Questo mio contributo sull’impresa sociale non è frutto di approfondimenti teorici, ma di riflessioni che ho via via maturato nelle mie attività e, segnatamente, da quelle sviluppate dalla fine degli anni Ottanta come Presidente della Società per l’imprenditorialità giovanile e poi Amministratore delegato di Sviluppo Italia e, più recentemente ed in modo più consistente, nei quattordici anni in cui sono stato alla guida della Fondazione Con il Sud.
Pur senza pretesa di sistematicità e mantenendo un approccio prevalentemente esperienziale, in queste pagine, dopo avere ricordato le circostanze del mio incontro con le imprese sociali e le esperienze che mi hanno fatto lavorare a stretto contatto con questo mondo, provo nella prima parte ad argomentare i motivi per cui le imprese sociali hanno e debbono avere un ruolo di grande rilievo nelle trasformazioni sociali che ci attendono.
Nella seconda parte si propongono alcuni ragionamenti sulle direzioni che l’impresa sociale è chiamata a intraprendere per interpretare adeguatamente tale situazione, da due punti di vista. E questo porta a sviluppare, nella parte conclusiva, un ragionamento sulla finanza per il sociale.
In realtà il mio primo “incontro” con la cooperazione sociale fu a Brescia, città nella quale sono nate le cooperative sociali, quando nei primi anni Settanta ero sindacalista presso la Cisl bresciana. Una conoscenza superficiale, ma anche una grande attrazione per un tema e per esperienze fortemente innovative che mi apparivano cariche di valori e di futuro.
La legge 44 del 1986, che si proponeva di favorire la imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno attraverso il finanziamento ed il tutoraggio per nuove imprese possedute in maggioranza da giovani, prevedeva condizioni di maggior favore per le cooperative, di qualunque tipo. In quella fase, a metà degli anni Novanta, avvertimmo l’esigenza di favorire in modo più incisivo la nascita di cooperative sociali: costituimmo un tavolo di riflessione e di proposta, e pubblicammo un volume, per le Edizioni del gruppo Abele, intitolato: “Lessico dell’impresa sociale”. Un’operazione che tendeva esplicitamente a superare una oggettiva e diffusa resistenza, culturale e politica, all’impresa sociale. Erano quelli i tempi in cui dovevi faticare non poco per convincere i tuoi interlocutori che impresa e sociale non erano termini antitetici, ma pienamente compatibili, ricordando i veri criteri che definiscono la nozione d’impresa. Questo lavoro ebbe anche una concreta realizzazione in un programma di sostegno alle Imprese sociali ideato da Felice Scalvini ed attuato da Sviluppo Italia, il programma Fertilità, che ebbe ottimi risultati. Ciononostante, quel tipo di iniziativa non ebbe seguito. Solo recentemente, per fortuna, Invitalia ha messo a punto un sistema di agevolazioni per le imprese sociali, Italia economia sociale, che grazie ad alcune modifiche alla normativa originale, è oggi uno strumento di una certa efficacia.
Più consistente la mia esperienza in materia alla Fondazione Con il Sud: ho conosciuto centinaia di cooperative sociali, ho promosso e valutato progetti, ho misurato le enormi potenzialità di queste iniziative verificandone, ovviamente, anche alcuni limiti. Guardando all’esperienza dell’impresa sociale, ho vissuto e tentato di superare i limiti propri di un ente erogatore costretto a lavorare per bandi: meccanismo per certi versi inevitabile, ma che comporta una serie di pesanti limitazioni che vanno il più possibile superate: percorso avviato con qualche significativo risultato. In realtà bisogna coniugare le caratteristiche di una Fondazione che, per sua natura, è un soggetto di offerta – nel senso che gestisce delle risorse e le rende disponibili - con un lavoro di promozione che si fa “stanando” ed accompagnando la domanda. Complessivamente, da questa esperienza ho tratto molte convinzioni che sono alla base delle considerazioni che svolgo in questo articolo.
Due questioni, però, voglio ricordare in premessa. La prima, per me molto importante, è che in molti casi l’impresa sociale è il punto di arrivo di un impegno nel sociale nato in modo spontaneo e con la forma del volontariato. In molte esperienze ho visto iniziative, nate per dare risposte a fondamentali bisogni, per riconoscere diritti clamorosamente negati, progressivamente assumere la forma dell’impresa sociale. Nei soggetti impegnati in un’azione volontaria è spesso scattata la percezione che quell’attività poteva diventare un lavoro, che la loro organizzazione poteva diventare un’impresa sociale, senza per questo snaturare la spinta iniziale che restava sostanzialmente quella del dono. Questa riflessione non è banale, soprattutto tenendo conto di alcune contrapposizioni, per me incomprensibili, che di tanto in tanto si sviluppano nel Terzo settore: la prassi del dono può essere ugualmente declinata, seppur con modalità diverse, nel volontariato, nelle associazioni di promozione sociale e nell’impresa sociale. La seconda considerazione si riferisce al ruolo di leadership che, di fatto, le imprese sociali hanno nei partenariati incaricati di attuare progetti sui territori. Probabilmente questa circostanza deriva dalla natura stessa dei progetti, di solito abbastanza complessi, che presumono una certa consistenza organizzativa. Questo però significa che di fatto l’impresa sociale ha un ruolo decisivo nell’organizzare la presenza del Terzo settore nei territori, nel promuovere reti, nell’innescare processi di costruzione di comunità, come vedremo in seguito.
Ciò premesso, si proverà ora a ragionare di sfide, trasformazioni e cambiamenti. Il primo aspetto considerato è la nuova sensibilità sui temi ambientali e dello sviluppo sostenibile; al di là di una componente discutibile e di maniera – e anzi, proprio per questo – le imprese sociali sono chiamate a portare innovazione e competenza. Il secondo aspetto trae aspetto dalle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno e dai loro insuccessi per rimarcare la necessità di partire dalla creazione di capitale sociale. Il terzo aspetto riguarda la consapevolezza dell’affermarsi di un nuovo modello di welfare in cui all’impresa sociale viene riconosciuto un ruolo di interesse generale e quindi una vocazione a collaborare con la pubblica amministrazione in condizioni paritarie; quindi, quarto aspetto, si evidenziano le resistenze della pubblica amministrazione e non solo rispetto a tali prospettive.
Prima di affrontare le questioni, che dal mio punto di vista sono le più rilevanti, è bene ricordare che il dibattito sull’impresa sociale è, negli ultimi tempi, condizionato dalla positiva ed inedita attenzione alla sostenibilità ambientale, dall’ossessivo richiamo ai criteri ESG, dalla crescente attenzione alla finanza sostenibile. Questa ondata è spesso segnata da profonda ambiguità, se non da veri e propri fenomeni di greenwashing. Tuttavia, con la dovuta cautela, bisogna valutare un dato molto positivo: la questione della sostenibilità non è più eludibile; non vi sono se non pochi ed irrilevanti negazionisti. Ed il fatto che le imprese ed il mondo della finanza siano “costretti” a porsi il problema è di per sé positivo. Detto questo bisogna avere alcuni punti fermi: (i) evitare che si affermi una interpretazione di impresa sociale generica ed estensiva: in una riunione istituzionale di alto livello, ho sentito proporre ENEL come possibile modello d’impresa sociale; (ii) ricordare sempre, continuamente, che ESG significa ambiente, ma anche sociale e governance; (iii) avere ben presente che quando si parla di impresa sociale è bene partire dalla poderosa esperienza della cooperazione sociale nel nostro Paese: esperienze che devono avere una permanente propensione all’innovazione, ma che non possono essere oggetto di “lezioni” da parte di esordienti esperti. Questa “moda” sulla sostenibilità costituisce indubbiamente una grande opportunità di sviluppo per l’impresa sociale; ma anche un possibile pericolo. Senza iattanza, ma con decisione, bisogna evitare contaminazioni ed anzi cercare di contaminare.
Vengo adesso alle questioni che giudico più rilevanti nel dibattito sull’impresa sociale. La prima è relativa ad una convinzione che mi sono fatto in quattordici anni di lavoro alla Fondazione Con il Sud e in quarant’anni di impegno, su diversi fronti, per il Mezzogiorno. Bisogna convincersi – e convincere – che il sociale viene prima dell’economico. Chi fa lavoro sociale non solo risponde ad esigenze e bisogni, non solo accoglie ed include soggetti fragili, non solo riconosce diritti di cittadinanza clamorosamente negati: chi lavora nel sociale contribuisce in modo significativo all’accumulazione di capitale sociale e, quindi, diventa un attore dello sviluppo, anche economico, dei territori: questo vale molto al Sud, dove è manifesto l’errore di politiche tutte quantitative che hanno sottovalutato gli interventi nel sociale. Per settanta anni si sono trasferite risorse al Sud con l’obiettivo di ridurre il divario del PIL con il Centro Nord. L’obiettivo è clamorosamente fallito: in 73 anni il divario si è ridotto di poco più di tre punti percentuali. Considerata la lunghezza del periodo non è possibile cercare cause congiunturali; individuare errori in questo o quell’intervento. Le politiche sono state sbagliate perché fondate su un’errata cultura dello sviluppo, tutta giocata sull’offerta ed esclusivamente affidata al trasferimento di risorse finanziarie in una interpretazione sbagliata, anzi perversa, della logica keynesiana. Scarsa attenzione alla domanda, alla realtà dei territori, al capitale sociale. Questa constatazione, incontestabile, è più evidente se riferita al Sud, ma vale un po’ anche al Nord. Per questo motivo, bisogna enfatizzare e potenziare le esperienze di imprese sociali che, nate in una logica di piena solidarietà, producono reddito e buona e consistente occupazione. Esse sono la prova diretta del nesso tra sociale ed economico. E come non ricordare una frase di Giorgio Ceriani Sebregondi che nel 1953 diceva: Per lo sviluppo, ripartire dal sociale, soprattutto al Sud.
La seconda questione è la crisi del tradizionale modello di welfare, crisi quantitativa e qualitativa, che è da considerarsi irreversibile. Attardarsi nell’attesa che quel modello ritorni è profondamente sbagliato, ma è un atteggiamento ancora largamente presente, nella politica e nelle istituzioni fortemente restie ad accettare innovazioni, ma anche, inconsapevolmente, in molte fasce del Terzo settore. Questa crisi è il terreno di massima possibile espansione dell’impresa sociale, ma anche quello in cui l’esperienza delle imprese sociali può contribuire in modo determinante alla nascita di un nuovo welfare. Un nuovo modello da costruire faticosamente, ma con decisione ed anche, se necessario, immaginando originali ma non blande forme di conflitto. La costruzione di questo nuovo modello deve tener conto dell’ormai imponente trasferimento delle prestazioni sociosanitarie, e non solo, al mercato privato; ma anche di posizioni, ormai francamente incomprensibili, ferme al principio di un welfare universalistico saldamente in mano alla Pubblica Amministrazione e diffidenti sul ruolo del privato sociale. Nel nuovo modello di welfare l’impresa sociale: (i) non svolge un ruolo di supplenza, soprattutto nelle emergenze; (ii) non è destinata ad occuparsi soltanto di spazi particolari e specifici che il pubblico non è in grado di coprire; (iii) non rappresenta una mera opportunità di riduzione dei costi; (iv) non è benevolmente associata nelle fasi di programmazione e progettazione; (v) non è relegata in un ruolo di permanente sperimentazione i cui risultati non vengono introiettati e generalizzati dalla Pubblica Amministrazione.
Le risorse pubbliche sono necessarie, anzi vanno incrementate. Ma il modello va cambiato: il terzo settore legge i bisogni, progetta, programma e gestisce con la Pubblica Amministrazione a tutti i livelli. Non è una prospettiva velleitaria, né rivoluzionaria: è la concretizzazione del principio della sussidiarietà sancito dalla Costituzione e, recentemente ribadito da una fondamentale sentenza della Corte costituzionale. D’altra parte, il Terzo settore genera un capitale fiduciario prezioso per la rigenerazione del sistema istituzionale. Nel necessario lavoro di advocacy e di proposta, di ideazione e di sperimentazione, va peraltro recuperata un’attitudine permanente: quella di ricordare che gli interventi gestiti dal Terzo settore sono, con livelli più alti di efficacia, di solito anche più efficienti e che l’autoreferenzialità e la bulimia della Pubblica Amministrazione determinano spesso insopportabili sprechi. Ormai i casi in cui le cooperative sociali dimostrano di essere più efficaci e più efficienti del pubblico sono evidenti: orientamento al lavoro dei detenuti con clamorosi effetti sulla recidiva; centri di prevenzione della violenza sulle donne; inclusione di disabili psichici; assistenza domiciliare agli anziani; lotta alla povertà educativa; housing sociale, accoglienza dei migranti… Esperienze recenti mi hanno insegnato che è molto difficile per le imprese sociali e per il Terzo settore in generale , diventare partner della Pubblica Amministrazione. Un esempio molto illuminante è la vicenda della povertà educativa: come è noto le Fondazioni di origine bancaria hanno dato vita nel 2016 al Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, Fondo alimentato dalle Fondazioni stesse e incrementato dallo Stato con un meccanismo di credito d’imposta. La Fondazione Con il Sud, scelta come soggetto attuatore degli interventi del Fondo, ha costituito allo scopo un’impresa sociale, Con i bambini, la cui governance è per metà delle Fondazioni di origine bancaria e per metà dal Terzo settore. La grande novità di questa esperienza è che i soggetti responsabili dei progetti sostenuti non sono le scuole, ma organismi di Terzo settore che associano le scuole ed altri soggetti del territorio. Alla scuola si sostituisce la comunità educante, animata da soggetti del Terzo settore. I risultati sono, per giudizio unanime, molto positivi; e non si tratta di un esperimento pilota: circa 350 milioni di euro erogati, più di 500mila minori coinvolti, innovazioni molto interessanti.
Ma quando si è trattato di “contaminare” le attività del Ministero della Pubblica Istruzione, si è fatto un buco nell’acqua: a tutt’oggi non è stato possibile che bandi del Ministero seguissero l’impostazione del Fondo. Come pure è stato impossibile convincere, negli anni scorsi, la Ministra per il Sud ad utilizzare la collaudata esperienza della Fondazione Con il Sud per nell’attuazione degli interventi previsti dal PNRR (300 milioni di euro) per la valorizzazione dei beni confiscati nel Sud. Niente da fare. Perché? Le motivazioni sono complesse: vi è la resistenza delle burocrazie dei Ministeri che si vedono spogliate di competenze (sono le stesse che sono felici quando le amministrazioni assegnano sontuosi appalti per l’assistenza tecnica a grandi società di consulenza!); vi è la resistenza dei Ministri affezionati ad un’idea che li fa responsabili e “padroni “ delle risorse finanziarie; ma, soprattutto vi è un dato culturale duro a morire: il pubblico è una cosa , i privati un’altra: è solo la pubblica amministrazione che garantisce la “pubblicità” di un intervento. Il privato, per definizione, ha interessi ed obiettivi “privati”. Il privato sociale non esiste, è una pericolosa deriva. E ci si arrocca in fortini presidiati da divieti, procedure, evidenza pubblica… E a tale proposito, per riprendere il tema delle resistenze al nuovo welfare, non potrò mai dimenticare un comunicato del sindacato scuola della CGIL che denunziava il pericolo di affidare interventi di contrasto alla povertà educativa al Terzo settore, perché questo significava avviare la privatizzazione della scuola! Qualcosa si muove, faticosamente, a livello delle amministrazioni locali: bandi congiunti tra Fondazioni ed Enti locali; avvio delle pratiche di coprogrammazione e coprogettazione. Su queste in particolare va ribadita l’esigenza di non accontentarsi dell’astratta assunzione di questo metodo che, se non ben gestito può rappresentare solo una modalità per aggirare i meccanismi di evidenza pubblica. E bisogna fortemente diffondere le buone pratiche realizzate, soprattutto presso i funzionari degli Enti locali di solito timorosi di introdurre innovazioni nella rischiosa materia degli appalti di servizi. Mostrare che altre amministrazioni lo hanno fatto può essere molto utile.
Data questa situazione, si prova ora a ragionare sulle direzioni che l’impresa sociale è chiamata ad intraprendere e su come può essere sostenuta in questo sforzo.
Le potenzialità di sviluppo per l’impresa sociale sono quindi molto rilevanti anche perché sono certo che la modifica del “paradigma” dello sviluppo sarà imposta dalle circostanze, dalla insopportabilità delle diseguaglianze, dalla insostenibilità di processi produttivi che distruggono il pianeta. Ma per raccogliere questa sfida l’impresa sociale deve accelerare i processi di crescita e di qualificazione in due direzioni.
Da una parte si tratta di percepirsi come soggetto trasformativo, capace di generare cambiamento, come talune esperienze documentano con le loro pratiche; dall’altra si sottolinea la necessità di un rafforzamento su più piani: delle competenze, dell’organizzazione, dell’assetto economico e patrimoniale.
La prima è quella strettamente politica: deve cioè aumentare la percezione del proprio ruolo come soggetto di cambiamento complessivo, a partire dal livello territoriale. Il territorio non può essere più la “nicchia”, peraltro spesso sotto assedio, che consente all’impresa sociale di presidiare con qualche garanzia un proprio mercato. Il radicamento sul territorio deve essere premessa e condizione per favorire e costruire reti tra i soggetti del Terzo settore, per allearsi con altri soggetti, dalle piccole imprese agli operatori culturali, per avviare consistenti e non episodici percorsi comunitari. Le imprese sociali sono naturali candidate a diventare “istituzioni di comunità” soprattutto in quei territori, in quelle periferie disagiate in cui si affermano processi di disgregazione sociale e vincono le “comunità del rancore”. Questo percorso è lungo e difficile ma molti casi che potrei elencare dimostrano che è possibile. E dimostrano anche che quando il percorso si avvia in modo corretto e consapevole, ha poi delle impressionanti accelerazioni. Cito esperienze meridionali che conosco: la Paranza, che gestisce le Catacombe di San Gennaro al quartiere Sanità di Napoli, ha dato vita ad una Fondazione di Comunità, ha promosso ed accompagnato altre iniziative di cooperazione sociale, ha cambiato faccia al quartiere: è una istituzione di Comunità. La Fondazione di Comunità di Messina con le decine di imprese sociali cui ha dato vita e le innumerevoli iniziative in campo educativo, culturale, produttivo, energetico, urbanistico, di housing sociale è una istituzione di comunità. E così la Fondazione Domus de Luna a Cagliari o il Consorzio Sale della terra a Benevento e tante altre. Una dimensione in cui si punta a realizzare complessivi cambiamenti, in cui ci si muove in una logica di autonomia e non di dipendenza con gli Enti locali puntando a rapporti di partenariato paritario.
L’altra direzione è quella del rafforzamento dell’impresa sociale dal punto di vista delle competenze, della managerialità, della finanza. Bisogna fare uscire le imprese sociali dal “recinto” che le vuole inevitabilmente condannate ad essere diverse dalle altre imprese. La sola differenza con le altre imprese, oltre ai meccanismi di governance e di gestione delle risorse umane, deve essere la destinazione degli utili: tutto il resto non può essere differente. Quindi permanente ricerca della efficacia e dell’efficienza; continua attività di business planning, severe metodologie di audit; intelligente utilizzazione degli strumenti finanziari. Intensa attività di formazione, continui ed innovativi percorsi di aggiornamento manageriale, attenzione a incisive politiche di comunicazione. L’aspetto sul quale vorrei insistere è la dimensione finanziaria. Intanto non considerare la finanza come una questione da “ricconi” e non confonderla con i suoi aspetti degenerativi. In particolare, bisogna lavorare perché le imprese sociali aprano ad investitori istituzionali non più limitandosi alla figura del socio sovventore. Occorre attirare, con il meccanismo dell’equity, nuovi soci: questo consente di affrontare in modo serio il problema della sottopatrimonializzazione e di rafforzarsi condividendo esperienze di gestione.
Ovviamente questa prospettiva deve misurarsi con una oggettiva difficoltà ad intercettare investitori istituzionali, guidati, nella scelta degli investimenti, dal criterio dell’affidabilità e dei rendimenti attesi. Ma proprio sui rendimenti vale la pena di riflettere attentamente. Io penso, cioè, che vi è spazio per investitori disposti ad “accontentarsi” di rendimenti sul capitale investito un po’ più bassi, a fronte di investimenti dichiaratamente orientati a sostenere imprese non “attente” ai temi della sostenibilità, ma esplicitamente impegnate in attività che declinano concretamente i principi della sostenibilità sociale ed ambientale. Prima abbiamo richiamato la grande attenzione che si va sviluppando su questi temi da parte di grandi imprese ed operatori finanziari. In questo quadro di riferimento, in forte evoluzione, va individuato un filone di estremo interesse per le imprese sociali: quello della finanza ad impatto. Non la finanza che è “attenta” ai temi della sostenibilità e, nel valutare gli investimenti, “tiene conto “il più possibile dei criteri ESG”; ma una finanza che guarda direttamente all’impatto sociale ed ambientale. Non il sostegno ad una infrastruttura o un’impresa che condizionano il piano degli investimenti ai criteri ESG; ma a un’impresa che eroga servizi sociosanitari; o che gestisce percorsi di inserimento lavorativo per soggetti svantaggiati; o che si occupa del ciclo dei rifiuti; o che realizza impianti di energia rinnovabile; o che razionalizza i consumi idrici in agricoltura; o che concretizza ipotesi di economia circolare. Imprese che nascono per obiettivi la sostenibilità ambientale e sociale e puntano alla sostenibilità economica. Fare equity in queste imprese ha due tipi di difficoltà: i minori rendimenti attesi, ma anche la dimensione delle operazioni che sono molto più piccole rispetto ai “tagli” tradizionali degli investimenti dei Fondi. Difficoltà da tener presenti, non da assumere come insuperabili. Ed a questo riguardo, per confermare che la strada è percorribile, voglio citare l’esempio del Fondo Social Impact, gestito dalla SGR Sefea Impact, regolarmente riconosciuta dalla Banca d’Italia. Il Fondo è stato rilanciato dalla Fondazione Con il Sud che ha sottoscritto 10 milioni di capitale. Ad essa si sono aggiunte banche (Intesa e Biper), 8 fondazioni di origine bancaria, altre Fondazioni, una cassa di previdenza, alcuni fondi mutualistici (stranamente non Fondosviluppo di Confcooperative), fino ad arrivare a 40 milioni. La SGR è posseduta al 98% da soggetti non profit (altra straordinaria innovazione). Sefea Impact ha deliberato l’ingresso nel capitale sociale di una quindicina di imprese (cooperative ed imprese sociali e piccole imprese operanti nel settore della sostenibilità ambientale). Visti i risultati ottenuti con il primo Fondo, la SGR gestirà un altro Fondo, sottoscritto anche da Cassa Depositi e Prestiti: quest’ ultimo, che ha una dotazione di 20 milioni, farà investimenti solo in imprese sociali.
La diffusa, crescente percezione che l’attuale modello di sviluppo non è più sostenibile sia dal punto di vista sociale che ambientale, l’esigenza di introdurre forti cambiamenti nel modo di produrre e di consumare, delineano, di fatto, uno scenario particolarmente favorevole all’impresa sociale. Esse, da sempre, hanno scelto e praticato criteri diversi nel fare impresa rispetto alle imprese profit. Per quest’ultime il sociale e l’ambiente sono condizioni da mediare rispetto all’obiettivo della convenienza economica. Per le imprese sociali è il contrario: la dimensione economica è una condizione da verificare rispetto agli obiettivi sociali ed ambientali. D’altra parte, la grave ed irreversibile crisi del welfare apre spazi, ovviamente da conquistare rispetto ad una pericolosa deriva mercantilistica, per le imprese sociali nel campo sociosanitario, ma non solo. Questi spazi, oggettivi, non devono essere vissuti esclusivamente come nuove e consistenti opportunità di mercato, ma come un nuovo scenario che fa dell’impresa sociale un potenziale, straordinario soggetto di cambiamento. Un soggetto che interpreta il disagio di tanti operatori sociali che nel loro lavoro di accoglienza e di inclusione di soggetti fragili, sentono il limite di un lavoro di mero contenimento delle situazioni più gravi ed ingiuste e sentono l’esigenza di rimuoverne le cause.
Per raccogliere questa sfida, le imprese sociali devono contemporaneamente percepirsi come decisivi soggetti di promozione di una dimensione comunitaria sui territori e sforzarsi di accumulare competenze gestionali, tecniche, finanziarie.
L’esperienza ce lo insegna: i cambiamenti si possono temere, frenare, governare o provocare. La tradizione della cooperazione sociale e le energie che essa può ancora dispiegare, ne fanno un protagonista di un nuovo modello di sviluppo.
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