pro-concorrenziale che deve connotare qualunque erogazione che la Pubblica Amministrazione opera a favore di soggetti privati, incaricati dalla stessa di un servizio rivolto alla collettività. In presenza invece del requisito della onerosità, sarebbero tornate a prevalere le regole del Codice dei Contratti Pubblici, poste dal diritto euro-unitario a presidio del mercato, della concorrenza e della legalità delle procedure di scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione. Tutt’oggi la distinzione suscita interrogativi che non hanno ancora avuto risposta univoca[10].
È proprio partendo da queste convinzioni (se non veri e propri pregiudizi) che si apprezza il grande sforzo culturale e “pedagogico” compiuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 131 del 2020[11]. Sotto almeno tre punti di vista.
In primo luogo, nel ridimensionare la presunta pretesa del diritto dell’Unione di disciplinare anche ambiti e attività di spiccata valenza sociale, e nello smorzare così, in relazione a tali ambiti, «la dicotomia conflittuale tra i valori della concorrenza e i valori della solidarietà». Lo aveva invero già chiarito il considerando 114 della Direttiva n. 24/2014/UE[12], ma opportunamente la Corte costituzionale lo ha ribadito come premessa e supporto argomentativo delle conclusioni a cui perviene nella sentenza n. 131. Se l’origine storica dell’Unione Europea, e la sua stessa vocazione, sono principalmente legate al mercato, alla concorrenza e alla libera circolazione di merci, servizi, lavoratori, capitali, e se l’Unione dà vita ad un sistema di governance multilivello che deve essere capace di combinare e coordinare istanze unitarie e specificità territoriali e nazionali, il campo dei servizi sociali, con le sue spiccate valenze comunitarie, appartiene a queste seconde: rappresenta cioè un patrimonio culturale, di prassi, di esigenze specifiche dei singoli Paesi che non è possibile, né proficuo, omologare e uniformare sotto regole unitarie, improntate ad una logica concorrenziale che è, spesso, incompatibile con le spinte solidaristiche e comunitariste che questi settori esprimono. È l’Unione stessa, quindi, che riconosce quello del terzo settore e del privato sociale come un ambito riservato alla discrezionalità regolatoria degli Stati membri.
In secondo luogo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 131, offre un prezioso contributo nel superare definitivamente l’alternativa – ormai un po’ scolastica, a dire il vero – tra pubblico e privato, riconoscendo l’esistenza e la legittimazione di un privato sociale che non è animato da finalità economiche e che non vive di concorrenza e competizione ma di collaborazione e condivisione[13]. Un privato sociale che, sul piano delle finalità, è animato da motivazioni solidaristiche e ideali e che rappresenta, da sempre, una grande ricchezza del nostro tessuto sociale che non solo non può essere ignorata, ma che invece deve essere valorizzata come formazione fondamentale nella quale si esprime la personalità dell’individuo ai sensi dell’art. 2 Cost. Sul piano degli strumenti organizzativi e giuridici, il privato sociale ricorre a forme e modalità molto eterogenee e variegate, come ben dimostra l’elenco aperto contenuto nell’art. 4 del Codice del Terzo Settore, e dialoga con la pubblica amministrazione non come controparte di un rapporto sinallagmatico, ma come soggetto che collabora alla realizzazione di obiettivi di interesse generale: che dà vita, appunto, a quell’amministrazione condivisa[14] che rappresenta, da tempo, un modo d’essere dei pubblici poteri sempre più diffuso e perseguito.
In questo senso e in terzo luogo, è innegabile l’importanza ricoperta dalla sentenza n. 131 del 2020 nel far compiere al nostro ordinamento un vero e proprio salto di qualità nell’affinamento di profili organizzativi più avanzati e adatti ai nostri tempi. La positivizzazione nel 2001 del principio di sussidiarietà orizzontale nella nostra Costituzione non esprimeva tanto (o soltanto) la spinta verso una maggiore esternalizzazione delle attività pubbliche e verso un auspicato ridimensionamento dello spazio occupato dalle istituzioni, quanto piuttosto la consapevolezza della necessità di promuovere un modello di amministrazione che avrebbe dovuto sempre più ispirarsi a canoni di dialogo, di consensualizzazione, di collaborazione, di inclusione[15]. Queste tendenze, peraltro, non riguardano soltanto il terzo settore, ma in generale tutta l’attività amministrativa, come testimoniano le recenti modifiche della legge 241 del 1990, nonché la stessa normativa contenuta nel Codice dei Contratti Pubblici, che valorizza gli strumenti del dialogo competitivo, del partenariato pubblico privato e altre forme di costruzione condivisa della risposta alle esigenze della pubblica amministrazione[16].
Se questo è vero in generale, la sentenza n. 131 del 2020 lo evidenzia in modo specifico con riferimento al terzo settore. Poiché la relativa disciplina rappresenta l’inveramento e l’attuazione di primari valori costituzionali – la solidarietà, la sussidiarietà, la tutela della persona – al Codice del Terzo Settore deve essere assicurato, nel rispetto di condizioni che ne evitino un uso distorto (e, quindi, sul presupposto di un’effettiva condivisione di risorse e di apporti tra pubblico e privato), uno spazio adeguato di applicazione, senza alcuna gerarchizzazione rispetto al Codice dei Contratti Pubblici, con la consapevolezza che i due testi normativi disciplinano fattispecie diverse, entrambe disponibili per la Pubblica amministrazione, ma non sovrapponibili[17].
Il terzo settore diventa così una vera e propria «categoria costituzionale… in quanto dotato di una logica autonoma e di una sistematica sua propria e chiamato a regolare relazioni improntate ad una logica diversa da quella del mercato e da quella dei poteri pubblici»[18]. Tramite esso, le articolazioni della Repubblica diventano il luogo dell’immedesimazione della comunità sociale nella gestione delle funzioni pubbliche[19].
Nella sua laconicità, l’art. 55 ha aperto nuove prospettive collaborative tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo Settore, ma anche “una serie di problemi applicativi”[20]. La norma, infatti, si limita ad un rimando ai principi della legge n. 241 del 1990, senza ulteriori specificazioni; rimando che deve essere riempito di contenuti e di precisazioni, pena il rischio di sbandamenti o di percorsi sconosciuti alle categorie collaudate del diritto amministrativo.
Come spesso succede quando si tratta di passare dall’inquadramento teorico generale – comunque indispensabile, per superare dubbi e incertezze – alla prassi applicativa concreta, si corre sempre il rischio di far diventare le novità non codificate ostacoli insormontabili alla effettiva attuazione delle potenzialità del nuovo strumento. Vero è che la sussidiarietà, intesa come cerniera e valvola di scambio fecondo tra istituzioni e società civile nella realizzazione del sistema dei diritti sociali, si interfaccia pur sempre con pubbliche amministrazioni e con le esigenze di formalizzazione e procedimentalizzazione della loro attività che queste esprimono[21]; e, quindi, con problematiche concrete che la prassi, di volta in volta, propone.
In questo senso, le linee guida del Ministero del Lavoro del marzo 2021 hanno sicuramente offerto un rilevante contributo sotto forma di una sorta di vademecum procedimentale, forse ridondante per alcuni aspetti, ma certo utile per tracciare un percorso per così dire “rassicurante” per le Amministrazioni e per gli stessi operatori del settore[22].
Anche in questo caso non serve riprendere nozioni già note, se non per dire che le linee guida hanno ben marcato la distinzione tra i due Codici[23], pur lasciando non del tutto chiarito un aspetto che ha invece creato qualche incertezza, ovvero l’apporto in termini di co-finanziamento da parte degli Enti del Terzo Settore ai progetti, interventi o programmi sviluppati insieme alla Pubblica Amministrazione. In alcuni regolamenti comunali[24] si stabilisce, sul punto, una percentuale di apporto minimo in termini di risorse da parte dell’Ente del Terzo Settore ai costi del progetto; altri rimangono volutamente più vaghi, fissando importi massimi messi a disposizione da parte dell’Amministrazione per il perseguimento di determinati obiettivi, e rimettendo poi alla co-progettazione e all’apporto degli Enti del Terzo Settore la concreta definizione del contributo in termini di lavoro, risorse finanziarie, disponibilità di beni mobili, volontariato, per la gestione condivisa di determinati obiettivi generali.
Non deve però essere eccessivamente enfatizzata la questione della gratuità o il fatto che l’Ente del Terzo Settore possa aspirare ad avere, da parte dell’Ente pubblico, soltanto una parte di ristoro dei costi e dell’impegno sostenuto. Il focus, secondo le linee guida ministeriali e secondo la prassi che sta prendendo piede in sempre più frequenti avvisi e bandi, deve concentrarsi essenzialmente sul fatto che il programma prima, e il progetto poi, debba nascere dalla elaborazione condivisa tra pubblica amministrazione e privato sociale, e che quest’ultimo debba essere pienamente responsabilizzato nell’elaborazione delle politiche e nella loro attuazione. Le risorse necessarie a finanziare progetti e attività sono, complessivamente, un aspetto secondario, purché, ovviamente, questo non diventi lo strumento improprio per pagare un privato per un servizio che eroga a favore della amministrazione, secondo schemi collaudati nel codice dei contratti pubblici.
Ciò che l’art. 55 vuole valorizzare è il fatto che «gli ETS, in quanto rappresentativi della “società solidale”, del resto, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”»[25]. Gli Enti del Terzo Settore, in questo senso, rappresentano un valore aggiunto, in grado di arricchire la capacità di erogazione di servizi sociali della pubblica amministrazione, non solo perché aggiungono proprie risorse a quelle già stanziate dal settore pubblico, ma perché, soprattutto, sono in grado di calibrare su misura di singole esigenze le modalità di intervento, abbandonando la rigidità di schemi prestabiliti e standardizzati a favore di iniziative sempre più individualizzate.
Se in questo sta l’importanza dei nuovi strumenti cooperativi e di condivisione degli obiettivi, se cioè il loro proprium consiste nella flessibilità e nella deformalizzazione del modo in cui avviene l’incontro e la collaborazione tra pubblico e privato sociale, è indispensabile che le linee guida vengano assunte, dalle amministrazioni, per quello che effettivamente sono: autorevoli raccomandazioni alla trasparenza, al coinvolgimento ampio dei soggetti coinvolti, alla ricerca di professionalità strutturate, possibilmente alla integrazione di apporti diversi, senza meccanismi eccessivamente selettivi[26]. Bene, quindi, il richiamo ai principi del giusto procedimento e ai suoi corollari; qualche perplessità in più, invece, sull’eventuale esportazione pedissequa di categorie – come i requisiti speciali di ammissibilità delle offerte, i termini perentori di presentazione delle domande di partecipazione, le cause di esclusione – che sono state elaborate e hanno un senso nelle procedure competitive ad evidenza pubblica in cui sono in gioco, in primo luogo, legalità e concorrenza.
Se si vuole far funzionare il meccanismo dell’art. 55 e fargli esprimere tutte le potenzialità che racchiude, la chiave essenziale è riconoscere alle amministrazioni un’ampia e responsabilizzata discrezionalità[27], sia nella scelta iniziale del percorso che si vuole seguire, come suggeriscono le stesse linee guida[28], sia nella gestione della procedura nelle sue varie fasi, sia nella rielaborazione degli esiti[29], con l’obiettivo di coinvolgere e mettere a sistema il maggior numero di risorse disponibili e di apporti[30].
Lette in quest’ottica, le linee guida costituiscono una sintesi, riuscita nel suo complesso, tra deformalizzazione propria dei rapporti tra Pubbliche Amministrazioni e Imprese Sociali secondo i canoni del Codice del Terzo Settore, e procedimentalizzazione necessaria dell’attività amministrativa.
Come sempre accade, tuttavia, la prassi crea nuove domande e sollecita risposte più elaborate o la messa in discussione di convinzioni consolidate.
Si è vista, ad esempio, la problematica definizione dei confini del concetto di gratuità; ma altre questioni si pongono, come la possibilità di «coprogettare il welfare consolidato»[31], ovvero la percorribilità, alla fine di una convenzione frutto di una co-progettazione o anche di un contratto frutto di un affidamento, di un nuovo utilizzo degli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione. I servizi alla persona, se nella loro fase genetica offrono spazio per una progettualità innovativa, nel loro consolidarsi tendono a strutturarsi e a ripetersi, assumendo così i caratteri di una prestazione che si standardizza e che attende di essere remunerata, e rischiando di essere nuovamente assorbiti nei canoni delle procedure ad evidenza pubblica. Il tema non è affatto di semplice soluzione, e forse non è stato sufficientemente considerato dallo stesso legislatore e dalle linee guida: perché se si ritiene che la co-progettazione possa essere semplicemente riproposta tal quale, si rischia di dar vita a rendite di posizione difficilmente scardinabili e poco coerenti con il disegno complessivo; mentre se si nega la possibilità di una co-progettazione se riferita al welfare consolidato, si torna in qualche modo ad affermare una sorta di gerarchia di naturale preferenza e prevalenza per le procedure competitive.
Come chiariscono le linee guida ministeriali, la co-progettazione deve essere finalizzata a specifici progetti di servizio o di intervento, per soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione[32]. Non può quindi essere diretta a scegliere semplicemente un partner per l’erogazione indistinta di servizi sociali, ma deve avere ad oggetto un progetto ben preciso, in un quadro di regole e di impegni ben chiaro. Non è però detto che il progetto debba essere necessariamente diverso da quello dell’esperienza di co-progettazione appena conclusa, specialmente se esso ha dimostrato di ben funzionare. Ciò che però deve essere garantito, per non uscire dallo schema dell’art. 55, è che la nuova individuazione del o dei partner per progetti di amministrazione condivisa, ancorché analoghi ai precedenti, avvenga all’interno di un dialogo di co-programmazione e di co-progettazione aperto, trasparente, a cui possano partecipare tutti i soggetti interessati. Se poi, all’esito di questo dialogo, dovesse emergere l’opportunità di continuare sul percorso intrapreso e, in qualche modo standardizzato, si saranno comunque rispettate le logiche partecipative del Codice del Terzo Settore, senza necessità di ricorrere al Codice dei Contratti Pubblici.
Poiché si sta parlando di una normativa e di procedure in corso di sperimentazione e di prima applicazione, da tempo si sottolinea il fondamentale apporto della prassi[33], l’esportazione di modelli virtuosi, il confronto sulle scelte in concreto compiute dalle singole realtà; pur nella consapevolezza della difficile ripetibilità di ciascun contesto.
Una prassi che conosce declinazioni molto diverse ed esiti assai asimmetrici, ma che sta crescendo di numero in modo esponenziale.
L’esperienza di gran lunga prevalente rimane quella di avvisi e procedure di co-progettazione, che denotano una grande varietà di casistiche, di cui non è possibile dar conto. Sembra però evidente che, anche grazie alle linee guida del Ministero, i percorsi si stanno sostanzialmente uniformando (avviso, presentazione delle manifestazioni di disponibilità, apertura dei tavoli di confronto, selezione della proposta migliore, definizione del vero e proprio progetto, convenzionamento finale), così rassicurando le Amministrazioni sulla legittimità del loro operato e gli stessi enti del terzo settore sugli adempimenti richiesti (e sulla rigidità delle formalità attese).
Resta un po’ in ombra, a tutt’oggi, la co-programmazione, pur non mancando qualche esperienza particolarmente significativa[34]. Ad essa deve invece essere data la giusta enfasi ed importanza, perché rappresenta una fase fondamentale dei rapporti tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo Settore[35], dal momento che proprio in fase di lettura dei bisogni e della capacità di un territorio di dare ad essi risposta che si può esprimere meglio la collaborazione tra le realtà pubbliche e private coinvolte[36]. Se la co-progettazione segue naturalmente la co-programmazione, è più agevole gestire il pluralismo degli apporti in modo coordinato e corale. La co-programmazione deve essere un’istruttoria partecipata e condivisa per arricchire il quadro di conoscenza e di rappresentazione delle possibili azioni da intraprendere. Essa rappresenta il fondamento positivo e la piena legittimazione delle tante esperienze, anche informali, attivate dagli enti nella costruzione di tavoli di lavoro e di percorsi di partecipazione e ferma restando la collaudata esperienza della pianificazione sociale di zona[37].
Le esperienze di co-programmazione e di co-progettazione non esauriscono l’orizzonte dei contesti di amministrazione condivisa. Pionieri, in questo senso, sono stati i regolamenti per l’utilizzo dei beni comuni e dei beni immobili che, pur non coincidendo con i regolamenti di co-progettazione e co-programmazione[38], sono comunque espressione e attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, che non hanno nel Codice del Terzo Settore l’unica forma di concretizzazione[39]. Anch’essi esprimono quell’esigenza di procedimentalizzazione dell’incontro tra pubblico e privato sociale che rappresenta una chiave imprescindibile per evitare degenerazioni e far sì che si passi dalla “sussidiarietà per abbandono alla sussidiarietà consapevole”[40].
Non solo: se si scorre l’elenco delle attività di interesse generale contenuto nell’art. 4 del Codice del Terzo Settore, ci si rende conto che gli strumenti dell’art. 55 devono ancora esprimere gran parte delle loro potenzialità. Concentrati principalmente sugli affidamenti di servizi sociali – che rimangono, ovviamente, il campo prevalente di applicazione – amministrazioni e operatori hanno sin qui meno valorizzato le opportunità che il Codice offre in campo culturale, di rigenerazione urbana[41], sportivo, di manutenzione del verde e, ancor più, nell’arricchire l’orizzonte di intervento pubblico condiviso mediante l’investimento in ambiti non attenzionati o apparentemente meno significativi. Con il vantaggio di non comportare una dilatazione ulteriore dell’apparato pubblico e degli ambiti di amministrazione autoritativa, ma al contrario di valorizzare una dimensione comunitaria e associativa di tematiche che la Pubblica Amministrazione non può, per ragioni di bilancio e di organico, porre al centro della sua agenda e gestire in autonomia.
Anche il Cnel, nella sua relazione al Parlamento del 2021, non ha mancato di cogliere la strategicità del rapporto tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo Settore anche in relazione al PNRR. Nella complessità di articolazioni che devono essere messe in campo per completare le azioni richieste dal PNRR, l’apporto collaborativo delle realtà sociali è essenziale e va a colmare oggettive lacune o impossibilità di copertura da parte degli apparati amministrativi[42].
Per quanto il quadro giuridico-normativo del rapporto tra pubbliche amministrazioni e terzo settore sia, oggi, decisamente più chiaro degli inizi, il tema non smette di alimentare dibattiti e contributi, tanto che non sarebbe possibile, né proficuo, tentare di trarre conclusioni di quanto sin qui detto. La tematica ha, infatti, una sua naturale, consustanziale, fluidità che sconsiglia di fissare punti fermi e che suggerisce, invece, di presentare e studiare una casistica sempre più ricca e variegata.
Ciò che può dirsi, tuttavia, è che oggi paiono essersi pienamente raggiunte le condizioni, sotto il profilo giuridico-amministrativo, per una navigazione non controversa dei nuovi moduli cooperativi e di amministrazione condivisa, senza più incertezza teoriche e di inquadramento sistematico. Il che sta consentendo di valorizzare le potenzialità del Codice del Terzo Settore in ambiti sin qui poco esplorati, ma che possono significativamente contribuire a impostare su basi diverse il rapporto con il cittadino e a responsabilizzare maggiormente singoli e associazioni nella gestione della cosa pubblica e nella definizione degli obiettivi che una comunità vuole perseguire per incrementare la qualità della propria convivenza.
In questa direzione, co-programmazione e co-progettazione hanno pieno fondamento costituzionale, perché danno attuazione a quei valori primari che sono stati evocati (solidarietà, sussidiarietà, affermazione del principio personalistico), ma anche perché possono aiutare a ridisegnare l’assetto organizzativo delle pubbliche amministrazioni in chiave di buon andamento, con il fondamentale apporto dei cittadini e delle loro forme associative sociali. Se il buon andamento della pubblica amministrazione si misura nella sua capacità di perseguire e realizzare con efficienza ed economicità i suoi obiettivi, la collaborazione non competitiva con gli Enti del Terzo Settore offre un ulteriore supporto in questa direzione, soprattutto perché va a colmare lacune che oggettivamente l’amministrazione non sarebbe in grado di coprire.
Ancor di più: le linee di tendenza dell’amministrazione moderna la pongono sempre più al servizio dei valori costituzionali e quale strumento di inveramento dei principi democratici[43]. L’autoritatività dei provvedimenti amministrativa conserva la sua funzione come strumento di regolazione degli interessi potenzialmente confliggenti che la società esprime, ma nondimeno lo sforzo dello Stato costituzionale di diritto è quello di rendere sempre più “democratico” il processo di formazione della volontà politica e, a seguire, di quella amministrativa.
In quest’ottica, a ben vedere, i moduli di amministrazione condivisa delineati dall’art. 55 del CTS possono rivelarsi strumenti di rilancio delle forme di democrazia partecipativa che, nei decenni scorsi, sono state sollecitate per affiancare e rivitalizzare una democrazia rappresentativa a dir poco “affaticata”, senza mai però funzionare efficacemente come si sarebbe voluto. Queste nuove forme di coinvolgimento dei cittadini nella valorizzazione dei beni comuni e nella messa in campo di azioni sociali possono restituire parte di quella partecipazione perduta, e rimotivare una maggiore responsabilizzazione nella gestione della cosa pubblica[44].
Anche per questo il Codice del Terzo Settore rappresenta una sfida fondamentale per il futuro del nostro Paese che deve essere colta.
DOI: 10.7425/IS.2022.03.02
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