Nel nostro paese il tema della regolamentazione dell’inserimento lavorativo delle persone disabili e svantaggiate ha vissuto diverse stagioni, con differenti caratteristiche e implicazioni per il mercato del lavoro e per le imprese.
L’articolo intende descrivere le caratteristiche e gli effetti dei principali interventi normativi in questo ambito; in particolar modo si analizzeranno la legislazione sul collocamento obbligatorio, la legislazione sulle cooperative sociali, la legislazione sul collocamento mirato, il d.lgs. 276/2023 - la cosiddetta “Legge Biagi” - e, infine, la disciplina dei contratti riservati presente nel Codice dei Contratti Pubblici, d.lgs. 36/2023.
Dopo l’analisi delle “stagioni” della regolazione per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità e svantaggiate in cui verranno evidenziati i risultati dei singoli interventi ed i limiti degli stessi, l’articolo si concentrerà sul ruolo degli appalti pubblici e su come questi possono essere il mezzo per una «crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» - direttiva 24/2014/UE - illustrando anche i contenuti e le potenzialità della L.R. 2/2024 della Regione Umbria che rafforza lo strumento del public procurement, per raggiungere l’obiettivo dell’inclusione lavorativa dei lavoratori più fragili.
Fondamentalmente, dopo una lunga stagione dell'irrilevanza di tale segmento del mercato del lavoro, si possono intravedere, in una successione anche cronologica, cinque diverse forme di intervento regolamentativo:
In una stagione politica e culturale caratterizzata da un profondo rinnovamento, si istituisce, per la prima volta, una legislazione – la Legge n. 482 del 1968 - che prevede il collocamento obbligatorio di soggetti per i quali è più difficile l’inserimento nel mondo del lavoro. La norma prescrive infatti ai soggetti pubblici e privati di assumere obbligatoriamente, nel loro organico, persone con determinate caratteristiche:
Già l’indicazione di queste categorie appare, in parte, l’espressione di un particolare contesto storico dove il tema della disabilità fisica e mentale appare espressione di particolari cause di servizio lavorativo o di situazioni di guerra, e non di condizioni di disagio dovute ad altre situazioni.
Questa normativa prevede un’aliquota complessiva da riservare del 15%, per quote rigorosamente fissate, tra quelle precedentemente indicate. Ad esempio, agli invalidi di guerra è riservata la quota del 25%, mentre agli invalidi del lavoro si ha il 15%. Addirittura, la normativa nazionale arriva a prevedere specifici ruoli e mansioni da attribuire a particolari categorie di invalidi: ad esempio, la metà dei posti disponibili di portieri, guardiani e magazzinieri deve essere attribuita a mutilati e invalidi, dando la precedenza a quelli “mutilati agli arti superiori e inferiori”.
Questa pianificazione rigida genera ovviamente una distorsione nel mercato del lavoro: taluni invalidi possono trovare spazi occupazionali maggiori di altri, con conseguenze evidenti tra i differenti segmenti. Non solo, i datori di lavoro si possono trovare a procedere ad assunzioni obbligatorie che non generano quegli effetti in termini di produttività che altrimenti avrebbero potuto avere con altre categorie di soggetti invalidi.
Insomma, la “categorizzazione” di queste categorie svantaggiate crea “contenitori” di offerta del lavoro non “comunicanti”, irrigidendo le relazioni tra la domanda e l’offerta di lavoro. Tutto questo si traduce in una limitazione della capacità applicativa di questa normativa nella realtà empirica.
Inoltre, un’ampia fascia di soggetti pubblici e privati è esentata da tale normativa, qualora abbiano meno di 35 dipendenti (escludendo dal computo gli apprendisti). Nel caso di sordomuti, tra l’altro, questa soglia sale a 100 dipendenti. In un contesto in cui molte pubbliche amministrazioni (pensiamo ai piccoli Comuni) e moltissime imprese sono di dimensioni assolutamente modeste, questa normativa sul collocamento obbligatorio, di fatto, resta limitata nella sua portata ad una fascia estremamente ridotta dei datori di lavoro.
Ancora, questa normativa non includeva nella sua previsione i disabili psichici, nonché coloro che avessero più di 55 anni. In altri termini, si riteneva che questi gruppi di persone fossero non “collocabili” nel mercato del lavoro e quindi da ritenersi completamente escludibili da esso.
Questa normativa nazionale, con queste lacune e difficoltà applicative, è stata in vigore sino al 1999, ovvero sino alla promulgazione della Legge sul collocamento mirato.
Negli anni Settanta nascono le prime cooperative fondate per inserire al lavoro le persone svantaggiate, come la Cooperativa Lavoratori Uniti, promossa da Franco Basaglia nell’Ospedale Psichiatrico di Trieste che aveva tra i soci fondatori sia i pazienti psichiatrici, sia il personale medico ed infermieristico. Queste realtà, a differenza delle cooperative tradizionali, non perseguono l’esclusivo interesse dei soci, ma hanno finalità solidaristiche e perseguono il benessere generale della comunità in cui operano ideando e gestendo nuovi servizi di welfare o creando opportunità di lavoro per le persone con disabilità e svantaggiate.
Nel 1991 il legislatore con la legge 381 riconosce le prime esperienze pionieristiche ed introduce nell’ordinamento giuridico italiano le “cooperative sociali” che hanno l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate tra le finalità definite dal legislatore ed intervengono anche colmando alcune lacune della legislazione in materia di collocamento obbligatorio.
Le cooperative sociali sono organizzazioni che offrono contesti organizzati e strutturati per realizzare l’azione solidaristica (Borzaga, Ianes 2006); la legge 381 ha definito il profilo identitario ed i confini di questa forma di impresa cooperativa che, anziché perseguire l’esclusivo fine mutualistico, persegue anche finalità solidaristiche.
La legge 381 e poi le leggi regionali che, in molti casi, prevedevano negli albi regionali delle cooperative sociali due distinte sezioni per le cooperative sociali che gestiscono servizi di welfare e per quelle impegnate nell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, hanno creato un contesto giudico che ha favorito lo sviluppo autonomo e distinto della cooperazione sociale di inserimento lavorativo rispetto alle altre cooperative sociali. Questo sviluppo, negli anni Novanta e sino ai primi anni Duemila, è stato favorito anche dall’articolo 5 della legge 381/1991 che prevede esplicitamente la possibilità per gli enti pubblici di stipulare convenzioni con le cooperative sociali di inserimento lavorativo.
La possibilità di creare opportunità occupazionali per persone svantaggiate e gli effetti positivi che derivano da una simile prerogativa (Depedri, 2012) rendono questa tipologia di impresa uno strumento indispensabile per perseguire condizioni di giustizia economica e sociale nell’ambito di una comunità (Fazzi, 2012).
Tuttavia, dopo alcuni anni di forte crescita e di attenzione a questo fenomeno, negli ultimi decenni l’interesse verso la cooperazione sociale di inserimento lavorativo sembrava essersi affievolito, anche a causa delle inefficaci e spesso assenti politiche pubbliche che avrebbero dovuto sostenere le iniziative intraprese da questo attore dell’economia sociale (Borzaga e Marocchi, 2022).
Secondo recenti studi (Galera e Tallarini, 2023; Marocchi 2024), vi sono in Italia circa 4500 cooperative sociali di inserimento lavorativo e circa 3500 cooperative sociali che svolgono anche attività di inserimento lavorativo oltre alle attività di servizi alla persona (cooperative sociali cosiddette “a scopo plurimo”); hanno dimostrato di avere una spiccata funzione anticiclica, con una forte attenzione alla tenuta occupazione e una sostanziale stabilità delle loro condizioni economico-finanziarie (Borzaga e Marocchi, 2022).
La cooperazione sociale di inserimento lavorativo vede la coesistenza di diverse tipologie d’impresa che presentano un’elevata differenziazione nelle finalità perseguite, con la distinzione, in alcune interpretazioni, tra imprese sociali di inserimento lavorativo produttive, sociali e formative (Marocchi, 2023), nelle dimensioni aziendali (presenza di grandi realtà e di piccole imprese “sperimentali”) e nei settori economici di appartenenza (settori tradizionali, in cui prevalgono rapporti di fornitura consolidati, spesso con amministrazioni pubbliche, e dinamiche di innovazione in nuovi contesti competitivi, come la ristorazione o l’agricoltura sociale).
I soggetti svantaggiati verso i quali è rivolta l’attenzione delle cooperative sociali sono persone con disabilità fisica o intellettiva; minori a rischio (figli di adulti in condizioni di disagio psichico o sociale); ex-tossicodipendenti; alcolisti; detenuti ed ex-detenuti o invalidi civili.
In particolare, i segmenti di persone svantaggiate da inserire nelle cooperative sociali rappresentano un sottoinsieme specifico con fattori di esclusione più significativi rispetto a quelle riferibili al collocamento obbligatorio. In questo modo, quelli “svantaggiati” e maggiormente problematici, in termini produttivi e di relazionalità, che sarebbero plausibilmente soggetti ad un crowding out rispetto a svantaggiati meno problematici, hanno opportunità di lavoro riservati ad essi.
La legge 381, in alcuni casi, ha favorito la diffusione di una logica di “filiera” tra cooperative sociali impegnate nell’erogazione di servizi di welfare e quelle che effettuano inserimento lavorativo, dove alcune categorie di utenti dei servizi sociali completano il percorso di reinserimento sociale grazie alle opportunità di lavoro offerte dalle cooperative di inserimento lavorativo.
Le cooperative sociali di inserimento lavorativo rappresentano un modello di impresa finalizzato ad offrire opportunità di lavoro alle persone svantaggiate. È evidente nella governance di questo modello l’obiettivo non solo strettamente occupazionale (e quindi, da certi punti di vista, mutualistico) ma anche quello di inclusione, valorizzazione e integrazione sociale – nonché rispetto per le diversità - di questi individui, ridando loro una dignità e una reputazione spesso disconosciuta. Queste ultime sono dimensioni evidentemente riferibili ad una sfera di solidarietà, anziché strettamente di mutualità. Nelle cooperative di inserimento lavorativo le persone svantaggiate devono, in base alla legislazione nazionale, rappresentare almeno il 30% del totale dei lavoratori e, se coerente con la loro condizione soggettiva, devono avere lo status di socio. Un elemento tipico delle cooperative sociali è proprio la governance multistakeholder, cioè forme di governance in cui sono coinvolti almeno due categorie di portatori di interessi (Borzaga, Fazzi, 2011).
A fronte delle chiare finalità sociali e del vincolo stringente di inserire al lavoro persone svantaggiate il legislatore ha previsto per questa forma di imprese cooperativa diverse misure incentivanti e di sostegno, le principali sono:
I soci volontari hanno, nell’ambito delle cooperative sociali, alcune valenze strategiche. In primo luogo, essi possono contribuire alla riduzione del costo del lavoro complessivo, anche supportando, nel caso di quelle di inserimento lavorativo, direttamente o indirettamente l’eventuale gap di produttività dei soggetti svantaggiati. In secondo luogo, il volontario può portare una carica motivazionale e valoriale rilevante nella cooperativa, contribuendo ad irrobustire una cultura aziendale identitaria e vicina ai soggetti svantaggiati. In terzo luogo, egli è un monitor efficiente in relazione alla dirigenza della cooperativa, anche perché spesso è legato da vincoli affettivi nei confronti dei soggetti svantaggiati presenti. Infine, la presenza di soci volontari facilita il collegamento tra la cooperativa e la comunità locale. I soci volontari hanno avuto – ed in molti casi hanno ancora – un ruolo determinante per la nascita e lo sviluppo di molte cooperative sociali.
In talune circostanze, le cooperative sociali di inserimento lavorativo possono conseguire livelli di competitività di costo o di qualità dei prodotti e delle prestazioni di servizio comparabili con quelle offerte da altri modelli di imprese. In altre circostanze, tuttavia, per problemi di fragilità imprenditoriale oppure per un gap di produttività di alcuni soggetti svantaggiati, il costo medio totale conseguito può essere superiore (oppure con una qualità inferiore) a quello di molti competitors. In questi casi, la cooperativa di inserimento lavorativo rischia di essere espulsa dal mercato, salvo che una parte dei clienti privati non assegni un valore etico alle proprie scelte di consumo, privilegiando la sua offerta. Ma qualora ciò non accada o, comunque, non si tratti di un comportamento generalizzato da parte dei clienti privati, ne deriva, per la sostenibilità economica di queste cooperative, la necessità di operare nell’offerta di servizi a favore della pubblica amministrazione. Per queste ragioni, le cooperative di inserimento lavorativo, in diversi casi, si trovano ad operare prevalentemente nel mercato pubblico.
L’arrivo delle cooperative sociali di inserimento lavorativo costituisce un’importante innovazione nel mercato del lavoro per le persone svantaggiate difficilmente inseribili nelle imprese con la legislazione del collocamento obbligatorio. Tuttavia, le cooperative sociali, generano anche alcune distorsioni allocative e di efficienza. Da un lato, esse si trovano, quasi inevitabilmente, a posizionarsi (salvo lodevoli eccezioni) quali suppliers di servizi a basso valore aggiunto per conto della pubblica amministrazione (facchinaggio, manutenzione del verde, pulizie, etc..). Ciò porta ad una loro dinamica “adattiva” che le priva di quelle tensioni competitive capaci di innalzare i loro standard di efficienza, nonché di diversificare in altri ambiti lavorativi maggiormente aperti alla concorrenza, diverse indagini rilevano però che è crescente il fatturato verso le imprese e i cittadini (Borzaga, Borzaga 2023). In effetti, in astratto, queste cooperative possono operare in qualsiasi settore sia della produzione di beni che nell’offerta di servizi. Recenti studi hanno mostrato come le cooperative sociali di inserimento lavorativo operino prevalentemente nel settore terziario (Bernardoni, Picciotti 2023).
A volte, quando queste cooperative si rivolgono alla domanda privata delle famiglie e delle imprese, risultano essere comparativamente meno competitive rispetto ad altri modelli di impresa. L’occupazione di soggetti svantaggiati può portare, infatti, ad avere strutture di costi e livelli di produttività inferiori rispetto a potenziali competitors e, in taluni casi, l’offerta può risultare avere standard qualitativamente inferiori. Se quindi l’entità di una clientela privata eticamente propensa ad acquistare beni e servizi offerti da cooperative sociali è troppo limitata rispetto agli spazi complessivi del mercato, inevitabilmente queste ultime si trovano ad operare in un mercato residuale.
La presenza diffusa e capillare di questa tipologia di cooperative sociali rischia di generare l’aspettativa di un collocamento delle persone svantaggiate unicamente in questo segmento di imprese, ignorando o comunque sottovalutando le potenzialità del collocamento obbligatorio. È possibile che anche le istituzioni pubbliche deputate a promuovere e controllare l’applicazione della normativa sul collocamento obbligatorio possano “adagiarsi” ed essere meno incisive dei controlli.
Infine, non sempre il livello di coordinamento inter-organizzativo in una logica di “filiera” occupazionale tra cooperative sociali appare soddisfacente: le cooperative che erogano servizi di welfare guardano, per la loro sostenibilità economica, al committente pubblico e possono avere “incentivi” alla persistenza di persone disabili da esse assistiti, piuttosto che generare per questi ultimi vere e proprie opportunità occupazionali in collaborazione con le cooperative di inserimento lavorativo. Dall’altro lato, queste ultime possono avere “preferenze” per inserire, nei loro ambiti occupazionali, persone svantaggiate non necessariamente provenienti dai servizi gestiti da altre cooperative sociali.
A oltre trenta anni dalla legge sul collocamento obbligatorio e a quasi un decennio dalla nascita delle cooperative sociali, il legislatore ritenne di dover rivedere la normativa sull’inserimento nel mercato del lavoro dei soggetti svantaggiati.
La nuova regolamentazione si basa sul collocamento “mirato” (Legge n. 68 del 12 marzo 1999, con la quale si abroga la precedente legge del 1968 sul collocamento obbligatorio). I principi ispiratori di fondo restano simili: se il mercato del lavoro è efficiente, seleziona le persone maggiormente competenti e produttive rispetto ad un determinato impiego (sia in ambito privato che in quello pubblico, con i relativi concorsi). Di conseguenza, le persone che sono meno produttive, per cause non imputabili alla loro volontà, si trovano ad essere escluse. Ciò genera situazioni sociali ed economiche a carico di tali persone e delle loro famiglie di particolare disagio. Per cercare di “rendere uguale ciò che è diverso”, si ritiene che la regolamentazione debba intervenire, con un quadro di vincoli, ma, in questa nuova fase, soprattutto di incentivi e di strumenti di “avvicinamento” tra la domanda di lavoro e l’offerta di questi lavoratori.
Con la legge del 1999, la logica pianificatoria del collocamento obbligatorio viene superata da un approccio grazie al quale, anche con opportuni incentivi e opportunità di lavoro tailored, le imprese non “subiscono” tali prescrizioni. Il “collocamento mirato” viene inteso quale insieme dei servizi in grado di favorire l’incontro tra le esigenze dell’azienda e la disabilità del lavoratore. Ciò al fine di integrare nel contesto lavorativo le persone disabili, fornendo loro gli strumenti tecnici e di supporto indispensabili per un corretto inserimento nel posto di lavoro più adatto alle loro necessità. Questa legislazione è riservata essenzialmente a tutte le persone con disabilità in età lavorativa, ovvero:
I datori di lavoro, pubblici e privati, con più di 15 dipendenti, devono riservare una quota delle proprie assunzioni alle persone con disabilità, con percentuale di invalidità uguale o superiore al 46%. Sono esclusi dalla base di computo, per la determinazione della quota di riserva:
L’art. 5, comma 2, della L. 68/1999 prevede l’esclusione totale dall'osservanza dell'obbligo di cui all'articolo 3 da parte di datori di lavoro pubblici e privati operanti in particolari settori.
I datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici assumono i lavoratori disabili mediante la chiamata nominativa o la stipula di convenzioni. La stipula di convenzioni è tesa a favorire il raccordo tra le esigenze delle aziende e quelle dei lavoratori disabili, definendo un programma personalizzato di interventi e stabilendo tempi e modalità delle assunzioni.
Per i datori di lavoro che non ottemperano agli obblighi di assunzione della quota riservata ai disabili sono previste, infine, apposite sanzioni amministrative. L’art. 15, comma 4, L. 68/1999 come modificato dal d.lgs. 185/2016, stabilisce la sanzione per ogni giornata lavorativa di mancata assunzione di ciascun disabile in “una somma pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo di cui all'articolo 5, comma 3-bis”. Pertanto, considerato che attualmente il contributo esonerativo è pari a € 30,64, la sanzione per ogni giorno di mancata assunzione del lavoratore disabile è pari a € 153,20.
Questo quadro regolatorio nazionale sul collocamento “mirato” ha mostrato, ad oggi, alcune limitazioni.
Troppo spesso l’eventuale inserimento lavorativo di queste persone disabile è avvenuto senza tener conto di quanto la Direttiva Europea 2000/78/C prescriveva laddove indicava che «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». In altri termini, il datore di lavoro non ottempera alla normativa solo con il mero inserimento di un soggetto disabile, ma è responsabile di tutte quelle misure di “accompagnamento” necessarie ad esso per vivere dignitosamente questa opportunità sociale e lavorativa. Questa responsabilità del datore di lavoro ha trovato applicazione nel nostro ordinamento giuridico con il recepimento di questa Direttiva Europea a seguito del d.lgs. 28 giugno 2013 n.76.
Inoltre, l’esiguità della sanzione amministrativa, unitamente agli scarsi controlli da parte delle istituzioni pubbliche, ha generato un incentivo a trasgredirla da parte di molte imprese.
Altrove, taluni datori di lavoro indicano profili professionali e culturali talmente specifici che, solo raramente, possono essere rintracciabili, da parte delle agenzie del lavoro, presso persone svantaggiate in possesso di tali requisiti.
Ancora, resta un certo grado di discriminazione nel collocamento “mirato” a favore, ad esempio, di forme di disabilità fisica rispetto a quella psichica.
In definitiva, questa legislazione, per quanto migliorativa rispetto a quella “obbligatoria”, ha trovato applicazione parziale nel mondo del lavoro, privilegiando l’occupazione pubblica a quella privata e, nell’ambito di quest’ultima, nelle grandi imprese rispetto alle medio-piccole.
Le due regolamentazioni nazionali precedentemente analizzate hanno generato fondamentalmente due problemi. Da un lato, la legislazione sul collocamento mirato ha “prodotto” esiti occupazionali inferiori a quelli prevedibili. Dall’altro lato, le cooperative sociali sono apparse un “enclave” occupazionale per le persone con disabilità e svantaggiate.
Per cercare, sul piano pragmatico, di generare “incentivi” alle imprese capaci di coniugare queste due normative e far fare un “salto” occupazionale ai soggetti svantaggiati, il Decreto Legislativo n. 276 del 2003 ha previsto, nell’art. 14, la possibilità, per le imprese che esternalizzano lavorazioni e servizi a favore delle cooperative sociali di inserimento lavorativo, di rendere permanente il distacco del lavoratore svantaggiato in cooperativa, computandolo tra l’altro nella quota di riserva dell’azienda committente. In questo modo, le imprese possono affidare lavorazioni e servizi a queste cooperative sociali, generando in modo indiretto un’occupazione “mirata” e, contestualmente, adempiere a quanto previsto dalla Legge n. 68 del 1999. Si tratta ovviamente di una opzione che l’impresa può esercitare, e non di un obbligo.
In questo nuovo quadro normativo, un’importanza fondamentale è assunta dalle convenzioni-quadro. L’applicazione di questa norma nazionale è subordinata alla stipula di convenzioni su base territoriale, validate a livello regionale, tra gli uffici pubblici deputati ai servizi per le persone con disabilità, le associazioni dei datori di lavoro, dei prestatori di lavoro e delle cooperative sociali. Questa logica del decentramento territoriale risponde all’esigenza di generare, su scale territoriali e regionali, uniformità di comportamenti concertandoli in questo “quadrilatero” istituzionale (istituzioni pubbliche, datori di lavoro privati, sindacati dei lavoratori, cooperative sociali).
Quali sono però le possibili implicazioni di questa sorta di “federalismo” normativo?
Nel nostro paese, le regioni hanno elaborato tali convenzioni in tempi diversi, “disattivando” indirettamente l’applicazione di questa normativa in taluni ambiti territoriali e, quindi, limitando di fatto le possibilità di crescita occupazionale dei soggetti svantaggiati e delle cooperative sociali.
Si hanno così, inevitabilmente, regioni ad “alta” e altre a “bassa” opportunità occupazionale per tali soggetti. Ciò costituisce una violazione della eguaglianza delle opportunità per tali persone, nonché per le imprese interessate a perseguirle. A distanza di più di venti anni dall’adozione del d.lgs. 276/20003, questo “federalismo normativo” ha generato diverse distorsioni nel mercato del lavoro e nelle possibilità di crescita delle cooperative sociali. Ad oggi, alcune regioni hanno – come l’Emilia-Romagna – hanno elaborato dei report che monitorano l’applicazione delle convenzioni ex articolo 14, e la relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 68/1999 forniscono alcuni dati – seppure non completi – sull’applicazione della norma a livello nazionale.
Negli ultimi decenni l’Unione Europea ha dedicato grande attenzione al public procurement. Questo interesse ha portato la Commissione Europea a adottare, nel 2017, la comunicazione “Making Public Procurement work in and for Europe”.
Secondo le stime dell’Unione Europea ogni anno, oltre 250.000 autorità pubbliche nell’UE spendono circa il 14% del PIL per l’acquisto di servizi, lavori e forniture. In molti settori come l’energia, i trasporti, la gestione dei rifiuti, la protezione sociale e la fornitura di servizi sanitari o educativi, le autorità pubbliche sono i principali acquirenti. Per questa ragione, il settore pubblico può utilizzare gli appalti per stimolare l’occupazione, la crescita e gli investimenti e per creare un’economia più innovativa, efficiente in termini di risorse ed energia e socialmente inclusiva.
In Italia, le acquisizioni direttamente imputabili al settore pubblico, con l’esclusione del settore difesa, sono pari al circa l’11% del PIL. È per questa ragione, che, anche nel nostro paese, le pubbliche amministrazioni possono divenire dei driver di innovazione e inclusione sociale e il public procurement può rappresentare in importante strumento di politica economica.
La possibilità per gli stati membri dell’Unione Europea di utilizzare la domanda pubblica di beni e servizi per raggiungere obiettivi sociali è stata confermata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha ricordato (Sez. V, 6 ottobre 2021, C-598/19) come “l’articolo 20, paragrafo 1, della direttiva 2014/24 (recepito dall’art. 61 del D. lgs. 36/2023) conferisce agli Stati membri la facoltà di riservare le procedure di appalto pubblico a determinati enti e subordina tale facoltà al rispetto delle due condizioni cumulative ivi elencate, ossia, da una parte, che i partecipanti alla procedura siano laboratori protetti o operatori economici il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone disabili o svantaggiate, dall’altra, che almeno il 30% del personale di tali laboratori e operatori economici sia costituito da tali persone” .
La giurisprudenza della CGUE, ha inoltre precisato che “il legislatore dell’Unione ha inteso promuovere, attraverso l’occupazione e il lavoro, l’inserimento delle persone disabili o svantaggiate nella società, consentendo agli Stati membri di riservare il diritto di partecipare alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici o di determinati lotti ai laboratori protetti e agli operatori economici che, in considerazione della finalità sociale che perseguono, intervengono nel mercato con uno svantaggio competitivo”.
Questo orientamento comunitario, già recepito nelle precedenti edizioni del Codice dei contratti pubblici, ha trovato conferma nell’Art. 61 del d.lgs. 36/2023, rubricato “Contratti riservati”, che, confermando la disciplina dei contratti riservati presente nel precedente codice dei Contratti Pubblici, consente alle stazioni appaltanti di riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto o di riservarne l’esecuzione a operatori economici il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate. Ciò risulta coerente con il considerando n. 2 della direttiva 24/2014/UE, che chiarisce come gli appalti pubblici sono il mezzo per una «crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» che deve tendere anche al «conseguimento di obiettivi condivisi a valenza sociale» e con il considerando n. 36, secondo cui «lavoro e occupazione contribuiscono all’integrazione nella società e sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti».
I contratti riservati sono uno strumento amministrativo che, nei fatti, rappresenta un’evoluzione dell’articolo 5 della legge 381/1991: da un lato amplia la platea delle imprese interessate, non solo le cooperative sociali, ma anche le altre tipologie di imprese (S.r.l., S.p.A, cooperative non sociali) che rispettano i vincoli fissati dall’articolo 61del codice del Contratti Pubblici; dall’altro lato supera l’affidamento diretto a favore delle cooperative sociali, prevedendo le gare riservate come procedura di evidenza pubblica.
Questo strumento ha l’obiettivo di far crescere sia in numero che in valore le gare riservate, creando in questo modo nuove opportunità occupazionali per le persone con disabilità e svantaggiate; tuttavia, a distanza di anni dall’introduzione dei contratti riservati possiamo affermare che l’applicazione dello stesso è stata episodica e gli effetti sulle persone fragili limitati.
Partendo da queste evidenze la Regione Umbria ha approvato un provvedimento di particolare valenza per l’occupazione delle categorie svantaggiate: la L.R. 2 del 2024 “Qualità del lavoro e dei servizi alla persona”.
La norma negli articoli 2, 3 e 4 disciplina le modalità che devono essere utilizzate dalle amministrazioni pubbliche e dalle società controllate e collegate nella costruzione delle gare di appalto relative ai servizi alla persona con l’obiettivo di superare la logica del massimo ribasso assicurando servizi di qualità e il rispetto dei diritti dei lavoratori. L’articolo 5, invece, è dedicato applicazione dell’articolo 61 del codice dei Contratti Pubblici ed afferma che “in attuazione e nel rispetto di quanto previsto all'articolo 61 del d.lgs. 36/2023, al fine di garantire l'inserimento nel mercato del lavoro delle persone con disabilità o svantaggiate, come definite al comma 4 del medesimo articolo 61 del d.lgs. 36/2023, le stazioni appaltanti riservano il diritto di partecipazione alle procedure di affidamento, diverse da quelle relative alla fornitura dei servizi alla persona di cui all'articolo 1, comma 3, o ne riservano l'esecuzione ad operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate, o riservano l'esecuzione delle medesime procedure di affidamento nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il trenta per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati”.
Il secondo comma dell’articolo 5 aggiunge che “la Giunta regionale, con proprio regolamento, disciplina le modalità attuative di quanto previsto dal presente articolo applicando, quale percentuale minima che deve essere rispettata per garantire le riserve di cui al comma 1, quella del venti per cento del valore delle procedure di affidamento da espletare nell'anno solare di riferimento da parte delle stazioni appaltanti, da modulare in base alla natura, all'oggetto e al numero delle procedure medesime”.
Con questa norma la Regione Umbria, prima in Italia, inserisce il supporto all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità e svantaggiate tra gli obiettivi perseguiti con la domanda pubblica di beni e servizi stabilendo che l’articolo 61 deve essere applicato in almeno il venti per cento del valore delle procedure di affidamento da espletare nell’anno solare. In questo modo il legislatore regionale dell’Umbria ha rafforzato le disposizioni relative ai contratti riservati contenute nel codice dei Contrati Pubblici rendendole vincolanti per tutte le stazioni appaltanti della regione, creando così un ambiente competitivo favorevole all’inclusione lavorativa e, senza costi aggiuntivi per le casse pubbliche di Comuni, USL ed altri enti locali, incentivando tutte le imprese al perseguimento di obiettivi sociali. Sarà importante monitorare l’applicazione della norma umbra per capire gli impatti sugli affidamenti e sulle persone svantaggiate inserite.
La L.R. 2/2024 crea un rafforzamento delle opportunità occupazionali dei soggetti svantaggiati tramite la leva del public procurement. In questa logica, la norma della Regione Umbria stabilisce che tutte le amministrazioni pubbliche regionali e le società controllate o collegate riservano il venti per cento delle procedure di gara espletate nell’anno alle imprese che inseriscono al lavoro almeno il trenta per cento di persone con disabilità e svantaggiate. In questo approccio, tutte le imprese, indipendentemente dalla loro forma giuridica potranno partecipare a queste gare di appalto “riservate”, purché rispettino i parametri definiti dall’articolo 61 del codice dei Contratti Pubblici.
Quali possono essere le implicazioni di questa normativa?
La normativa crea uno “spazio” competitivo per l’aggiudicazione delle gare di appalto. Le imprese possono decidere se operare in questo segmento del public procurement e, quindi, per farlo dovranno “potenziare” i livelli occupazionali delle categorie svantaggiate o costituire degli spin-off a vocazione sociale che rispettino i livelli occupazionali previsti dall’articolo 61. Le stesse cooperative sociali acquisiranno la consapevolezza di dover essere “competitive” rispetto ad imprese private, se entrambe garantiranno i livelli occupazionali previsti. Vi è quindi un impulso in termini di efficienza perfino nelle organizzazioni non profit che, talvolta, hanno logiche “adattive” rispetto al public procurement.
Questa normativa regionale si inserisce funzionalmente nella normativa nazionale, da quella sul collocamento mirato sino alla Legge Biagi. In un certo qual modo, le imprese private si trovano di fronte ad un “ventaglio” di opzioni strategiche che possono perseguire in funzione delle loro opportunità: limitarsi a rispettare la quota prevista dal collocamento mirato, ma non con percentuali tali da poter partecipare alle gare riservate; esternalizzare a favore di cooperative sociali una parte delle loro attività, per beneficiarne del computo della quota riservata a soggetti svantaggiati; infine, posizionarsi all’interno delle previsioni della normativa umbra per partecipare alle gare riservate. Le tre opzioni strategiche non sono alternative ma complementari, ad esempio un’impresa che già rispetta gli obblighi di assunzioni previste dalla legge 68 può incrementare le persone con disabilità occupate sino ad avere i requisiti per partecipare alle gare riservate.
La normativa umbra può avere implicazioni anche nel livello di competizione tra imprese localizzate in differenti regioni interessate a partecipare alle gare di appalto pubbliche riservate alle imprese che inseriscono al lavoro almeno il 30% di persone con disabilità o svantaggiate. L’Umbria, tuttavia, è una regione dimensionalmente modesta, per ampliare su scala macroregionale gli effetti della normativa umbra, sarebbe auspicabile che altre regioni si unissero all’Umbria per generare un impatto di “scala” assai più ampio sul sistema delle imprese, generando indirettamente in questo modo un aumento della concorrenza, massimizzando gli impatti positivi sulle persone con disabilità occupate.
È evidente che il valore economico e sociale di questa innovazione normativa regionale andrà valutata nel corso dei prossimi anni in modo da poterne trarre giudizi maggiormente ponderati.
Per rendere efficace questa norma sarà necessario accompagnare il percorso di applicazione con specifici interventi formativi e di supporto al personale pubblico, ripensando anche il ciclo degli appalti pubblici ed innalzando il livello di trasparenza e comunicazione con gli stakeholder. Nel dettaglio le amministrazioni pubbliche dovranno:
Sarà inoltre importante realizzate una “cabina di regia” per monitorare e osservare le dinamiche con le quali le imprese gradualmente si adattano a questa normativa, l’impatto sul mercato del lavoro e le distorsioni che ne possono derivare, in modo da adottare eventuali correttivi.
In questo articolo, dopo aver effettuato un’analisi delle “stagioni” della regolazione per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità o svantaggiate, ci si è concentrati sul public procurement, sottolineando le potenzialità di questo strumento - dal momento che, come si è sopra ricordato, in Italia gli acquisti di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche vale l’11% del Pil nazionale - e analizzando le disposizioni comunitarie e la normativa nazionale contenuta nel codice dei Contratti Pubblici relativa ai contratti riservati, per poi descrivere le innovazioni apportate dalle L.R. 2/2024 dell’Umbria.
Dall’analisi effettuata emerge la presenza dei presupposti economici e giuridici per percorrere con convinzione questa strada al fine di incrementare le opportunità di lavoro per le persone con disabilità e svantaggiate, anche in considerazione del fatto che:
Per queste ragioni, un maggior numero di persone fragili, occupate oltre a generare benefici sociali diretti, produrrà maggiori entrate e minori spese per le casse pubbliche. Sino ad oggi, però, i contratti riservati sono stati utilizzati in modo marginale dalle amministrazioni pubbliche ed è per questa ragione che serviranno - a partire dalla Regione Umbria che può rappresentare un laboratorio per il Paese - politici, amministratori e funzionari pubblici innovatori che vogliano mettere al centro delle politiche pubbliche i diritti delle persone con disabilità e svantaggiate.
DOI 10.7425/IS.2025.03.09
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