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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2024

Intervista

Fondere orizzonti di significato. La sfida nel rapporto con le fondazioni

Redazione, Domenico Bizzarro


Domenico Bizzarro è presidente de La Rete, storica cooperativa bresciana. In un numero dedicato alla filantropia, non poteva mancare la chiave di lettura di un imprenditore sociale. Impresa Sociale ha intervistato Domenico mettendo al centro le domande che attraversano questo focus: come può la filantropia sostenere l’impresa sociale, quali sono le caratteristiche specifiche dell’azione filantropica laddove il soggetto sostenuto non sia una pubblica amministrazione o un ente di terzo settore basato sul volontariato e sulla gratuità, ma un’impresa sociale?

Domenico, prima di iniziare ad approfondire il tema, puoi darci la tua lettura sul fenomeno dell’impresa sociale oggi?

È una fase complessa, non priva di criticità. Da un punto di vista normativo, su aspetti che non vi è tempo qui di approfondire, vi sono alcuni segnali preoccupanti circa gli effetti, fiscali e sulle politiche, della tendenza ad omologare le imprese sociali a qualsiasi altra impresa. E anche evoluzioni interessanti, come quelle dell’art. 55 del Codice del Terzo settore, nella lettura prevalente che ne viene fatta, almeno nel nostro territorio, comportano l’imposizione di cofinanziamenti per svolgere attività ordinariamente finanziate dalla pubblica amministrazione; certo, questa richiesta impropria può forse essere in qualche modo “addomesticata” in sede di rendicontazione, ma a prezzo di indurre le imprese sociali a “forzare” i conti per conciliare sostenibilità e richiesta di apporto di risorse proprie; e questo non è bene. In sintesi, una fase complicata, con un’enfasi – positiva e condivisibile - di decenni sull’essere impresa, che ci ha spinto sin su terreni che portano a confonderci con le imprese for profit.

Certo il quadro non sembra incoraggiante…

Ne sono consapevole, ma se da una parte non dobbiamo ignorare gli allarmi, dall’altra dobbiamo essere consapevoli che l’impresa sociale è, in modo sempre più marcato, un elemento centrale nel dare risposte a bisogni sociali che appaiono sempre più evidentemente insoddisfatti. In una società alla ricerca di risposte su grandi temi, dalla sostenibilità alle disuguaglianze, dalle migrazioni allo sviluppo locale, le imprese sociali rappresentano un elemento irrinunciabile. Pensare ad un solo giorno, nel nostro Paese, senza imprese sociali ci fa apprezzare quanto già oggi si sta facendo e ci rende consapevoli di quanto altro si potrebbe fare.

E qui veniamo quindi al nostro tema: le cose che le imprese sociali potrebbero fare e come il sistema della filantropia istituzionale potrebbe intervenire per sostenerle.

Certamente il sostegno economico è importante, ma mi sono convinto che le risorse vadano collocate all’interno di un discorso più ampio di sinergia tra l’impresa sociale e la filantropia. Il punto di partenza è condividere la consapevolezza dei vuoti sociali che si sono generati e di come tali vuoti non costituiscano solo un problema morale o di equità distributiva, ma un elemento che preclude il corretto funzionamento dei meccanismi sociali su cui si basa il benessere di tutti.

In che senso? Puoi aiutarci a capire con degli esempi?

Pensiamo al problema della casa. Da nostro punto di vista di imprenditori sociali, ci sentiamo spinti ad agire con urgenza – e anche con intransigenza – per riaffermare i diritti di chi non riesce a trovare un’abitazione dignitosa. Ma, se guardiamo alla questione da un altro punto di vista, scopriamo molte cose: in primo luogo che si tratta di un problema non ristretto ad alcune fasce di esclusione estrema di cui ci occupiamo da sempre, ma che coinvolge anche ampi settori della “normalità”, delle famiglie in cui vi sono persone che lavorano; in secondo luogo che la risposta può venire non solo dall’azione delle imprese sociali, ma da risorse che sono diffuse in tutto il tessuto sociale, ad esempio dai proprietari di immobili che possono o meno essere disponibili a mettere le proprie case sul mercato e ad affittarle a categorie fragili; e, ancora, che risolvere il problema della casa è un aspetto importante della costruzione della coesione e del benessere sociale, e che quindi è un elemento che contribuisce anche al buon funzionamento del sistema produttivo.

E le fondazioni cosa c’entrano in tutto questo?

Quando dico di condividere il punto di partenza e poi di agire insieme, mi riferisco appunto a contesti di questo tipo: un problema sociale complesso, in cui le cooperative sociali operano con impegno e decisione, ma che richiede non solo azioni, ma anche un’alleanza sociale capace di portare ad un cambiamento di vedute. E in questo le fondazioni possono essere un elemento decisivo. Non sto parlando, ovviamente, del mero finanziamento di un progetto, ad esempio di housing: si tratta di essere insieme nella creazione di reti, nell’interlocuzione con gli stakeholder e con le istituzioni, nel realizzare gli interventi. Da parte delle fondazioni, mettendo quindi in campo non solo le loro risorse, ma le reti relazioni, i contatti istituzionali e informali, la capacità di contribuire a dettare l’agenda pubblica. Le fondazioni possono sostenere l’impresa sociale nel parlare con la comunità, anche con i settori cui le imprese sociali più difficilmente possono arrivare.

Certo, si tratta di un cambiamento significativo rispetto al ruolo tradizionalmente attribuito alle fondazioni e in particolare rispetto al dualismo “finanziato – finanziatore” che presiede ad un’idea consolidata sul rapporto tra Terzo settore e filantropia!

Si tratta di fondere orizzonti di significato. Per noi imprenditori sociali offrire casa, corsi di lingua e integrazione ai migranti è solidarietà; per il sistema produttivo si tratta di avere persone che possono essere inserite nel tessuto delle imprese locali. Una società più coesa è un vantaggio per tutti, non solo per i più deboli. E le fondazioni possono contribuire a tutto ciò mettendo mondi diversi in comunicazione, aiutando a tradurre la radicalità in progettualità. Noi imprenditori sociali tradizionalmente aiutiamo persone fragili, ma la sfida oggi è quella di ridisegnare gli equilibri sociali.

Questa prospettiva, per quanto affascinante, è una sfida per tanto per le fondazioni, quanto per le imprese sociali.

Certo, perché un’impresa sociale adulta non cerca un biberon da succhiare, ma un partner da coinvolgere. Anche per noi è cambiata la stagione, non è più il tempo di rapportarsi con le fondazioni per chiedere solo soldi. Si possono chiedere risorse – e non solo – se si è in grado di esprimere una visione di trasformazione sociale e di argomentare come il partenariato della fondazione può fare la differenza.

Anche la richiesta economica in sé va forse guardata in una luce diversa. Il fatto che talune azioni comportino un apporto di capitale per un medio periodo anziché un trasferimento in conto economico può essere un elemento di questa evoluzione?

Sì, certo! A prescindere dal fatto che la capitalizzazione rappresenta anche un aiuto concreto in conto economico – abbatte la necessità di dotarsi di risorse finanziarie onerose dal sistema bancario – è lo strumento con cui una fondazione può scommettere nel medio periodo sul partenariato con un’impresa sociale, è un segnale di come sia percepita la rilevanza delle imprese sociali e che investire nel loro sviluppo è un modo di dare fiducia al territorio. È, inoltre, un attestato di stima, una prova che le imprese sociali hanno un elemento di unicità rispetto ad altri soggetti, che le risorse affidate non alimentano vantaggi personali, ma benessere della comunità. E, per inciso, rappresenta uno stacco da quel sistema bancario che realizza utili stratosferici e poi appesantisce le imprese con interessi insostenibili. La Rete, fortunatamente, deve basarsi solo in minima parte sulla finanza, ma posso solo dire che nel 2023 abbiamo ridotto sensibilmente i debiti verso le banche e malgrado questo i costi per interessi passivi sono raddoppiati!

Oltre alle risorse economiche e alla creazione di reti, cosa altro possono fare le fondazioni?

Se si condivide l’idea che la fondazione è in primo luogo un partner che investe sullo sviluppo dell’impresa sociale – con vari strumenti, le risorse economiche e la rete di relazioni – anche il rafforzamento delle competenze è un tassello importante. Ho apprezzato, ad esempio, il progetto “Capacity building” di Fondazione Cariplo. Aumentare le competenze di un’impresa sociale vuol dire aumentare le competenze di un territorio, significa moltiplicare le risorse, un impiego delle risorse filantropiche assai più efficace rispetto al sostenere un progetto che nasce e poi muore.

A questo proposito, uno dei programmi cui avete preso parte è Restart; qual è stata la vostra esperienza?

Restart è uno strumento di supporto destinato a cooperative sociali basato su un meccanismo rotativo, che accompagna supporto nella capitalizzazione e accompagnamento operativo e strategico. Promosso da Fondazione ASM, Fondazione De Agostini, Fondazione Marcegaglia e Fondazione SNAM, nasce nel pieno dell’emergenza sanitaria (marzo 2020); prevede la partecipazione senza interessi e senza spese di istruttoria al capitale sociale da restituirsi in tempi flessibili, dai 3 ai 5 anni, con la sottesa «clausola del perdono» nel caso l’investimento avesse esito negativo. Al termine della sperimentazione, le Fondazioni coinvolte potranno decidere se alimentare il fondo rotativo o destinare le risorse impegnate ad altre finalità. A dicembre 2023 Restart aveva realizzato un milione di investimenti di capitale in 24 cooperative sociali in tutto il Paese.

Sì, Restart è stata un’esperienza molto positiva. In quel periodo stavamo avviando progetti di agricoltura sociale e volevamo attivare una catena di vendita; c’era sul territorio una piccola impresa che faceva consegne in bici e Restart ci ha dato la finanza per acquistarla. Grazie a questo abbiamo dato vita ad una cooperativa sociale agricola. Restart è stato decisivo nel sostenere lo startup, ma, accanto al sostegno dato dalle risorse, abbiamo sentito la fiducia di un soggetto che ha scelto di rischiare insieme a noi. E questo ci ha spinto a nostra volta ad aprirci alla possibilità di attirare l’attenzione di vari stakeholder, compresi soggetti con i quali non avevamo rapporti preesistenti, abbiamo trovato cioè il coraggio di proiettarci in dimensioni diverse, di uscire dalla nostra comfort zone.

Nell’intraprendere queste attività, qual è stato il rapporto con la fondazione? Quali ne sono stati gli effetti?

Al di là del sostegno ricevuto, Restart è stato importante perché ci ha portato ad uno sguardo meno provinciale, ci ha convolti in incontri a livello nazionale tra le diverse realtà, ha rappresentato l’occasione per lavorare sulla rendicontazione in modo nuovo, ponendoci degli obiettivi e verificandoli con indicatori. Insomma, è stata un’opportunità che abbiamo sfruttato per imparare delle cose e migliorare la nostra organizzazione.

Ci avviamo alla conclusione. Se dovessi dare alle fondazioni delle indicazioni utili ad intercettare meglio le imprese sociali, quali priorità consiglieresti?

Il punto di partenza è investire nella conoscenza delle imprese sociali. Non conosci le organizzazioni sulla base di un progetto, non riesci a capire molto dalla sola carta; e non è detto che le cose migliori le facciano coloro che sanno raccontarle in modo accattivante. Le conosci se ci passi del tempo, se investi nel lavorare insieme. E questo comporta un lavoro di scouting per conoscere le imprese sociali. Conoscersi significa raccontarsi reciprocamente gli obiettivi e cercare spazi di convergenza, in uno scambio progettuale e operativo in cui ciascuno dei due soggetti dà e riceve. Questo modo di agire richiede inoltre di ragionare su programmi di medio periodo, 3 – 5 anni, quelli necessari per avere di fronte un orizzonte in cui lavorare insieme; e questo significa per le fondazioni scegliere di stabilizzare il proprio rapporto dentro le organizzazioni.

Anche sulla base della tua esperienza, come si vive il lavorare insieme, tra imprese sociali e fondazioni che hanno condiviso una scommessa?

Nella mia esperienza si è trattato di un confronto continuo, fatto di momenti di monitoraggio, di stimoli, di un lavoro fatto insieme per analizzare con uno sguardo critico quello che si sta facendo, senza indugiare negli accomodamenti. Uno sguardo esterno e che quindi aiuta a mettere in luce cose che altrimenti sfuggirebbero e al tempo stesso uno sguardo di un partner con cui si è condiviso un patto. Significa ragionare insieme in modo serio su cosa in un certo intervento è funzionato e cosa no, mettendosi entrambi in discussione.

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