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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-1-2024-la-lotta-alle-diseguaglianze-passa-attraverso-il-governo-di-impresa-democratico-e-sostenibile-una-strategia-europea

Numero 1 / 2024

Saggi

La lotta alle diseguaglianze passa attraverso il governo di impresa democratico e sostenibile: una strategia europea

Lorenzo Sacconi


1. Novità in materia di governo di impresa sostenibile e democratico

1.1. Contesto

Il lettore interessato ai temi di questo articolo, certamente ricorderà il refrain attorno al quale un po’ stucchevolmente è ruotata negli ultimi 25 anni la discussione sulla “responsabilità sociale di impresa”, cioè che essa sarebbe un insieme di criteri e pratiche “volontarie”, quindi non fatte valere da sanzioni. La “volontarietà” è servita ad alcuni – specie nel mondo imprenditoriale - per non farne nulla o solo il minimo indispensabile per trarne qualche beneficio di immagine (prevalentemente donazioni), senza sfiorare le aree critiche delle proprie attività. Per altri è stata ragione per ripetere che la responsabilità sociale d’impresa “non è una cosa seria”.

In realtà la responsabilità sociale di impresa (corporate social responsibility, CSR o più recentemente corporate sustainability) non è mai stata intesa – né nella letteratura accademica, né nella produzione delle istituzioni internazionali, né in quella delle NGO o negli accordi multi-stakeholder tra imprese e altri soggetti a livello nazionale o locale - come una materia lasciata alla scelta discrezionale dell’impresa. In primo luogo, perché si è sempre trattato di obbligazioni etiche dell’impresa, basate su nozioni condivise di giustizia sociale, benessere, diritti umani ed etica ambientale. In secondo luogo, perché i mezzi per affermare tali obbligazioni sono stati sempre almeno intesi come soft law – cioè una nozione di norma giuridica – costituita da principi e standard, codici di condotta concordati a livello internazionale, nazionale e di impresa, fondati sul dialogo sociale tra imprese e stakeholder e certificabili (almeno in linea di principio) da soggetti terzi che rispondessero agli stakeholder come “watch dog” delle imprese. Si potrà certamente discutere circa l’efficacia (specie in Italia, regno dei conflitti di interessi) di questa strategia. Ma di certo essa non ha mai avuto il contenuto di dare alle imprese la libertà di scegliersi volta a volta la tematica su cui fare “bella figura”, senza impegno sulle questioni rilevanti (si pensi alla discussione sul criterio di materiality, cioè rilevanza, nell’ambito della rendicontazione sociale). Vi è sempre stata la richiesta prescrittiva di soddisfare un obbligo derivante da un fondamentale “contratto sociale” alla base dell’accettazione dell’impresa come istituzione sociale, un contratto implicito con tutti i suoi stakeholder (Sacconi 2004a)

La novità, comunque, è che negli anni recenti (a partire dalla riflessione sulla crisi finanziaria e su quella climatica) per l’Unione Europea la scatola degli strumenti ha cominciato a cambiare contenuto e vi hanno trovato spazio norme non derogabili del diritto societario che plasmano il governo di impresa: correttamente, si può dire, dal momento che fin dapprincipio l’idea di CSR aveva a che fare con la transizione della corporate governance da un approccio incentrato sul primato degli azionisti (per altro non l’unico applicato in Europa) ad un approccio in cui fossero riconosciute responsabilità verso altri stakeholder, oltre gli investitori e i proprietari, ovvero, i lavoratori in primis, i fornitori, quanti sono interessati agli impatti ambientali ecc. (Sacconi 2004b)

1.2. Governo di impresa sostenibile

Risale infatti all’ottobre del 2020 l’avvio da parte della Commissione Europea di un processo di consultazione su proposte alternative per attuare una corporate governance sostenibile nelle grandi imprese europee. In questa iniziativa, per la prima volta, era contemplata l’idea di riformare, attraverso una norma di diritto europeo vincolante, la nozione di doveri degli amministratori delle società per azioni, con l’affermazione di doveri fiduciari verso molteplici stakeholder, oltre gli azionisti, e quindi in primo luogo i lavoratori, in una prospettiva di sostenibilità sociale e ambientale intergenerazionale. L’idea trovò poi operativa collocazione nell’ambito della proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio europeo, formulata dalla Commissione nel 2022 a proposito di un tema più ristretto, ma importante: la procedura di Corporate Sustainability Due Diligence (CSDD) delle grandi imprese in materia di rispetto dei diritti umani e delle convenzioni in materia di prevenzione del cambiamento climatico e salvaguardia dell’ambiente.

Tutti i passaggi della procedura di CSDD hanno a che fare con il modello di governance dell’impresa in senso ampio, in quanto riguardano l’analisi e la prevenzione dei rischi di violazione, l’assunzione di impegni pubblici, le attività di verifica e la presa di decisioni di minimizzazione e di risarcimento, la definizione delle modalità di rendicontazione, consultazione e partecipazione degli stakeholder. La proposta di direttiva richiedeva infatti di adottare un sistema di regole interno di due diligence, in grado di effettuare ex ante una mappatura “completa” degli impatti negativi potenziali nelle varie aree di attività, in modo da poter stabilire una lista di priorità in base ai maggiori rischi. Indicare politiche preventive per mezzo di codici di condotta che finalmente stabilissero principi di conduzione dell’impresa orientati al rispetto dei diritti umani e agli interessi ambientali degli stakeholder, nonché le azioni preventive per evitarne le violazioni A ciò far seguire l’analisi sistematica degli impatti negativi effettivamente occorsi e l’enunciazione delle politiche di eliminazione, riduzione o minimizzazione degli effetti negativi, nonché la rendicontazione della loro attuazione. Poiché non tutti gli effetti negativi possono essere immediatamente eliminati all’atto della loro rilevazione, dal momento che essi possono riguardare azioni che avvengono nella catena di fornitura a monte o a valle dell’impresa in questione, si richiedeva di rendere esplicito un ordinamento di priorità in base alla severità (gravità) degli impatti negativi in corso, secondo il quale procedere alla loro riduzione, quando l’elimi­nazione istantanea non fosse possibile. Ciò permetterebbe di limitare ai casi più gravi, o nei quali non vi è alternativa, gli obblighi di cessazione di rapporti contrattuali nella catena di fornitura – cessazione che tuttavia non è esclusa – e piuttosto ricorrere all’uso dell’in­fluenza dell’impresa maggiore sulle imprese minori appartenenti alla medesima catena del valore, in modo da indurle a eliminare attraverso un programma di miglioramento le violazioni, pena la rottura dei rapporti contrattuali. Tutte queste attività nella proposta sottostavano a un dovere di rendicontazione e comunicazione al pubblico, a un dovere di consultazione delle associazioni degli stakeholder nei vari passaggi della suddetta procedura e di riconoscere che gli stakeholder stessi e loro associazioni (lavoratori, sindacati, ONG) sono abilitati a presentare reclami contro la violazione dei diritti umani e selle convezioni ambientali e di protezione ambientale, cui l’impresa deve dare risposta secondo una procedura dovuta.

Di maggior rilievo, ai nostri fini, era l’art. 25 della proposta della Commissione (difeso e rafforzato dal Parlamento con lo slittamento semantico da “tener conto” a “prendere in considerazione”), contenente la definizione dei doveri degli amministratori nei confronti dell’impresa (e quindi dell’interesse sociale che gli amministratori devono servire). Qui si stabiliva infatti che gli amministratori di società, nel soddisfare il dovere di agire nel miglior interesse dell’impresa, prendono in considerazione le conseguenze in materia di sostenibilità con riferimento ai diritti umani e agli effetti sul cambiamento climatico e ambientale. Inoltre, gli amministratori potevano essere chiamati a rispondere civilmente per il mancato rispetto dei doveri di diligenza così ridefiniti. (CE, 2022).

Al di là delle molteplici richieste di miglioramento avanzate dai partecipanti alla consultazione (tra cui vedasi Forum DD, 2022), va dunque riconosciuto che apparivano in tal modo per la prima volta in un testo legislativo approvato da Parlamento Europeo e Commissione norme giuridicamente vincolanti, contenenti l’affermazione dei doveri fiduciari degli amministratori delle maggiori società nei confronti degli stakeholder diversi dagli azionisti, i cui interessi risultano incisi quando si considerano le conseguenze delle decisioni in termini di sostenibilità, diritti umani e ambiente, sia nel breve che nel lungo termine. Benché difesi dal Parlamento, questi ultimi articoli di interesse più generale non sono poi sopravvissuti al “trilogo” col Consiglio dell’Unione (ove siedono i rappresentanti dei governi, e in cui si riflettono sempre gli interessi di gruppi di pressione nazionali, che arrestano le innovazioni più significative) che a fine 2023 ha definito un accordo politico sulla direttiva CSDD. Che anche questo testo non sia indifferente per gli interessi costituiti nel mondo delle imprese, volti a contenere il più possibile la portata di queste innovazioni, lo dimostra la mossa del governo tedesco (su iniziativa dei liberali) di minacciare, nonostante l’accordo nel trilogo, l’astensione della Germania sul testo finale che ha fin qui portato al suo rinvio.

 Qualunque sia l’esito di questa ulteriore contrattazione fuori programma, ai fini di questo articolo interessa comunque osservare che per la prima volta due istituzioni comunitarie su tre hanno approvato l’estensione degli scopi dell’impresa e quindi dei doveri fiduciari e delle responsabilità degli amministratori in senso multi-stakeholder con una norma giuridica vincolante, e non soltanto con strumenti di soft law, e che perciò il tema della governance sostenibile, un significativo elemento di riforma del capitalismo europeo, è stato proposto operativamente, facendo piazza pulita dei non possumus dottrinari a difesa degli interessi costituiti, ed ha fatto un discreto tratto di strada nel processo normativo dell’Unione.

1.3. Partecipazione dei lavoratori

Non si può certo dire che questa discussione europea sia stata seguita come meritava a livello nazionale. Tuttavia, nello stesso tempo si è avviata in Italia una discussione complementare sulle forme di partecipazione dei lavoratori e altri stakeholder al governo delle imprese. Partendo dall’“accordo della fabbrica” (2018), sottoscritto da Confindustria e sindacati confederali, ove si citava molto genericamente la “partecipazione strategica dei lavoratori”, già nel 2019 il Forum DD pose tra le 15 proposte contro le disuguaglianze di reddito e ricchezza quella al contempo utopica e ragionevole della democratizzazione del governo di impresa attraverso l’istituzione dei Consigli del lavoro e della cittadinanza (Fourm DD, 2019). “Utopica” perché intendeva introdurre in Italia l’istituto di democrazia industriale e di codeterminazione dimostratosi più efficace nelle esperienze europee, riformulandolo in modo più inclusivo e tale da renderlo efficace in una strategia di contrasto alle diseguaglianze. “Ragionevole”, poiché concepita apposta per esser introdotta in approccio graduale, anche in assenza di una riforma generale del diritto societario (assetto dei consigli di amministrazione o di sorveglianza, definizione dell’interesse sociale e dei doveri degli amministratori etc.). La proposta è stata del tutto ignorata dai governi che hanno programmato il PNRR, il quale avrebbe potuto condizionare l’accesso da parte delle imprese ai fondi per i progetti all’adozione di forme di governance più rappresentativa degli interessi cui i progetti sono indirizzati (Sacconi, 2021); più recentemente essa veniva accolta in programmi di partito del centro sinistra, senza però dar corso a iniziative di legge. Infine il tema è diventato di bruciante attualità con la proposta di legge di iniziativa popolare della CISL, per molti versi diversa dalla quella del Forum (si dà ad es. molto spazio alla partecipazione finanziaria, prevede partecipazione prevalentemente consultiva, e la nomina di rappresentanti nel C.d.A. senza peso decisionale, tutto è fatto dipendere da accodi a livello aziendale), comunque centrata sulla partecipazione dei lavoratori, che sembra essere considerato come testo base del lavoro di Commissione alla Camera dei deputati.

È perciò auspicabile che questi temi entrino nella discussione pubblica, che offre l’opportunità di esprimersi sulle proposte per un capitalismo più sostenibile e democratico – il che non è certamente indifferente anche per il sistema dell’economia sociale e per le imprese sociali, che in vari modi interagiscono, competono o cooperano con (o debbono intervenire per curare i guasti generati da) le imprese capitalistiche[1]. Si potrebbe anzi dire che i tempi sono maturi per un vero e proprio programma riformatore europeo per la democratizzazione e la sostenibilità del governo di impresa, che tenga insieme gli elementi emersi fin qui, dalla riforma dei doveri degli amministratori alla partecipazione dei lavoratori e degli stakeholder non finanziari attraverso forme di empowerment.

Questo articolo procede come segue: nella sezione 2 si spiega perché tale strategia sarebbe importante, cioè perché la pre-distribuzione e non solo la re-distribuzione sia importante per non generare o per ridurre le diseguaglianze. Nella sezione 3 si risponde alla domanda se ciò possa essere fatto, ovvero se il governo di impresa possa esser visto nella prospettiva della giustizia sociale. Nella sezione 4 una particolare prospettiva di giustizia sociale - l’approccio delle capacità – viene sviluppato per generare una visione del governo di impresa – incentrato sulla nozione di titolo valido (entitlement). Infine, nella sezione 5 tutti i tasselli vengono ricomposti nel quadro unitario di una strategia di riforma.

2. Predistribuzione: determinante, ma anche “cura” delle diseguaglianze

Con “pre-distribuzione” intendo la distribuzione di capacità, libertà d’accesso e diritti di proprietà e sull’uso di risorse (capitale finanziario, capitale umano, capitale sociale, nonché diritti di partecipazione alle decisioni), che influiscono sul funzionamento dei mercati, in quanto dotazioni con cui gli individui entrano e interagiscono nel mercato e nelle organizzazioni che operano nel mercato. La distribuzione del reddito e della ricchezza è largamente dipendente da tali precondizioni, poiché le decisioni di mercato e organizzative generano la distribuzione dei redditi, e a loro volta sono prese ricorrendo a tali dotazioni. Non c’è motivo di credere che i mercati in questione siano perfettamente concorrenziali e certamente non lo sono le organizzazioni al loro interno. Le decisioni di mercato non sono quindi indipendenti da queste dotazioni che piuttosto influiscono sulle scelte strategiche che vi avvengono - ad esempio le scelte di contrattazione riflettono la forza contrattuale delle parti (nel mercato e nell’impresa).

Con “redistribuzione” intendo invece i processi - frutto di decisioni pubbliche - tramite i quali il reddito e la ricchezza risultanti dalla distribuzione di mercato vengono ridistribuiti, attraverso la tassazione e le politiche di welfare che prevedono sussidi e trasferimenti. Ovviamente è impossibile collocare il welfare state interamente nella sfera della redistribuzione, poiché ad esempio il finanziamento pubblico dell’istruzione via tassazione è la base per le dotazioni di competenze e abilità con cui gli individui entrano nel mercato (cioè una componente della pre-distribuzione) e allo stesso modo il prelievo fiscale in un periodo può trasferire dai ricchi ai poveri dotazioni di capitale con le quali i secondi entreranno nel mercato nel periodo successivo.

Questa distinzione consente comunque di comprendere il significato di due misure della diseguaglianza: disuguaglianza dei redditi di mercato e diseguaglianza dei redditi disponibili dopo le tasse, i trasferimenti e i sussidi. Sulla diseguaglianza di mercato in ogni periodo influisce la pre-distribuzione (del periodo rilevante); sulla diseguaglianza del reddito disponibile (e la correzione rispetto ai redditi di mercato) pesa immediatamente la redistribuzione nel periodo corrente.

Il punto che giustifica questa premessa è che, sebbene le persone siano interessate ai loro redditi disponibili (dopo le tasse), se si vuole identificare la determinante principale delle diseguaglianze essa va identificata con la pre-distribuzione, che influisce direttamente sulle diseguaglianze di mercato e poi condiziona l’efficacia della redistribuzione. Infatti, se si considerano i diversi paesi OECD, si osserva che una diseguaglianza di mercato molto marcata normalmente è accompagna con una diseguaglianza finale molto marcata: la redistribuzione non ce la fa a correggerla. È il caso di USA e UK e, purtroppo, dell’Italia. Mentre paesi con una diseguaglianza di mercato più contenuta riescono (se vogliono) ad avere una redistribuzione efficace e quindi una diseguaglianza finale inferiore alle alternative (è il caso di molti paesi centroeuropei e nordeuropei). La Germania è un caso a sé per via delle elevate disuguaglianze di mercato, che vengono però in parte corrette con la redistribuzione. Alcuni paesi possono avere una diseguaglianza finale intermedia anche se la redistribuzione è molto limitata (ad esempio paesi asiatici come Giappone e Corea), perché determinante è quella di mercato, influenzata dalla pre-distribuzione, meno polarizzata di quella dei paesi più diseguali. In sostanza, il fattore trainante per le diseguaglianze di reddito è la diseguaglianza di mercato su cui influisce la pre-distribuzione (Milanovic 2018).

Colpisce a questo punto l’osservazione che la diseguaglianza finale dei redditi non segue solo la maggiore o minore estensione del Welfare State, ma prioritariamente i diversi “modelli di capitalismo”, cioè diversi modelli di pre-distribuzione delle libertà, diritti e poteri che stabiliscono la distribuzione del surplus di valore generato nelle imprese. Ciò che suggerisco è che le forme di governo delle imprese, la pre-distribuzione dei diritti di proprietà, di decisione residuale e appropriazione del residuo, nonché dei diritti di partecipazione alle decisioni e le responsabilità degli amministratori e manager, benché spesso non indagata sotto questo profilo, abbia una funzione assai importate nel determinare il livello di diseguaglianza finale - non minore dell’efficacia dei sistemi di formazione e scolastici. Essa riguarda infatti l’accesso e l’impiego delle risorse produttive e quindi la produzione e la distribuzione del surplus generato dalle attività produttive, influendo sugli incentivi a partecipare all’attività produttiva stessa.

Se non si considerano queste dimensioni della pre-distribuzione, il Welfare State e le politiche pubbliche volte a ridurre la diseguaglianza vanno incontro al paradosso della tela di Penelope. Ciò che il Welfare State tesse di giorno per creare uguali abilità e competenze con le quali accedere al mercato del lavoro, viene disfatto durante la notte dalle decisioni di mercato (e nel mercato). Le stesse competenze sortiscono effetti del tutto diversi in base alla diseguaglianza della libertà di accedere e impiegare risorse, e del diritto di deciderne la remunerazione e la distribuzione del surplus generato. Insomma, aumentare l’occupabilità non basta se il gioco è “truccato”.

3. Porre il governo di impresa come una questione di giustizia sociale: si può?

Il governo di impresa è perciò uno dei principali oggetti delle politiche per la giustizia sociale, volte al contrasto delle diseguaglianze. Questa banale verità risulta tuttavia invisibile a chi non esca dallo schema mentale neoliberale, secondo cui il governo di impresa è solo una questione di efficienza, e al contempo l’oggetto del diritto privato - le relazioni tra soggetti autonomi - non rientrerebbe negli scopi della giustizia sociale (materia per “politiche sociali” attuate dallo Stato). In questa sezione mi occupo del primo aspetto, rinviando alla prossima (sezione 4) il secondo.

3.1 Quando si parla di governo d’impresa non si può separare efficienza da equità

Infatti, l’impresa nasce per rispondere ai problemi che nascono dalla compresenza di tre caratteristiche nelle transazioni economiche: i) incompletezza dei contratti, cioè rivelarsi di contingenze impreviste rispetto alle quali i contratti sono muti, ii) possibilità di importanti investenti specifici, che danno un surplus in una fase successiva solo se la relazione tra le parti è continuata, iii) comportamenti opportunistici tra le parti, volti ad aggirare se possibile obblighi o norme, qualora ciò conduca a un vantaggio privato, ma che espropria gli altri partecipanti della possibilità di beneficiare dei loro investimenti specifici. La compresenza di queste tre condizioni fa sì che i contratti incompleti vengano rinegoziati in presenza di eventi imprevisti, e che chi, in vista di un beneficio futuro, ha fatto l’investimento specifico - non recuperabile se il contratto viene rotto - rischi di essere espropriato della sua legittima aspettativa di benessere. In questa visione, l’impresa – come struttura di governo accentrata e caratterizzata da rapporti di autorità - altro non è che l’assetto contrattuale in cui il controllo sulle variabili ex ante non contrattabili, oggetto di potenziale rinegoziazione, viene allocato alla parte che compie l’investimento specifico più importante. Benché suoni insoddisfacente, si suppone che tale allocazione venga stabilita mediante l’assegnazione all’una o all’altra parte della proprietà sulle risorse fisiche dell’impresa (Williamson 1986, Grossman e Hart 1986, Hansnamm 1996).

Ma cosa accade se gli investimenti specifici sono multilaterali e coessenziali? Ad esempio, non solo il capitalista mette macchine dedicate, ma i lavoratori acquisiscono competenze specifiche, abilità specializzate, e codici culturali informali, i fornitori si impegnano in servizi dedicati, i clienti fanno investimenti informativi per potersi in seguito “fidare”, come tipicamente accade nelle imprese in cui si svolge produzione congiunta e lavoro di team.

Siccome la parte protetta dal diritto di proprietà può legittimamente appropriarsi del residuo, chi ha la proprietà e il dritto residuale di controllo preleverà l’intero surplus a detrimento degli altri stakeholder, che pure hanno fatto investimenti specifici o hanno una funzione essenziale per la loro valorizzazione. In sostanza vi è un’espropriazione opportunistica, questa volta non dovuta alle falle del contratto, ma all’abuso di autorità. La contrattazione sotto l’allocazione unilaterale del dritto residuale di controllo diventa instabile perché percepita iniqua. A causa di questa iniquità gli stakeholder, e in primo luogo i lavoratori, prevedono che i loro investimenti saranno semplicemente espropriati dal singolo soggetto che detiene controllo residuale o dalla classe di soggetti nella stessa posizione (ad es. gli azionisti). La previsione di poter subire un abuso di autorità, seppure legalizzato - poiché il frutto dei propri investimenti e contributi è appropriato da altri - fa cadere l’incentivo a intraprendere gli investimenti (Sacconi 2011a). Cosicché il valore delle transazioni sarà inferiore. Insomma, è l’iniquità attesa che crea inefficienza.

Ne consegue che la forma di governance più efficiente difficilmente sia una gerarchia con diritti residuali di controllo e autorità accentrati nelle mani di una sola categoria (ad es. gli investitori finanziari nella società di capitali). Al contrario una struttura più condivisa in cui i diritti residuali degli uni sono condivisi o controbilanciati da diritti di partecipazione degli altri e - come vedremo - da varie libertà (protette), e in cui coloro che sono in posizione di autorità sono responsabili verso gli uni e gli altri stakeholder, genererebbe un surplus maggiore per tutte le parti coinvolte (si osservi che la responsabilità verso gli stakeholder non controllanti, cioè prima di tutto i lavoratori nella società di capitali, è il significato essenziale della responsabilità sociale di impresa come complementare al diritto di proprietà, cfr. Sacconi 2004a, 2011a).

È agevole anticipare l’obiezione all’argomento sopra presentato: si potrebbe dire “se è più efficiente, le imprese ci penseranno da sole”. Ovvero, introdurranno esse stesse, su iniziativa della proprietà, forme di governance in cui i diritti di decisione residuale siano più condivisi, oppure addirittura, dal momento che l’abuso di autorità ha esiti inefficienti, troveranno il modo di auto-vincolare il comportamento opportunistico dei detentori del diritto di proprietà. In parte questa è la ratio del tentativo di introdurre criteri di responsabilità sociale di impresa con gli strumenti di soft law, cioè di autoregolazione, che fanno appello allo stesso interesse dell’impresa. Dal punto di vista logico, tuttavia, l’obiezione non è stringente, cioè non assicura incentivi alla messa in atto di un modello di governance in cui i poteri siano più condivisi. In altri termini, l’efficienza non è un argomento conclusivo di per sé e occorrono altre ragioni per agire, e specificamente ragioni di equità. Il motivo è semplice: se si parte da una forma di governance gerarchica e unilaterale la maggiore efficienza non basta a garantire l’adozione di una forma condivisa di governo, semplicemente, perché a fronte del maggiore beneficio generale (efficienza di Pareto), può mancare l’incentivo privato della parte che abusa dei diritti residuali di controllo. Una torta più grande, ma più equamente distribuita, può offrire a chi ha inizialmente controllo residuale (e quindi può appropriarsi dell’intero surplus) una fetta minore, almeno nel breve periodo. Così, se non prevalgono le ragioni dell’equità, l’impresa può restare prigioniera di un “dilemma del prigioniero one-shot” in cui gli esiti individualmente razionali (in cui si massimizza l’utilità individuale) sono quelli sub-ottimali. Ciò è tanto più vero se l’esito sub-ottimale può nondimeno essere significativamente asimmetrico, quindi penalizzare una parte assai meno dell’altra (così da rendere poco saliente il beneficio privato della soluzione più equa). Certamente, a lungo andare - ammesso e non concesso che la prospettiva di lungo periodo prevalga nella mente dello shareholder (lo short-termism è tipico delle valutazioni sulle performance finanziarie di imprese trattate dai fondi di investimento) - una strategia manageriale e imprenditoriale volta a garantire il bilanciamento equo tra stakeholder può avere effetti di reputazione positivi che costituiscono un effettivo beneficio per l’impresa. Tuttavia, purtroppo, di reputazioni di lungo periodo ce ne sono molte possibili – e la più vantaggiosa per la parte controllante l’impresa è quella di apparire “responsabile” verso gli stakeholder solo quel tanto che basta per renderli indifferenti tra restare o uscire dalla relazione con l’impresa – cioè renderli acquiescenti di fronte a una strategia che per il resto abusa abbastanza da permettere di appropriarsi di gran parte del valore prodotto tramite gli investimenti congiunti (questo è il significato di una strategia di green washing intesa come “abuso sofisticato”). È vero che questo esito non è obbligato, poiché gli equilibri possibili di un gioco ripetuto sono molteplici, e includono in equilibrio anche comportamenti il cui esito è un’equa condivisione del surplus. Tutto, perciò, dipende dai meccanismi di selezione dell’equilibrio.

3.2 Più dell’efficienza, conta l’equilibrio (e il suo processo di selezione)

La verità è che il concetto base per la valutazione economica delle istituzioni dovrebbe essere quello di equilibrio, non l’efficienza. Un’istituzione che non soddisfi una condizione di equilibrio non persiste in quanto genera incentivi da parte degli agenti divergenti rispetto alle regole cui chiede di conformarsi. Un’istituzione - ad esempio l’insieme di regole, diritti e doveri che definiscono il modello di governo di impresa – è un equilibrio tra i comportamenti dei partecipanti a un dato dominio di interazione, che è sostenuto da una rappresentazione mentale sintetica della loro stessa interazione. La quale descrive, nella forma di aspettative reciproche, esattamente la condotta che i partecipanti stanno seguendo gli uni rispetto agli altri, essendo la risposta migliore per ciascuno attenersi alla medesima configurazione dei comportamenti reciproci (Aoki 2001). Un tale equilibrio ha per definizione incentivi endogeni al suo mantenimento, e per questo è una regola effettiva. Ma esso è necessariamente il risultato di un processo di selezione e convergenza all’equilibrio, generato da uno schema mentale iniziale, iniziali congetture sui comportamenti reciproci, tentativi ed errori d’azione e adattamento reciproco, correzioni, nuove rappresentazioni cui seguono nuovi i tentativi di azoni ipoteticamente buone le une reciprocamente alle altre, in un processo di convergenza cognitiva all’equilibrio. Il punto è cosa indirizzi il processo lungo un certo sentiero di convergenza ad un equilibrio piuttosto che un altro. E questo può essere solo un modello mentale iniziale a priori che, pur senza avere ancora proprietà di equilibrio, tuttavia incanala il percorso lungo un certo sentiero. Questo è il ruolo di una “visione”, una frame, o un modello mentale (un’ideologia?), che fa sì che si riconosca che quel gioco è di un certo tipo e vada giocato in un certo modo (Sacconi 2023). Quello che potremmo chiamare un modello mentale normativo condiviso, contenente una norma distributiva, che appare ovvio oggetto di accordo, tale da garantire che le parti lo utilizzino come punto di partenza del processo di selezione. In altre parole, un’idea di contratto sociale, cioè di accordo comunemente accettabile, su quello che appare un principio di equità non arbitrario, cioè imparziale (Binmore 2005, Sacconi 2011b). Così un modello mentale di equità, un’idea di giustizia - non l’efficienza – seleziona quale tracciato assegnare al processo di convergenza ad un equilibrio istituzionale. Ciò per l’ovvio motivo che molte soluzioni possono esser del tutto indifferenti dal punto dell’efficienza paretiana, anche se del tutto diverse distributivamente. Al contrario, un principio di equità fa una selezione tra di esse.

Sebbene sia evidente che qui ideologie e norme sociali hanno un grande impatto, è bene ricordare l’importanza anche dell’azione e della scelta collettiva, cioè della costruzione consapevole di tali norme attraverso accordi, approvati in quanto offrono un trattamento imparzialmente accettabile - ad esempio risultanti da deliberazioni democratiche. Perciò il diritto vi ha una funzione essenziale; il diritto è il repertorio delle regole del gioco entro le quali l’interazione avviene. Ma più ancora, grazie alla deliberazione di qualche norma o principio, esso rende saliente o focale uno (o un sottoinsieme) dei molti equilibri possibili entro una data situazione. Ciò può avvenire lentamente, attraverso vari passaggi e deliberazioni di organi differenti, ad es. a partire da organizzazioni collettive, per passare alle organizzazioni internazionali, quindi alle leggi nazionali, fino alle decisioni statutarie delle imprese.

È questo il metodo per comprendere la ratio dei cambiamenti istituzionali in corso in materia di governo sostenibile dell’impresa in Europa. Attraverso una lunga serie di atti normativi prima di soft law, poi progressivamente di hard law, fino al primo tentativo di normativa vincolante della definizione di doveri degli amministratori, si è sviluppato un processo di segnalazione del modello d’impresa socialmente responsabile, essenzialmente un modello in cui chi governa è responsabile verso molteplici stakeholder. All’ultimo miglio, la mossa difensiva di rinviare la materia alle legislazioni nazionali ha impedito il risultato, ma è chiaro che sia ormai in atto una tendenza nella legislazione europea (soft law, hard law) guidata da un modello mentale di impresa basato sull’idea di un nuovo “contratto sociale” - che soverchia l’interpretazione alternativa secondo cui queste novità andrebbero ricondotte al modello neoliberale dello shareholder value. La nuova definizione di doveri degli amministratori si adatta semplicemente al modello mentale dell’impresa socialmente responsabile, il cui fondamento sta nel micro-contratto sociale tra stakeholder, il quale a sua volta è basato sull’idea di macro-contratto sociale sulla costituzione dell’impresa (Sacconi 2023).

In questa visione, non è lo Stato che impone qualcosa dall’esterno. Ciò che giustifica il modello di doveri fiduciari multipli è invece l’accordo ipotetico tra gli stakeholder, intesi come contraenti un contratto sociale in cui ciascuno entra per valorizzare i suoi investimenti e per minimizzare le esternalità negative. D’altra parte, le dotazioni diritti e libertà grazie alle quali ciascuno è in grado di negoziare tale micro-contratto sociale di impresa, ancora una volta non sono imposte da un’autorità esterna, estranea alle parti, poiché queste dotazioni di diritti e libertà (tra cui quelli di partecipazione e di acceso ai risultati dell’impresa) hanno fondamento nel contratto costituzionale sull’impresa (che nel nostro ordinamento ha riconoscimento nell’art. 46 della Costituzione). Ai due livelli si esprime l’autonomia razionale delle parti, cioè quanto loro sceglierebbero razionalmente in un contesto pre-istituzionale, non pregiudicato da rapporti di forza risultanti da incrostazioni istituzionali non giustificate (Sacconi 2011b).

4. Una nuova visione dei “confini” della giustizia sociale: capacità e governo d’impresa

Il suddetto cambiamento di prospettiva consente di vedere il ruolo dell’idea di giustizia nella comprensione e nella selezione delle forme di governo di impresa. Ma ciò pone il problema dei “confini” della giustizia sociale. Per anni il pensiero sulla giustizia sociale si è autoimposto un limite che chiaramente riflette un condizionamento profondo dell’ideologia neoliberale, cioè la concezione che l’azione contro la diseguaglianza si esaurirebbe nella sfera delle politiche pubbliche e non entrerebbero nella sfera delle relazioni economiche tra soggetti privati. Questa è un’autolimitazione non necessaria, dal momento che le grandi imprese contemporanee sono certamente istituzioni fondamentali che influiscono sul benessere di molte persone (stakeholder) attraverso la distribuzione di beni sociali primari (potere e autorità, reddito ricchezza. le basi del rispetto di sé), che tipicamente rientrano nell’oggetto della giustizia distributiva secondo Rawls (Rawls 1971). D’altra parte, tali organizzazioni non sono associazioni dalle quali si possa entrare ed uscire senza costo, a causa degli investimenti specifici che le persone fanno per parteciparvi e che le rende da esse dipendenti.

Per portare la giustizia oltre il confine di poche istituzioni pubbliche fondamentali e adattarla alle molteplici attività e organizzazioni umane suggerisco, perciò, di seguire l’approccio delle capacità di Amartya Sen (1980), secondo il quale oggetto della giustizia sono i funzionamenti (functionings) e le capacità (capabilities). Un “funzionamento” è l’acquisizione di uno stato di essere e di fare che ha valore per la persona. Una “capacità” è un modo per essere attivi e trasformare le caratteristiche di beni e risorse in funzionamenti. Le capacità esprimono quindi l’idea di agency; al minimo, una capacità è la possibilità di essere attivi nel trasformare beni in funzionamento. La libertà di scelta ne è però un tratto essenziale, perché avere capacità, oltre che disporre di una funzione di trasformazione per acquisire un funzionamento, significa poter scegliere di attivare tale processo di trasformazione, il che implica disporre di effettive opportunità di scelta. La libertà di scegliere di funzionare in un certo modo tra opportunità effettivamente disponibili è quindi il significato di capacità ed è una nozione di libertà di esser e di fare, che sottolinea il significato positivo e sostanziale di libertà, non quello meramente negativo e formale. L’idea di giustizia consiste – con molte qualificazioni ulteriori - nell’uguaglianza di capacità.

Per applicare l’approccio delle capacità al governo d’impresa dobbiamo ricordare la definizione di quest’ultimo come insieme di diritti, libertà, poteri e responsabilità che governano la produzione congiunta tra diversi stakeholder, nonché l’accesso ai risultati di tale attività cooperativa. Ciò che occorre è quindi derivare dalla nozione di capability una struttura giuridica di governance. A ben vedere, questo non è difficile, perché una capacità può essere scomposta in due elementi: l’abilità di funzionare in un certo modo (che è una nozione di capacità di tipo cognitivo o una skill) e il “titolo valido” (entitlement) che permette, attraverso la scelta di accedere alle caratteristiche di un bene, di trasformarlo attivamente in un funzionamento (attraverso l’applicazione dell’abilità) (Sen 1983). Infatti, mentre se la persona ha semplicemente un diritto su un bene, non è detto che abbia la capacità di trasformarlo in funzionamento, al contempo, qualora abbia la skill rilevante, non è detto che in base all’ordinamento vigente o insieme di norme sociali, abbia la libertà per esercitare tale skill (si ricordi il paradosso della tela di Penelope rispetto all’occupabilità). In un modo o nell’altro, l’agente non avrebbe un’opportunità effettiva o una libertà sostanziale di funzionare (Fia e Sacconi 2019).

L’entitlement implicito nella nozione di capacità è dunque la libertà giuridica, altrimenti intesa come permesso o possibilità (normativa) di accedere a (certe) caratteristiche di un bene. La teoria delle relazioni giuridiche (Hohfeld 1917) ci aiuta a sviluppare il discorso e ricavarne una teoria del governo d’impresa. Infatti, l’avere l’individuo X una libertà, in quanto permesso ad accedere al bene B, è l’opposto dell’esistenza di un diritto dell’individuo Y sul bene B che equivalga all’avere l’individuo Y una pretesa a che X si astenga dal fare ogni azione sul bene B. Il diritto di Y implica un dovere di X a proposito di B (in senso positivo o negativo: fare un’azione o astenersi dal farla). Al contrario la libertà di X in relazione a B significa che X ha il permesso di accedere (oppure il permesso di non accedere) al bene B, in quanto su X non ricade alcun dovere creato dalla pretesa di Y che X faccia (oppure non faccia) un’azione su B. La libertà, come permesso o possibilità normativa in merito a B, è l’opposto dell’avere un dovere generato dalla pretesa di un altro agente su B.

Ma il tipico diritto/pretesa che esemplifica questa classificazione è il diritto di proprietà. Tipicamente se Y ha un diritto di proprietà su B, egli ha una pretesa erga omnes che ogni altro si astenga dal bene B, quindi, X ha il dovere di astenersi, a meno di una decisione contraria di Y. Questo implicherebbe che X non ha libertà in merito ad accadere al bene B - non ne ha il permesso. Di converso, la libertà come permesso di X è una limitazione (negazione) del diritto di proprietà di Y, in quanto consente a X di accedere al bene anche senza l’assenso di Y.

Ora, se ricordiamo l’equivalenza tra capacità e libertà sostanziale - e la richiesta che l’individuo possa accedere al bene per trasformarlo in un funzionamento - è immediato che il titolo valido (entitlement) che è costitutivo di una capacità, implichi almeno (come condizione minima) la disponibilità di una libertà, cioè la possibilità (o il permesso) di accedere a un bene per trasformarlo attivamente in un funzionamento, e quindi l’assenza o limitazione del diritto di proprietà esclusiva di ogni altro agente su B. Tale condizione è necessaria ma non sufficiente, poiché invece che un permesso o libertà unilaterale di accedere, l’agente X dovrebbe avere sia la possibilità di accedere sia quella di non accedere, cioè una completa (o bilaterale) libertà di scelta (condizione sufficiente) (Fia, Sacconi e Vatiero, 2023).

Ai fini del governo d’impresa, l’approccio delle capacità mette in luce l’idea di libertà come accesso, opposto di escludibilità. Se l’impresa è un’istituzione che deve promuovere le capacità e i funzionamenti degli stakeholder che vi partecipano o che hanno relazioni essenziali con essa, questa deve avere i tratti di un common – un bene comune, rivale, ma non escludibile. Conseguentemente, le capacità del lavoratore nell’ambito del governo d’impresa sono libertà che delimitano la sfera del diritto residuale o autorità del detentore del diritto di proprietà. Esemplificando, libertà di accedere alle risorse fisiche dell’impresa per realizzare il proprio funzionamento come lavoratore, che significa non esclusione arbitraria (licenziamento), libertà di accesso alle informazioni che danno conto delle aspettative circa la conduzione dell’impresa da cui dipendono i funzionamenti del lavoratore, ma che consentono anche la formazione di abilità di partecipare ai processi decisionali; diritto di ricevere l’informazione e la formazione necessaria; libertà di accesso al processo decisionale e quindi assenza di ostacoli a tal proposito; libertà di accedere alla distribuzione dei risultati o degli utili dell’impresa etc. (Fia e Sacconi 2019)

Siccome è evidente che queste libertà entrano in competizione con quelle di altri stakeholder e con i diritti di proprietà, segue che il tema della governance come bilanciamento tra le libertà del lavoratore e quelle del datore di lavoro o proprietario delle risorse fisiche è centrale. È tuttavia chiaro il significato radicale della giustizia applicata al governo d’impresa. La proprietà non è più (ma non lo è già adesso in realtà) un potere assoluto sull’impresa, e certamente non è da sola base sufficiente per l’autorità formale dei manager e i diritti residuali di controllo. Questa - l’autorità - chiede invece un accordo imparziale tra stakeholder, secondo cui delegare autorità sia la soluzione più efficace in vista dell’obbiettivo di assicurare - con un bilanciamento accettabile - i funzionamenti e le capacità di ciascuno.

L’approccio delle capacità, quindi richiede più governance e non meno. Richiede una scomposizione e articolazione, e quindi un equo bilanciamento, tra diverse libertà, diritti e poteri dei diversi stakeholder (a partire dai lavoratori e gli investitori di capitale) - che non significa perfetta uguaglianza di tutte le capacità, ma il raggiungimento di un livello sufficiente di capacità per garantire l’“ugnale cittadinanza” democratica in impresa. Questa non richiede la sostituzione o il ribaltamento della proprietà, ma la realizzazione di un modello di governance nel quale vi sia un bilanciamento tra diritti di proprietà da un lato e libertà protette da altri diritti dall’altro. In altri termini, oltre alla limitazione del potere di esclusione arbitraria, i diritti di essere informati, consultati e prendere decisioni di cogestione sulle prospettive strategiche dell’impresa, sulle materie dell’organizzazione del lavoro e sulle condizioni concrete di vita e di lavoro.

5. Una strategia riformatrice

Dati i tasselli, bisogna comporre il mosaico di una strategia. L’idea base della composizione è la complementarità tra modifica dei doveri degli amministratori (interesse sociale), su cui si sono fatti passi importanti anche se non conclusivi in Europa, ed empowerment dei lavoratori e degli altri stakeholder non azionisti, su cui si sono concentrate le proposte in Italia.

5.1 Complementarità

Infatti, un’estensione del raggio dei doveri degli amministratori delle società per azioni verso molteplici stakeholder, e in relazione a principi così generali come i diritti umani e la sostenibilità, ha certamente l’effetto di ampliare la sfera di discrezionalità manageriale, il che immediatamente invoca l’allarme per l’opportunismo manageriale (non occorre essere fanatici della teoria principale – agente per condividerlo). L’empowerment dei lavoratori e degli altri stakeholder non finanziari nella govenance delle imprese limita tale discrezionalità, in quanto controbilancia i poteri dei manager con altri poteri e diritti, li controlla e li sorveglia, dalla formazione fino alla rendicontazione delle decisioni. Un mero appello all’interesse di gualche stakeholder non libererebbe il manager dalla sua responsabilità, perché lo stesso stakeholder (o un suo rappresentante) avrebbe “voce” per chiedere di “renderne conto”.

Al contempo l’empowerment attraverso la partecipazione agli organi e processi della governance - senza riferimento al dovere degli amministratori di trovare un bilanciamento equo o imparziale tra interessi, pretese basate sui diritti e impegni ambientali - rafforzerebbe bensì la posizione negoziale di lavoratori e altri stakeholder non azionisti. Tuttavia, senza un vincolo, sia procedurale che di contenuto, che faccia riferimento all’equità e imparzialità, ciò non eviterebbe che in questi processi possa prevalere il più forte o la coalizione tra i più forti e a spese degli svantaggiati – ad es. i lavoratori “precarizzati” o “esternalizzati”, le popolazioni che subiscono impatti ambientali non dichiarati etc.

Al contrario, il riferimento a una definizione dei doveri a riguardo dell’interesse sociale, appunto identificato attraverso un esercizio d’imparzialità del bilanciamento (vincolo procedurale) e il riferimento a principi con contenuto normativo sostanziale, come i diritti umani e le convenzioni sul clima, induce punti focali o equilibri cui può convergere il processo negoziale, cioè ne vincola l’arbitrarietà dell’esito. In questa visione gli amministratori, sebbene rappresentanti d’interessi di stakeholder diversi, e parzialmente conflittuali (non vi deve esser paura a riconoscerlo), sarebbero nondimeno consapevoli che il processo di composizione efficace tra pretese differenti chiede di operare come “gerarchia di mediazione” (Blair e Stout 1999), cioè avere a riferimento principi normativi come la “giustizia come equità”, il “contratto sociale imparziale”, o la “discussione pubblica imparziale” o “deliberazione”.

5.2 Doveri degli amministratori

Conseguentemente, la strategia si compone di due pilastri. Il primo è la ripresa dell’iniziativa europea sulla Corporate Sustainable Governance per una disciplina vincolante dei doveri degli amministratori. Rispetto alle formulazioni precedenti, occorre certamente precisare la definizione di sostenibilità con un più marcato riferimento al contenimento delle disuguaglianze, cioè allo sviluppo sostenibile inteso in modo inclusivo tanto della dimensione di lotta al cambiamento climatico, quanto della dimensione sociale, la lotta alle povertà e l’affermazione della giustizia sociale intra-generazionale e intergenerazionale.

Occorrerebbe anche chiarire che la sostenibilità non è un vincolo che limita, dall’esterno, la possibilità di perseguire uno scopo dell’impresa, immaginato come sconnesso dalla sostenibilità stessa (come sarebbe, ad es., la massimizzazione dei guadagni per i soci). Essa va concepita invece come interna alla nozione di scopo dell’impresa, in quanto è uno degli obiettivi che deve perseguire. Al posto della formulazione inizialmente proposta nella direttiva CSDD, si dovrebbe perciò inserire una norma che vincoli gli Stati membri a garantire che “gli amministratori di società per azioni, nell’adempiere al loro dovere di agire nell’interesse superiore dell’impresa, siano tenuti ad assumere decisioni coerenti con obiettivi di sostenibilità, a breve, medio e lungo termine, valutando, le conseguenze per i diritti umani, i cambiamenti climatici e l'ambiente (Forum DD 2022).

Logica conseguenza di questa formulazione sarebbe l’affermazione che l’interesse societario o scopo dell’impresa nel suo complesso, per essere coerente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, debba essere inteso nel senso che l’impresa persegue intenzionalmente in modo bilanciato, equo ed efficiente gli interessi di tutti gli stakeholder coinvolti nel processo di creazione del valore e in generale interessati a prevenire e abbattere gli impatti ambientali e alla riduzione del cambiamento climatico.

5.3 Empowerment e partecipazione al governo dell’impresa

Il secondo pilastro è l’empowerment. La proposta base è l’istituto dei Consigli del lavoro e della cittadinanza (CLC), che riprende l’istituto più efficace del modello di co-decisione olandese e tedesco (quello che ha vincolato i processi di ristrutturazione dell’industria a rispettare – più che altrove - l’occupazione); ma sviluppa quel modello in direzione di una rappresentanza più inclusiva (Sacconi, Denozza, Stabilini 2019). I rappresentanti dei lavoratori sono eletti da tutti i lavoratori senza distinzione di contratto di lavoro. Non solo, quindi, i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, ma anche a tempo determinato, e tutte le altre categorie di lavoratori: lavoro autonomo con contratto monomandatario, parasubordinato, collaborazioni coordinate e continuative, lavoratori operanti nelle imprese stabilmente inserite nella catena di sub-fornitura, lavoratori “in affitto” oppure “esternalizzati” in cooperative fasulle. Inoltre, per imprese di dimensioni superiori a una certa soglia (media impresa) all’elezione del CLC partecipano (per una quota minoritaria) i cittadini del territorio su cui ricadono più direttamente gli effetti esterni ambientali. La peculiarità è dunque offrire una sede unitaria alla rappresentanza di tutti i lavoratori che contribuiscono alla creazione di valore nell’impresa indipendentemente dalla forma contrattuale. Inoltre, il modello prevede di offrire “voce” ai rappresentanti di stakeholder portatori di preoccupazioni ambientali e climatiche e spingere gli uni e gli altri a trovare un’alleanza.

Coerentemente alle esperienze europee, i Consigli sono organi di co-decisione, non solo di consultazione. Essi hanno diritti e poteri su a) materie di carattere generale e strategico (qualità dei prodotti o servizi, investimenti, ricerca & sviluppo, adozione di nuove tecnologie, partecipazioni, acquisizioni e cessioni finanziarie, assetto del management ecc.); b) materie che attengono alle condizioni generali dei lavoratori (organizzazione del lavoro, salute, welfare aziendale, ecc.) c) materie che più direttamente riguardano le condizioni di gruppi specifici di lavoratori (a es. licenziamenti a seguito di ristrutturazioni.) I CLC su tutte le materie avrebbero dritti d’informazione in «tempo utile». Sulle materie a) e b) avrebbero diritto di consultazione e proposta alterativa con obbligo di risposta da parte della direzione. Sulle materie c) avrebbero però diritto di co-decisione, cioè varrebbe la regola del consenso. A differenza di altre proposte - ad esempio le commissioni paritetiche nel progetto CISL - non si tratta di luoghi per il confronto tra impresa e sindacati, Si tratta di un organo che fa parte del processo istituzionale per la presa delle decisioni dell’impresa. Al contempo, al loro interno si risolve il problema della rappresentanza di tutti i lavoratori, mediante la loro partecipazione all’elezione di rappresentanti sulla base di liste e programmi proposti dai sindacati.

5.4. Norme imperative e contrattazione

La proposta prevede un equilibrio tra soft-law, sulle regole differenziate di attuazione per settore, frutto di accordi locali, aziendali o nazionali tra parti sociali (ad esempio in una commissione nazionale imprese-sindacati, assistita da una commissione tecnica), e norme di diritto inderogabili, di natura generale e programmatica, che rendano obbligatoria la costituzione del CLC al di sopra di una certa soglia dimensionale, qualora almeno un minimo di lavoratori lo richieda. La contrattazione aziendale può avere un ruolo importante in base al principio per cui un’impresa può fare opt-out dalle linee guida nazionali se adotta per via di accordo (e con un cambiamento statutario) un modello più adatto al caso specifico, che la stessa commissione nazionale approva.

Circa il ruolo della contrattazione decentrata (tema assai caro ai sindacati dei lavoratori), ci sono due ulteriori considerazioni da fare. La prima concerne l’ipotesi che la partecipazione strategica dei lavoratori possa essere attuata solo mediante lo strumento della contrattazione aziendale. Ma si può veramente pensare che l’impresa porti al tavolo della contrattazione aziendale scelte di natura strategica in fase precoce e prima ancora di aver formato un orientamento degli organi di governo? Si tratta di questioni intricate come le operazioni finanziarie di acquisizione, fusione e cessione che spesso mettono capo a ristrutturazioni per ragioni di redditività che poco hanno che fare con le virtù industriali dell’impresa; questioni come lo sviluppo e adozione di IA, che pone il problema se la proprietà delle competenze che vengono replicate dai programmi di IA non dovrebbe essere riconosciuta alle comunità di lavoratori che le hanno sviluppate nel tempo. Oppure come l’adozione di tecnologie verdi che tuttavia possono rendere obsoleti interi impianti e i lavoratori che vi operano. Sono tutte decisioni che, prese in fase iniziale e strategica, poi precostituiscono un percorso (si dirà “non c’è alternativa”) con gravi effetti sul lavoro, ma su cui non si può pretendere di influire se all’origine e non si partecipa agli organi d’indirizzo, in cui si forma l’orientamento strategico precoce dell’impresa. Essere informati circa le conseguenze finali consente bensì ai sindacati di aprire vertenze, ma solo con la prospettiva di “correre ai ripari”. In ultima istanza è impossibile pretendere di influire sulle decisioni dell’impresa senza essere parte del processo con cui la decisione è presa nell’impresa, e solo negoziando tra entità distinte (impresa vs. sindacati).

La seconda considerazione attiene all’adeguato ruolo della contrattazione decentrata nell’attivazione / attuazione di forme di partecipazione: mentre le regole attuative possono esser lasciate alla soft-law, non è possibile che la decisione stessa d’istitutore il CLC dipenda dalla contrattazione aziendale caso per caso. Le libertà e diritti che sono attivati mediante l’istituzione del CLC appartengono ai lavoratori e vengono logicamente prima della contrattazione aziendale, che può solo specificarne l’attuazione. Essi hanno a che fare con l’idea di contratto costituzionale sull’impresa e danno attuazione all’art. 46 della Costituzione (recante che la Repubblica riconosce ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione secondo quanto stabilito dalla legge, e non secondo quanto stabilito dal contratto di lavoro). Questo ovviamente non toglie che, esercitando autonomia contrattuale, lavoratori e proprietà dell’impresa possano concordare a livello aziendale che gli azionisti adottino un cambiamento statutario per istituire il CLC come sperimentazione volontaria nelle more della legge.

Analoghe considerazioni valgono per l’ipotesi ulteriore secondo cui la legge altro non farebbe che abilitare la contrattazione a stabilire modalità per la nomina di rappresentanti dei lavoratori negli esistenti organi di governo societari (Consiglio di amministrazione o di sorveglianza). Non c’è modo di modificare il funzionamento degli organi di governo di un’impresa disciplinati dallo statuto e da norme di diritto societario solo per mezzo di un accordo aziendale. Questo argomento riporta al tema della riforma dei doveri degli amministratori e implicitamente dell’“interesse sociale”. In assenza di questa riforma, i rappresentanti dei lavoratori che fossero ammessi agli organi societari (Consiglio di amministrazione o Consiglio di sorveglianza) dovrebbero attenersi ai preesistenti vincoli e obblighi nell’interesse degli azionisti, cioè rischierebbero d’esser vincolati a doveri conflittuali rispetto agli interessi che rappresentano. La partecipazione a livello societario rischierebbe di esser subalterna.

Al contrario, la riforma dei doveri degli amministratori nel senso del riconoscimento delle responsabilità non solo nei confronti dell’interesse patrimoniale degli azionisti, ma verso molteplici stakeholder – i lavoratori in primo luogo – chiamati in gioco in quanto depositari di diritti umani e beneficiari degli impegni per la sostenibilità ambientale, permetterebbe finalmente di attuare anche in Italia la partecipazione dei lavoratori a livello degli organi societari. In modo del tutto coerente potremmo attuare in Italia compiutamente il modello di co-determinazione, che si articola a due livelli. Quello delle unità produttive di base (impianto/stabilimento/azienda controllata) attuato anche in imprese di dimensioni relativamente piccole - cioè i Consigli del lavoro (da noi riformulati come CLC); e quello a livello di organi di governo societario, nella forma dei consigli di sorveglianza del modello duale, senza dimenticare che questa forma di partecipazione prevede al minimo il 33% - e può arrivare come nell’industria automobilistica fino il 50% - dei membri del consiglio di sorveglianza eletti dai lavoratori.

 

DOI:10.7425/IS.2024.01.04

 

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[1] Questo articolo non concorre alla variegata letteratura sulla “ibridazione” tra impresa capitalistica e impresa sociale (non capitalistica) (su questo punto vedasi Borzaga e Galera 2023); piuttosto serve a mettere in luce l’opportunità, ma anche la difficoltà - e più avanti la necessità morale, oltre che economica - di una riforma del governo societario dell’impresa di capitali, grazie al quale si realizzi un bilanciamento tra interessi di diversi stakeholder e tra lo scopo di profitto e criteri di sostenibilità sociale e ambientale, nonché la centralità - per poterlo fare - della sua democratizzazione. L’asprezza della controversia a livello europeo mostra che si tratta di una vera e propria contesa sul modello socialmente desiderabile e possibile di capitalismo. Le imprese sociali – che operano in settori in cui si giustifica la prevalenza dell’impresa senza scopo di lucro (e quindi non capitalistiche) non sono direttamente oggetto di queste politiche, che per altro non tendono a generare “altre” imprese sociali. Esse hanno tuttavia molto da guadagnare dal prevalere di un modello “sostenibile” e “democratico” dell’impresa capitalistica, di cui esse stesse sono uno stakeholder, sia in termini di possibile cooperazione per interventi di sviluppo sostenibile a difesa dei diritti umani, specie sociali, e dell’ambiente, sia al contrario per il rischio di dover por rimedio alle catastrofi sociali e ambientali che imprese dominate dal dogma dello shareholder value continuamente determinano. Inoltre, l’argomento a favore della democratizzazione e della giustizia sociale come criterio per la scelta dei modelli di governo di impresa (si veda il seguito, sez 3 e 4) ha certamente interesse generale, e riguarda ciascuna tipologia di impresa, a suo modo e nel proprio specifico dominio.

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